Stats Tweet

ITINERARI - SVILUPPO E PROGRESSO - LE ORIGINI DELL'UMANITÀ

I TEMPI DELL'OMINAZIONE

Le tappe principali della cosiddetta «ominazione» (che è il processo attraverso il quale sono emerse le caratteristiche dell'attuale specie umana) sono:

1) la fase preumana in cui i protominidi (per esempio il Ramapithecus) hanno iniziato a differenziarsi dagli altri primati;
2) quella di transizione tra preumani e umani in cui si è acquisita la stazione eretta, permanendo però alcuni caratteri scimmieschi (ne è un esempio l'Australopithecus);
3) quella dell'Homo habilis a cui risalgono le prime testimonianze di costruzione di utensili in pietra;
4) quella dell'Homo erectus caratterizzata da un sensibile aumento (fino a 1100 centimetri cubi) della capacità cranica;
5) quella dell'Homo sapiens neanderthalensis, che aveva una capacità cranica pari a quella dell'uomo moderno e che presentava, con alcuni caratteri primitivi, come l'assenza del mento e le arcate sopraccigliari molto accentuate, una netta diminuzione del prognatismo;
6) quella dell'Homo sapiens sapiens, ossia dell'uomo moderno, con la totale scomparsa dei caratteri primitivi.

Le nostre conoscenze sulle origini dell'uomo si basano su un numero limitato di fossili che, rinvenuti in una trentina di località diverse, si riferiscono ad un arco di tempo di diversi milioni di anni: una densità di testimonianze molto bassa. Per di più le condizioni del ritrovamento non sono sempre state le migliori; spesso si è rinvenuto solo qualche frammento osseo e a volte non è stato possibile datare con precisione i ritrovamenti. Tutto ciò spiega a sufficienza le imprecisioni che si riscontrano nello studio di questa materia, e le inevitabili divergenze sorte fra gli studiosi nell'interpretazione dei reperti. Queste divergenze si erano largamente manifestate già nel secolo scorso, quando nacque la paleoantropologia (ossia la scienza che studia i resti degli uomini antichi), ma ancora oggi non esiste una classificazione delle specie ominidi e preominidi assolutamente sicura e sulla quale tutti gli specialisti siano d'accordo.
I più antichi primati antropoidi risalgono all'epoca dell'Oligocene, più di 30 milioni di anni fa. Allora l'Asia e l'Africa erano separate da una distesa d'acqua nota come Mare di Tetide, che scomparve pressappoco 16 milioni di anni fa, quando le zolle continentali si accostarono. In quel periodo, nelle grandi foreste africane, che erano molto più estese di adesso, vivevano l'Oligopithecus e l'Aegyptopithecus, antenati delle attuali scimmie del Vecchio Mondo (Africa e Eurasia). Bisogna risalire fino al Miocene medio, ovvero tra i 12 e gli 8 milioni di anni fa, per trovare il primo ominide. In questo periodo avvenne una rapida differenziazione tra le specie di primati, che nel precedente Miocene antico si erano divise nei generi Proconsul, Limnopithecus e Dendropithecus. Il genere più accreditato come progenitore dell'uomo e delle grandi scimmie attuali è il Proconsul, il quale presenta alcune caratteristiche innovative nella dentatura, nonché lo sviluppo nel cranio di un seno frontale.
A partire dal Miocene medio gli ominidi si sono diffusi dall'Africa verso l'Asia attraverso quel ponte naturale che si era creato con l'unione dei due continenti. Gli ominidi di questo periodo si dividevano in due gruppi: le Driopitecine e le Ramapitecine. Si ritiene che il secondo gruppo sia quello che ha dato origine più tardi alle Australopitecine e al genere Homo, attraverso il genere Ramapithecus.
L'aspetto generale delle Ramapitecine era senz'altro scimmiesco, ma si può supporre che il Ramapithecus non vivesse esclusivamente sugli alberi, dato che l'habitat con il quale si trova associato è quello di un bosco piuttosto aperto, diverso dalle fitte foreste equatoriali che continuano ad essere abitate dalle scimmie; ciò dimostra un adattamento ad un nuovo ecosistema, la savana, assai simile a quello che sarebbe stato abitato dalle Australopitecine e poi, a partire da tre milioni di anni fa, dai primi uomini. L'occupazione di questa nicchia ecologica comporta tra l'altro una dieta diversa, onnivora, simile a quella dell'uomo, il che sembra trovare riscontro nella dentatura del Ramapithecus, che è adatta alla masticazione di cibi di natura vegetale e animale.
Se si immagina l'evoluzione umana come una lunga catena i cui anelli sono costituiti dai vari tipi di ominidi, essa ci appare incompleta in alcuni punti: sono i cosiddetti «anelli mancanti». La lacuna più grossa in termini cronologici è quella tra il Ramapithecus e l'Australopithecus: un vuoto di circa cinque milioni di anni. Il caso ha voluto che per il periodo compreso tra il Ramapithecus punjabicus (il più recente fra le Ramapitecine), vissuto più o meno 9 milioni di anni fa, e i più antichi australopiteci documentati, che risalgono a circa 5 milioni di anni fa, non sia stato scoperto alcun fossile di ominide. Questa lacuna impedisce, fra le altre cose, di attribuire con certezza il Ramapithecus al ceppo ominide, poiché, salvo alcune somiglianze nello scheletro, per altro assai discusse, non è noto il rapporto che intercorre fra ramapiteci e australopiteci. È così impossibile capire in quale punto dell'evoluzione si sono divisi i ceppi che hanno dato origine da una parte all'uomo e dall'altra ai primati attuali.
Un'altra lacuna nella catena evolutiva si trova tra gli australopiteci e il genere Homo. Sul problema del loro rapporto esistono essenzialmente due tesi: la prima considera le Australopitecine (differenziatesi poi in diversi tipi che si sarebbero estinti con il tempo) come sicuramente appartenenti alla linea evolutiva umana; la seconda ritiene invece che l'australopiteco rappresenti un ramo parallelo all'evoluzione umana, avendo con questa solo un antenato comune. Fatto sta che non esiste, allo stato attuale delle ricerche, una qualunque testimonianza dell'esistenza di tale antenato, che viene pertanto considerato un «anello mancante».
È stato però osservato che questa immagine della catena degli esseri (e quindi l'ipotesi degli «anelli mancanti») costituisce un modello poco adatto a rappresentare l'evoluzione delle specie, poiché parte dall'idea che i processi evolutivi si svolgano in modo graduale e continuo, il che non è sempre vero. Pare invece che l'evoluzione umana sia stata caratterizzata (come altri processi analoghi, per lo studio dei quali è stata elaborata una particolare teoria matematica nota come «teoria delle catastrofi») da un andamento assai irregolare. In sostanza, lunghi periodi di relativa stasi (durante i quali, cioè, non sono avvenuti cambiamenti di rilievo), sarebbero stati inframmezzati da punti di grandi cambiamenti, dovuti forse a fattori ambientali particolarmente favorevoli a questa o quella mutazione. È quindi possibile che vari «anelli mancanti» non siano stati scoperti semplicemente perché non sono mai esistiti, essendosi verificate modificazioni di grande rilievo in tempi brevi e senza fasi di transizione.

ORTOGNATISMO, PROGNATISMO

Si dice «ortognato» (dal greco orthòs = «dritto» e gnàthos = «mascella») il profilo facciale in cui la linea che congiunge la fronte al mento si presenta quasi verticale. Quando la mascella sporge in avanti il profilo facciale si dice «prognato» (dal latino pro = «davanti»).

HABITAT

Il termine «habitat» (che è la terza persona singolare dell'indicativo presente del latino habitare = «abitare») è stato coniato per indicare l'ambiente nel quale una determinata specie animale o vegetale vive e si sviluppa.

L'UOMO DI PILTDOWN: IL PRIMO UOMO CON I DENTI FALSI

Non si sa esattamente in quale anno furono «scoperti» i resti dell'Uomo di Piltdown: nel 1912 Charles Dawson, un geologo dilettante, li portò a Arthur Smith Woodward, uno dei maggiori paleoantropologhi inglesi del momento. I reperti provenivano da una cava di ghiaia nei pressi di Piltdown, nel Sussex, ed erano associati a resti di fauna estinta che contribuiva a datarli alle prime fasi del Pleistocene, o forse addirittura al Pliocene (oltre 2 milioni di anni fa).
Dopo la comparsa nell'ambiente scientifico di quel periodo di una testimonianza della grande antichità dei nostri primi antenati, molti fra i maggiori studiosi di questa materia si interessarono a questi reperti. Nell'estate del 1912 nello stesso sito vennero scoperti altri frammenti del cranio in questione, fra cui un pezzo della mandibola inferiore.
Il problema principale riguardante tale scoperta consisteva nel fatto che nell'Uomo di Piltdown si trovavano associate caratteristiche proprie sia della specie umana che delle grandi scimmie; la capacità cranica era notevole secondo tutte le varie ricostruzioni che erano state fatte da paleontologi e anatomisti, pur in contrasto fra di loro, mentre la mandibola era chiaramente di tipo scimmiesco. La sua fisionomia avvalorava dunque le tesi a favore di un antichissimo sviluppo del cervello umano, prima di un qualunque insorgere di altre caratteristiche tipiche della nostra specie, come ad esempio il bipedalismo.
Con il passare degli anni vennero effettuate molte altre scoperte che si trovavano in aperto contrasto con quanto testimoniava il cranio di Piltdown; la questione fu risolta da alcuni studiosi inglesi, non senza un certo nazionalismo, sostenendo la compresenza di varie specie umane sulla Terra, di cui solo una, ovviamente quella testimoniata in Inghilterra, era poi sopravvissuta fino ai nostri giorni.
I problemi iniziarono però nel 1948, quando il metodo di datazione basato sul quantitativo di fluoro fu applicato ai resti non cranici dell'Uomo di Piltdown e a quelli della fauna estinta a questo associata. Il risultato smentiva assolutamente tale associazione, dimostrando che 1la fauna antica non era contemporanea ai resti umani, i quali dovevano essere molto più recenti. Lo sconcerto derivava dal fatto che, mentre era logico pensare all'esistenza di un cranio umano così voluminoso in tempi recenti, non era pensabile l'associazione contemporanea con una mandibola dalla caratteristiche tanto «arcaiche»; iniziarono così i dubbi sulla veridicità dei reperti.
Solo nel 1953 si risolse il problema. Per tutto questo tempo ci si era sforzati di pensare quale fosse la ragione per cui un cranio recente potesse avere una mandibola antica; scartate ormai le spiegazioni di tipo naturale, qualcuno pensò che le anomalie dei reperti fossero dovute all'intervento umano, e che i resti fossero stati sepolti in un deposito antico con l'intenzione di dimostrare che i primi uomini avevano un grande cervello e una mandibola scimmiesca. Si scoprì infatti che le lacune nei frammenti cranici corrispondenti all'attacco con la mandibola erano state create ad arte, che i denti della mandibola erano stati usurati artificialmente per potersi incastrare in quelli superiori e infine che tutti i reperti, umani e non, erano stati colorati per confondersi nella terra del deposito di ghiaia di Piltdown.
Tuttora non si sa chi sia stato l'autore di questo imbroglio, né quale fosse il suo scopo: poteva servire ad avvalorare certe tesi, come a deridere quegli studiosi che costruirono fior di teorie sui falsi reperti. Fatto sta che le sue caratteristiche si adattavano benissimo ai preconcetti che molti studiosi dell'epoca avevano in materia di paleoantropologia.

