Patol. - Termine utilizzato in passato per indicare una
delle caratteristiche dell'infiammazione, il turgore dovuto all'edema flogistico
del tessuto o dell'organo interessato. ║ Più in generale, nome
attribuito a qualsiasi alterazione morbosa a carico di un organo, che si
manifesti con un aumento del volume di quest'ultimo, come nel caso del
t.
bianco (o artrite tubercolare del ginocchio), del
t. da parto e del
t. di milza, quest'ultimo osservabile in malattie infettive quali il tifo
addominale o in specifiche sindromi cosiddette splenomegaliche. ║ Con
significato più specifico, termine con cui si definisce una neoformazione
di tessuto provocata dalla proliferazione incontrollata e aberrante di cellule
atipiche, profondamente modificate rispetto a quelle normali. La malattia
tumorale presenta le seguenti caratteristiche:
anaplasia, ovvero mancanza
della normale differenziazione cellulare;
autonomia, per cui la crescita
delle cellule neoplastiche è totalmente svincolata dai meccanismi di
regolazione che intervengono nell'organismo sano;
clonalità, in
base alla quale nella maggior parte dei casi il
t. origina da una singola
cellula mutata, che prolifera fino a formare un ammasso (o clone) di cellule
neoplastiche tutte uguali fra loro;
diffusione metastatica, ovvero la
capacità delle cellule neoplastiche di proliferare in modo potenzialmente
illimitato, invadendo i tessuti circostanti e diffondendosi anche a distanza.
║
Caratteristiche e proprietà delle cellule tumorali (o
trasformate): le cellule tumorali presentano caratteristiche morfologiche
e strutturali diverse da quelle delle cellule sane da cui derivano e tale
diversità diventa ancora più evidente nei
t. maligni. Le
cellule neoplastiche sono meno differenziate rispetto alle altre e le loro
caratteristiche fenotipiche mutano nel tempo in base alla variabilità
genotipica. Sono cellule soggette a una crescita molto rapida e hanno una forma
per lo più tondeggiante, dovuta alle continue divisioni mitotiche. Spesso
sono ricoperte da protuberanze o bolle (la percentuale di cellule in mitosi
è un indice clinicamente importante sia in fase di diagnosi sia in quella
di prognosi). Il citoscheletro è disorganizzato, il rapporto fra nucleo e
citoplasma è elevato, i nucleoli assai evidenti e le strutture interne
sono relativamente poco specializzate. I cromosomi, inoltre, presentano anomalie
di numero e di struttura e nel complesso le cellule sono soggette ad alterazioni
metaboliche. Le cellule maligne talvolta mostrano il fenomeno della delezione di
enzimi, ovvero la mancanza di enzimi specifici nel loro corredo enzimatico.
Molto spesso le cellule tumorali producono proteine strutturali (come ad esempio
gli antigeni di superficie TAA) ed enzimatiche diverse, alcune delle quali
consentono loro di sviluppare proprietà e comportamenti alterati rispetto
a quelli delle cellule sane: esse sintetizzano, ad esempio, enzimi capaci di
degradare il collagene e le altre proteine della lamina basale sulla quale
poggiano, sono prive dei processi di controllo della crescita, proliferano
indipendentemente dai fattori di crescita e sono in grado di eludere la
sorveglianza del sistema immunitario. Le caratteristiche delle cellule tumorali
possono essere studiate più facilmente mediante l'utilizzo di colture
in vitro: le cellule in coltura presentano parametri di crescita ben
definiti, sia che si trovino in una fase di crescita attiva (
fase log)
sia che siano quiescenti (
fase di plateau), possono essere manipolate
geneticamente, nonché trattate con vari tipi di agenti cancerogeni. Le
principali caratteristiche delle cellule tumorali in coltura sono: la perdita
della capacità di arrestare la crescita e dell'inibizione da contatto, la
modificazione della quantità e del tipo di proteine sulla superficie
cellulare, l'aumento del trasporto del glucosio, la ridotta richiesta di fattori
di crescita nel terreno di coltura, la capacità di dare origine a
t. se iniettate in ceppi di topi privi di risposta immunitaria. Il
complesso di questi cambiamenti è chiamato
trasformazione
neoplastica o semplicemente
trasformazione. Sebbene le cellule
neoplastiche, e in particolare quelle maligne, vadano incontro a cambiamenti
strutturali e funzionali progressivi, esse mantengono tuttavia un numero
sufficiente di caratteristiche del tessuto dal quale originano e vengono
classificate, in sede diagnostica e prognostica, sulla base delle relazioni che
le legano al corrispondente tessuto di appartenenza (
grading delle
cellule neoplastiche). ║
Classificazione: i
t. vengono
distinti in
benigni e
maligni a seconda delle caratteristiche
biologiche e morfologiche che ne determinano il grado di aggressività. I
primi non mettono a rischio la vita, si accrescono lentamente per espansione,
sono delimitati esternamente da una capsula fibrosa, non danno metastasi,
restano nella sede in cui si sono originati e possono essere asportati
chirurgicamente provocando la guarigione completa del paziente. Al contrario, le
neoplasie maligne sono caratterizzate da una rapida proliferazione di cellule
aventi un grado di maturità variabile (molto spesso assai immature),
dalla mancanza di una capsula fibrosa esterna, dall'accrescimento invasivo e non
espansivo, dall'infiltrazione progressiva dei tessuti e degli organi
circostanti, dalla capacità di dare origine per disseminazione o per
penetrazione, attraverso i vasi sanguigni o quelli linfatici, a metastasi anche
molto lontane dalla sede primitiva d'insorgenza. Esse inoltre sono
caratterizzate dalla capacità di provocare un'alterazione radicale della
struttura degli organi colpiti e un decadimento organico generale (cachessia
tumorale) che già di per sé può essere causa di morte. I
t. benigni prendono spesso il nome dal tessuto o dall'organo dal quale
originano. Sono detti
adenomi i
t. che derivano dagli epiteli
ghiandolari,
leiomiomi e
rabdomiomi quelli che originano
rispettivamente nella muscolatura liscia e striata,
fibromi,
cheloidi,
lipomi,
xantomi,
mixomi,
condromi e
osteomi quelli dei singoli tipi di tessuto connettivo,
angiomi quelli
di derivazione vascolare (
emangioma o
linfangioma, rispettivamente
da vasi sanguigni o da vasi linfatici),
meningiomi quelli che originano
nelle meningi,
neurinomi o
neurofibromi quelli del sistema
nervoso. Nel caso degli epiteli di rivestimento, le neoplasie benigne prendono
il nome dalla propria particolare conformazione e in base ad essa vengono
chiamati:
verruche,
condilomi,
polipi e
papillomi.
