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![]() RIVOLUZIONE AMERICANA (1763-1787). Lungo processo di trasformazione politica, economica e sociale delle colonie britanniche dell'America settentrionale, abitualmente identificato con la guerra di indipendenza americana, iniziato negli anni della protesta antinglese seguita alla guerra dei Sette anni (1756-1763) e concluso nel 1787 dalla Convenzione costituzionale di Filadelfia. LE PREMESSE. Affondò le proprie radici nelle origini delle colonie: in particolare nella loro possibilità di praticare modelli di convivenza religiosa e sociale legati al radicalismo puritano, inattuabili nella madrepatria, e nei caratteri di instabilità sociale propri dell'emigrazione nel Nuovo mondo (strati intermedi di gentry rurale e dei ceti mercantili, ma soprattutto artigiani e contadini attratti dalla promessa di miglioramento economico). La stessa struttura dell'impero coloniale britannico, basato sugli ampi poteri di autogoverno concessi alle colonie e sulla mancanza di organi di governo centrale, facilitò la proliferazione di comunità differenziate e autonome. L'assenza di tradizioni feudali, il diritto di voto fondato sull'appartenenza alla comunità, il pluralismo religioso, la prevalenza di una morale del lavoro antiaristocratica, configurarono sin dall'inizio la società coloniale come un "mondo alla rovescia" rispetto alla madrepatria, nonostante la fortissima dipendenza economica e militare. La salda integrazione tra le componenti del sistema imperiale creò le contraddizioni che guidarono le elite americane a maturare la consapevolezza del proprio ruolo economico e del rapporto di subordinazione al quale erano costrette. A ciò vanno aggiunte le trasformazioni in atto nella società coloniale, sia nelle campagne, nelle quali le spinte arcaiche del comunitarismo popolare e quelle modernizzanti legate a una agricoltura commerciale si fondevano in un'originale autonomia culturale, segnata nella prima metà del XVIII secolo dal movimento revivalista del Grande risveglio, sia nelle città, percorse da crescenti differenziazioni sociali nel quadro di una realtà economica ancora preindustriale. LA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA. Il rifiuto di una posizione di minorità, già visibile nella crescita del potere delle assemblee coloniali rispetto al potere dei governatori imperiali, si volse in un'azione politica comune contro le leggi mercantiliste dallo Stamp Act (1765) agli Intolerable Acts (1774) varate per rinsanguare le stremate finanze britanniche. Il rifiuto opposto dal Parlamento britannico a un'evoluzione federativa dell'impero, incompatibile col ruolo di potenza mondiale assunto dalla Gran Bretagna, innescò il passaggio dalla disputa giuridico-costituzionale a quella più generale sui diritti naturali e sul contratto sociale, base della Dichiarazione di indipendenza. La rielaborazione allora compiuta dalle elite americane del pensiero politico inglese radicale, risalente alla tradizione della rivoluzione puritana e ai suoi motivi democratici, mirava al recupero di una politica originaria tradita dalla tirannia del re e del parlamento; di qui nacque l'idea della contrapposizione tra un'America nuova e incorrotta e un'Europa decaduta e perversa. Alla lotta per l'indipendenza si affiancò una rivoluzione interna alle società coloniali stesse, divise tra conservatori (di orientamento elitario e aristocratico) e modernizzatori, forti tra i ceti in ascesa, orientati all'abbattimento delle gerarchie e all'instaurazione di un ordine sociale razionale ed efficiente. UNA NUOVA CLASSE DIRIGENTE. Le istituzioni politiche extralegali sorte in luogo delle assemblee esautorate dal parlamento britannico come i congressi provinciali e le convenzioni elette in tutti gli stati secondo procedure anomale, rappresentate al congresso di Filadelfia (1774) registrarono un ampliamento senza precedenti del potere dei ceti subalterni (medi e piccoli contadini, artigiani) e la nascita di una nuova classe politica rappresentativa di vari strati sociali e di molteplici interessi. La guida dei conservatori dovette da allora confrontarsi con il consenso dei ceti popolari non più politicamente marginali, portatori di nuove richieste di uguaglianza (anche attraverso il ruolo svolto nelle milizie coloniali) e sostenitori di un'interpretazione radicale del repubblicanesimo (repubblicani radicali), che privilegiava la salvaguardia delle libertà dei governati attraverso la limitazione e il controllo del potere dei governanti; tale orientamento trovò la sua prima istituzionalizzazione nelle costituzioni degli stati, accomunate dalla perdita di potere da parte dell'esecutivo a favore del potere legislativo. L'ultima parte della guerra d'indipendenza segnò invece il passaggio della rivoluzione dalla fase radicale alla fase federale. L'indipendenza aveva creato problemi di portata nazionale ai quali i singoli stati non erano in grado di far fronte; emerse così dagli organismi unitari creati per fronteggiare le difficoltà strategiche, organizzative e finanziarie della guerra (l'Esercito e il Congresso continentali) un nuovo ceto politico di orientamento nazionalista, avverso al localismo del movimento radicale. Di fronte all'impotenza della compagine politica sorta dagli Articles of Confederation, il movimento nazionalista, che ebbe come maggior rappresentante Thomas Jefferson, si impegnò per la difesa dell'indipendenza, dell'unità e dell'autonomia economica degli Stati Uniti e, al termine della guerra, riuscì a mediare tra la nuova aristocrazia finanziaria e i timori dei radicali nei confronti di una "tirannia" economica, governando la transizione verso la Costituzione del 1787 e verso la democrazia politica. S. Battilossi ![]() D.L. Smith, T.A. Simmerman (a c. di), The Era of the American Revolution: A Bibliography, Oxford University Press, 1975; O. Handlin, L. Handlin, Gli americani nell'età della rivoluzione, 1770-1787, Il Mulino, Bologna 1984 (1982); T. Bonazzi (a c. di), La rivoluzione americana, Il Mulino, Bologna 1986. |
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