LA TEORIA DELLE CATASTROFI

La teoria delle catastrofi e una teoria matematica che serve a studiare i processi di creazione, evoluzione e diffusione di eventi, caratterizzati da andamenti discontinui e fortemente irregolari. «Catastrofe» (dal greco katastrèphein = «capovolgere»), vuol dire sconvolgimento, o risoluzione inaspettata e subitanea di una vicenda: i Greci lo adoperavano per indicare il finale della tragedia, dove la vicenda precipitava verso la conclusione (per lo più violenta e luttuosa). Qui però il termine non ha il significato di evento disastroso e funesto che ha nel linguaggio comune: sta semplicemente a indicare un'accelerazione improvvisa o un improvviso cambiamento di direzione in un processo di carattere evolutivo. Un processo del genere è l'ominazione, in cui gli eventi catastrofici sono rappresentati dalla comparsa di nuovi generi (Australopithecus, Homo) e di nuove specie (habilis, erectus, sapiens): come si è accennato, non è affatto detto che la nascita di nuove specie sia il risultato del lento e progressivo accumulo di piccole modificazioni e può anche essere interpretata come effetto di grandi mutazioni concentrate in brevi periodi di tempo.
Un fenomeno che si presta assai bene ad essere studiato con l'ausilio della teoria delle catastrofi (e che interessa specificamente questo testo) è quello delle forme dei «manufatti», ossia degli oggetti costruiti dall'uomo (dal latino manu factus = «fatto con la mano»). Queste forme vengono inventate da un gruppo umano (creazione), si evolvono nel corso del tempo fino alla loro scomparsa (evoluzione), si diffondono in vario modo nel territorio circostante il luogo in cui sono state prodotte (diffusione). Supponiamo, ad esempio, di voler rappresentare in un grafico l'evoluzione tecnologica nel Paleolitico. È ragionevole supporre che quanto maggiore è il numero dei tipi di strumenti che un gruppo umano è in grado di produrre, tanto più elevato sia il livello di sofisticazione della sua tecnologia. Per rappresentare in un sistema di assi cartesiani l'evoluzione della tecnologia nell'antica età della pietra basterà dunque riportare sull'asse verticale, detto «delle ordinate» (dal latino ordinare = «disporre in ordine»), il numero dei tipi di strumenti che gli archeologi hanno reperito e classificato, e sull'asse orizzontale, detto «delle ascisse» (dal latino abscindere = «tagliar via») i tempi in cui quel numero è stato rilevato.
Secondo la teoria delle catastrofi, i tratti della curva più omogenei sono composti da punti «regolari», ossia da punti in cui non accade nulla di significativo; nei tratti in cui la curva cambia direzione risiedono invece i punti «catastrofici», che segnano un mutamento improvviso dello stato generale del processo. È dimostrato matematicamente che è impossibile che i punti regolari siano isolati, mentre i punti catastrofici possono facilmente concentrarsi in brevi tratti compresi tra due lunghi intervalli costituiti da punti regolari.
È facile capire come lo studio di processi evolutivi (come l'ominazione o lo sviluppo tecnologico) nei quali lunghi periodi di stasi sono intercalati da momenti di intensi cambiamenti, sia rivolto soprattutto all'individuazione dei punti catastrofici e delle loro peculiarità: sono questi infatti i punti che descrivono le fasi salienti del processo. Se ci si riferisce però a processi avvenuti in tempi remoti, è probabile che si abbiano notizie soltanto (o prevalentemente) di eventi relativi ad alcuni punti regolari. I punti regolari sono i più comuni, ed è quindi più facile che abbiano lasciato delle tracce, mentre è possibile che dei punti catastrofici, assai più rari, si sia persa ogni testimonianza. La teoria delle catastrofi serve appunto a ricostruire l'andamento di tali processi in quei tratti che, pur essendo i più ricchi di significato, rischiano di restarci del tutto ignoti per l'insufficienza e la frammentarietà della documentazione.

L'AUSTRALOPITECO

Le prime scoperte relative all'Australopithecus risalgono agli anni Venti, quando furono trovati nell'Africa meridionale i primi crani di questo genere; purtroppo non sempre è stato possibile datare con precisione questi reperti che comunque si presentavano in buone condizioni di conservazione, tanto da permettere un'analisi approfondita delle caratteristiche anatomiche. Questo ominide era alto circa 1,5 m e il suo cervello era piuttosto piccolo, compreso fra i 435 e i 530 centimetri cubi. Tutti i crani rinvenuti avevano però il foro occipitale (quello alla base del cranio, attraverso il quale passa il midollo spinale) spostato in avanti, il che dimostrava, unitamente alla testimonianza dei femori e delle ossa del bacino, che l'australopiteco aveva un'andatura bipede. Così, contrariamente a quanto si aspettavano gli studiosi dell'epoca, che consideravano come principale caratteristica degli ominidi una capacità cranica molto superiore a quella delle scimmie, la stazione eretta si rivelava un'acquisizione più antica del cervello voluminoso.
Nel 1959 in Tanzania, nella gola di Olduway, vennero fatte sensazionali scoperte che rivoluzionarono quanto si sapeva sugli australopiteci. Si pensava infatti che questi fossero vissuti 7-800.000 anni fa e invece i giacimenti di Olduway rivelarono resti di un australopiteco vissuto 1,9 milioni di anni fa: più del doppio di quanto era stato calcolato. Fu accertato inoltre che contemporaneamente agli australopiteci era vissuto un essere più evoluto, l'Homo habilis, detto così perché capace di costruire, con tecniche elementari, semplici strumenti in pietra.
Le Australopitecine si dividono in varie forme: l'Australopitecus afarensis, l'Australopithecus africanus e l'Australopithecus robustus, quest'ultimo dotato di una conformazione scheletrica più massiccia dei primi due. Secondo una tesi fra le più accreditate, dal più antico afarensis si sarebbero evoluti due rami distinti: da una parte il genere Homo, dall'altra l'Australopithecus africanus che diventerà poi il robustus e si estinguerà circa un milione di anni fa. Questa ipotesi spiegherebbe i frequenti ritrovamenti in Africa orientale di Australopitecine associate a esemplari del genere Homo. I due generi sembrano aver condiviso lo stesso habitat per lungo tempo, fino a un milione di anni fa circa, ma non sappiamo quali rapporti intercorressero fra di loro.
Non è stato ancora chiarito se anche l'Australopithecus fabbricasse utensili in pietra. L'ipotesi sembra da scartare, giacché gli strumenti litici (dal greco lithos = «pietra») rinvenuti in associazione con resti di australopiteci e di individui appartenenti al genere Homo sono con ogni probabilità dovuti a questi ultimi. Non è possibile tuttavia escludere in modo assoluto la partecipazione degli australopiteci alla lavorazione della pietra e nulla, naturalmente, si può dire circa la fabbricazione di manufatti con materiali deperibili come il legno.
Le notizie che dall'esame dei resti si possono trarre circa la vita che conducevano gli australopiteci sono piuttosto scarse. È probabile che non conoscessero il fuoco perché nei siti di abitazione non ne è rimasta traccia (ma non è detto che l'uso del fuoco debba sempre lasciare tracce). Dal gran numero di ossa di babbuino trovate in un sito frequentato da australopiteci si è pensato che costoro andassero a caccia di questi animali e che perciò vivessero in gruppetti: solo così infatti avrebbero potuto affrontare con successo animali pericolosi come i babbuini. Può darsi però che il sito in questione fosse la tana di un grosso carnivoro e che i resti di babbuini siano le tracce dei suoi pasti e non di quelli degli australopiteci. È probabile che, almeno di norma, per procurarsi il cibo gli australopiteci andassero in cerca di animali già morti, e perciò fossero solo «raccoglitori» e non ancora «cacciatori». In ogni caso sembra che la loro dieta fosse prevalentemente a base di vegetali. Solitamente gli australopiteci dovevano abitare nei pressi di corsi d'acqua, forse in piccoli gruppi, secondo un modello di comportamento proprio di molte delle scimmie attuali. Il dato pare confermato dai ritrovamenti di Hadar, nell'Africa orientale, dove sono stati rinvenuti i fossili di 13 individui di età diverse.
La stazione eretta deve aver permesso di allargare i territori di approvvigionamento del cibo grazie alla possibilità di trasportare a braccia piccoli carichi per tratti abbastanza lunghi. Tale ipotesi porterebbe a pensare che gli australopiteci avessero qualcosa di simile a un campo base dove riunirsi, e non manca qualche indizio in questo senso. Nulla di sicuro, però, è stato accertato e tutto ciò che lo studioso può fare in questo campo è scommettere su questi indizi in attesa di nuove e più probanti testimonianze.

Nel novembre del 1924 in una cava nei pressi del villaggio sudafricano di Taung venne scoperto il cranio fossile di un bambino di tre o quattro anni. Il cranio presentava alcuni tratti scimmieschi (le ridotte dimensioni del cervello) e altri decisamente umanoidi (le ridotte dimensioni dei canini, più simili a quelli degli uomini che a quelli delle scimmie, e soprattutto un cranio ben bilanciato su quella che doveva essere stata una colonna vertebrale eretta). Il fossile fu studiato da Raymond Arthur Dart, professore di Anatomia all'Università di Johannesburg, che lo attribuì a una nuova specie battezzata Australopithecus africanus (= «scimmia meridionale dell'Africa»). I primi resti di individui adulti furono ritrovati nel 1936 a Sterkfontein, nel Transvaal meridionale.

