Tragèdia.

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Tragèdia.

(dal greco tragoidía, der. di trágos: capro e oidé: canto). Opera e rappresentazione drammatica, in versi o in prosa, di tono e stile elevato, lo svolgimento e soprattutto la conclusione della quale sono segnati da eventi luttuosi e violenti, ricchi di pathos e atti a commuovere: Livio Andronico, Ennio e Nevio composero t. ispirandosi a componimenti greci. ║ Con valore collettivo, l'insieme dei componimenti teatrali di genere drammatico prodotti da una determinata letteratura in un dato periodo storico: la t. inglese del Seicento. ║ Il genere letterario costituito da opere teatrali drammatiche: nell'antichità la t. e la commedia venivano composte con metri e registri linguistici diversi. T. musicale: denominazione non comune dell'opera lirica. ║ Fig. - Avvenimento luttuoso, calamità, grave sventura o disgrazia, che provoca sofferenza e terrore: il terremoto in Turchia del 1999 fu una vera t. per tutti gli abitanti della zona. ║ Fig. - Fare t.: in senso iperbolico, in riferimento a persona che ha reazioni esagerate di fronte a contrarietà o piccoli dispiaceri, addolorandosi o adirandosi in modo eccessivo (per una parola in più è capace di fare una t.). - Encicl. - La questione dell'origine della t. ha impegnato i più dotti ellenisti dall'età alessandrina ai nostri giorni. La parola attica tragoidía è di etimologia incerta: evidente è il significato degli elementi che la compongono (trágos: capro e oidé: canto), ma già in età greca non si sapeva con certezza se il senso della parola fosse canto per un capro (vale a dire che ha per premio un capro), oppure canto dei capri, cioè di attori mascherati da capri (V. OLTRE). Il significato più probabile sembra essere quest'ultimo. Sulla base di questo etimo sembra possibile far risalire le origini della t. a quelle del dramma satiresco, mediante l'identificazione dei capri con i Satiri, che costituivano il corteggio di Dioniso. Tuttavia il corteggio dionisiaco non era formato da Satiri, bensì da Sileni, il che indurrebbe a ricercare la nascita della t. (o meglio del ditirambo, l'antichissimo canto corale da cui essa si sarebbe sviluppata) in ambiente peloponnesiaco, dove in effetti i Satiri costituivano il corteggio dionisiaco. E in realtà svariati elementi sembrano ricondurla proprio al Peloponneso, quali la presenza di forme doriche nelle parti corali delle t. attiche. Per di più Aristotele, nella Poetica, fa derivare la t. dal ditirambo, il quale avrebbe ricevuto la sua prima forma regolare da Arione di Corinto. Accanto a questa teoria, oggi condivisa dalla maggior parte degli studiosi, esistono anche altre interpretazioni che prescindono da Aristotele e seguono altre vie, come quella di far derivare la t. da lamentazioni funebri sulla tomba di eroi (Nilsson, Cantarella e seguaci), o da lamentazioni funebri associate a Dioniso. Quale è a noi pervenuta, comunque, essa risulta di fatto una creazione dei Greci dell'Attica.