Come accade in altre malattie, i
t. benigni, infine, possono essere
indicati col nome dello scienziato che, più degli altri, ha contribuito
alla loro conoscenza. A seconda dell'origine embriologica dei tessuti colpiti, i
t. maligni, come già detto caratterizzati da invasività e
diffusione accentuate, si distinguono in epiteliomi, carcinomi e adenocarcinomi,
se derivano dall'ectoderma e dall'endoderma, e in sarcomi, se originano dal
mesoderma. In particolare, i
t. epiteliali maligni sono chiamati
epiteliomi (nelle varietà a cellule squamose, a cellule basali, a
cellule indifferenziate, a melanociti, adamantinomi, craniofaringiomi,
epiteliomi delle vie urinarie, epiteliomi a cellule cilindriche delle mucose
dell'apparato digerente, delle vie aeree, dell'utero e delle trombe di
Falloppio) se derivano da epiteli di rivestimento,
carcinomi (a loro
volta suddivisi, in base ai rapporti tra tessuto neoplastico e stromale, in
midollari e scirrosi) o
adenocarcinomi (di cui i più frequenti
sono quello della mammella, del rene, della prostata, dello stomaco, del collo e
del corpo dell'utero e della tiroide) se si sviluppano da epiteli ghiandolari. I
sarcomi,
t. maligni dei connettivi e degli organi mesenchimali in
genere, si distinguono in:
fibrosarcomi,
liposarcomi,
mixosarcomi,
condrosarcomi,
osteosarcomi, rispettivamente
dei connettivi fibroso, adiposo, mucoso, cartilagineo e osseo;
osteoclastomi, derivanti dagli osteoclasti;
endoteliomi o
sarcomi blastici dei vasi (nelle varianti emangioendoteliomi e
linfangioendoteliomi), derivanti dall'endotelio vasale;
periteliomi,
riferiti alla tunica avventizia;
angiosarcomi, dovuti alla
degenerazione maligna di un angioma. I sarcomi comprendono inoltre i
mesoteliomi,
t. che derivano dalla proliferazione del rivestimento
delle grandi cavità sierose (pleurica e peritoneale), i
leiomiosarcomi e i
rabdomiosarcomi, che interessano
rispettivamente il tessuto muscolare liscio e quello striato, le
leucemie, ovvero
t. blastici del tessuto ematopoietico, e i
linfomi (Hodgkin, non Hodgkin, di Burkitt) dei sistemi
reticoloendoteliale e linfatico. ║
Fattori di rischio: lo sviluppo
di una neoplasia è il risultato di un'interazione complessa di fattori
(origine multifattoriale dei
t.), in parte interni all'organismo e in
parte esterni ad esso, e dipende da una serie di cause che a oggi sono state
comprese soltanto in parte. Sono sicuramente coinvolti nella genesi della
malattia tumorale
fattori ambientali,
fattori genetici,
alcuni
virus e
fattori comportamentali. ║
Fattori ambientali:
sono ormai centinaia le sostanze cancerogene (o mutagene), prevalentemente di
natura chimica ma anche fisica, individuate con certezza o con sufficiente
probabilità. Tra gli agenti chimici più noti si ricordano: la
fuliggine (responsabile del cancro dello scroto degli spazzacamini); il catrame
(causa di epiteliomi, sarcomi, leucemie,
t. del sistema nervoso centrale
e polmonari), il cui potere oncogeno è dovuto ad alcuni idrocarburi
policiclici aromatici (come il benzopirene, il dibenzantracene, il
metilcolantrene) in esso contenuti; l'anilina e alcuni suoi derivati, capaci di
indurre
t. benigni e maligni in diversi organi e tessuti; i coloranti
azoici (dimetilamminoazobenzene); le sostanze alchilanti (iprite, azotoiprite,
dialchilamminostilbeni), cosiddette per la loro proprietà di legare
gruppi alchilici a determinati composti, in grado di determinare sarcomi,
fibroadenomi, colangiomi e adenomi polmonari. L'elenco completo e aggiornato
delle sostanze chimiche che possono essere associate a
t. nell'uomo
è pubblicato a cura dell'Organizzazione Mondiale della Sanità
dall'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC). Nel documento gli
agenti chimici sono divisi in quattro categorie: sostanze con evidenze di
cancerogenicità sufficiente (arsenico, amianto, benzene, cromo, vinile,
catrame, fuliggine, ecc.), limitata (aflatossine, cadmio, nickel, berillio,
ecc.), inadeguata (cloramfenicolo, cloroprene, DDT, exaclorocicloesano, oli
isopropilici, piombo, tricloroetilene, ecc.) e assente. In base alla loro
capacità di indurre neoplasie, essi si distinguono in agenti
ad azione
diretta, meno numerosi, elettrofili e in grado di reagire con i gruppi
carichi negativamente di altre molecole, e quelli
ad azione indiretta (la
maggior parte), che richiedono l'attivazione metabolica per poter esplicare la
loro azione. In entrambi i casi tali sostanze, che agiscono come agenti
mutageni, hanno come bersaglio il DNA e sono in grado di indurre, nella sequenza
nucleotidica, mutazioni che vengono ereditate dalle cellule delle generazioni
successive. I
cancerogeni fisici comprendono: fattori meccanici (ferite,
traumi), fattori termici (congelamento, ustioni, applicazioni di caldo ripetute
per lungo tempo), radiazioni ultraviolette e radiazioni ionizzanti, ovvero raggi
X e particelle atomiche. Anche le radiazioni, al pari degli agenti chimici,
hanno come bersaglio il DNA, ma mentre quelle ultraviolette (responsabili dei
carcinomi della cute) provocano, come danno principale, la formazione di dimeri
di timina ed esercitano il loro effetto mutageno durante i processi spontanei di
riparazione del DNA, quelle ionizzanti, responsabili della leucemia, provocano
rotture del DNA ed esplicano il loro effetto direttamente in fase di
irradiazione. Nei fattori ambientali rientrano anche i
fattori
occupazionali, responsabili dei
t. attribuibili a cancerogeni
presenti nell'ambiente di lavoro (asbesto, catrame, ecc.), e gli inquinanti
urbani come lo smog, il cui effetto è amplificato dal possibile
sinergismo con il tabacco. ║
Fattori genetici:
il ruolo
esercitato da questi fattori nella dinamica dello sviluppo di una neoplasia
è assai complesso e tutt'oggi solo parzialmente compreso. È ormai
chiaro che alla base del processo di trasformazione di una cellula sana in una
cellula neoplastica c'è un “guasto” nel meccanismo che regola
la duplicazione cellulare: ciò significa che, a un certo momento, nel DNA