BIPEDALISMO E STAZIONE ERETTA

La caratteristica umana più antica è la stazione eretta. Una testimonianza diretta di deambulazione in posizione eretta è costituita da alcune impronte fossili di Australopithecus ritrovate a Laetoli, in Tanzania, che risalgono a 3,75 milioni di anni fa. Ma la stazione eretta è quasi certamente più antica, come è testimoniato dai fossili ossei dell'Australopithecus, la cui origine risale probabilmente a 5,5 milioni di anni fa. Gli australopiteci erano già bipedi e secondo gli ultimi studi di biomeccanica (una branca della medicina che studia le parti del corpo umano in rapporto alle funzioni che devono svolgere), è possibile che godessero di un'andatura perfino più efficiente della nostra. Disponevano infatti per l'andatura bipede di una struttura del femore più vantaggiosa di quanto non sia quella dell'uomo moderno.
La capacità cranica nettamente superiore a quella delle scimmie è invece un'acquisizione del genere Homo, databile a 2,5 milioni di anni fa circa. I più antichi esemplari del genere Homo avevano un cervello di circa 800 centimetri cubi, mentre le Australopitecine raggiungevano appena i 500 centimetri cubi. Più o meno alla stessa epoca risalgono i primi strumenti e i primi abitati artificiali. È probabile che proprio l'aumento della capacità cranica abbia causato una minore agilità nell'andatura bipede: ingrandendosi il cranio, le ossa del bacino femminile hanno dovuto allargarsi per permettere il parto di un individuo dalla testa grossa, e così è stato sfavorito il meccanismo di leve e muscoli della articolazione del femore, che è fondamentale per il bipedalismo.
Diversi primati (il gruppo animale a cui appartengono le scimmie e l'uomo) sono in grado di reggersi su due gambe, di camminare o anche di correre. Ciò avviene però sporadicamente, con gambe e ginocchia piegate, il che richiede un notevole dispendio di energia, sicché la posizione non può esser mantenuta che per brevi periodi. Il bipede invece conserva abitualmente la posizione eretta, è capace di mantenerla a lungo da fermo o in movimento con un minimo dispendio di energia ed è in grado di avanzare a grandi passi (falcata). In più, avendo braccia e mani libere da compiti attinenti alla locomozione, può spostarsi trasportando carichi più o meno pesanti o maneggiando utensili e armi.
Per diverso tempo si è pensato che il bipedalismo avesse assicurato il successo dell'ominazione proprio permettendo di destinare gli arti superiori, liberi da funzioni locomotorie, alla manipolazione di oggetti e alla costruzione di utensili. Grazie agli studi recenti sappiamo che gli australopiteci potevano camminare in posizione perfettamente eretta, senza sentire alcun bisogno di costruirsi degli strumenti; o per essere più precisi, senza bisogno di costruirsi strumenti in pietra, giacché non si può escludere che se ne costruissero con materiali deperibili, come le fibre vegetali e il legno. Di tali manufatti, però, appunto per la loro deperibilità, non è rimasta alcuna traccia. Così, a partire da 3,75 milioni di anni fa, data delle impronte fossili di Laetoli, fino a circa 2,5 milioni di anni fa, data dei più antichi utensili in pietra ritrovati a Olduway in Kenia, la presunta associazione bipedalismo-costruzione di strumenti non è affatto dimostrata e resta una semplice ipotesi.

L'HOMO HABILIS

Alla specie Homo habilis appartengono gli esemplari più antichi di uomo. Ma che cos'è l'«uomo»? E come si fa a segnare nel corso dell'evoluzione la linea che divide gli uomini dai non-uomini? Si tratta in verità di un'operazione del tutto convenzionale: semplicemente si è convenuto di attribuire l'appellativo di «uomo» a quegli ominidi che dai reperti archeologici risultano con sicurezza essere stati costruttori di oggetti, armi e utensili. Da tempi così lontani solo i manufatti in pietra hanno potuto conservarsi a testimonianza di tale capacità, e poiché, come si è visto, nessuno di tali manufatti può essere sicuramente attribuito all'attività degli australopiteci, i primi che possono essere legittimamente chiamati «uomini» sono gli appartenenti alla specie detta, appunto, Homo habilis.
I fossili dell'Homo habilis provengono dall'Africa e soprattutto dalla Rift Valley, una spaccatura nella zolla continentale africana che ha fornito una quantità impressionante di siti archeologici in buono stato di conservazione e ricchissimi di informazioni. Il cranio più antico di questo tipo umano è stato scoperto a Koobi Fora in Kenia sulle rive del lago Turkana; risale a circa 2,5 milioni di anni fa e la sua capacità cranica si aggira sugli 800 centimetri cubi. Il repertorio più ricco di strumenti litici prodotti dall'habilis proviene da Olduway in Kenia, uno dei principali siti della Rift Valley. Si tratta di utensili assai elementari: ciottoli scheggiati su di un lato per ottenere un bordo tagliente (noti come choppers), blocchi di pietra da cui venivano staccate delle schegge mediante percussione. Il complesso di questi strumenti e la loro produzione vanno sotto il nome di «cultura del ciottolo» o «industria oldovana», dal nome del luogo, Olduway, dove ne sono state raccolte le testimonianze più importanti. L'industria oldovana dura fino a circa 1,5 milioni di anni fa, quando all'Homo habilis succede l'Homo erectus e fanno la loro comparsa gli attrezzi «acheuleani» di cui si parlerà in seguito.
Le operazioni necessarie per preparare strumenti litici di tipo oldovano sembrano facili, ma non lo sono per nulla: perfino per spezzare un ciottolo senza frantumarlo e per ottenere da esso un bordo adatto per tagliare ci vuole una discreta abilità. Gli uomini hanno impiegato migliaia di anni per arrivare a compiere i movimenti necessari. Una volta appresa la tecnica più efficace per spezzare il ciottolo nella maniera voluta, questi atti sono stati ripetuti senza sostanziali cambiamenti per generazioni e generazioni.
Un notevole progresso è stato compiuto dall'uomo quando è riuscito a lavorare blocchi di selce staccandone delle schegge. La selce è una roccia sedimentaria che si forma per aggregazione di minute particelle di silice (biossido di silicio: SiO2) sparse in rocce argillose o calcaree.
Nel processo di aggregazione le particelle di silice si dispongono in strati concentrici, dando luogo a venature simili a quelle del legno. La selce si presenta normalmente in noduli di forma tondeggiante, le cui dimensioni variano da quelle di una noce a quelle di una zucca, e ha una durezza (ossia una resistenza all'abrasione e alla scalfittura) superiore a quella di molti metalli; si presta pertanto alla fabbricazione di utensili e di armi. È però piuttosto fragile (ossia si rompe facilmente in conseguenza di urti o di analoghe sollecitazioni) e questo significa che gli utensili di selce duravano poco, forse solo alcuni giorni, e dovevano essere frequentemente sostituiti.
Anche l'operazione di staccare delle schegge da un blocco di selce sembra abbastanza semplice, ma non lo è: richiede una notevole abilità nella scelta della selce da scheggiare e nell'individuazione dei punti su cui battere.
Battendo su tutta la superficie del blocco con un percussore di osso o di pietra si otteneva il cosiddetto «bifacciale», il quale poteva assumere forme diverse a seconda della funzione o delle funzioni a cui era destinato: tagliare, raschiare o altro. A che cosa esattamente servissero questi strumenti non è possibile dire, ma è assai probabile che essi siano per lo più da collegare con attività di macellazione della carne.
In ogni caso non va dimenticato che anche un'alimentazione esclusivamente vegetale potrebbe richiedere l'uso di strumenti simili per tagliare, spezzare o triturare.

LA PIÙ ANTICA ECONOMIA UMANA

Tra le molte differenze che si possono rilevare tra i comportamenti delle scimmie e quelli degli uomini quelle relative alla raccolta ed al consumo del cibo meritano una particolare attenzione, perché in esse si rivela, tra l'altro, la molto maggiore forza che hanno sempre avuto i legami sociali nelle comunità umane rispetto a quelli esistenti tra le scimmie di uno stesso branco. Tanto per cominciare, le scimmie non raccolgono e non consumano il cibo in gruppo: tutte le società umane, invece, riconoscono in un modo o nell'altro che il cibo è un bene comune a cui hanno diritto in qualche misura anche quei membri del gruppo che non hanno contribuito direttamente a procurarlo (e tra questi in primo luogo i piccoli del gruppo).
Il pasto in comune è forse il più antico dei riti sociali e la spartizione del cibo è la manifestazione più evidente della coscienza che i membri di una comunità hanno della loro reciproca dipendenza. Vale la pena di notare che il pasto in comune richiede che il cibo sia trasportato dal luogo in cui è stato raccolto al luogo in cui viene consumato e che questa operazione, pressoché impossibile per le scimmie, non presentava difficoltà per gli ominidi che avevano acquisito la stazione eretta. La messa in comune delle risorse alimentari è quello che consente di parlare anche per le più antiche e primitive società umane di «economia» e cioè di un sistema organizzato per la produzione, la distribuzione e il consumo della ricchezza sociale.
Alla pratica della spartizione del cibo sono probabilmente legati alcuni comportamenti alimentari caratteristici dell'uomo: l'importanza attribuita alla carne e l'attenzione rivolta, tra gli alimenti di natura vegetale, alle radici e ai tuberi ricchi di amido. Carne e radici presentano un'alta concentrazione di sostanze nutritive e possono essere facilmente trasportate per tratti anche abbastanza lunghi: due caratteristiche che le rendono particolarmente adatte ad essere consumate in gruppo. È appena necessario aggiungere che per cercare tuberi e radici sono necessari strumenti (come il bastone da scavo) capaci di smuovere la terra, e che, analogamente, per nutrirsi della carne di grossi animali sono necessari strumenti capaci di tagliare, scarnificare, scuoiare, frantumare le ossa. In rapporto a queste scelte alimentari, dunque, perfino la più primitiva delle economie umane doveva dotarsi di un'attrezzatura relativamente complicata. Ma a quando risale la più antica economia umana e, in particolare, a quando risalgono le prime testimonianze sicure delle scelte alimentari di cui abbiamo parlato?
Degli australopiteci, come si è detto, sappiamo poco e dobbiamo per lo più accontentarci di ipotesi. Per la fase successiva, invece, caratterizzata dalla presenza dell'Homo habilis, tra 1 o 2 milioni di anni fa, abbiamo ormai parecchie e significative testimonianze archeologiche. Sono stati rinvenuti ad esempio diversi siti dove in un'area di appena 100 o 200 metri quadrati si concentrano centinaia di attrezzi in pietra, choppers o schegge, frammisti a migliaia di frammenti ossei provenienti da varie specie di animali, talvolta di grossa o grossissima taglia, come gazzelle, elefanti, ippopotami.
È probabile che gli uomini che hanno occupato questi siti non fossero in grado di uccidere gli animali di cui si nutrivano: semplicemente si limitavano a raccogliere carcasse di animali uccisi da altri predatori. Sta di fatto che queste carcasse venivano fatte a pezzi e trasportate sino al luogo di convegno per essere mangiate. Questi siti sono spesso lontani dai luoghi in cui la pietra usata per gli strumenti affiora alla superficie, il che testimonia come il trasporto di carichi relativamente pesanti costituisse un'attività del tutto normale. Nell'attrezzatura di questi primi uomini compaiono alcune ossa appuntite, che, a detta dei ricercatori che le hanno studiate, presentano i segni di un loro ripetuto uso come bastoni da scavo. Anche la ricerca di tuberi e radici entrava dunque a far parte della loro economia.

