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Tumore.

Patol. - Termine utilizzato in passato per indicare una delle caratteristiche dell'infiammazione, il turgore dovuto all'edema flogistico del tessuto o dell'organo interessato. ║ Più in generale, nome attribuito a qualsiasi alterazione morbosa a carico di un organo, che si manifesti con un aumento del volume di quest'ultimo, come nel caso del t. bianco (o artrite tubercolare del ginocchio), del t. da parto e del t. di milza, quest'ultimo osservabile in malattie infettive quali il tifo addominale o in specifiche sindromi cosiddette splenomegaliche. ║ Con significato più specifico, termine con cui si definisce una neoformazione di tessuto provocata dalla proliferazione incontrollata e aberrante di cellule atipiche, profondamente modificate rispetto a quelle normali. La malattia tumorale presenta le seguenti caratteristiche: anaplasia, ovvero mancanza della normale differenziazione cellulare; autonomia, per cui la crescita delle cellule neoplastiche è totalmente svincolata dai meccanismi di regolazione che intervengono nell'organismo sano; clonalità, in base alla quale nella maggior parte dei casi il t. origina da una singola cellula mutata, che prolifera fino a formare un ammasso (o clone) di cellule neoplastiche tutte uguali fra loro; diffusione metastatica, ovvero la capacità delle cellule neoplastiche di proliferare in modo potenzialmente illimitato, invadendo i tessuti circostanti e diffondendosi anche a distanza. ║ Caratteristiche e proprietà delle cellule tumorali (o trasformate): le cellule tumorali presentano caratteristiche morfologiche e strutturali diverse da quelle delle cellule sane da cui derivano e tale diversità diventa ancora più evidente nei t. maligni. Le cellule neoplastiche sono meno differenziate rispetto alle altre e le loro caratteristiche fenotipiche mutano nel tempo in base alla variabilità genotipica. Sono cellule soggette a una crescita molto rapida e hanno una forma per lo più tondeggiante, dovuta alle continue divisioni mitotiche. Spesso sono ricoperte da protuberanze o bolle (la percentuale di cellule in mitosi è un indice clinicamente importante sia in fase di diagnosi sia in quella di prognosi). Il citoscheletro è disorganizzato, il rapporto fra nucleo e citoplasma è elevato, i nucleoli assai evidenti e le strutture interne sono relativamente poco specializzate. I cromosomi, inoltre, presentano anomalie di numero e di struttura e nel complesso le cellule sono soggette ad alterazioni metaboliche. Le cellule maligne talvolta mostrano il fenomeno della delezione di enzimi, ovvero la mancanza di enzimi specifici nel loro corredo enzimatico. Molto spesso le cellule tumorali producono proteine strutturali (come ad esempio gli antigeni di superficie TAA) ed enzimatiche diverse, alcune delle quali consentono loro di sviluppare proprietà e comportamenti alterati rispetto a quelli delle cellule sane: esse sintetizzano, ad esempio, enzimi capaci di degradare il collagene e le altre proteine della lamina basale sulla quale poggiano, sono prive dei processi di controllo della crescita, proliferano indipendentemente dai fattori di crescita e sono in grado di eludere la sorveglianza del sistema immunitario. Le caratteristiche delle cellule tumorali possono essere studiate più facilmente mediante l'utilizzo di colture in vitro: le cellule in coltura presentano parametri di crescita ben definiti, sia che si trovino in una fase di crescita attiva (fase log) sia che siano quiescenti (fase di plateau), possono essere manipolate geneticamente, nonché trattate con vari tipi di agenti cancerogeni. Le principali caratteristiche delle cellule tumorali in coltura sono: la perdita della capacità di arrestare la crescita e dell'inibizione da contatto, la modificazione della quantità e del tipo di proteine sulla superficie cellulare, l'aumento del trasporto del glucosio, la ridotta richiesta di fattori di crescita nel terreno di coltura, la capacità di dare origine a t. se iniettate in ceppi di topi privi di risposta immunitaria. Il complesso di questi cambiamenti è chiamato trasformazione neoplastica o semplicemente trasformazione. Sebbene le cellule neoplastiche, e in particolare quelle maligne, vadano incontro a cambiamenti strutturali e funzionali progressivi, esse mantengono tuttavia un numero sufficiente di caratteristiche del tessuto dal quale originano e vengono classificate, in sede diagnostica e prognostica, sulla base delle relazioni che le legano al corrispondente tessuto di appartenenza (grading delle cellule neoplastiche). ║ Classificazione: i t. vengono distinti in benigni e maligni a seconda delle caratteristiche biologiche e morfologiche che ne determinano il grado di aggressività. I primi non mettono a rischio la vita, si accrescono lentamente per espansione, sono delimitati esternamente da una capsula fibrosa, non danno metastasi, restano nella sede in cui si sono originati e possono essere asportati chirurgicamente provocando la guarigione completa del paziente. Al contrario, le neoplasie maligne sono caratterizzate da una rapida proliferazione di cellule aventi un grado di maturità variabile (molto spesso assai immature), dalla mancanza di una capsula fibrosa esterna, dall'accrescimento invasivo e non espansivo, dall'infiltrazione progressiva dei tessuti e degli organi circostanti, dalla capacità di dare origine per disseminazione o per penetrazione, attraverso i vasi sanguigni o quelli linfatici, a metastasi anche molto lontane dalla sede primitiva d'insorgenza. Esse inoltre sono caratterizzate dalla capacità di provocare un'alterazione radicale della struttura degli organi colpiti e un decadimento organico generale (cachessia tumorale) che già di per sé può essere causa di morte. I t. benigni prendono spesso il nome dal tessuto o dall'organo dal quale originano. Sono detti adenomi i t. che derivano dagli epiteli ghiandolari, leiomiomi e rabdomiomi quelli che originano rispettivamente nella muscolatura liscia e striata, fibromi, cheloidi, lipomi, xantomi, mixomi, condromi e osteomi