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In particolare, la t. attica di Eschilo, Euripide, Sofocle e degli altri minori tragici dell'età classica consisteva essenzialmente in una serie di episodi recitati (specie di atti, generalmente in numero di quattro, in trimetri giambici o tetrametri trocaici), alternati con cori (in versi lirici). In questa sequenza, che costituisce l'azione tragica, si inserivano poi parti miste: brani lirici di lamentazione degli eroi in alternanza con il coro (kommói), monodie, duetti e terzetti. L'azione tragica era solitamente introdotta da un prologo recitato e da un canto di entrata del coro (párodos) ed era conclusa da un canto di uscita del coro (éxodos). La t. greca era quindi formata da parti armonicamente disposte, in una equilibrata alternanza di recitazione, canto, musica e danza. Nelle t. più antiche (come, per esempio, nelle Supplici di Eschilo), il protagonista principale dell'azione era il coro; in seguito le parti corali tesero a staccarsi dalla vicenda, assumendo la funzione di intermezzi lirici nei quali il poeta esprimeva le sue meditazioni poetiche e giudicava le vicende del dramma alla luce della morale corrente o della propria sensibilità. Gli attori, chiamati hypokritái (risponditori) e anche, dalle maschere che indossavano, prósopa, erano esclusivamente di sesso maschile e venivano distinti, a seconda dell'importanza, in protagonisti, deuteragonisti e tritagonisti. Inizialmente c'era un unico attore, al quale se ne affiancò un secondo con Eschilo e un terzo con Sofocle, con l'aggiunta in casi rari di un personaggio muto (kophón). Gli attori indossavano alti calzari detti coturni, ricoprivano parti diverse nello stesso dramma e utilizzavano il dialetto attico, inframmezzandolo con ionismi nei racconti estesi (rhéseis). Secondo la tradizione, questa struttura della t. prese l'avvio con Tespi, che avrebbe allestito la prima rappresentazione tragica in Atene, all'epoca della 61a olimpiade (536-33); tuttavia di questa prima fase non si sa praticamente nulla. Il suo ingresso nella storia la t. lo fece infatti con Frinico, che compose una Presa di Mileto portando sulla scena argomenti di storia contemporanea, per poi raggiungere l'apice della perfezione strutturale e artistica con Eschilo, Sofocle ed Euripide. Va comunque ricordato che la rappresentazione della t. greca aveva assai poco in comune con quella delle t. moderne, anche se già in età ellenistica e romana molti elementi tipici del dramma classico passarono in secondo piano. Della rappresentazione tragica si occupava lo Stato: essa era una sorta di liturgia imposta ai cittadini ricchi e aveva carattere sacrale. Al centro dell'orchestra del teatro si innalzava infatti l'ara del dio Dioniso e al sacerdote del dio era riservato in teatro un posto d'onore; l'occasione stessa dell'allestimento dei drammi era offerta dalle feste di Dioniso. Conformemente al suo carattere sacro, la t. doveva essere scritta in lingua e stile sublimi, lontani da ogni espressione volgare, e presentare personaggi fortemente idealizzati, anche quando fossero umili pastori, contadini o soldati.

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I suoi soggetti venivano attinti dal mito eroico, quale era offerto nei poemi omerici e ciclici, ma anche le t. di contenuto non mitico, come I Persiani di Eschilo, cantavano gesta di alto valore, quali le grandi sventure e glorie nazionali. Protagonisti della t. erano eroi e dei; a questi si affiancavano anche personaggi umani, le cui azioni, al pari di quelle dei primi, erano compenetrate dall'atmosfera mitica. All'antico carattere sacro della t. è dovuto anche lo stretto legame che essa conservò sempre con la musica e con la danza, in quanto elementi essenziali dell'éthos tragico; e, quando il coro perse la sua originaria importanza e cominciò a essere considerato d'impaccio allo sviluppo della vicenda, Euripide vi sostituì duetti lirici e monodie (avvalendosi delle innovazioni musicali