INDUSTRIA, CULTURA, ECONOMIA

Il termine «industria» in latino significava genericamente «operosità». In italiano solo in tempi relativamente recenti è venuto a designare uno specifico settore delle attività produttive, distinto dal settore agricolo e dal cosiddetto «terziario» (di cui avremo modo di parlare più avanti) e consistente nella manipolazione delle materie prime e nella loro trasformazione in manufatti. Poiché questo settore è particolarmente sviluppato nelle società avanzate, siamo portati ad associare la parola «industria» alle immagini di fabbriche, di macchine, di motori, ecc., di tutto ciò, insomma, che è (o è stato) simbolo di modernità. Archeologi e antropologi culturali che studiano le società primitive indicano invece con questo termine l'insieme delle tecniche (anche le più elementari) usate dall'uomo per la produzione di manufatti ed estendono tale nozione a comprendere tutti i comportamenti direttamente o indirettamente connessi alla fabbricazione di oggetti. I manufatti si possono considerare da questo punto di vista come «fossili di comportamenti umani», in quanto ci permettono di ricostruire almeno in parte i gesti e le operazioni che sono stati necessari alla loro produzione, allo stesso modo in cui un osso fossile ci permette di ricostruire almeno in parte l'organismo dal quale proviene.
Abbiamo parlato di antropologi culturali: «cultura» è un termine che nel suo significato antropologico si trova spesso associato a «industria», con cui però non va confuso. Se l'industria è per gli archeologi l'insieme delle tecniche usate per fabbricare cose, la «cultura» è qualcosa di più comprensivo, che si riferisce anche ad attività, come il linguaggio, l'arte, la religione, il diritto, ecc., che non sempre si manifestano in «cose», ossia in oggetti dotati di esistenza materiale. Cultura è insomma l'insieme oltre che delle tecniche, delle credenze, delle conoscenze, dei gusti, delle regole, delle aspirazioni di un gruppo. Tutto ciò che interessa l'uomo in quanto membro di un determinato gruppo sociale si può designare come cultura.
Con l'espressione «cultura materiale» si intende l'insieme dei beni materiali (non importa se fabbricati dall'uomo o esistenti in natura) che un gruppo umano utilizza per i suoi scopi nonché le usanze e i rituali relativi all'utilizzo di tali beni. Poiché i resti materiali costituiscono spesso l'unica testimonianza che ci rimane della cultura dei popoli antichi, «cultura» e «cultura materiale» finiscono talvolta per essere usati come sinonimi.
Un altro termine che è frequentemente associato a cultura, cultura materiale e industria, è «economia». Nel linguaggio corrente è usato in parecchie accezioni, per esempio come sinonimo di risparmio o di moderazione nello spendere («fare economia di benzina»; «un ristorante economico»), oppure per indicare il complesso di regole che garantiscono il buon funzionamento di un'attività (in questo senso si parla di «economia domestica», «economia aziendale» ecc.). Questo secondo significato è il più vicino all'etimologia della parola, dal greco oikos = «casa, dimora» e dal verbo nèmein = «amministrare, governare». In senso generico il termine indica l'uso razionale delle risorse (è «economico» ogni comportamento volto ad ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo). In senso specifico designa l'insieme delle attività relative alla produzione, alla distribuzione e al consumo dei beni (di quelle cose, cioè, che servono a soddisfare i bisogni dell'uomo) nell'ambito di un gruppo umano (per esempio: «l'economia dei Neanderthaliani»), di una classe sociale (per esempio: «l'economia contadina»), di un'area geografica (per esempio: «l'economia del Mezzogiorno»), di uno Stato (per esempio: «l'economia italiana»), ecc. «Economia», infine, è la scienza che studia i fenomeni della produzione, della distribuzione e del consumo dei beni.

LA RICERCA SUL CAMPO: L'INDIVIDUAZIONE E LO SCAVO DI UN SITO ABITATO

I siti archeologici vengono alla luce per caso o in seguito a ricerche intenzionali. Nella prima categoria (che è sempre la più ampia) rientrano tutte le scoperte avvenute in occasione di lavori per la costruzione di edifici, strade, o simili, e nelle quali di solito lo scopritore non sa nulla di archeologia. In questo modo sono venuti alla luce in passato molti fra i più importanti reperti archeologici. Alla seconda categoria appartengono quegli scavi intrapresi sulla base di indizi di diversa natura che indicano la probabile esistenza in un dato luogo di un giacimento archeologico.
Lo scavo è di solito l'ultima fase di una lunga attività di ricerca che si svolge in parte a tavolino. Tra le operazioni preliminari sono soprattutto importanti le ricognizioni superficiali della zona nella quale si presume l'esistenza di giacimenti interessanti: esse hanno lo scopo di raccogliere tutte le informazioni sullo stato del sottosuolo necessarie per programmare con la massima precisione possibile lo scavo vero e proprio. Questo tipo di ricerche, che costituiscono la cosiddetta «archeologia di superficie», si è arricchito negli ultimi anni di tecniche specifiche comprendenti, oltre alla raccolta dei reperti che affiorano in superficie, metodi di rilevamento sofisticati come la fotografia aerea e le prospezioni geofisiche, grazie alle quali si possono individuare alterazioni magnetiche ed elettriche del terreno dovute all'intervento umano (presenza di fossati, strutture in pietra e via dicendo).
Quando l'analisi di tutta l'area interessata dalle ricerche, che può estendersi anche per qualche chilometro quadrato, richiede un eccessivo dispendio di energie, si procede per campioni. Si divide l'area in quadrati o in fasce e si scelgono a caso alcuni dei settori così delimitati. Dallo studio di questi settori-campione, e con l'aiuto di metodi statistici opportunamente elaborati per questo tipo di indagini, si cerca di capire se la distribuzione dei reperti sul terreno sia casuale oppure no. Se non lo è, è molto probabile che nell'area ci sia uno o più siti meritevoli di scavo. Se invece è casuale le possibilità sono tre: 1) che non ci sia alcun sito; 2) che uno o più siti ci siano, ma che siamo così profondi o così piccoli da sfuggire alla maglia della campionatura; 3) che il sito o i siti ci siamo ma che siano cosi grandi da influenzare in modo uniforme tutta l'area esplorata.
Solo quando il sito è stato individuato con certezza si procede allo scavo. In certi casi, anzi, se la raccolta superficiale ha fornito informazioni sufficienti sulla distribuzione degli insediamenti, ci si limita a questa operazione, rinunciando o rimandando ad altro momento lo scavo vero e proprio. Lo scavo infatti e sempre un'operazione molto delicata, non solo perché richiede un'organizzazione abbastanza complessa, ma anche perché nel momento stesso in cui porta alla luce i reperti che sono oggetto della ricerca distrugge il sito che li ha conservati. Ogni sito contiene presumibilmente una quantità di informazioni (tracce e documenti del passato) diverse da quelle che l'archeologo si aspetta di trovare, e che proprio per questo rischiano di sfuggire alla sua attenzione e di andare così irrimediabilmente perdute. In verità, in passato, e soprattutto nel settore dell'archeologia classica, dove l'interesse degli studiosi era prevalentemente diretto all'oggetto «bello» (ossia all'opera d'arte), o all'oggetto di culto, mentre alle testimonianze della cultura materiale era riservata scarsa attenzione, è accaduto talvolta che uno scavo archeologico abbia distrutto più materiale (e cioè più informazioni sul passato) di quanto non sia riuscito a portare alla luce. Lo stesso effetto ha l'attività dei «tombaroli», che scavano clandestinamente per vendere a collezionisti ed antiquari reperti di pregio. Per ridurre al minimo gli effetti distruttivi dello scavo e la perdita, comunque probabile, di informazioni è necessario condurre gli scavi con estrema prudenza e con la preoccupazione di registrare passo passo tutte le operazioni che si vanno compiendo.
In generale bisogna ricordare che dal punto di vista scientifico un reperto archeologico, qualunque cosa sia, non vale nulla come oggetto isolato e rischia di perdere tutta o gran parte della sua funzione di documento storico se non si conoscono le circostanze del suo rinvenimento e quindi i suoi rapporti con gli altri oggetti dello stesso sito. Un antico vaso in ceramica può essere un bellissimo oggetto, ma se non sappiamo da dove viene, che età ha, in che contesto è stato ritrovato, non può dirci quasi nulla sugli uomini che lo hanno costruito e usato.
La cosa non vale soltanto per i reperti archeologici, ma per qualsiasi testimonianza del passato. Negli archivi, per esempio, capita spesso che disegni, carte geografiche, fotografie, autografi di personaggi celebri, ecc. vengano estratti dai pacchi in cui erano originariamente collocati per essere esposti in qualche mostra, oppure per essere restaurati e conservati in luoghi più sicuri, o semplicemente per essere incorniciati e appesi alle pareti degli uffici; ma se l'operazione non viene fatta con la dovuta cautela, ossia registrando esattamente la loro collocazione originale, questi documenti, considerati per loro e nostra disgrazia particolarmente «belli» o «interessanti», separati dalle carte (lettere, relazioni, ecc.) che li accompagnavano e che permettevano di intenderne per intero il significato, rischiano davvero di perdere tutto il loro interesse.