della cellula si verifica, spontaneamente o in seguito all'azione di agenti
ambientali chimici o fisici, a un'infezione virale, al riarrangiamento
cromosomico o a un fenomeno di amplificazione genica, una lesione (o mutazione)
primaria a carico di un gene, che viene ereditato dalle cellule figlie. Nel
tempo questa prima lesione può essere seguita da altri
“guasti” causali, o lesioni secondarie, che, se non vengono
opportunamente riparati dai meccanismi preposti, possono portare allo sviluppo
di una cellula neoplastica (
trasformazione neoplastica) e quindi alla
formazione di un
t. (
progressione tumorale). I geni le cui
alterazioni risultano legate allo sviluppo tumorale sono: gli
oncogeni e
gli
antioncogeni, più noti come geni
oncosoppressori. I
primi normalmente non sono responsabili del cancro, ma portano l'informazione
necessaria per la sintesi dei fattori di crescita cellulari, dei loro recettori,
dei trasduttori coinvolti nella proliferazione e di alcune proteine nucleari in
grado di interagire direttamente con il DNA. Essi quindi svolgono un'azione di
stimolo sulla divisione delle cellule. L'alterazione strutturale di uno o
più oncogeni (attivazione genica) espone la cellula a una proliferazione
incontrollata e la rende insensibile ai meccanismi di retroinibizione che
normalmente ne controllano la duplicazione. Questo è ciò che
accade, per esempio, all'oncogene
erb-B coinvolto nello sviluppo di
alcuni
t. di origine epiteliale, all'oncogene
abl coresponsabile
della leucemia mieloide cronica e alla famiglia degli oncogeni
ras,
coinvolti nello sviluppo di numerose neoplasie umane fra cui i carcinomi del
colon, del pancreas e del polmone. Affinché però le cellule
diventino neoplastiche, non basta che sovrastimolino i loro meccanismi di
induzione della crescita, ma devono anche aver subito delle modificazioni tali
da renderle capaci di eludere o ignorare i segnali di inibizione della crescita
prodotti dalla cellula stessa o emessi dalle cellule normali vicine. Ciò
avviene quando si produce una mutazione in uno o più geni
oncosoppressori, geni che normalmente inibiscono la divisione cellulare. Tra i
geni oncosoppressori attualmente più noti: il gene
RB, coinvolto
nello sviluppo del retinoblastoma, le cui mutazioni inattivanti sono in grado di
conferire una suscettibilità ereditaria a questa forma di
t., e il
gene
p53, alle cui mutazioni sono correlati più di 30 tipi diversi
di
t. Mentre le mutazioni negli oncogeni sono di tipo dominante, per cui
basta l'alterazione di un solo allele per indurre la trasformazione del gene,
quelle a carico dei geni oncosoppressori sono per lo più recessive e come
tali provocano la trasformazione oncogena solo quando interessano entrambi gli
alleli del gene. Quanto fin qui esposto dimostra che per lo sviluppo di un
t. non è sufficiente la mutazione di un singolo gene, ma è
richiesta la cooperazione di più geni con effetti complementari. A tale
cooperazione spesso sono accoppiati altri meccanismi di origine non
necessariamente genetica, come processi epigenetici e agenti chimici e fisici.
È bene precisare infine che in una cellula l'acquisizione di caratteri
neoplastici non è per forza seguita dall'immediato sviluppo
dell'attività proliferativa: ciò significa che il primo evento
determinante l'induzione delle caratteristiche neoplastiche (
iniziazione)
e la moltiplicazione cellulare (
promozione) sono fasi distinte e che tra
loro può trascorrere anche molto tempo. ║
Virus a DNA e a RNA
(altrimenti detti
retrovirus): numerosi e molto vari sono i virus che
causano
t. benigni e maligni sia nell'uomo sia in varie specie animali e
che sono in grado di produrre neoplasie se inoculati in animali da esperimento.
È stato stimato che tali microrganismi sono implicati, in cooperazione
con altri agenti, in almeno il 15-20% della patologia neoplastica, svolgendo
un'azione patogena di tipo oncogeno sulle cellule
in vivo e inducendo la
trasformazione cellulare
in vitro. Poxvirus, herpesvirus, adenovirus,
papova, papillomavirus, poliomavirus e hepadnavirus sono i virus a DNA
maggiormente coinvolti nello sviluppo delle neoplasie. I principali virus
implicati nella oncogenesi umana sono: il virus di Epstein-Barr, a DNA,
appartenente alla famiglia degli herpesvirus, che interviene sia nel linfoma di
Burkitt sia nel carcinoma nasofaringeo; il virus dell'epatite B, anch'esso a
DNA, appartenente alla famiglia degli hepadnavirus, responsabile principalmente
dell'epatite da siero umana e correlato all'insorgenza di
t. al fegato;
il papillomavirus, a DNA, implicato sia nella formazione delle verruche sia
nell'insorgenza di
t. maligni come il carcinoma del collo dell'utero
(HPV); gli HTLV I e II (dall'inglese
Human T-cell Leukemia Virus), virus
a RNA responsabili, rispettivamente, della leucemia umana a cellule T e di
quella a cellule capellute; l'HIV, ovvero il virus a RNA responsabile dell'AIDS,
in quanto provoca nei soggetti affetti una spiccata suscettibilità
all'insorgenza di numerosi tipi di neoplasia fra i quali il sarcoma di Kaposi e
alcuni linfomi. ║
Fattori comportamentali: tra i fattori di rischio
legati al comportamento, il tabacco, l'alcool e la dieta giocano un ruolo di
primo piano. Il fumo di sigaretta determina l'80-90% dei
t. al polmone e
contribuisce in modo significativo (circa il 75%) ai
t. dell'esofago,
della laringe, del cavo orale e probabilmente della vescica, del pancreas e del
rene. Nei Paesi occidentali, tra l'altro, il fumo è responsabile di circa
il 30% dei decessi per
t. Anche l'alcol, responsabile di alcune neoplasie
del cavo orale, della faringe, della laringe, dell'esofago e del fegato,
lavorando spesso in concomitanza con il tabacco fa registrare un tasso di
mortalità che in Italia raggiunge il 4%. Nei Paesi industrializzati la
dieta determina tra il 20 e il 50% di tutti i
t. In particolare essa
gioca un ruolo determinante nelle neoplasie del tratto digerente, ma anche di
altri organi quali la mammella, i polmoni, i genitali femminili e la prostata.