di Timoteo). Dal carattere religioso della t. attica dipendevano inoltre il ruolo e la missione che il drammaturgo si attribuiva: lungi dal voler essere un semplice poeta, quest'ultimo si poneva infatti come maestro di vita religiosa e morale dei suoi concittadini. Soprattutto nei cori venivano infatti affrontate le questioni cruciali della coscienza ateniese del V sec.: la colpevolezza e l'innocenza, la responsabilità umana e divina, l'infelicità dell'uomo, la giustizia degli dei. Pertanto il pubblico trovava nella t. non solo il diletto estetico, ma anche una delle forme educatrici per eccellenza: immedesimandosi con gli eroi sulla scena e partecipando alle loro vicende, gli spettatori potevano infatti purificare le loro passioni e i loro sentimenti attraverso la catarsi. Generalmente, il soggetto della rappresentazione era già noto al pubblico; l'interesse di quest'ultimo era diretto, pertanto, soprattutto all'arte con cui il poeta aveva saputo trattare i fatti. In Eschilo la vicenda mitica veniva sviluppata ampiamente e con profondo senso religioso nella trilogia, che consentiva di dare al dramma uno svolgimento completo: uno dei massimi esempi è costituto dall'Orestea. Con Sofocle ed Euripide, il centro dell'interesse si spostò dalle vicende di una generazione a quelle di un solo personaggio. Euripide, anzi, abbandonò la tradizione antica e scrisse t. singole di contenuto assai vasto: esempi classici ne sono Le Troiane o l'Ecuba. Inoltre, conformandosi allo spirito del suo tempo, dominato dalla Sofistica e da Socrate, Euripide interpretò liberamente e criticamente i miti, introducendo nuovi espedienti tecnici: tra questi, il deux ex machina che, risolvendo meccanicamente la vicenda tragica con un intervento dall'alto, permetteva al poeta di giungere a una conclusione rasserenatrice. Ai tre grandi poeti tragici del V sec. a.C., Eschilo, Sofocle ed Euripide, si accompagnarono e seguirono numerosi drammaturghi di scarso rilievo, della maggior parte dei quali ci è giunto solo il nome; tra essi va ricordato Agatone, più giovane contemporaneo di Euripide. Retorica e razionalismo spensero poi la t., che nel IV sec. a.C. non produsse alcuna personalità degna di nota (fatta eccezione, forse, per Teodette e Cheremone). Nella prima età ellenistica raggiunsero relativa notorietà i poeti della cosiddetta Pleiade tragica: Licofrone, Omero di Bisanzio, Sositeo, Sosifane, Eantide, Alessandro Etolo, Filico. In generale le t. della Pleiade, delle quali ci è pervenuta la sola Alessandra di Licofrone, riuscirono a imporsi più per la novità e la grandiosità della messa in scena che per i pregi contenutistici e formali. Nel corso del III sec. a.C. la t. greca fu importata a Roma, dove ebbe successo per tutta l'età arcaica. Accanto a drammi eroici ispirati ai miti greci (fabulae coturnatae) e modellati su Euripide, preferiti per l'interesse accordato alle problematiche morali, furono rappresentati episodi e personaggi del mondo romano, sia storico sia leggendario (fabulae praetextae). Inoltre, mentre i primi drammi erano prevalentemente traduzioni e adattamenti dei modelli greci (Andronico, Nevio, Ennio), nel II sec. a.C., con Pacuvio e Accio, la t. romana assunse caratteri originali, sia per l'invenzione di nuovi accorgimenti scenici sia per la vigorosa rappresentazione delle passioni e dei motivi patetici. Rimasta ancorata all'imitazione, la t. iniziò a decadere nell'ultimo secolo della Repubblica. Dall'età imperiale ci sono stati tramandati il ricordo di una Medea di Ovidio, di cui restano due soli versi, l'intero repertorio di Seneca, destinato molto probabilmente più alla pubblica lettura che alla rappresentazione, e l'Ottavia, presumibile opera di un anonimo autore di poco posteriore al precedente e suo imitatore. Assai cospicuo fu l'influsso esercitato dalla t. greca sul teatro moderno, sia direttamente sia attraverso Seneca. I dettami della poetica rinascimentale, intesi a riprodurre, dapprima in latino e poi nei volgari