quelli dei singoli tipi di tessuto connettivo, angiomi quelli di derivazione vascolare (emangioma o linfangioma, rispettivamente da vasi sanguigni o da vasi linfatici), meningiomi quelli che originano nelle meningi, neurinomi o neurofibromi quelli del sistema nervoso. Nel caso degli epiteli di rivestimento, le neoplasie benigne prendono il nome dalla propria particolare conformazione e in base ad essa vengono chiamati: verruche, condilomi, polipi e papillomi. Come accade in altre malattie, i t. benigni, infine, possono essere indicati col nome dello scienziato che, più degli altri, ha contribuito alla loro conoscenza. A seconda dell'origine embriologica dei tessuti colpiti, i t. maligni, come già detto caratterizzati da invasività e diffusione accentuate, si distinguono in epiteliomi, carcinomi e adenocarcinomi, se derivano dall'ectoderma e dall'endoderma, e in sarcomi, se originano dal mesoderma. In particolare, i t. epiteliali maligni sono chiamati epiteliomi (nelle varietà a cellule squamose, a cellule basali, a cellule indifferenziate, a melanociti, adamantinomi, craniofaringiomi, epiteliomi delle vie urinarie, epiteliomi a cellule cilindriche delle mucose dell'apparato digerente, delle vie aeree, dell'utero e delle trombe di Falloppio) se derivano da epiteli di rivestimento, carcinomi (a loro volta suddivisi, in base ai rapporti tra tessuto neoplastico e stromale, in midollari e scirrosi) o adenocarcinomi (di cui i più frequenti sono quello della mammella, del rene, della prostata, dello stomaco, del collo e del corpo dell'utero e della tiroide) se si sviluppano da epiteli ghiandolari. I sarcomi, t. maligni dei connettivi e degli organi mesenchimali in genere, si distinguono in: fibrosarcomi, liposarcomi, mixosarcomi, condrosarcomi, osteosarcomi, rispettivamente dei connettivi fibroso, adiposo, mucoso, cartilagineo e osseo; osteoclastomi, derivanti dagli osteoclasti; endoteliomi o sarcomi blastici dei vasi (nelle varianti emangioendoteliomi e linfangioendoteliomi), derivanti dall'endotelio vasale; periteliomi, riferiti alla tunica avventizia; angiosarcomi, dovuti alla degenerazione maligna di un angioma. I sarcomi comprendono inoltre i mesoteliomi, t. che derivano dalla proliferazione del rivestimento delle grandi cavità sierose (pleurica e peritoneale), i leiomiosarcomi e i rabdomiosarcomi, che interessano rispettivamente il tessuto muscolare liscio e quello striato, le leucemie, ovvero t. blastici del tessuto ematopoietico, e i linfomi (Hodgkin, non Hodgkin, di Burkitt) dei sistemi reticoloendoteliale e linfatico. ║ Fattori di rischio: lo sviluppo di una neoplasia è il risultato di un'interazione complessa di fattori (origine multifattoriale dei t.), in parte interni all'organismo e in parte esterni ad esso, e dipende da una serie di cause che a oggi sono state comprese soltanto in parte. Sono sicuramente coinvolti nella genesi della malattia tumorale fattori ambientali, fattori genetici, alcuni virus e fattori comportamentali. ║ Fattori ambientali: sono ormai centinaia le sostanze cancerogene (o mutagene), prevalentemente di natura chimica ma anche fisica, individuate con certezza o con sufficiente probabilità. Tra gli agenti chimici più noti si ricordano: la fuliggine (responsabile del cancro dello scroto degli spazzacamini); il catrame (causa di epiteliomi, sarcomi, leucemie, t. del sistema nervoso centrale e polmonari), il cui potere oncogeno è dovuto ad alcuni idrocarburi policiclici aromatici (come il benzopirene, il dibenzantracene, il metilcolantrene) in esso contenuti; l'anilina e alcuni suoi derivati, capaci di indurre t. benigni e maligni in diversi organi e tessuti; i coloranti azoici (dimetilamminoazobenzene); le sostanze alchilanti (iprite, azotoiprite, dialchilamminostilbeni), cosiddette per la loro proprietà di legare gruppi alchilici a determinati composti, in grado di determinare sarcomi, fibroadenomi, colangiomi e adenomi polmonari. L'elenco completo e aggiornato delle sostanze chimiche che possono essere associate a t. nell'uomo è pubblicato a cura dell'Organizzazione Mondiale della Sanità dall'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC). Nel documento gli agenti chimici sono divisi in quattro categorie: sostanze con evidenze di cancerogenicità sufficiente (arsenico, amianto, benzene, cromo, vinile, catrame, fuliggine, ecc.), limitata (aflatossine, cadmio, nickel, berillio, ecc.), inadeguata (cloramfenicolo, cloroprene, DDT, exaclorocicloesano, oli isopropilici, piombo, tricloroetilene, ecc.) e assente. In base alla loro capacità di indurre neoplasie, essi si distinguono in agenti ad azione diretta, meno numerosi, elettrofili e in grado di reagire con i gruppi carichi negativamente di altre molecole, e quelli ad azione indiretta (la maggior parte), che richiedono l'attivazione metabolica per poter esplicare la loro azione. In entrambi i casi tali sostanze, che agiscono come agenti mutageni, hanno come bersaglio il DNA e sono in grado di indurre, nella sequenza nucleotidica, mutazioni che vengono ereditate dalle cellule delle generazioni successive. I cancerogeni fisici comprendono: fattori meccanici (ferite, traumi), fattori termici (congelamento, ustioni, applicazioni di caldo ripetute per lungo tempo), radiazioni ultraviolette e radiazioni ionizzanti, ovvero raggi X e particelle atomiche. Anche le radiazioni, al pari degli agenti chimici, hanno come bersaglio il DNA, ma mentre quelle ultraviolette (responsabili dei carcinomi della cute) provocano, come danno principale, la formazione di dimeri di timina ed esercitano il loro effetto mutageno durante i processi spontanei di riparazione del DNA, quelle ionizzanti, responsabili della leucemia, provocano rotture del DNA ed esplicano il loro effetto direttamente in fase di irradiazione. Nei fattori ambientali rientrano anche i fattori occupazionali, responsabili dei t. attribuibili a cancerogeni presenti nell'ambiente di lavoro (asbesto, catrame, ecc.), e gli inquinanti urbani come lo smog, il cui effetto è amplificato dal possibile sinergismo con il tabacco. ║ Fattori genetici: il ruolo esercitato da questi fattori nella dinamica dello sviluppo di una neoplasia è assai complesso e tutt'oggi solo parzialmente compreso. È ormai chiaro che alla base del processo di trasformazione di una cellula sana in una cellula neoplastica c'è un “guasto” nel meccanismo che regola la duplicazione cellulare: ciò significa che, a un certo momento, nel DNA della cellula si verifica, spontaneamente o in seguito all'azione di agenti ambientali chimici o fisici, a un'infezione virale, al riarrangiamento cromosomico o a un fenomeno di amplificazione genica, una lesione (o mutazione) primaria a carico di un gene, che viene ereditato dalle cellule figlie. Nel tempo questa prima lesione può essere seguita da altri “guasti” causali, o lesioni secondarie, che, se non vengono opportunamente riparati dai meccanismi preposti, possono portare allo sviluppo di una cellula neoplastica (trasformazione neoplastica) e quindi alla formazione di un t. (progressione tumorale). I geni le cui alterazioni risultano legate allo sviluppo tumorale sono: gli oncogeni e gli antioncogeni, più noti come geni oncosoppressori. I primi normalmente non sono responsabili del cancro, ma portano l'informazione necessaria per la sintesi dei fattori di crescita cellulari, dei loro recettori, dei trasduttori coinvolti nella proliferazione e di alcune proteine nucleari in grado di interagire direttamente con il DNA. Essi quindi svolgono un'azione di stimolo sulla divisione delle cellule. L'alterazione strutturale di uno o più oncogeni (attivazione genica) espone la cellula a una proliferazione incontrollata e la rende insensibile ai meccanismi di retroinibizione che normalmente ne controllano la duplicazione. Questo è ciò che accade, per esempio, all'oncogene erb-B coinvolto nello sviluppo di alcuni t. di origine epiteliale, all'oncogene abl coresponsabile della leucemia mieloide cronica e alla famiglia degli oncogeni ras, coinvolti nello sviluppo di numerose neoplasie umane fra cui i carcinomi del colon, del pancreas e del polmone. Affinché però le cellule diventino neoplastiche, non basta che sovrastimolino i loro meccanismi di induzione della crescita, ma devono anche aver subito delle modificazioni tali da renderle capaci di eludere o ignorare i segnali di inibizione della crescita prodotti dalla cellula stessa o emessi dalle cellule normali vicine. Ciò avviene quando si produce una mutazione in uno o più geni oncosoppressori, geni che normalmente inibiscono la divisione cellulare. Tra i geni oncosoppressori attualmente più noti: il gene RB, coinvolto nello sviluppo del retinoblastoma, le cui mutazioni inattivanti sono in grado di conferire una suscettibilità ereditaria a questa forma di t., e il gene p53, alle cui mutazioni sono correlati più di 30 tipi diversi di t. Mentre le mutazioni negli oncogeni sono di tipo dominante, per cui basta l'alterazione di un solo allele per indurre la trasformazione del gene, quelle a carico dei geni oncosoppressori sono per lo più recessive e come tali provocano la trasformazione oncogena solo quando interessano entrambi gli alleli del gene. Quanto fin qui esposto dimostra che per lo sviluppo di un t. non è sufficiente la mutazione di un singolo gene, ma è richiesta la cooperazione di più geni con effetti complementari. A tale cooperazione spesso sono accoppiati altri meccanismi di origine non necessariamente genetica, come processi epigenetici e agenti chimici e fisici. È bene precisare infine che in una cellula l'acquisizione di caratteri neoplastici non è per forza seguita dall'immediato sviluppo dell'attività proliferativa: ciò significa che il primo evento determinante l'induzione delle caratteristiche neoplastiche (iniziazione) e la moltiplicazione cellulare (promozione) sono fasi distinte e che tra loro può trascorrere anche molto tempo. ║ Virus a DNA e a RNA (altrimenti detti retrovirus): numerosi e molto vari sono i virus che causano t. benigni e maligni sia nell'uomo sia in varie specie animali e che sono in grado di produrre neoplasie se inoculati in animali da esperimento. È stato stimato che tali microrganismi sono implicati, in cooperazione con altri agenti, in almeno il 15-20% della patologia neoplastica, svolgendo un'azione patogena di tipo oncogeno sulle cellule in vivo e inducendo la trasformazione cellulare in vitro. Poxvirus, herpesvirus, adenovirus, papova, papillomavirus, poliomavirus e hepadnavirus sono i virus a DNA maggiormente coinvolti nello sviluppo delle neoplasie. I principali virus implicati nella oncogenesi umana sono: il virus di Epstein-Barr, a DNA, appartenente alla famiglia degli herpesvirus, che interviene sia nel linfoma di Burkitt sia nel carcinoma nasofaringeo; il virus dell'epatite B, anch'esso a DNA, appartenente alla famiglia degli hepadnavirus, responsabile principalmente dell'epatite da siero umana e correlato all'insorgenza di t. al fegato; il papillomavirus, a DNA, implicato sia nella formazione delle verruche sia nell'insorgenza di t. maligni come il carcinoma del collo dell'utero (HPV); gli HTLV I e II (dall'inglese Human T-cell Leukemia Virus), virus a RNA responsabili, rispettivamente, della leucemia umana a cellule T e di quella a cellule capellute; l'HIV, ovvero il virus a RNA responsabile dell'AIDS, in quanto provoca nei soggetti affetti una spiccata suscettibilità all'insorgenza di numerosi tipi di neoplasia fra i quali il sarcoma di Kaposi e alcuni linfomi. ║ Fattori comportamentali: tra i fattori di rischio legati al comportamento, il tabacco, l'alcool e la dieta giocano un ruolo di primo piano. Il fumo di sigaretta determina l'80-90% dei t. al polmone e contribuisce in modo significativo (circa il 75%) ai t. dell'esofago, della laringe, del cavo orale e probabilmente della vescica, del pancreas e del rene. Nei Paesi occidentali, tra l'altro, il fumo è responsabile di circa il 30% dei decessi per t. Anche l'alcol, responsabile di alcune neoplasie del cavo orale, della faringe, della laringe, dell'esofago e del fegato, lavorando spesso in concomitanza con il tabacco fa registrare un tasso di mortalità che