I METODI DI DATAZIONE

Uno dei problemi fondamentali nell'interpretazione dei reperti archeologici è la loro datazione. Esistono due tipi di datazione, quella relativa e quella assoluta. Si parla di datazione relativa quando in uno scavo si accerta che un reperto è più antico o più recente di un altro, senza però sapere esattamente a quando risalga: la datazione è relativa, appunto, al reperto preso come riferimento. Quando invece si è in grado di determinare con una certa precisione l'età dei reperti e di assegnare, per esempio, un certo vaso alla fine del VI secolo a.C. e un altro agli anni Venti del nostro secolo, si parla di datazioni assolute.
In qualche caso è possibile dare datazioni relative meno vaghe di quella citata ad esempio. Così, è spesso possibile stabilire che un certo manufatto è più antico di un'altro, ma più recente di un altro ancora: in questo modo si delimita, se non altro, un arco temporale più o meno vasto al quale il nostro reperto appartiene. È anche possibile in molti casi precisare di quanto un reperto è più antico o più recente di un altro. Naturalmente, se si conoscono le datazioni relative dei vari reperti di uno scavo, e gli intervalli di tempo che li separano, è sufficiente datare in modo assoluto solo qualcuno di essi per ottenere la datazione assoluta di tutti gli altri.
Nel corso degli ultimi decenni sono state messe a punto tecniche molto sofisticate di datazione assoluta che consentono di ottenere un alto grado di precisione. Molte di queste tecniche si basano sul conteggio degli isotopi. Per ogni elemento esiste una piccolissima percentuale di atomi isotopi, che presentano le stesse caratteristiche chimiche degli altri atomi, ma hanno un peso diverso e alcuni sono instabili, nel senso che possono trasformarsi in atomi di un altro elemento: gli isotopi dell'uranio, ad esempio, si trasformano in atomi stabili di piombo. Il tempo necessario perché la metà di un certo quantitativo di isotopi subisca questa trasformazione viene detto «tempo di dimezzamento» o «emivita». Conoscendo la percentuale di isotopi contenuta in una data quantità di un elemento, il loro tempo di dimezzamento e contando quanti sono quelli che non si sono ancora trasformati in un altro elemento, è possibile stabilire quanto tempo è passato dal momento in cui è cessata la vita dell'oggetto da datare, poiché da allora il processo di formazione o di acquisizione di atomi isotopi termina. Siccome il tempo di dimezzamento varia da elemento a elemento (per il potassio si aggira sui 1300 milioni di anni, mentre per il carbonio è di circa 5570 anni), gli isotopi più longevi vengono usati per datare eventi più antichi (in tempi brevi le trasformazioni non sono rilevabili neppure con contatori estremamente sofisticati).
Il conteggio degli isotopi dell'uranio presenti in ambienti molto stabili come sono, ad esempio, i sedimenti oceanici, è usato per datare eventi la cui antichità è dell'ordine dei milioni di anni. Con questo sistema è stato possibile datare eventi di tipo climatico, come le glaciazioni, e di tipo geologico, come la deriva dei continenti. Il difetto di questo metodo consiste nel fatto che è applicabile solo in certe circostanze, ovvero quando si abbia a disposizione una serie di campioni di tipo particolare.
In presenza di rocce di origine vulcanica, è possibile applicare il metodo del potassio/argon. Anche in questo caso, dato il lunghissimo tempo di dimezzamento, l'uso è limitato a contesti antichissimi. Gli eventi più recenti databili con questo sistema risalgono alle prime fasi della preistoria, ma è stato usato per epoche molto più antiche, quando sulla Terra non esistevano nemmeno i mammiferi.
Di recente è stata studiata la possibilità di sfruttare un processo biologico che riguarda gli amminoacidi, noto come «racemizzazione». Gli amminoacidi sono i componenti essenziali del DNA e delle proteine, che si trovano in ogni essere vivente. Le molecole di queste sostanze sono fatte a forma di torciglione: a seconda che il torciglione giri verso sinistra o verso destra vengono chiamate rispettivamente levogìri o destrogìri. La forma più comune è la levogira, ma nel corso del tempo queste molecole tendono ad assumere la forma destrogira: se dunque si contano le molecole destrogire si ottiene una misura del tempo trascorso dalla morte dell'individuo, animale o vegetale che sia. Purtroppo la durata di tale processo dipende da fattori ambientali, come la temperatura, ed è perciò applicabile solo nei casi in cui si sa con sicurezza che non sono intervenute variazioni ambientali importanti. L'interesse di questo metodo sta nel fatto che potrebbe essere applicato per un periodo compreso tra i 250.000 e i 70.000 anni fa, che non è attualmente coperto da alcun altro sicuro metodo di datazione.
Il metodo di datazione più noto e più importante è quello del radiocarbonio o carbonio 14 (C14). Questo metodo è molto utile sia perché copre gli ultimi 70.000 anni della storia dell'umanità, sia perché il carbonio si trova in moltissime classi di reperti, presenti praticamente in ogni scavo; ossa, carboni di focolari, semi, resti di cibo, legno e via dicendo. Il carbonio 14 si forma soprattutto per l'azione dei raggi cosmici sugli atomi di carbonio presenti nell'atmosfera sotto forma di anidride carbonica (CO2), ed entra nel ciclo alimentare degli esseri viventi attraverso la sintesi clorofilliana. Quando un essere vivente muore, smette di assumere carbonio 14 che perciò, non essendo più rinnovato, comincia a diminuire.
In un primo tempo si pensava che il radiocarbonio fosse stato presente nell'atmosfera sempre in quantità costante. In realtà fattori diversi (per esempio le variazioni dell'attività solare) possono produrre, e hanno effettivamente prodotto nei millenni passati, diminuzioni o aumenti della sua presenza. Nell'ultimo secolo poi il consumo di una grande quantità di combustibile fossile (petrolio e carbone) ha prodotto un notevole aumento di carbonio nell'atmosfera, senza però apporto di carbonio 14, mentre le radiazioni prodotte dagli esperimenti nucleari nell'atmosfera (il cui effetto è assai simile a quello dei raggi cosmici) eseguiti da Americani e Russi negli anni Sessanta hanno provocato un enorme incremento di carbonio 14. Questi fattori hanno causato molte difficoltà per la datazione dei siti a cielo aperto (più esposti di quelli in caverna o di quelli sepolti) e per il calcolo delle percentuali di isotopi presenti in natura. Nelle datazioni al carbonio 14 si è scoperta una serie di errori: alcuni reperti, che contenevano alte dosi dell'isotopo in conseguenza della sua forte presenza nell'ambiente nel quale erano vissuti, risultavano molto più recenti di quanto fosse ragionevole pensare. Si è dunque imposta la necessita di una esatta calibratura del metodo del radiocarbonio; il confronto con datazioni sicure effettuate con metodi diversi ha permesso la compilazione di tabelle di correzione.
Un altro metodo, che è stato usato fra l'altro per la correzione delle datazioni col radiocarbonio, è quello dendrocronologico (dal greco dendros = «albero»). Si basa sullo studio degli anelli di accrescimento di alcuni alberi particolarmente longevi, come il pinus aristata, una pianta caratteristica delle Montagne Rocciose americane. Se si taglia il tronco di un albero, si vede che gli anelli formatisi annualmente durante la vita della pianta non sono tutti uguali; la loro dimensione e il loro colore dipende dalla maggiore o minore piovosità dell'anno di formazione. Dato che nessun anno è mai uguale all'altro, sovrapponendo le serie di anelli di vari alberi è possibile creare sequenze temporali molto precise, così che, quando in uno scavo si trova un pezzo di legno sufficientemente grande e ben conservato, si può controllare in quale punto della sequenza si collocano i suoi anelli di accrescimento.
Esistono poi analisi particolari che servono a datare particolari tipi di reperti. Per la ceramica, ad esempio, si può ricorrere alla «termoluminescenza», che consiste nel bruciare ad alta temperatura un campione di terracotta prelevato dal vaso da datare, misurando l'intensità luminosa prodotta dalla combustione. Nei minerali che costituiscono l'argilla e le sostanze aggiunte all'argilla per aumentare la sua consistenza (detti «degrassanti») rimangono «imprigionate» cariche di energia, di solito elettroni, che vengono liberate se sottoposti ad alte temperature. Nel corso del tempo altri elettroni restano presi dentro questi minerali, secondo un processo molto lento causato dalla radioattività naturale e da altri fattori. L'intensità della luce emessa durante l'analisi della termoluminescenza è proporzionale al tempo trascorso dalla cottura della ceramica costituisce l'azzeramento di questa sorta di «orologio». Purtroppo questo sistema si può usare quasi esclusivamente per determinare datazioni relative all'interno di un contesto, perché la quantità di energia intrappolata dentro i minerali è fortemente influenzata dalla radioattività naturale dell'ambiente in cui si trovano, consentendo di stabilire l'ordine temporale dei reperti di un deposito, ma non di riferirli alla scala temporale assoluta.
Altri sistemi di datazione si basano sul fatto che il polo magnetico terrestre non è sempre stato nello stesso posto, sicché piccole particelle di materiale metallico presenti, ad esempio, nell'argilla, bloccate dalla cottura, sono rimaste allineate con la vecchia posizione del polo magnetico. Nel caso in cui questi oggetti sono rimasti nella stessa posizione di quando sono stati cotti, si può capire a quando risalgono.
I metodi per il calcolo delle datazioni relative sono numerosi: molti si basano sul concetto dell'assunzione o della perdita di particolari sostanze nel corso del tempo, come l'uranio presente nell'acqua di dilavamento delle grotte che si fissa ai reperti ossei, o il fluoro che si scambia con alcuni elementi dei tessuti organici durante il processo di fossilizzazione, oppure ancora la perdita dell'azoto da parte del collagene presente nei tessuti connettivi (osso, corno, pelle, etc.). Altri metodi si basano sulla stratigrafia degli scavi, secondo il criterio che i reperti contenuti in uno strato sono più antichi di quelli trovati nello strato soprastante e più recenti di quelli sottostanti.