Gli individui obesi o in sovrappeso sono più esposti al rischio di
t. della mammella in postmenopausa, del corpo dell'utero e della
colecisti. ║
Epidemiologia: lo studio dell'andamento nel tempo e
della distribuzione geografica dei
t. si basa, come per altre patologie,
sulla valutazione di due principali parametri: l'
incidenza, ovvero la
frequenza di nuovi eventi diagnosticati o di morti accertate in uno specifico
lasso di tempo e all'interno di una determinata popolazione, e la
prevalenza, cioè la frequenza di una certa neoplasia in una
determinata popolazione e in un particolare momento, entrambe solitamente
espresse rapportate a 100.000 abitanti. Le informazioni più attendibili
relative a questi due parametri provengono da appositi registri in cui vengono
sistematicamente raccolti i dati relativi ai casi di
t. diagnosticati
nella popolazione in esame. Le indagini epidemiologiche condotte nell'ultimo
ventennio del XX sec. hanno valutato attentamente le variazioni geografiche e
cronologiche dei vari
t., consentendo così di risalire al ruolo
esercitato dall'ambiente e dalle abitudini di vita nella genesi di queste
patologie. A questo riguardo la constatazione delle macroscopiche variazioni
nella frequenza con cui si manifestano tutti i
t. più comuni nelle
diverse popolazioni ha portato alla conclusione che buona parte di essi sia
dovuta a cause ambientali, conclusione dalla quale deriva l'importanza di
stabilire strategie di prevenzione verso i fattori di rischio significativi
individuati nelle indagini epidemiologiche. Queste ultime hanno dimostrato
chiaramente che in Europa, quindi anche in Italia, negli ultimi decenni del XX
sec. l'incidenza dei
t. è aumentata, con una media continentale di
circa 276 casi annuali per 100.000 abitanti (in particolare 276 nei maschi e 194
nelle donne). Le cause di questo incremento sono in parte da attribuire a un
innalzamento dell'età della popolazione, con conseguente incremento del
numero dei soggetti maggiormente passibili di sviluppare una neoplasia. Dagli
inizi degli anni Novanta, tuttavia, si è osservata globalmente una
riduzione dei tassi di mortalità, dovuta al ruolo più determinate
della prevenzione, alla messa a punto di terapie sempre più mirate ed
efficaci, alla migliore conoscenza e a una più precisa quantificazione
delle cause e al loro controllo. All'inizio degli anni Novanta i Paesi europei a
più basso rischio in entrambi i sessi sono stati il Portogallo, la Spagna
e la Grecia, mentre quelli a più alto rischio sono risultati quelli della
fascia centro-orientale. Nei maschi le sedi anatomiche più colpite sono
il polmone, il colon-retto, la prostata, lo stomaco e la vescica, e nelle donne
la mammella, il colon-retto, il polmone, seguiti dallo stomaco, il collo
dell'utero e l'ovaio. In entrambi i sessi sono diffusi inoltre il carcinoma
della cute, assai frequente ma anche più facilmente guaribile, le
leucemie, i
t. del sistema linfatico, del fegato, del pancreas e
dell'encefalo. ║
Prevenzione:
la prevenzione della malattia
neoplastica si articola su due livelli diversi e complementari, rappresentati
dalla
prevenzione primaria e da quella
secondaria. La prima, che
mette in opera strategie profilattiche volte a impedire la comparsa del
t., comprende l'individuazione dei fattori di rischio e, nei limiti del
possibile, la loro rimozione. Le misure preventive contro l'insorgenza delle
neoplasie sono ovviamente più facili da adottare quando attengono alla
sfera personale dell'individuo (diminuzione del consumo di sigarette, limitata
esposizione al sole, controllo del peso corporeo, assunzione di un dieta varia,
ricca di frutta, verdura e cereali integrali e povera di grassi, carni rosse,
cibi conservati mediante salatura, affumicatura, accompagnata da un moderato
consumo di alcool), mentre diventa assai più complesso l'intervento
preventivo sull'ambiente di vita e di lavoro, che purtroppo nasconde numerose
difficoltà legate non soltanto al controllo degli inquinanti cancerogeni
diffusi nell'ambiente (la cui eliminazione richiede una politica di difesa
ecologica a livello dei singoli Governi e degli organismi internazionali) ma
anche all'individuazione e alla rimozione dei fattori di rischio di origine
fisica, chimica e biologica normalmente presenti. Oltre che con la riduzione
drastica del numero delle sostanze cancerogene a cui gli individui vengono
esposti, un'efficace prevenzione primaria può essere ottenuta attraverso
un drastico abbattimento dei livelli di esposizione a tali sostanze. Rientra in
un certo senso nel programma di prevenzione primaria l'educazione e
l'informazione sanitaria della popolazione, volta a modificare le abitudini di
vita più nocive e a insegnare a mantenere costante la sorveglianza sul
proprio corpo. La prevenzione primaria ha un duplice privilegio etico: non evita
soltanto un danno alla salute delle generazioni presenti e future, ma è
anche universale, ossia protegge tutti gli individui senza discriminazioni
genetiche o di tipo socio-economico, cosa che non sempre si verifica con gli
approcci basati sulla diagnosi e sulla terapia. La prevenzione secondaria
è invece identificabile con la diagnosi precoce e quindi viene effettuata
allo scopo di arrestare l'evoluzione del
t. nelle fasi iniziali del suo
sviluppo. Essa viene realizzata attraverso le iniziative di
screening
delle popolazioni a rischio. Per quanto riguarda il
t. al collo
dell'utero, ad esempio, è stato dimostrato che la razionalizzazione dello
screening mediante il cosiddetto pap-test
(V.) può ridurre notevolmente il rischio di
insorgenza della patologia ed evitare circa l'1% della mortalità globale
per
t. È stato inoltre dimostrato che l'utilizzo razionale della
mammografia (V.), combinata con la visita clinica,
può abbattere del 20-30% la mortalità per carcinoma della mammella
nelle donne di più di 50 anni. Più incerti sono invece i dati
sull'efficacia dei programmi di
screening per i
t. della prostata,
per il cancro del colon-retto, della vescica, dello stomaco e dell'esofago,
mentre ancora insoddisfacenti sono i programmi di diagnosi precoce nei
t.