in Italia raggiunge il 4%. Nei Paesi industrializzati la dieta determina tra il 20 e il 50% di tutti i t. In particolare essa gioca un ruolo determinante nelle neoplasie del tratto digerente, ma anche di altri organi quali la mammella, i polmoni, i genitali femminili e la prostata. Gli individui obesi o in sovrappeso sono più esposti al rischio di t. della mammella in postmenopausa, del corpo dell'utero e della colecisti. ║ Epidemiologia: lo studio dell'andamento nel tempo e della distribuzione geografica dei t. si basa, come per altre patologie, sulla valutazione di due principali parametri: l'incidenza, ovvero la frequenza di nuovi eventi diagnosticati o di morti accertate in uno specifico lasso di tempo e all'interno di una determinata popolazione, e la prevalenza, cioè la frequenza di una certa neoplasia in una determinata popolazione e in un particolare momento, entrambe solitamente espresse rapportate a 100.000 abitanti. Le informazioni più attendibili relative a questi due parametri provengono da appositi registri in cui vengono sistematicamente raccolti i dati relativi ai casi di t. diagnosticati nella popolazione in esame. Le indagini epidemiologiche condotte nell'ultimo ventennio del XX sec. hanno valutato attentamente le variazioni geografiche e cronologiche dei vari t., consentendo così di risalire al ruolo esercitato dall'ambiente e dalle abitudini di vita nella genesi di queste patologie. A questo riguardo la constatazione delle macroscopiche variazioni nella frequenza con cui si manifestano tutti i t. più comuni nelle diverse popolazioni ha portato alla conclusione che buona parte di essi sia dovuta a cause ambientali, conclusione dalla quale deriva l'importanza di stabilire strategie di prevenzione verso i fattori di rischio significativi individuati nelle indagini epidemiologiche. Queste ultime hanno dimostrato chiaramente che in Europa, quindi anche in Italia, negli ultimi decenni del XX sec. l'incidenza dei t. è aumentata, con una media continentale di circa 276 casi annuali per 100.000 abitanti (in particolare 276 nei maschi e 194 nelle donne). Le cause di questo incremento sono in parte da attribuire a un innalzamento dell'età della popolazione, con conseguente incremento del numero dei soggetti maggiormente passibili di sviluppare una neoplasia. Dagli inizi degli anni Novanta, tuttavia, si è osservata globalmente una riduzione dei tassi di mortalità, dovuta al ruolo più determinate della prevenzione, alla messa a punto di terapie sempre più mirate ed efficaci, alla migliore conoscenza e a una più precisa quantificazione delle cause e al loro controllo. All'inizio degli anni Novanta i Paesi europei a più basso rischio in entrambi i sessi sono stati il Portogallo, la Spagna e la Grecia, mentre quelli a più alto rischio sono risultati quelli della fascia centro-orientale. Nei maschi le sedi anatomiche più colpite sono il polmone, il colon-retto, la prostata, lo stomaco e la vescica, e nelle donne la mammella, il colon-retto, il polmone, seguiti dallo stomaco, il collo dell'utero e l'ovaio. In entrambi i sessi sono diffusi inoltre il carcinoma della cute, assai frequente ma anche più facilmente guaribile, le leucemie, i t. del sistema linfatico, del fegato, del pancreas e dell'encefalo. ║ Prevenzione: la prevenzione della malattia neoplastica si articola su due livelli diversi e complementari, rappresentati dalla prevenzione primaria e da quella secondaria. La prima, che mette in opera strategie profilattiche volte a impedire la comparsa del t., comprende l'individuazione dei fattori di rischio e, nei limiti del possibile, la loro rimozione. Le misure preventive contro l'insorgenza delle neoplasie sono ovviamente più facili da adottare quando attengono alla sfera personale dell'individuo (diminuzione del consumo di sigarette, limitata esposizione al sole, controllo del peso corporeo, assunzione di un dieta varia, ricca di frutta, verdura e cereali integrali e povera di grassi, carni rosse, cibi conservati mediante salatura, affumicatura, accompagnata da un moderato consumo di alcool), mentre diventa assai più complesso l'intervento preventivo sull'ambiente di vita e di lavoro, che purtroppo nasconde numerose difficoltà legate non soltanto al controllo degli inquinanti cancerogeni diffusi nell'ambiente (la cui eliminazione richiede una politica di difesa ecologica a livello dei singoli Governi e degli organismi internazionali) ma anche all'individuazione e alla rimozione dei fattori di rischio di origine fisica, chimica e biologica normalmente presenti. Oltre che con la riduzione drastica del numero delle sostanze cancerogene a cui gli individui vengono esposti, un'efficace prevenzione primaria può essere ottenuta attraverso un drastico abbattimento dei livelli di esposizione a tali sostanze. Rientra in un certo senso nel programma di prevenzione primaria l'educazione e l'informazione sanitaria della popolazione, volta a modificare le abitudini di vita più nocive e a insegnare a mantenere costante la sorveglianza sul proprio corpo. La prevenzione primaria ha un duplice privilegio etico: non evita soltanto un danno alla salute delle generazioni presenti e future, ma è anche universale, ossia protegge tutti gli individui senza discriminazioni genetiche o di tipo socio-economico, cosa che non sempre si verifica con gli approcci basati sulla diagnosi e sulla terapia. La prevenzione secondaria è invece identificabile con la diagnosi precoce e quindi viene effettuata allo scopo di arrestare l'evoluzione del t. nelle fasi iniziali del suo sviluppo. Essa viene realizzata attraverso le iniziative di screening delle popolazioni a rischio. Per quanto riguarda il t. al collo dell'utero, ad esempio, è stato dimostrato che la razionalizzazione dello screening mediante il cosiddetto pap-test (V.) può ridurre notevolmente il rischio di insorgenza della patologia ed evitare circa l'1% della mortalità globale per t. È stato inoltre dimostrato che l'utilizzo razionale della mammografia (V.), combinata con la visita clinica, può abbattere del 20-30% la mortalità per