L'ERA GLACIALE

A partire da 3,2 milioni di anni fa circa il clima del nostro pianeta ha cominciato a cambiare gradualmente diventando da caldo e stabile, quale era stato per milioni di anni, freddo e fluttuante come è tuttora (anche se si tratta di fluttuazioni che, compiendosi a intervalli di migliaia di anni, non sono avvertibili nell'arco di una vita umana). In quel periodo, dunque, i ghiacciai polari iniziarono ad espandersi lentamente fino a provocare un abbassamento del livello del mare di circa 40 m; solo 2,5 milioni di anni fa, però, la mutazione climatica fu completa. Da allora c'è stata una successione di periodi freddi molto lunghi inframezzati da periodi più brevi caratterizzati da un clima più mite, più o meno come l'attuale. Il Quaternario, o Era Glaciale, si fa iniziare convenzionalmente circa 1,7 milioni di anni fa ed è suddiviso in Protoquaternario (1 milione di anni), Medio Quaternario (500.000 anni) e Tardo Quaternario (125.000 anni).
Le metodologie utilizzate per lo studio delle variazioni climatiche in un passato così remoto sono molteplici: le nostre conoscenze si basano essenzialmente sullo studio dei sedimenti dei fondali oceanici, dei pollini fossili e sulle successioni di strati di loess sulla terraferma. Le profondità marine dell'Atlantico hanno conservato perfettamente grandi quantità di plancton fossile; analizzando le proporzioni reciproche di due isotopi dell'ossigeno presenti nei gusci calcarei di questi microrganismi si può calcolare il volume di acqua ghiacciata nelle calotte polari. I pollini fossili, a loro volta, presentano un quadro abbastanza dettagliato della vegetazione, e quindi del clima, presente in un dato periodo nel luogo del rinvenimento; solitamente, anche in questo caso, si preferiscono i fondi dei laghi o del mare a causa della relativa stabilità nel tempo di tali ambienti. Il loess, infine, è la polvere portata dal vento che si accumula sul terreno in condizioni di clima freddo e ventoso, consolidandosi durante i periodi caldi grazie alla vegetazione da pascolo; la successione degli strati rispecchia quindi l'avvicendarsi di vari climi.
Durante il Protoquaternario le fluttuazioni tra periodi freddi, o glaciazioni, e periodi caldi, o interglaciali, sono state molto ridotte. Le differenze di temperatura tra una fase e l'altra si sono fatte molto più sensibili a partire da 800.000 anni fa circa.
Da allora si sono avuti periodi di freddo più intenso pressappoco ogni 100.000 anni con fluttuazioni minori (interstadiali) di 20-40.000 anni. Tradizionalmente si parla di quattro glaciazioni principali (Gunz, Mindel, Riss, Wurm, chiamate così dal nome delle località alpine dove furono identificate) e dei rispettivi periodi interglaciali (designati con i nomi dei periodi glaciali fra i quali si interpongono: così, l'interglaciale Mindel-Riss è il periodo caldo compreso tra la glaciazione di Mindel e quella di Riss). Questa suddivisione non è più affidabile, ma continua ad essere utilizzata come riferimento, anche perché non è ancora stata definita una sequenza alternativa precisa. Grosso modo negli ultimi 1,7 milioni di anni si riscontrano 17 cicli glaciazione-interglaciale con qualche variazione a seconda dei luoghi considerati.
Quello che in ogni caso si può notare è un progressivo accorciamento dei periodi dal clima stabile, caldo o freddo che sia, a favore di mutamenti sempre più rapidi (relativamente, s'intende, alla scala temporale di tali eventi, che è, come si è detto, di millenni). Quale sia la causa di questi mutamenti è problema tuttora molto discusso; fattori importanti pare che siano state da un lato le perturbazioni dell'orbita terrestre, e dall'altro la presenza nell'atmosfera di polvere vulcanica, la cui minore o maggiore concentrazione rispettivamente diminuisce o aumenta l'effetto serra atmosferico con conseguente diminuzione o aumento della temperatura.

LA PERIODIZZAZIONE DELLA PREISTORIA

La preistoria e la storia dell'umanità sono comunemente suddivise in periodi allo scopo di segnare le fasi più importanti del nostro sviluppo. Innanzitutto la preistoria si fa terminare quando compaiono i primi testi scritti. Nel Vecchio Mondo la scrittura comparve all'inizio del quarto millennio a.C. presso le antiche popolazioni della cosiddetta Mezzaluna fertile (dalla Siria all'Armenia fino alla Mesopotamia) e questo significa che mentre queste popolazioni entravano nella storia, altre restavano nella preistoria.
La preistoria si divide essenzialmente in due periodi, Paleolitico e Neolitico, con un breve intermezzo noto come Mesolitico; il Paleolitico è di gran lunga il periodo più lungo, iniziando con gli albori dell'umanità e terminando con la fine dell'ultima glaciazione più o meno 12.000 anni fa. Ciascuna di queste fasi è a sua volta suddivisa in sottoperiodi: si parla di Paleolitico inferiore (fino a circa 100.000 anni fa), medio (fino a 40.000 anni fa) e superiore e anche nel Neolitico si distingue un Neolitico inferiore, uno medio e uno superiore.
Solitamente le divisioni fra un periodo e l'altro coincidono con trasformazioni di portata tale da provocare un cambiamento rilevante nel corso degli eventi. Nel Paleolitico le fasi seguono l'evoluzione dei tipi umani, mentre in seguito l'attenzione è rivolta a eventi di tipo tecnologico: per esempio il passaggio dal Paleolitico al Neolitico è segnato dalla scoperta dell'agricoltura, e la fine del Neolitico dalla comparsa di manufatti in metallo. Esistono poi una quantità di suddivisioni ulteriori all'interno di ogni sottoperiodo, che prendono nome dalle culture caratteristiche di quel lasso di tempo. È ovvio che tali ulteriori suddivisioni sono fortemente dipendenti dalla regione scelta per costruirle.
Un problema analogo presenta l'avvento dell'età dei metalli, poiché la metallurgia è stata inventata in periodi diversi a seconda delle aree geografiche considerate.
Nell'area della Mezzaluna fertile il ferro compare già nel 1500 a.C., mentre in Italia nello stesso periodo si lavorava solo il bronzo (il ferro comparirà attorno al 900 a.C.). I più antichi oggetti metallici risalgono alla fine del V millennio a.C. in Europa (Balcani), mentre in Medio Oriente si arriva fino al VI millennio, con qualche eccezione più antica.

L'HOMO ERECTUS E IL PALEOLITICO INFERIORE

Nel secolo scorso, agli inizi della paleoantropologia, ogni volta che venivano scoperti fossili di ominide si pensava di aver individuato una nuova specie. Ciò è avvenuto per numerosi ritrovamenti che gli studiosi moderni attribuiscono invece ad una sola specie, quella dell'Homo erectus. La suddivisione in sottospecie diverse (pitecantropo, eurantropo, atlantropo, sinantropo, e via dicendo) è ancora utilizzata talvolta per comodità.
L'Homo erectus fa la sua prima comparsa più o meno 1,5 milioni di anni fa, probabilmente prodotto dall'evoluzione dell'Homo habilis che scompare in questo stesso periodo. È il momento della lenta diffusione del genere umano su vaste aree della superficie terrestre; i suoi fossili sono stati ritrovati in numerosi siti africani, in Cina (a Choukoutien presso Pechino), in India, a Giava, in Pakistan, e in diverse località dell'Europa. Il cranio dell'Homo erectus, la cui capacità va da 860 a 1280 centimetri cubi, è notevolmente più voluminoso di quello dell'habilis, tanto da raggiungere in alcuni casi il volume medio dell'uomo moderno, dal quale si differenzia essenzialmente per la struttura della mandibola ancora robusta e spostata in avanti.
Riguardo all'ambiente occupato da questo ominide, le testimonianze archeologiche descrivono un habitat di savana ricca d'acqua o di bosco aperto che veniva occupato con insediamenti probabilmente stagionali per permettere uno sfruttamento più razionale delle risorse della caccia e della raccolta. Resti di caccia organizzata a grossi mammiferi come l'elefante sono numerose in Spagna (a Torralba e Ambrona), mentre in Kenia sono state trovate le probabili tracce di una strage di babbuini. La caccia veniva praticata con lunghe lance di legno, alcune delle quali sono state scoperte in Sassonia. Anche il pesce rientrava nella dieta di allora, come dimostrano alcuni ritrovamenti. Tracce di raccolta di vegetali non sono frequenti, dato anche il facile deperimento di questi materiali, tuttavia a Choukoutien si trovano noccioli di ciliegia selvatica e in Zambia gli scavi hanno restituito semi commestibili e resti di noci.
Con l'avvento dell'Homo erectus si fa iniziare convenzionalmente il Paleolitico inferiore; l'industria caratteristica di questo periodo è detta «acheuleana» (dal nome di Saint Acheul, località della Francia dove fu identificata per la prima volta), ovvero «industria delle asce a mano», dal manufatto più comune. Le asce a mano sono strumenti ricavati dalla lavorazione bifacciale di una pietra, cioè dalla scheggiatura di due superfici contrapposte; nei tipi più evoluti tale scheggiatura invade tutto il ciottolo, fino ad ottenere una forma dal bordo tagliente dotata di una punta o di una lama opposta a una rotondità, simile alla testa di un'ascia. Per la loro forma caratteristica questi utensili sono chiamati anche «amìgdale», che in greco significa mandorle. Potevano essere branditi con facilità e utilizzati per uccidere prede, per macellarle, per incidere e spezzare il legno o simili.
La lavorazione bifacciale produceva anche altri tipi di utensili, come mannaie, «picconi», forme discoidali il cui uso ci è ignoto. Nel corso del tempo le tecniche di fabbricazione di questi strumenti sono migliorate, giungendo a realizzare utensili assai raffinati. Nell'Acheuleano evoluto la lavorazione avveniva anche su schegge staccate da un nucleo di selce. Questo nucleo veniva in precedenza preparato per ottenere scaglie di determinate dimensioni e forme. Con questo procedimento si potevano produrre diversi tipi di strumenti: lame, raschiatoi, punte e così via. Tale forma di artigianato raggiungerà però una qualità molto superiore durante il Paleolitico medio, riuscendo fra l'altro ad ottenere da uno stesso quantitativo di selce un numero maggiore di schegge lavorabili.
Complessi di manufatti acheuleani sono presenti, in un periodo che va da 1,4 milioni di anni fa (Olduway) a circa 200.000 anni fa (Kalambo Falls, Zambia), in un'area estesissima: dall'Inghilterra all'India, all'Africa meridionale. Tali complessi presentano varianti locali dovute alla diversa qualità della lavorazione o del materiale, ma sono tutti riconducili ad un unico modello. La precedente industria oldovana non scompare comunque con l'avvento dell'Homo erectus e dell'industria acheuleana; complessi oldovani o di tradizione oldovana continuano a comparire in Europa e in molte zone dell'Asia e dell'Africa fino a 800.000 anni fa circa.
Nell'Asia orientale sembra che l'industria dei choppers sia stata praticata più a lungo, forse a causa del materiale disponibile assai più scadente che altrove. A Choukoutien è stata identificata un'industria su ciottolo ancora rozza e in certo modo arretrata rispetto all'industria acheuleana. Va detto però che in questo sito sono state scoperte alcune fra le più antiche tracce di fuoco, risalenti a circa 450.000 anni fa. L'uso del fuoco è un'importante novità tecnologica di questo periodo; focolari sono presenti, oltre che nei siti cinesi, in Spagna, dove pare che il fuoco venisse usato per spaventare gli elefanti e spingerli su un terreno cedevole dove poi venivano uccisi e macellati. Insieme ad una produzione di strumenti litici relativamente intensa, con l'Homo erectus compaiono le prime testimonianze di sfruttamento intenzionale di risorse minerarie in rapporto a materiali come la selce, il basalto, l'ossidiana, lo scisto e così via. Ciò non vuol dire che fin d'allora esistesse una vera e propria attività specializzata basata, oltre che sull'estrazione, sullo scambio e sulla distribuzione della materia prima; è certo però che quei gruppi umani che hanno avuto la fortuna di trovare vene affioranti di questi minerali hanno dimostrato di saper utilizzare tali risorse. La distribuzione dei siti risalenti a questo periodo mostra come la diffusione dell'Homo erectus si fosse limitata ad aree dal clima caldo o mite. Solo più tardi, e grazie ad una superiore capacità di adattamento ambientale, l'uomo poté spingersi in regioni fredde. L'ostacolo non era costituito soltanto dal clima rigido, ma da tutto un complesso di condizioni che richiedevano all'uomo mutamenti sostanziali nelle abitudini alimentari, lavorative, ecc. Diverse erano in particolare le risorse disponibili: le regioni fredde a prevalente vegetazione erbacea, ad esempio, presentavano pascoli abbondanti e quindi erano ricche di selvaggina grossa, in particolare ruminanti, ma erano più povere di vegetali spontanei commestibili.