polmonari. ║
Diagnosi: per le diverse neoplasie sono stati proposti
protocolli diagnostici finalizzati a dimostrare la presenza del
t.
seguendo criteri di costo-beneficio e di accuratezza diagnostica. La prima fase
dell'iter diagnostico è rappresentata dalla dimostrazione citologica o
istologica della neoplasia e dalla successiva stadiazione della malattia, due
elementi fondamentali per porre basi terapeutiche razionali. La diagnostica si
avvale di
indagini di laboratorio, di
indagini strumentali e
citoistologiche. Le
indagini di laboratorio consentono di
evidenziare segni indiretti e, in alcune neoplasie, diretti della presenza del
t. e di dosare, con metodi immunologici (immunodiagnostica), gli
indicatori bioumorali di neoplasia, altrimenti noti come
marker tumorali
(antigeni tumorali, ormoni, enzimi e prodotti vari del metabolismo), che
rappresentano validi indicatori di crescita e di attività tumorale. I
marker tumorali, infatti, definiti come sostanze misurabili nel siero la
cui identificazione in concentrazioni anomale può rispecchiare la
presenza di una neoplasia, consentono una buona definizione dell'estensione del
t. e permettono un significativo monitoraggio delle terapie adottate
soprattutto in funzione della diagnosi precoce delle recidive. Tra i più
noti e più utilizzati vi sono gli antigeni oncofetali (proteine che nelle
cellule sane sono sintetizzate in abbondanza nella fase dello sviluppo tissutale
per poi non essere presenti che in tracce negli stadi successivi di
differenziamento dell'adulto), fra cui spiccano il CEA e l'alfa-fetoproteina
(AFP). Il CEA (dall'inglese
Carcinoembryonic Antigen), prodotto nel corso
della vita fetale da diversi tessuti, è una proteina glicosilata di
membrana coinvolta nella regolazione dei rapporti tra la massa neoplastica in
espansione e le cellule dei tessuti circostanti. Questa proteina è
presente in concentrazioni piuttosto elevate nei tessuti endodermici e nel
plasma sanguigno dei pazienti affetti da carcinomi del tratto digerente
(pancreas, colon e retto). L'alfa-fetoproteina è una glicoproteina del
gruppo delle alfa-globuline secreta normalmente durante la vita fetale dal
fegato e dal sacco vitellino. L'aumento della concentrazione di tale proteina
nell'organismo adulto avviene in corso di gravidanza, in alcune condizioni non
neoplastiche ma anche in presenza di un carcinoma epatocellulare, testicolare,
ovarico o extragonadico. Le
indagini strumentali, invasive e non,
comprendono, tra le altre, tecniche radiologiche (radiografia, mammografia,
scintigrafia, ecc.), ecografiche e nucleari (tomografia assiale computerizzata e
risonanza magnetica nucleare). Per visualizzare le lesioni tumorali a livello
dei vari apparati e delle cavità viene impiegata la tecnica endoscopica,
accompagnata dalla biopsia che consente una diagnosi citologica e istologica
anche molto precoce (sempre più diffusa è la biopsia con ago
sottile). Le
indagini citoistologiche, infine, consentono di realizzare
il riconoscimento morfologico delle cellule neoplastiche avvalendosi anche di
tecniche immunoistochimiche. ║
Stadiazione: la stadiazione della
malattia tumorale, attuata attraverso un complesso di indagini diagnostiche
finalizzate a stabilire l'estensione anatomica (sia nella sua localizzazione
primitiva sia negli eventuali siti metastatici) della neoplasia, è di
fondamentale importanza per diverse ragioni, fra cui la formulazione di un
giudizio prognostico, la determinazione del programma terapeutico complessivo e
la valutazione della risposta a metodiche sperimentali di cura. L'estensione
anatomica della malattia, standardizzata a livello internazionale mediante il
sistema di classificazione TNM, viene valutata in base ai tre parametri
biologici che, più degli altri, condizionano la gravità di una
neoplasia: la dimensione del
t. primitivo (T), il coinvolgimento dei
linfonodi regionali (N) e la presenza di metastasi a distanza (M). Ciascuna di
queste categorie, a sua volta, viene suddivisa in sottogruppi a seconda delle
dimensioni progressivamente crescenti del
t., del numero di linfonodi
coinvolti nelle stazioni linfatiche che drenano la regione colpita e infine
della presenza o meno di metastasi a distanza. In base alle tre variabili sopra
menzionate, alla neoplasia viene assegnato uno stadio di gravità,
generalmente compreso tra uno e quattro, al quale è correlata la speranza
di guarigione e di sopravvivenza dell'individuo malato. Per ciascuno stadio
l'esperienza scientifica ha messo e va mettendo progressivamente a punto il
migliore protocollo di trattamento possibile, tenendo conto dell'oggettiva
speranza di successo e dei possibili effetti collaterali della terapia sulla
neoplasia specifica. Pur con le inevitabili limitazioni, questo sistema ha
consentito l'ottimizzazione dei trattamenti antitumorali e lo scambio di
informazioni piuttosto precise fra i vari centri oncologici di ricerca e di
cura. ║
Terapia: la terapia del
t., finalizzata a eliminare
la proliferazione neoplastica e a prevenirne le recidive locali o a distanza, si
avvale di tecniche farmacologiche, radiologiche e chirurgiche, alle quali, negli
ultimi decenni, sono state affiancate nuove modalità di approccio
terapeutico. In funzione delle caratteristiche istologiche, della
localizzazione, dell'eventuale grado di diffusione della neoplasia, questi
strumenti terapeutici vengono impiegati in modo isolato o associati tra loro in
un programma opportunamente studiato. ║ La
chemioterapia consiste
nella somministrazione controllata di farmaci antitumorali o antiblastici che
bloccano la proliferazione cellulare agendo sulle diverse tappe della
duplicazione del DNA e della divisione mitotica. Tali farmaci, distinti in
antimetaboliti, alchilanti, antibiotici, ecc., vengono somministrati secondo
schemi di dosaggio, di associazione (
contemporanea o
sequenziale)
e di durata stabiliti in protocolli terapeutici già concordati e scelti
in base alle caratteristiche istologiche e al tipo di cinetica cellulare del