carcinoma della mammella nelle donne di più di 50 anni. Più incerti sono invece i dati sull'efficacia dei programmi di screening per i t. della prostata, per il cancro del colon-retto, della vescica, dello stomaco e dell'esofago, mentre ancora insoddisfacenti sono i programmi di diagnosi precoce nei t. polmonari. ║ Diagnosi: per le diverse neoplasie sono stati proposti protocolli diagnostici finalizzati a dimostrare la presenza del t. seguendo criteri di costo-beneficio e di accuratezza diagnostica. La prima fase dell'iter diagnostico è rappresentata dalla dimostrazione citologica o istologica della neoplasia e dalla successiva stadiazione della malattia, due elementi fondamentali per porre basi terapeutiche razionali. La diagnostica si avvale di indagini di laboratorio, di indagini strumentali e citoistologiche. Le indagini di laboratorio consentono di evidenziare segni indiretti e, in alcune neoplasie, diretti della presenza del t. e di dosare, con metodi immunologici (immunodiagnostica), gli indicatori bioumorali di neoplasia, altrimenti noti come marker tumorali (antigeni tumorali, ormoni, enzimi e prodotti vari del metabolismo), che rappresentano validi indicatori di crescita e di attività tumorale. I marker tumorali, infatti, definiti come sostanze misurabili nel siero la cui identificazione in concentrazioni anomale può rispecchiare la presenza di una neoplasia, consentono una buona definizione dell'estensione del t. e permettono un significativo monitoraggio delle terapie adottate soprattutto in funzione della diagnosi precoce delle recidive. Tra i più noti e più utilizzati vi sono gli antigeni oncofetali (proteine che nelle cellule sane sono sintetizzate in abbondanza nella fase dello sviluppo tissutale per poi non essere presenti che in tracce negli stadi successivi di differenziamento dell'adulto), fra cui spiccano il CEA e l'alfa-fetoproteina (AFP). Il CEA (dall'inglese Carcinoembryonic Antigen), prodotto nel corso della vita fetale da diversi tessuti, è una proteina glicosilata di membrana coinvolta nella regolazione dei rapporti tra la massa neoplastica in espansione e le cellule dei tessuti circostanti. Questa proteina è presente in concentrazioni piuttosto elevate nei tessuti endodermici e nel plasma sanguigno dei pazienti affetti da carcinomi del tratto digerente (pancreas, colon e retto). L'alfa-fetoproteina è una glicoproteina del gruppo delle alfa-globuline secreta normalmente durante la vita fetale dal fegato e dal sacco vitellino. L'aumento della concentrazione di tale proteina nell'organismo adulto avviene in corso di gravidanza, in alcune condizioni non neoplastiche ma anche in presenza di un carcinoma epatocellulare, testicolare, ovarico o extragonadico. Le indagini strumentali, invasive e non, comprendono, tra le altre, tecniche radiologiche (radiografia, mammografia, scintigrafia, ecc.), ecografiche e nucleari (tomografia assiale computerizzata e risonanza magnetica nucleare). Per visualizzare le lesioni tumorali a livello dei vari apparati e delle cavità viene impiegata la tecnica endoscopica, accompagnata dalla biopsia che consente una diagnosi citologica e istologica anche molto precoce (sempre più diffusa è la biopsia con ago sottile). Le indagini citoistologiche, infine, consentono di realizzare il riconoscimento morfologico delle cellule neoplastiche avvalendosi anche di tecniche immunoistochimiche. ║ Stadiazione: la stadiazione della malattia tumorale, attuata attraverso un complesso di indagini diagnostiche finalizzate a stabilire l'estensione anatomica (sia nella sua localizzazione primitiva sia negli eventuali siti metastatici) della neoplasia, è di fondamentale importanza per diverse ragioni, fra cui la formulazione di un giudizio prognostico, la determinazione del programma terapeutico complessivo e la valutazione della risposta a metodiche sperimentali di cura. L'estensione anatomica della malattia, standardizzata a livello internazionale mediante il sistema di classificazione TNM, viene valutata in base ai tre parametri biologici che, più degli altri, condizionano la gravità di una neoplasia: la dimensione del t. primitivo (T), il coinvolgimento dei linfonodi regionali (N) e la presenza di metastasi a distanza (M). Ciascuna di queste categorie, a sua volta, viene suddivisa in sottogruppi a seconda delle dimensioni progressivamente crescenti del t., del numero di linfonodi coinvolti nelle stazioni linfatiche che drenano la regione colpita e infine della presenza o meno di metastasi a distanza. In base alle tre variabili sopra menzionate, alla neoplasia viene assegnato uno stadio di gravità, generalmente compreso tra uno e quattro, al quale è correlata la speranza di guarigione e di sopravvivenza dell'individuo malato. Per ciascuno stadio l'esperienza scientifica ha messo e va mettendo progressivamente a punto il migliore protocollo di trattamento possibile, tenendo conto dell'oggettiva speranza di successo e dei possibili effetti collaterali della terapia sulla neoplasia specifica. Pur con le inevitabili limitazioni, questo sistema ha consentito l'ottimizzazione dei trattamenti antitumorali e lo scambio di informazioni piuttosto precise fra i vari centri oncologici di ricerca e di cura. ║ Terapia: la terapia del t., finalizzata a eliminare la proliferazione neoplastica e a prevenirne le recidive locali o a distanza, si avvale di tecniche farmacologiche, radiologiche e chirurgiche, alle quali, negli ultimi decenni, sono state affiancate nuove modalità di approccio terapeutico. In funzione delle caratteristiche istologiche, della localizzazione, dell'eventuale grado di diffusione della neoplasia, questi strumenti terapeutici vengono impiegati in modo isolato o associati tra loro in un programma opportunamente studiato. ║ La chemioterapia consiste nella somministrazione controllata di farmaci antitumorali o antiblastici che bloccano la proliferazione cellulare agendo sulle diverse tappe della duplicazione del DNA e della divisione mitotica. Tali farmaci, distinti in antimetaboliti, alchilanti, antibiotici, ecc., vengono somministrati