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OPERAIO
Nel significato contemporaneo di lavoratore salariato del settore industriale il termine si venne fissando in Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento. Originariamente esso indicava l'artigiano o anche il lavoratore agricolo e, più in generale, il dipendente salariato. L'incertezza lessicale è la spia di un processo storico: solo lentamente nell'operaio di fabbrica si venne individuando la figura sociale maggioritaria nell'universo industriale e rappresentativa della condizione di salariato. Tale processo avvenne del resto, in tempi e modi diversi, in tutto il mondo in via di industrializzazione e giustifica l'attenzione particolare attribuita alla fase della formazione del proletariato industriale, che consente di scomporre analiticamente questo strato sociale. Gli operai provenivano infatti sia dal lavoro artigianale sia dal lavoro agricolo e portavano con sé i segni dell'esperienza originaria. L'attitudine al lavoro in ambienti chiusi e il possesso di abilità di mestiere differenziavano notevolmente gli ex artigiani dagli ex contadini. Nelle situazioni di lenta o ritardata industrializzazione, d'altra parte, permasero a lungo forme miste di lavoro agricolo e industriale, gestite in prima persona dalla famiglia, che differenziava l'attività dei suoi membri in funzione delle esigenze produttive e di sussistenza. In tutti questi casi, tuttavia, il passaggio alla condizione di salariato industriale venne vissuta come un mutamento nei modi di vita che fu definito catastrofico: i vincoli standardizzati della giornata lavorativa, l'accelerazione dei ritmi, il controllo e la sorveglianza contrastavano vivamente con la tradizione e provocavano resistenze e conflitti. Il luddismo (vale a dire la distruzione da parte degli operai delle macchine industriali) fu per esempio una forma di resistenza alla trasformazione in salariati e uno strumento di difesa del mestiere. Un caso tipico fu quello dei tessitori del biellese: il lungo, quasi secolare processo che li trasformò in salariati fu controllato dalle famiglie operaie, che cercarono di piegare a proprio vantaggio i mutamenti produttivi attivando tutte le risorse della tradizione. Queste forme di resistenza non furono dunque un semplice rifiuto del progresso ma definirono le modalità del conflitto sociale e anticiparono le forme nelle quali esso si espresse nella fase pienamente industriale: autocontrollo dei tempi di lavorazione, scioperi, cortei. Le differenze tra gli operai erano inoltre legate ai diversi settori produttivi, alle forme di organizzazione del lavoro, alla specializzazione delle mansioni, all'età e al sesso. Il grande fenomeno dell'emigrazione e più in generale la mobilità geografica imposta dallo sviluppo industriale furono causa ulteriore di differenze tra gli operai, con riferimento particolare alle appartenenze etniche: il caso statunitense fu il più eloquente, anche se non necessariamente le differenze di cultura e di tradizione depressero la solidarietà di classe. Un'altra causa di distinzione fu la separazione, oppure il forte legame, tra luogo di lavoro e luogo di residenza, con le diverse forme di socializzazione caratteristiche dell'uno e dell'altro. In alcuni casi nazionali, per esempio, come l'italiano o il francese, l'organizzazione sindacale si dotò di istituzioni, come le camere del lavoro, legate specificamente al territorio, mentre altrove (soprattutto negli Stati Uniti) l'organizzazione fu esclusivamente centrata sul luogo di lavoro. Tutte queste differenze vanno naturalmente contestualizzate nel tempo e nello spazio e messe in relazione con numerose variabili, la principale delle quali è senza dubbio quella dell'organizzazione tecnologica e produttiva: alla distinzione tra operai specializzati e la varietà di quelli non specializzati succedette, nel corso del Novecento, una forte tendenza alla dequalificazione e massificazione che a sua volta diede luogo ai più recenti processi di automazione, con la riduzione del peso qualitativo e in parte anche quantitativo degli operai. Nonostante tutte le differenze viste, tuttavia, nel corso e soprattutto nella seconda metà dell'Ottocento si manifestò una forte spinta all'omogeneizzazione e all'unità del mondo operaio che ebbe un innegabile successo, con lo sviluppo delle istituzioni del movimento operaio, e in primo luogo di sindacati e partiti. Benché non univoca e più o meno forte a seconda dei contesti nazionali e dei settori produttivi, questa spinta agì con continuità anche in seguito, oltre i tempi del declino di quelle organizzazioni. D'altra parte, il rilievo storico della figura dell'operaio non si esaurì in quella delle istituzioni sindacali e politiche che gli offrirono rappresentanza; e non solo perché questa rappresentanza non fu mai integrale. Né è sufficiente circoscrivere la sua storia entro l'universo della fabbrica e del lavoro. La stessa separazione tra luogo di lavoro e luogo di residenza rimanda a forme culturali e identitarie definite anche dal tempo di non lavoro: la cultura degli operai si modellò anche nel contesto del quartiere, all'interno di gruppi locali o ricorrendo a luoghi di socializzazione nuovi (osterie, bar, stadi), tanto più nelle società di massa impostesi nel mondo occidentale nel corso del Novecento. La cultura operaia si intrecciò e in parte si assimilò a quella dominante nei grandi agglomerati urbani, dove tendevano a imporsi stili di vita omogenei che non seguivano più, se non nelle possibilità di consumo, chiare distinzioni sociali.

N. Gallerano


E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano 1969; F. Ramella, Terra e telai, Einaudi, Torino 1984; E. Hobsbawm, Studi di storia del movimento operaio, Einaudi, Torino 1972; E. Hobsbawm, Lavoro, cultura e mentalità nella società industriale, Laterza, Roma-Bari 1986.
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