t., al fine di agire sulle cellule neoplastiche nel momento della loro
massima sensibilità. I farmaci attualmente in uso, purtroppo, non
consentono di esercitare un'azione specificamente diretta contro le cellule
tumorali, ma colpiscono indistintamente, anche se in misura minore, tutte le
cellule in fase di replicazione attiva, presenti in particolare nei tessuti ad
alto ritmo proliferativo (midollo osseo, mucosa orale e gastrointestinale,
ovaio, testicolo, bulbo pilifero), provocando in molti casi effetti collaterali
quali diminuzione dei globuli bianchi, rossi e delle piastrine
(mielodepressione), irritazione della mucosa del cavo orale, nausea, vomito e
diarrea, irregolarità mestruali, caduta dei capelli, ecc. Allo scopo di
minimizzare, per quanto possibile, tali inconvenienti, la chemioterapia viene
effettuata secondo schemi terapeutici che prevedono cicli curativi di alcuni
giorni alternati a intervalli di riposo della durata di 3-4 settimane; essa
inoltre viene attuata attraverso l'associazione di più farmaci
(
polichemioterapia) che, grazie ai differenti meccanismi d'azione, sono
in grado di aumentare l'effetto antiblastico globale, diminuendo nel contempo la
tossicità d'organo o di apparato. Per quanto riguarda i farmaci
antiblastici che danno mielodepressione, gli effetti collaterali possono essere
notevolmente attenuati con la somministrazione dei fattori di crescita, che
consentono un ottimo recupero emo- e leucopoietico in tempi brevi. In alcuni
casi la chemioterapia viene attuata a scopo precauzionale (
chemioterapia
adiuvante) successivamente all'intervento chirurgico di asportazione, al
fine di eliminare eventuali metastasi microscopiche già disseminate, o in
caso di interessamento dei linfonodi, o ancora in alcuni
t.
dell'infanzia. Dagli anni Novanta del XX sec. la chemioterapia viene utilizzata
anche prima degli interventi chirurgici (
chemioterapia neoadiuvante) allo
scopo di ridurre la massa tumorale e quindi di renderla più facilmente
asportabile per via chirurgica, come in alcuni carcinomi mammari, del cavo
orale, dell'esofago, della vescica e in caso di osteosarcoma. Dati confortanti
provengono anche dalla
chemioterapia ad alte dosi, un tipo di
chemioterapia utilizzato, in associazione ai fattori di crescita, per il
trattamento di alcuni
t. del sistema ematopoietico, quali il linfoma
non-Hodgkin, e, al momento solo in fase di sperimentazione clinica, il carcinoma
polmonare a piccole cellule e quello della mammella. La
chemioterapia
regionale intrarteriosa trova invece un'applicazione preferenziale nel
trattamento di quelle neoplasie che interessano distretti corporei le cui
arterie siano facilmente incannulabili, come le metastasi epatiche dei
t.
del colon-retto e i carcinomi della testa e del collo. La
chemioterapia
intracavitaria, infine, rappresenta una tecnica ancora sperimentale per la
cura del
t. a carico della cavità peritoneale. Il successo di una
chemioterapia è subordinato a fattori dipendenti sia dal paziente (il
cosiddetto
performance status, determinato dal suo stato di salute
generale e dall'età) sia dalle caratteristiche intrinseche del
t.,
e risulta tanto maggiore quanto più precoce è il trattamento
farmacologico (che riduce il fenomeno della resistenza tumorale) e quanto
più rigorosa è l'adesione allo schema terapeutico. Poiché
negli ultimi anni è stata dimostrata la natura apoptotica della morte
delle cellule tumorali, accanto ai chemioterapici cosiddetti
“tradizionali” sono stati sviluppati farmaci capaci di indurre
apoptosi,
ovvero di provocare nelle cellule neoplastiche una morte
“programmata”, attraverso la quale è possibile ridurre la
massa tumorale e le eventuali metastasi, evitando inoltre i gravi fenomeni
infiammatori associati alla morte traumatica delle cellule. ║ Grazie ai
progressi della fisica nucleare, alle aumentate conoscenze in campo radiologico
e al miglioramento delle misure di radioprotezione, la
radioterapia (o
terapia radiante) è diventata uno strumento terapeutico sempre
più efficace nel trattamento, a scopo sia palliativo sia curativo, di
numerose neoplasie. Di queste ultime, le più sensibili al danno indotto
da radiazioni sono quelle del sistema linfatico, il seminoma del testicolo, i
carcinomi indifferenziati delle prime vie aeree e digestive, alcuni sarcomi, i
t. del corpo dell'utero, il carcinoma mammario, i
t. del grosso
intestino e di alcune ghiandole endocrine, dell'ovaio e del testicolo.
Complementare all'intervento chirurgico, la radioterapia può precederlo o
seguirlo: nel primo caso il trattamento ha lo scopo di ridurre la massa tumorale
rendendola così operabile, mentre nel secondo caso viene utilizzata per
eliminare possibili focolai microscopici residui. In associazione alla
chemioterapia, essa ha lo scopo di consolidare le risposte farmacologiche in
alcuni tipi di
t. fra cui i linfomi. Dal punto di vista clinico, questa
terapia ha dimostrato una migliore tollerabilità se viene suddivisa in
più frazioni: lo schema di frazionamento attualmente più diffuso
consiste nel ripartire la dose totale di radiazioni in cinque frazioni
settimanali. Solo in casi specifici e compatibilmente con la tecnica utilizzata
vengono impiegate frazioni singole a dose elevata o dosi singole molto basse
diluite nel tempo. Nella radioterapia vengono usate radiazioni ionizzanti
elettromagnetiche, rappresentate da raggi X (prodotti dagli apparecchi di
roentgenterapia, dagli acceleratori e dai betatroni) e raggi gamma (generati
dalle unità di telecobaltoterapia e telecesioterapia), e radiazioni
corpuscolari costituite da fasci di particelle cariche, quali protoni, ioni,
particelle alfa, e da fasci di neutroni (adroterapia o radioterapia con
particelle pesanti). Tutte queste radiazioni, che interagiscono con la materia
vivente provocando la ionizzazione degli atomi colpiti e la rottura delle
molecole che contengono questi atomi, hanno come bersaglio diretto o indiretto
il DNA e come scopo ultimo l'inattivazione funzionale della cellula neoplastica.