secondo schemi di dosaggio, di associazione (contemporanea o sequenziale) e di durata stabiliti in protocolli terapeutici già concordati e scelti in base alle caratteristiche istologiche e al tipo di cinetica cellulare del t., al fine di agire sulle cellule neoplastiche nel momento della loro massima sensibilità. I farmaci attualmente in uso, purtroppo, non consentono di esercitare un'azione specificamente diretta contro le cellule tumorali, ma colpiscono indistintamente, anche se in misura minore, tutte le cellule in fase di replicazione attiva, presenti in particolare nei tessuti ad alto ritmo proliferativo (midollo osseo, mucosa orale e gastrointestinale, ovaio, testicolo, bulbo pilifero), provocando in molti casi effetti collaterali quali diminuzione dei globuli bianchi, rossi e delle piastrine (mielodepressione), irritazione della mucosa del cavo orale, nausea, vomito e diarrea, irregolarità mestruali, caduta dei capelli, ecc. Allo scopo di minimizzare, per quanto possibile, tali inconvenienti, la chemioterapia viene effettuata secondo schemi terapeutici che prevedono cicli curativi di alcuni giorni alternati a intervalli di riposo della durata di 3-4 settimane; essa inoltre viene attuata attraverso l'associazione di più farmaci (polichemioterapia) che, grazie ai differenti meccanismi d'azione, sono in grado di aumentare l'effetto antiblastico globale, diminuendo nel contempo la tossicità d'organo o di apparato. Per quanto riguarda i farmaci antiblastici che danno mielodepressione, gli effetti collaterali possono essere notevolmente attenuati con la somministrazione dei fattori di crescita, che consentono un ottimo recupero emo- e leucopoietico in tempi brevi. In alcuni casi la chemioterapia viene attuata a scopo precauzionale (chemioterapia adiuvante) successivamente all'intervento chirurgico di asportazione, al fine di eliminare eventuali metastasi microscopiche già disseminate, o in caso di interessamento dei linfonodi, o ancora in alcuni t. dell'infanzia. Dagli anni Novanta del XX sec. la chemioterapia viene utilizzata anche prima degli interventi chirurgici (chemioterapia neoadiuvante) allo scopo di ridurre la massa tumorale e quindi di renderla più facilmente asportabile per via chirurgica, come in alcuni carcinomi mammari, del cavo orale, dell'esofago, della vescica e in caso di osteosarcoma. Dati confortanti provengono anche dalla chemioterapia ad alte dosi, un tipo di chemioterapia utilizzato, in associazione ai fattori di crescita, per il trattamento di alcuni t. del sistema ematopoietico, quali il linfoma non-Hodgkin, e, al momento solo in fase di sperimentazione clinica, il carcinoma polmonare a piccole cellule e quello della mammella. La chemioterapia regionale intrarteriosa trova invece un'applicazione preferenziale nel trattamento di quelle neoplasie che interessano distretti corporei le cui arterie siano facilmente incannulabili, come le metastasi epatiche dei t. del colon-retto e i carcinomi della testa e del collo. La chemioterapia intracavitaria, infine, rappresenta una tecnica ancora sperimentale per la cura del t. a carico della cavità peritoneale. Il successo di una chemioterapia è subordinato a fattori dipendenti sia dal paziente (il cosiddetto performance status, determinato dal suo stato di salute generale e dall'età) sia dalle caratteristiche intrinseche del t., e risulta tanto maggiore quanto più precoce è il trattamento farmacologico (che riduce il fenomeno della resistenza tumorale) e quanto più rigorosa è l'adesione allo schema terapeutico. Poiché negli ultimi anni è stata dimostrata la natura apoptotica della morte delle cellule tumorali, accanto ai chemioterapici cosiddetti “tradizionali” sono stati sviluppati farmaci capaci di indurre apoptosi, ovvero di provocare nelle cellule neoplastiche una morte “programmata”, attraverso la quale è possibile ridurre la massa tumorale e le eventuali metastasi, evitando inoltre i gravi fenomeni infiammatori associati alla morte traumatica delle cellule. ║ Grazie ai progressi della fisica nucleare, alle aumentate conoscenze in campo radiologico e al miglioramento delle misure di radioprotezione, la radioterapia (o terapia radiante) è diventata uno strumento terapeutico sempre più efficace nel trattamento, a scopo sia palliativo sia curativo, di numerose neoplasie. Di queste ultime, le più sensibili al danno indotto da radiazioni sono quelle del sistema linfatico, il seminoma del testicolo, i carcinomi indifferenziati delle prime vie aeree e digestive, alcuni sarcomi, i t. del corpo dell'utero, il carcinoma mammario, i t. del grosso intestino e di alcune ghiandole endocrine, dell'ovaio e del testicolo. Complementare all'intervento chirurgico, la radioterapia può precederlo o seguirlo: nel primo caso il trattamento ha lo scopo di ridurre la massa tumorale rendendola così operabile, mentre nel secondo caso viene utilizzata per eliminare possibili focolai microscopici residui. In associazione alla chemioterapia, essa ha lo scopo di consolidare le risposte farmacologiche in alcuni tipi di t. fra cui i linfomi. Dal punto di vista clinico, questa terapia ha dimostrato una migliore tollerabilità se viene suddivisa in più frazioni: lo schema di frazionamento attualmente più diffuso consiste nel ripartire la dose totale di radiazioni in cinque frazioni settimanali. Solo in casi specifici e compatibilmente con la tecnica utilizzata vengono impiegate frazioni singole a dose elevata o dosi singole molto basse diluite nel tempo. Nella radioterapia vengono usate radiazioni ionizzanti elettromagnetiche, rappresentate da raggi X (prodotti dagli apparecchi di roentgenterapia, dagli acceleratori e dai betatroni) e raggi gamma (generati dalle unità di telecobaltoterapia e telecesioterapia), e radiazioni corpuscolari costituite da fasci di particelle cariche, quali protoni, ioni, particelle alfa, e da fasci di neutroni (adroterapia o radioterapia con particelle pesanti). Tutte queste radiazioni, che interagiscono con la materia vivente provocando la ionizzazione degli atomi colpiti e la rottura delle molecole