L'UOMO DI PECHINO

A Choukoutien presso Pechino si trova una delle più studiate stazioni abitate dall'Homo erectus. In una caverna di formazione carsica sottostante ad una collina i farmacisti cinesi per molto tempo trovarono un ingrediente importante per i loro medicamenti: le «ossa di drago», le quali altro non erano che denti e ossa fossili appartenenti a diversi animali ed anche a ominidi. Quando agli inizi del secolo alcuni studiosi occidentali ebbero occasione di osservare questi denti, capirono che doveva trattarsi di un giacimento importante di resti di ominidi.
Gli scavi iniziarono nel 1922 e durarono fino al 1966, portando alla luce i fossili di 40 individui maschi e femmine di ogni età insieme a migliaia di strumenti litici, ceneri di legna, e così via; il tutto risaliva ad un periodo durato circa 230.000 anni a partire da 460.000 anni fa, durante il quale l'uomo aveva abitato la grotta finché crolli interni e accumulo di detriti non l'avevano ostruita quasi completamente. In verità indagini recenti hanno stabilito che l'uomo ha fatto il suo ingresso nel sito più o meno tra 700.000 e 500.000 anni fa, ma gli studi sono stati condotti essenzialmente sul periodo che inizia 460.000 anni fa.
La grotta si era formata circa 5 milioni di anni fa allargandosi progressivamente fino a divenire abbastanza grande; a causa di una frana avvenuta circa 1,5 milioni di anni fa era entrato nella grotta il fiume Chou-Kou, iniziando a depositare all'interno ghiaia e detriti fluviali fino a formare un ampio piano orizzontale abitabile. Nello spessore di 40 m di detriti sono stati trovati i resti di un tipo di ominidi della specie Homo erectus già abbastanza evoluto dal punto di vista del volume cerebrale: la capacità cranica media degli individui ritrovati è di circa 1050 centimetri cubi, una delle più alte della specie. Nel corso dei 200.000 (e più) anni di insediamento a Choukoutien la grandezza del cervello è aumentata dai 1075 centimetri cubi dei crani più antichi (400.000 anni fa) ai 1140 centimetri cubi del più recente (230.000 anni fa).
Per quanto riguarda l'industria litica locale, gli studiosi hanno identificato essenzialmente tre tecniche di produzione di strumenti, le quali, insieme alle dimensioni e al peso degli utensili prodotti hanno permesso di dividere l'intera collezione in tre gruppi riconducibili a tre periodi fondamentali. La prima tecnica è detta «a percussione su incudine»: una pietra di notevoli dimensioni veniva posata a terra e colpita con forza con un blocco di arenaria per spaccarlo ed utilizzare le migliori schegge ottenute, magari dopo un leggero ritocco. Con un'altra tecnica detta «a percussione diretta» si usava un nucleo di selce tenuto in mano e scheggiato con un percussore di pietra: le schegge risultanti erano più regolari di quelle prodotte con la tecnica precedente. La terza tecnica «a percussione bipolare» consisteva nell'appoggiare verticalmente un pezzo di quarzo su una sorta di incudine spaccandolo con colpi dall'alto al basso, producendo in tal modo schegge molto minute provenienti dalle estremità del blocco di quarzo. Pare che le schegge fossero utilizzate talvolta senza essere ritoccate, ma compaiono in quantità i tipi del Paleolitico inferiore comunemente diffusi come asce a mano e bifacciali.
La prima delle tre fasi individuate fiorì fra 460.000 e 420.000 anni fa. Gli strumenti che la rappresentano sono oggetti voluminosi e pesanti prodotti indifferentemente con tutte e tre le tecniche descritte. Nella seconda fase, tra 370.000 e 350.000 anni fa, la tecnica «a percussione su incudine» fu praticamente abbandonata, mentre aumentarono considerevolmente gli strumenti prodotti con la «percussione bipolare»; diminuirono quindi le dimensioni degli utensili che divennero più raffinati.
Nell'ultima fase, da 300.000 a 230.000 anni fa, la qualità della produzione è nettamente superiore alle precedenti; anche la scelta del materiale si indirizza verso il quarzo più puro e verso la selce a sfavore del quarzo venato da impurità.
La tecnologia dell'uomo di Choukoutien comprendeva l'uso del fuoco. Non sappiamo se lo accendesse o lo conservasse soltanto; in ogni caso gli spessori di ceneri di legna che in alcuni punti della grotta raggiungono i 6 m testimoniano in modo inconfutabile la permanenza di focolari per un tempo molto lungo. Oltre alle piante che fornivano la legna da ardere, le analisi polliniche e i ritrovamenti mostrano la presenza di vegetazione commestibile come il nocciolo e il bagolaro cinese, i cui semi si possono mangiare abbrustoliti e sono stati rinvenuti carbonizzati, insieme a resti di bietola, noccioli di ciliegia selvatica, e così via.
[Figura: L'aumento della capacità cranica dell'uomo di Pechino (a sinistra), i cui resti sono stati rinvenuti nella grotta di Choukoutien, unitamente al miglioramento della fattura degli strumenti litici (a destra), testimoniano l'evoluzione avvenuta nel corso del tempo presso questa popolazione. Nel deposito archeologico interno alla caverna sono stati individuati 13 strati. La figura mostra che durante il periodo di insediamento la capacità cranica è aumentata di più di 100 metri cubi. L'industria litica del sito si divide in tre periodi: una fase più antica caratterizzata dalla prevalenza di strumenti voluminosi (in bianco) e da una minor quantità di oggetti di piccole e medie dimensioni (rispettivamente verde scuro e verde chiaro); una fase intermedia, in cui aumentano gli strumenti più piccoli (dimostrano fra l'altro una maggiore abilità nella lavorazione della pietra); infine una fase recente, in cui compaiono strumenti più complessi di piccole dimensioni, mentre i manufatti più grandi calano notevolmente.]
L'evoluzione dell'Uomo di Pechino