L'effetto terapeutico di queste radiazioni si basa su un'azione selettiva lenta
e graduale che a poco a poco induce nelle cellule bombardate un danno
incompatibile con la sopravvivenza. Oltre alla
radioterapia esterna, nei
casi che si prestano all'applicazione locale di radiazioni viene utilizzata
anche la
radioterapia interstiziale (altrimenti nota come
curieterapia): essa prevede l'infissione di preparati radioattivi in
forma di aghi, fili o semi direttamente nel tessuto neoplastico e consente
l'erogazione di dosi elevate di radiazioni in un piccolo volume e in un tempo
relativamente breve. Trova impiego nel carcinoma del labbro, della bocca, della
lingua, della pelle, della mammella, della vulva e dell'ano. Recentemente
introdotta in via sperimentale per migliorare le strategie terapeutiche di
alcuni
t. addominali, la
radioterapia intraoperatoria, effettuata
durante l'intervento chirurgico, ha lo scopo di indirizzare le radiazioni
soltanto sul tessuto tumorale risparmiando i tessuti sani circostanti. La
radioterapia metabolica, che trova impiego nella cura delle metastasi da
t. della tiroide, prevede l'uso di sorgenti radioattive artificiali
(iodio radioattivo) introdotte per via orale o endovenosa e consente un'efficace
e costante azione terapeutica anche sui focolai più inaccessibili. La
radioterapia, come già accennato, può essere impiegata non solo a
scopo terapeutico ma anche palliativo. In questo caso si propone di migliorare
la qualità di vita del paziente, agendo solo sul sintomo, sia esso di
compressione, di occlusione o di infiltrazione. Come la chemioterapia, anche la
radioterapia può infine essere utilizzata, a scopo precauzionale, per
eliminare tutti gli eventuali focolai metastatici rimasti dopo il primo
intervento terapeutico. Nonostante i grandi miglioramenti a cui è andata
incontro, la terapia radiante non è ancora priva di effetti collaterali
dovuti ai danni immediati e tardivi provocati sui tessuti sani. Si possono
manifestare danni immediati a livello dei tessuti in rapida proliferazione, come
cute, mucose, midollo osseo, particolarmente sensibili all'azione lesiva delle
radiazioni ionizzanti, e lesioni tardive, indipendenti dai primi, a carico del
tessuto connettivo e dei vasi. Queste ultime comprendono anche l'osteoporosi dei
distretti colpiti, la cataratta a carico del cristallino, la sterilità,
l'immunosoppressione e danni al sistema cardiovascolare. Non va dimenticata
inoltre l'azione mutagena e teratogena delle radiazioni. ║ Il
trattamento chirurgico dei
t. assume un ruolo centrale sia in fase
terapeutica, mediante l'asportazione della massa tumorale e la ricostruzione
della parte lesa, sia in sede diagnostica, tramite l'esecuzione della biopsia,
permettendo di giungere alla corretta stadiazione della neoplasia. Dal punto di
vista strettamente terapeutico, la chirurgia si distingue in tre filoni
principali:
chirurgia radicale, a scopo prettamente terapeutico,
chirurgia palliativa, finalizzata ad alleviare la sintomatologia
determinata dalla presenza della neoplasia, e
chirurgia complementare ad
altre metodiche terapeutiche che fanno uso di mezzi farmacologici o fisici.
Assai recente è inoltre la
chirurgia ricostruttiva, una branca
della chirurgia sviluppatasi in seguito alla necessità di assicurare un
recupero funzionale e riabilitativo del paziente operato. Obbligatoria in tutti
i
t. della cavità toracica e addominale, la chirurgia radicale si
propone di asportare tutta la massa tumorale visibile e anche le ghiandole
linfatiche più vicine alla sede della neoplasia, che rappresentano le
localizzazioni secondarie (metastasi) più probabili da cui può
partire la diffusione del
t. a tutto l'organismo. Ove possibile, viene
realizzata una chirurgia di tipo conservativo che consente di ottenere,
rispettando la radicalità dell'intervento, risultati meno mutilanti e
più accettabili per il paziente. La chirurgia e la microchirurgia
oncologica fanno sempre più uso del laser soprattutto quando si teme la
presenza di metastasi e quando si interviene su tessuti fortemente irrorati.
Buoni risultati si stanno ottenendo in molti tipi di
t. come
l'osteosarcoma, alcuni
t. della laringe, del retto, della vescica, e
nelle neoplasie della mammella di ridotte dimensioni, dall'associazione
chirurgia radicale-chemioterapia. Talvolta è la chirurgia a venire in
aiuto della chemioterapia: ciò accade, ad esempio, nei
t. molto
voluminosi non completamente asportabili, in genere poco vascolarizzati e quindi
difficilmente raggiungibili dai farmaci antiblastici e, per di più,
ricchi di cellule farmacoresistenti. In questo caso la riduzione chirurgica
preventiva della loro massa li può far diventare più sensibili
all'ulteriore chemioterapia. In caso di
t. non asportabile, la chirurgia
palliativa, spesso impiegata in condizioni d'urgenza, può almeno
alleviare i sintomi provocati dalle neoplasie. Viene utilizzata per ovviare a
occlusioni acute, per tamponare emorragie e per alleviare dolori forti. ║
L'utilizzo dell'
ormonoterapia nel trattamento delle neoplasie è
nato dalla constatazione dell'esistenza di neoplasie, come il carcinoma della
mammella e quello della prostata, che hanno uno sviluppo dipendente dall'azione
di alcuni ormoni. Attuata per lo più successivamente all'intervento
chirurgico, essa ha lo scopo di contrastare o di impedire lo stimolo cancerogeno
da parte dell'ormone somministrato. Nel caso del
t. alla mammella si
può ricorrere all'asportazione delle ovaie, fisiologicamente deputate
alla produzione degli estrogeni, o alla somministrazione di farmaci in grado di
bloccare l'azione da essi esercitata. Per quanto riguarda il
t. della
prostata il trattamento ormonale, più complesso, può interessare
la produzione degli ormoni, la regolazione ipofisaria della secrezione e
l'azione periferica degli androgeni. ║ Un ruolo rilevante nel campo delle
terapie antineoplastiche è stato acquisito dall'
immunoterapia:
l'osservazione sperimentale che i soggetti malati di
t. hanno una
risposta immunologica antitumorale, sebbene insufficiente per combattere la
patologia, ha spinto infatti a ricercare metodiche con le quali sia possibile
potenziare la capacità, al momento ancora piuttosto scarsa, del sistema
immunitario di fronteggiare l'espansione neoplastica. Le strategie attualmente
in studio sono riassumibili in due categorie: l'
immunoterapia passiva,
che si avvale di anticorpi capaci di esercitare un effetto citotossico, di
indurre la lisi delle cellule neoplastiche mediata dal sistema del complemento o
di veicolare molecole farmacologiche ad azione antitumorale, e
l'
immunoterapia attiva, consistente nell'utilizzare sostanze che, se
inoculate nel paziente, sono in grado di stimolare in modo più o meno
specifico il sistema immunitario. Inizialmente basata sull'impiego di antisieri
(sieroterapia), l'immunoterapia passiva ha acquisito nuove prospettive con
l'avvento degli anticorpi monoclonali: mediante opportune tecnologie di
laboratorio è infatti possibile produrre anticorpi da utilizzare in modo
specifico contro l'antigene neoplastico bersaglio o come vettori di molecole
citotossiche (come i chemioterapici) o ancora come agenti lisogeni.