che contengono questi atomi, hanno come bersaglio diretto o indiretto il DNA e come scopo ultimo l'inattivazione funzionale della cellula neoplastica. L'effetto terapeutico di queste radiazioni si basa su un'azione selettiva lenta e graduale che a poco a poco induce nelle cellule bombardate un danno incompatibile con la sopravvivenza. Oltre alla radioterapia esterna, nei casi che si prestano all'applicazione locale di radiazioni viene utilizzata anche la radioterapia interstiziale (altrimenti nota come curieterapia): essa prevede l'infissione di preparati radioattivi in forma di aghi, fili o semi direttamente nel tessuto neoplastico e consente l'erogazione di dosi elevate di radiazioni in un piccolo volume e in un tempo relativamente breve. Trova impiego nel carcinoma del labbro, della bocca, della lingua, della pelle, della mammella, della vulva e dell'ano. Recentemente introdotta in via sperimentale per migliorare le strategie terapeutiche di alcuni t. addominali, la radioterapia intraoperatoria, effettuata durante l'intervento chirurgico, ha lo scopo di indirizzare le radiazioni soltanto sul tessuto tumorale risparmiando i tessuti sani circostanti. La radioterapia metabolica, che trova impiego nella cura delle metastasi da t. della tiroide, prevede l'uso di sorgenti radioattive artificiali (iodio radioattivo) introdotte per via orale o endovenosa e consente un'efficace e costante azione terapeutica anche sui focolai più inaccessibili. La radioterapia, come già accennato, può essere impiegata non solo a scopo terapeutico ma anche palliativo. In questo caso si propone di migliorare la qualità di vita del paziente, agendo solo sul sintomo, sia esso di compressione, di occlusione o di infiltrazione. Come la chemioterapia, anche la radioterapia può infine essere utilizzata, a scopo precauzionale, per eliminare tutti gli eventuali focolai metastatici rimasti dopo il primo intervento terapeutico. Nonostante i grandi miglioramenti a cui è andata incontro, la terapia radiante non è ancora priva di effetti collaterali dovuti ai danni immediati e tardivi provocati sui tessuti sani. Si possono manifestare danni immediati a livello dei tessuti in rapida proliferazione, come cute, mucose, midollo osseo, particolarmente sensibili all'azione lesiva delle radiazioni ionizzanti, e lesioni tardive, indipendenti dai primi, a carico del tessuto connettivo e dei vasi. Queste ultime comprendono anche l'osteoporosi dei distretti colpiti, la cataratta a carico del cristallino, la sterilità, l'immunosoppressione e danni al sistema cardiovascolare. Non va dimenticata inoltre l'azione mutagena e teratogena delle radiazioni. ║ Il trattamento chirurgico dei t. assume un ruolo centrale sia in fase terapeutica, mediante l'asportazione della massa tumorale e la ricostruzione della parte lesa, sia in sede diagnostica, tramite l'esecuzione della biopsia, permettendo di giungere alla corretta stadiazione della neoplasia. Dal punto di vista strettamente terapeutico, la chirurgia si distingue in tre filoni principali: chirurgia radicale, a scopo prettamente terapeutico, chirurgia palliativa, finalizzata ad alleviare la sintomatologia determinata dalla presenza della neoplasia, e chirurgia complementare ad altre metodiche terapeutiche che fanno uso di mezzi farmacologici o fisici. Assai recente è inoltre la chirurgia ricostruttiva, una branca della chirurgia sviluppatasi in seguito alla necessità di assicurare un recupero funzionale e riabilitativo del paziente operato. Obbligatoria in tutti i t. della cavità toracica e addominale, la chirurgia radicale si propone di asportare tutta la massa tumorale visibile e anche le ghiandole linfatiche più vicine alla sede della neoplasia, che rappresentano le localizzazioni secondarie (metastasi) più probabili da cui può partire la diffusione del t. a tutto l'organismo. Ove possibile, viene realizzata una chirurgia di tipo conservativo che consente di ottenere, rispettando la radicalità dell'intervento, risultati meno mutilanti e più accettabili per il paziente. La chirurgia e la microchirurgia oncologica fanno sempre più uso del laser soprattutto quando si teme la presenza di metastasi e quando si interviene su tessuti fortemente irrorati. Buoni risultati si stanno ottenendo in molti tipi di t. come l'osteosarcoma, alcuni t. della laringe, del retto, della vescica, e nelle neoplasie della mammella di ridotte dimensioni, dall'associazione chirurgia radicale-chemioterapia. Talvolta è la chirurgia a venire in aiuto della chemioterapia: ciò accade, ad esempio, nei t. molto voluminosi non completamente asportabili, in genere poco vascolarizzati e quindi difficilmente raggiungibili dai farmaci antiblastici e, per di più, ricchi di cellule farmacoresistenti. In questo caso la riduzione chirurgica preventiva della loro massa li può far diventare più sensibili all'ulteriore chemioterapia. In caso di t. non asportabile, la chirurgia palliativa, spesso impiegata in condizioni d'urgenza, può almeno alleviare i sintomi provocati dalle neoplasie. Viene utilizzata per ovviare a occlusioni acute, per tamponare emorragie e per alleviare dolori forti. ║ L'utilizzo dell'ormonoterapia nel trattamento delle neoplasie è nato dalla constatazione dell'esistenza di neoplasie, come il carcinoma della mammella e quello della prostata, che hanno uno sviluppo dipendente dall'azione di alcuni ormoni. Attuata per lo più successivamente all'intervento chirurgico, essa ha lo scopo di contrastare o di impedire lo stimolo cancerogeno da parte dell'ormone somministrato. Nel caso del t. alla mammella si può ricorrere all'asportazione delle ovaie, fisiologicamente deputate alla produzione degli estrogeni, o alla somministrazione di farmaci in grado di bloccare l'azione da essi esercitata. Per quanto riguarda il t. della prostata il trattamento ormonale, più complesso, può interessare la produzione degli ormoni, la regolazione ipofisaria della secrezione e l'azione periferica degli androgeni. ║ Un ruolo rilevante nel campo delle terapie antineoplastiche è stato acquisito dall'immunoterapia: l'osservazione sperimentale che i soggetti malati di t. hanno una risposta immunologica antitumorale, sebbene insufficiente per combattere la patologia, ha spinto infatti a ricercare metodiche con le quali sia possibile potenziare la capacità, al momento ancora piuttosto scarsa, del sistema immunitario di fronteggiare l'espansione neoplastica. Le strategie attualmente in studio sono riassumibili in due categorie: l'immunoterapia passiva, che si avvale di anticorpi capaci di esercitare un effetto citotossico, di indurre la lisi delle cellule neoplastiche mediata dal sistema del complemento o di veicolare molecole farmacologiche ad azione antitumorale, e l'immunoterapia attiva, consistente nell'utilizzare sostanze che, se inoculate nel paziente, sono in grado di stimolare in modo più o meno specifico il sistema immunitario. Inizialmente basata sull'impiego di antisieri (sieroterapia), l'immunoterapia passiva ha acquisito nuove prospettive con l'avvento degli anticorpi monoclonali: mediante opportune tecnologie di laboratorio è infatti possibile produrre anticorpi da utilizzare in modo specifico contro l'antigene neoplastico bersaglio o come vettori di molecole citotossiche (come i chemioterapici) o ancora come agenti lisogeni. L'immunoterapia attiva si basa sull'impiego di sostanze capaci di attivare le naturali difese immunitarie dell'organismo contro il cancro, come il BCG, ossia il bacillo tubercolare bovino inattivato, il Corynebacterium parvum, il muramilpeptide e altre sostanze, e si occupa di mettere a punto “vaccini” antitumorali a scopo terapeutico. Questi vaccini sono ricavati da cellule tumorali autologhe (cioè cellule tumorali del paziente stesso) o allogeniche (provenienti dal t. di un altro paziente) HLA compatibili e dai loro antigeni (antigeni di differenziazione, antigeni tumore-ristretti, antigeni unici derivanti da mutazioni di proteine note, antigeni comuni a t. di diverso istotipo originatisi da mutazioni di proteine oncogene) resi altamente immunogenici mediante trattamenti specifici. Rientra nell'immunità attiva anche un altro metodo, estremamente interessante, finalizzato alla produzione di cellule dotate di reattività non specifica verso t. immunogeni o verso t. non immunogeni. Questo metodo, che si basa sulla somministrazione di interleuchina 2 da sola o insieme a particolari linfociti (LAK), ha portato in alcuni studi sperimentali allo sviluppo di una spiccata attività immunitaria, in grado di controllare la crescita delle metastasi e, in alcuni casi, di far regredire la neoformazione. Potenzialmente interessante risulta infine l'approccio terapeutico basato sull'utilizzo di molecole ad azione modulante, capaci di inibire la crescita tumorale mediante la stimolazione di risposte biologiche dell'organismo colpito dalla malattia. Tra queste sostanze vi sono citochine, linfochine, interferone alfa, retinoidi, estratti timici, prodotti batterici, ecc., utilizzati da soli o in associazione tra loro. ║ Promettente ma ancora in gran parte da percorrere è la strada rappresentata dalla terapia genica, ovvero quell'insieme di tecniche di trasferimento del DNA mediante le quali si può procedere all'inserimento, nelle cellule alterate, di geni funzionanti che consentono il ripristino della funzione normale oppure all'attivazione delle cellule del sistema immunitario contro il t. In questo secondo caso si procede con la rimozione chirurgica delle cellule neoplastiche, l'inserimento di un “gene attivatore” esogeno (per esempio il gene del tumor necrosis factor o il gene dell'interleuchina 2), capace di modificare la natura della cellula tumorale rendendola bersaglio del sistema immunitario, l'irradiamento delle cellule tumorali, finalizzato a evitare il loro attecchimento nell'organismo e la produzione di nuovi t., e la reinoculazione locale nel paziente. Una strategia diversa, messa a punto per la terapia genica di alcuni t. del sistema nervoso, si basa sull'utilizzo dei vettori retrovirali, che hanno la proprietà di integrarsi solo nelle cellule in divisione. Grazie infatti a questa proprietà, l'iniezione stereotassica in questi t. di vettori codificanti per geni ad attività citotossica porta all'assunzione del gene soltanto da parte delle cellule neoplastiche. Una specifica applicazione di questa strategia prevede l'uso di “geni suicidi” che, mediante la somministrazione al paziente di un farmaco non tossico a livello sistemico, permettono la specifica eliminazione delle cellule che lo contengono. L'identificazione e la clonazione dei geni codificanti per gli antigeni associati al t. potrebbero cambiare radicalmente l'approccio della terapia genica alle patologie neoplastiche. Il trasferimento di questi geni, inizialmente identificati nei melanomi e oggi riconosciuti in una serie di neoplasie, in appropriate cellule del sistema immunitario o in altre cellule in grado di presentare efficacemente i determinanti antigenici può rappresentare in un futuro prossimo il presupposto per la produzione di efficaci vaccini specifici contro le cellule tumorali. • Agr. - Massa di tessuto di solito priva di organizzazione che si forma in seguito a proliferazione cellulare. Di dimensioni e forma assai variabili, i t. possono essere provocati da microrganismi quali batteri, funghi e virus, da insetti, da alterazioni del metabolismo e dell'equilibrio ormonale, da squilibri nutritivi e anche dall'esposizione a temperature troppo rigide. Tra i batteri che provocano la formazione di neoplasie nelle piante si ricordano: l'Agrobacterium tumefaciens, responsabile di svariate forme tumorali (galle, tubercolosi) sulle radici, nella zona del colletto e sul tronco di varie piante arboree (pesco, vite, ciliegio, melo, ecc.), e lo Pseudomonas savastanoi, agente della rogna o tubercolosi dell'ulivo. Tra i funghi provocano l'insorgenza di t. soprattutto le uredinali, le ustilaginali nonché alcune peronosporali e plasmodioforacee. I virus provocano t. da ferita mentre gli insetti causano la formazione di galle in vari organi vegetali.
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