STORIA DEL FUOCO

L'importanza fondamentale del fuoco nella vita dell'uomo ed insieme il suo potere di distruzione hanno circondato questo elemento di un alone divino e misterioso. Nonostante il fatto che il fuoco sia stato usato da tempi antichissimi, l'interpretazione moderna di questo fenomeno fisico-chimico si è avuta solo nel XVIII secolo, con Lavoisier. Il fuoco è la manifestazione visiva della combustione, e si chiama combustione ogni reazione chimica relativamente veloce, con notevole produzione di calore, con o senza manifestazioni del tipo fiamme o radiazioni visibili. Reazioni caratteristiche di combustione sono quelle che avvengono tra certe sostanze, per esempio carbonio, idrogeno, zolfo, contenuti in materiali detti per questo «combustibili» e l'ossigeno contenuto nell'aria. Le fiamme sono costituite da gas incandescenti prodotti dalla combustione che si propagano nello spazio emettendo radiazioni visibili.
Tutti sappiamo che non basta mettere in contatto un materiale combustibile con l'aria per provocare una combustione: infatti la sedia su cui siamo seduti pur essendo fatta di un materiale combustibile, il legno, e pur trovandosi in contatto con l'aria, fortunatamente non brucia. Per iniziare il processo di combustione occorre che una quantità sufficiente di combustibile raggiunga una certa temperatura, propria di quel combustibile. Poiché le temperature di accensione dei più comuni materiali combustibili sono abbastanza elevate, il problema di accendere il fuoco ha presentato all'uomo primitivo serie difficoltà.
Si può immaginare che in origine l'uomo abbia raccolto e utilizzato a questo scopo tizzoni di incendi provocati da cause naturali e che abbia imparato prima a controllare la combustione, e poi a produrla. Nulla di sicuro tuttavia si può dire in proposito, anche perché non è affatto facile raccogliere il fuoco da incendi spontanei, e conservarlo è forse più difficile che produrlo. Non è detto, poi, che un gruppo umano, dopo aver acquisito una certa tecnica per accendere il fuoco, non possa dimenticarla. Pare che proprio questo sia il caso di quelle popolazioni attuali che, pur sapendo manipolare il fuoco, sono apparentemente incapaci di produrlo. Gli indigeni delle isole Andamane, per esempio, anziché accendere il fuoco preferiscono assicurare la continuità di quello esistente e anche quando si spostano si portano dietro tizzoni di legno a lenta combustione custodendoli con cura.
Esistono diverse tecniche per l'accensione del fuoco, tutte riconducibili a due tipi principali: lo sfregamento e la percussione. All'uomo primitivo, esperto nelle tecniche di lavorazione della pietra, doveva essere ben noto il fatto che l'urto tra due pietre dotate di certe caratteristiche (per esempio due selci o, meglio, una selce e un pezzo di pirite) può produrre scintille che possono appiccare il fuoco a materiali facilmente infiammabili, come muschio, esca, foglie e piccoli rami secchi che a loro volta lo trasmettono a combustibili a più alta temperatura di accensione.
Altrettanto antico doveva essere il sistema dello sfregamento, ancora oggi diffusissimo presso molti popoli primitivi. Se si sfregano rapidamente e a lungo due pezzi di legno, le particelle di segatura che si formano nella zona di contatto possono raggiungere una temperatura sufficientemente elevata da prendere fuoco. Portando rapidamente in contatto queste faville con del materiale facilmente infiammabile il fuoco può essere alimentato per il tempo necessario a incendiare legna grossa o altri combustibili di lunga durata. La difficoltà del metodo dello sfregamento sta nel riuscire a sfregare abbastanza rapidamente i due pezzi mantenendo localizzata la zona di contatto. Il dispositivo più efficiente da questo punto di vista è il trapano da fuoco, costituito da una bacchetta di legno duro che, premuta perpendicolarmente contro una tavoletta di legno più tenero, viene fatta ruotare rapidamente a mano, o, meglio, per mezzo di una cinghia tirata alternativamente in un senso e nell'altro, oppure per mezzo di un archetto.
Il fuoco poteva essere utilizzato dall'uomo primitivo in diversi modi: come fonte di calore e di luce, come arma e infine come strumento di trasformazione della materia. Anche se il possesso del fuoco non pare che sia stata una condizione necessaria alla colonizzazione da parte dell'uomo di regioni a clima freddo, senza dubbio l'ha resa più agevole. Gli uomini del Paleolitico superiore, oltre a riscaldarsi alla fiamma, sapevano conservare il calore ricoprendo i focolari con uno strato di ciottoli e pietrisco che funzionava da calorifero. Quale fonte di luce l'uso del fuoco è testimoniato, tra l'altro, dall'esistenza di pitture parietali in caverne nelle quali la luce del giorno non poteva arrivare: oltre alle sorgenti fisse (i focolari), venivano usate sorgenti mobili, ossia lampade (ricavate da pietre che presentavano concavità naturali o fabbricate ex-novo) e torce.
Come arma il fuoco è stato probabilmente utilizzato nella caccia per spaventare e dirigere le prede nel luogo voluto. Sicuramente è servito a proteggere gli accampamenti all'aperto e ha consentito la colonizzazione di grotte e caverne mediante l'eliminazione degli abitatori indesiderabili: orsi, iene, insetti, pipistrelli, serpenti. Secondo alcuni studiosi, senza una radicale disinfestazione con il fuoco le caverne non sarebbero mai diventate ambienti ospitali per l'uomo, per quanto tracce di tale operazione siano assai scarse.
Di grande interesse (e forse molto antica) è l'utilizzazione del fuoco nella lavorazione dei materiali e nella costruzione degli utensili. Il fuoco può servire, ad esempio, alla fabbricazione di lance o spiedi: la combustione parziale dell'estremità di un bastone permette di ottenere una buona punta mediante l'asportazione della parte esterna carbonizzata, mentre la parte interna diventa più dura e resistente per effetto del calore. Il calore serve anche a raddrizzare o rettificare la curvatura di corna o ossa, allo scopo di ricavarvi arpioni, lance, aste. Nella lavorazione della pietra, il fuoco può essere usato (e pare che lo sia stato sin da tempi remoti) per frantumare grossi blocchi non attaccabili con altri mezzi, mentre il semplice riscaldamento dei noduli di selce rende più facile il distacco di schegge o lame: questo fatto, insieme al bisogno di luce e di calore da parte dei tagliapietra paleolitici, potrebbe spiegare perché i luoghi di lavorazione della selce si trovano frequentemente in prossimità di focolari.
La trasformazione della materia più significativa per l'evoluzione fisica e culturale degli uomini tra tutte quelle ottenute per mezzo del fuoco è probabilmente la cottura del cibo. La cottura sterilizza gli alimenti e li rende più digeribili ed ha certamente avuto effetti di qualche rilievo sullo sviluppo biologico dell'uomo. Ma soprattutto, la pratica della cottura ha imposto ai gruppi che l'hanno adottata un'organizzazione delle attività quotidiane strettamente condizionata dai tempi necessari alla raccolta del combustibile, alla preparazione del focolare, alla vera e propria cottura, e infine alla consumazione del pasto in comune, un sorta di rito, quest'ultimo, che, come si è detto, in tutte le culture ha finito con il caricarsi di valori e di significati simbolici (solidarietà, amicizia, ecc.) e che l'uso del focolare ha certamente rafforzato.
Nonostante l'importanza della cottura del cibo nella cultura dell'uomo, è molto difficile stabilire con sicurezza quando quest'uso è cominciato. Per tutto il Paleolitico non ci sono testimonianze archeologiche che provino l'uso di cuocere cibi vegetali. Quanto alla carne, nei focolari di quel periodo si ritrovano in gran quantità ossa bruciate, che però non necessariamente stanno a dimostrare la pratica della cottura: le ossa, infatti, erano spesso usate come combustibile, al pari della legna, e non sempre è possibile distinguere i modi della combustione. È probabile comunque che l'uso di cuocere la carne fosse diffuso già nel Paleolitico medio.
Anche sui modi di cottura ci si deve limitare a formulare delle ipotesi. La carne poteva essere facilmente arrostita alla fiamma o sulla brace per mezzo di uno spiedo di legno, o poteva essere lasciata a cuocere lentamente in un mucchio di cenere o di pietre precedentemente riscaldate. Non è escluso però che fosse anche bollita: nel Paleolitico non c'erano recipienti di ceramica che potessero essere esposti direttamente al fuoco, ma era possibile portare al punto di ebollizione l'acqua contenuta in un recipiente di pelle o di scorza immergendovi pietre riscaldate nel focolare.

ACCIARINI E FIAMMIFERI

Il metodo della percussione per l'accensione del fuoco è restato in uso fino ai nostri tempi (basta pensare agli accendini a pietrine). In antico lo sviluppo della tecnologia del ferro aveva reso disponibili leghe simili all'acciaio capaci di produrre nella percussione scintille più copiose e più calde di quelle prodotte da due pietre. L'acciarino (come indica il nome stesso) è un piccolo strumento di acciaio che si batteva sulla pietra focaia (una varietà di calcedonio, formata di quarzo misto a silice) per trarne scintille e accendere l'esca (e quindi il fuoco). Il sistema acciarino-esca è rimasto d'uso corrente sino all'introduzione dei fiammiferi. L'esca (che non va confusa con i bocconcini che i pescatori infilano sull'amo per indurre i pesci ad abboccare) è una sostanza vegetale ottenuta facendo seccare la polpa di certi funghi parassiti delle piante. La raccolta e la preparazione dell'esca è stata fino al secolo scorso un'attività economica importante per le popolazioni che traevano almeno in parte le proprie fonti di reddito dallo sfruttamento dei boschi. Anche nelle antiche armi da fuoco per incendiare la polvere si faceva ricorso al sistema acciarino-pietra focaia-esca.
La l'orma più moderna di accensione basata sullo sfregamento è il fiammifero, il cui uso si è diffuso a partire dal 1830 circa. I fiammiferi tradizionali sono stecchini di legno impregnati a una estremità di zolfo (sono detti infatti «zolfanelli») e rivestiti da una capocchia formata da una miscela di fosforo giallo e di clorato di potassio. Sfregando la capocchia su una superficie ruvida il fosforo si accende e comunica l'accensione allo zolfo e quindi allo stecchino di legno. Questi zolfanelli sono però pericolosi perché troppo facili ad accendersi e velenosi per la presenza del fosforo giallo. I fiammiferi di sicurezza o «svedesi» hanno una capocchia priva di fosforo, che è presente invece nella pasta che ricopre il lato della scatola su cui si devono sfregare per accenderli.

LA NASCITA DEL LINGUAGGIO

Già gli antichi si erano domandati quale fosse stata la prima lingua parlata dall'uomo. Erodoto riferisce che Psammetico, re dell'Egitto, aveva fatto un esperimento in proposito: aveva preso un neonato e lo aveva segregato, facendolo crescere cioè lontano da qualunque contatto umano, per vedere quale sarebbe stata la prima parola che avrebbe pronunciato. Il bambino un giorno disse «bekòs», al che tutti i sapienti della corte cercarono di capire a quale lingua appartenesse questa parola e scoprirono che in frigio, antica lingua parlata in una regione dell'Asia minore, «bekòs» significava «pane»; da questo dedussero che la prima lingua parlata dall'uomo fosse il frigio.
In realtà le cose non sono così semplici e i dotti della corte di Psammetico avevano preso un granchio. Innanzi tutto la capacità di comunicare nell'uomo è sì ereditaria, ma non lo è il linguaggio in sé. Ciò vuol dire che noi ereditiamo dai nostri genitori la possibilità di parlare, ma non la loro lingua, che viene appresa durante i primi anni di vita per effetto di imitazione e di addestramento: un bambino che non sente parlare non parlerà mai. In secondo luogo è molto difficile che i primi uomini parlassero tutti la stessa lingua, anzi è assai più probabile il contrario.
La capacità di parlare dipende da alcune caratteristiche anatomiche, e le testimonianze fossili di cui disponiamo, ossia i crani degli ominidi, sono state oggetto di attenti studi per individuare il momento in cui queste caratteristiche sono comparse. Purtroppo per quanto riguarda la conformazione della bocca e della faringe gli unici resti utilizzabili non risalgono a più di 200.000 anni fa, un'età molto recente in rapporto alla durata della preistoria umana. I risultati ottenuti suggeriscono comunque una certa inefficienza negli apparati vocali dei nostri antenati neanderthaliani. È risultato, ad esempio, che dal punto di vista anatomico il fossile di Steinheim, che risale a 200.000 anni fa, era più dotato dei neanderthaliani, disponeva cioè di una struttura della bocca e della faringe più adatta a pronunciare una vasta gamma di suoni diversi.
Qualche studioso ne ha tratto la conclusione che i neanderthaliani non possedessero un linguaggio articolato e che proprio in questo consistesse la ragione più importante della loro inferiorità rispetto all'Homo sapiens sapiens e quindi la causa della loro rapida scomparsa. Il fatto che i neanderthaliani facessero fatica a pronunciare alcune vocali e a emettere alcuni suoni dimostra però soltanto che per parlare non è necessario disporre di un vocabolario sonoro molto vasto: l'uomo di Neanderthal era dotato di una capacità cranica a volte superiore alla nostra, praticava il culto dei morti, disponeva di una cultura materiale estremamente complessa ed articolata, e tutto ciò fa pensare che fosse perfettamente in grado di parlare. Non bisogna dimenticare che anche al giorno d'oggi esistono lingue che non fanno uso di alcuni suoni, senza per questo essere meno funzionali delle altre.
Un collegamento molto più diretto pare che esista tra la conformazione di alcuna aree del cervello e le funzioni legate alla parola. Da questo punto di vista è più facile condurre gli studi, grazie al fatto che le testimonianze relative alla forma del cervello sono più comuni anche per tempi molto antichi; disponiamo infatti dei calchi endocranici di molti tipi ominidi.
Già con la comparsa dell'Homo habilis, circa 2,5 milioni di anni fa, il cervello umano iniziò a mostrare formazioni asimmetriche, caratteristiche della nostra specie, nelle zone della corteccia cerebrale dedicate al controllo del linguaggio. Inoltre con questo ominide compaiono anche i primi manufatti, che, per quanto elementari possano essere, stanno a dimostrare l'esistenza di una certa cultura. Si suppone ad esempio che per costruire un utensile in pietra sia richiesta un'intelligenza capace di pensare il manufatto prima di produrlo, analoga a quella necessaria per l'uso del linguaggio, in cui la frase deve essere organizzata in modo coerente prima di essere pronunciata. È quindi probabile che l 'Homo habilis disponesse di un linguaggio funzionale, anche se non sofisticato come il nostro.