L'immunoterapia attiva si basa sull'impiego di sostanze capaci di attivare le
naturali difese immunitarie dell'organismo contro il cancro, come il BCG, ossia
il bacillo tubercolare bovino inattivato, il
Corynebacterium parvum, il
muramilpeptide e altre sostanze, e si occupa di mettere a punto
“vaccini” antitumorali a scopo terapeutico. Questi vaccini sono
ricavati da cellule tumorali autologhe (cioè cellule tumorali del
paziente stesso) o allogeniche (provenienti dal
t. di un altro paziente)
HLA compatibili e dai loro antigeni (antigeni di differenziazione, antigeni
tumore-ristretti, antigeni unici derivanti da mutazioni di proteine note,
antigeni comuni a
t. di diverso istotipo originatisi da mutazioni di
proteine oncogene) resi altamente immunogenici mediante trattamenti specifici.
Rientra nell'immunità attiva anche un altro metodo, estremamente
interessante, finalizzato alla produzione di cellule dotate di reattività
non specifica verso
t. immunogeni o verso
t. non immunogeni.
Questo metodo, che si basa sulla somministrazione di interleuchina 2 da sola o
insieme a particolari linfociti (LAK), ha portato in alcuni studi sperimentali
allo sviluppo di una spiccata attività immunitaria, in grado di
controllare la crescita delle metastasi e, in alcuni casi, di far regredire la
neoformazione. Potenzialmente interessante risulta infine l'approccio
terapeutico basato sull'utilizzo di molecole ad azione modulante, capaci di
inibire la crescita tumorale mediante la stimolazione di risposte biologiche
dell'organismo colpito dalla malattia. Tra queste sostanze vi sono citochine,
linfochine, interferone alfa, retinoidi, estratti timici, prodotti batterici,
ecc., utilizzati da soli o in associazione tra loro. ║ Promettente ma
ancora in gran parte da percorrere è la strada rappresentata dalla
terapia genica, ovvero quell'insieme di tecniche di trasferimento del DNA
mediante le quali si può procedere all'inserimento, nelle cellule
alterate, di geni funzionanti che consentono il ripristino della funzione
normale oppure all'attivazione delle cellule del sistema immunitario contro il
t. In questo secondo caso si procede con la rimozione chirurgica delle
cellule neoplastiche, l'inserimento di un “gene attivatore” esogeno
(per esempio il gene del
tumor necrosis factor o il gene
dell'interleuchina 2), capace di modificare la natura della cellula tumorale
rendendola bersaglio del sistema immunitario, l'irradiamento delle cellule
tumorali, finalizzato a evitare il loro attecchimento nell'organismo e la
produzione di nuovi
t., e la reinoculazione locale nel paziente. Una
strategia diversa, messa a punto per la terapia genica di alcuni
t. del
sistema nervoso, si basa sull'utilizzo dei vettori retrovirali, che hanno la
proprietà di integrarsi solo nelle cellule in divisione. Grazie infatti a
questa proprietà, l'iniezione stereotassica in questi
t. di
vettori codificanti per geni ad attività citotossica porta all'assunzione
del gene soltanto da parte delle cellule neoplastiche. Una specifica
applicazione di questa strategia prevede l'uso di “geni suicidi”
che, mediante la somministrazione al paziente di un farmaco non tossico a
livello sistemico, permettono la specifica eliminazione delle cellule che lo
contengono. L'identificazione e la clonazione dei geni codificanti per gli
antigeni associati al
t. potrebbero cambiare radicalmente l'approccio
della terapia genica alle patologie neoplastiche. Il trasferimento di questi
geni, inizialmente identificati nei melanomi e oggi riconosciuti in una serie di
neoplasie, in appropriate cellule del sistema immunitario o in altre cellule in
grado di presentare efficacemente i determinanti antigenici può
rappresentare in un futuro prossimo il presupposto per la produzione di efficaci
vaccini specifici contro le cellule tumorali. • Agr. - Massa di tessuto di
solito priva di organizzazione che si forma in seguito a proliferazione
cellulare. Di dimensioni e forma assai variabili, i
t. possono essere
provocati da microrganismi quali batteri, funghi e virus, da insetti, da
alterazioni del metabolismo e dell'equilibrio ormonale, da squilibri nutritivi e
anche dall'esposizione a temperature troppo rigide. Tra i batteri che provocano
la formazione di neoplasie nelle piante si ricordano: l'
Agrobacterium
tumefaciens, responsabile di svariate forme tumorali (galle, tubercolosi)
sulle radici, nella zona del colletto e sul tronco di varie piante arboree
(pesco, vite, ciliegio, melo, ecc.), e lo
Pseudomonas savastanoi, agente
della rogna o tubercolosi dell'ulivo. Tra i funghi provocano l'insorgenza di
t. soprattutto le uredinali, le ustilaginali nonché alcune
peronosporali e plasmodioforacee. I virus provocano
t. da ferita mentre
gli insetti causano la formazione di galle in vari organi vegetali.
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