nazionali, tutti i generi letterari greco-latini, furono applicati prima di tutto alla t., considerata uno dei generi nobili per eccellenza. Ma l'imitazione dei tragici antichi ebbe inizio già nel Duecento-Trecento: A. Mussato, affrontando il tema delle gesta del tiranno Ezzelino, tentò per primo un'imitazione in latino della t. senecana con l'Ecerinis. Dopo questo esperimento il teatro di Seneca esercitò un notevole influsso su tutti i tragediografi in latino dei secc. XIV-XV. Nel frattempo, l'adesione alle teorie della Poetica di Aristotele, sia per quanto concerne la giustificazione morale dell'arte drammatica, sia per la regola delle tre unità di luogo, di spazio e di tempo, orientava in modo sempre più rigoroso qualsiasi tentativo di teatro tragico. Già nel 1514 G.G. Trissino aveva scritto nel rispetto delle teorie aristoteliche la Sofonisba, che fu la prima di una lunga serie di t. "regolari", ovvero composte secondo le riscoperte "regole" greche. I soggetti di questi drammi erano attinti in prevalenza dal mito, e solo in alcuni casi dalla narrazione biblica (La Marianna di L. Dolce) o dal Medioevo (Re Torrismondo di T. Tasso). Non mancarono, tuttavia, drammaturghi che si allontanarono decisamente dai modelli senechiani, come F. Negri (Il libero arbitrio) e A. Leonico che, con Il soldato, diede ai contemporanei il primo esempio di dramma borghese, ispirato alla cronaca quotidiana. Frattanto, nel XVI sec. aveva inizio la grande fioritura del teatro spagnolo, che sarebbe durata fino a tutto il XVII sec. Con il suo stile magniloquente e i suoi procedimenti liberi, la t. spagnola aveva ben poco in comune con l'armonia dei modelli greci e latini; nonostante ciò i drammi di M. de Cervantes, L. de Vega, T. de Molina, P. Calderón de la Barca e altri esercitarono un influsso cospicuo sul teatro di tutto il resto d'Europa. Al principio del Cinquecento in Inghilterra erano ancora in voga i misteri religiosi medioevali; fu solo con la comparsa della Spanish Tragedy di T. Kyd e del Tamburlaine di Ch. Marlowe che ebbe inizio il grande periodo aureo del dramma inglese.

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In particolare, mentre la t. di Kyd fissò il modello tragico che avrebbe dominato per tutto il periodo successivo, con i motivi della vendetta, della simulata follia, del soprannaturale e dell'esotico, l'opera di Marlowe diede il primo grande personaggio tragico della scena inglese, decretando peraltro l'ingresso della prosa nel linguaggio drammatico. In generale i drammaturghi elisabettiani, primo fra tutti W. Shakespeare, espressero un potente sentimento tragico dell'esistenza in forme libere, fondendo elementi tragici e comici e non rispettando, al pari dei loro contemporanei spagnoli, le unità aristoteliche. Fanno eccezione Johnson, campione del Classicismo e autore di due drammi di argomento romano, Seianus e Catilina, e alcuni altri drammaturghi di minore rilievo, quali T. Otway, T. Sackville e T. Norton (Gorboduc, ovvero Ferrex e Porrex, 1560). Tra gli autori tragici inglesi dell'epoca vanno menzionati ancora R. Greene, J. Marston, J. Webster. In Francia, invece, l'interesse accordato al teatro antico fino dalla metà del XVI sec. preparò il terreno alla fioritura della t. classica, che raggiunse l'apice della perfezione artistica e formale sotto il Regno di Luigi XIV. I primi passi in questa direzione furono compiuti da poeti imbevuti di cultura umanistica, quali L. de Baïf e P. de Ronsard, che tradussero i tragici antichi e scrissero t. in latino destinate alle recite nei collegi. Nel 1550 Teodoro di Beza con Il sacrificio di Abramo diede al pubblico francese la prima t. biblica; due anni dopo comparve la prima vera t. profana, Cleopatra prigioniera, scritta da E. Jodelle. Gli autori che operarono tra la seconda metà del XVI sec. e i primi decenni del XVII sec. si sforzarono di creare dei drammi che, pur attingendo alla tradizione antica, andassero incontro ai gusti del pubblico moderno. Tuttavia, i drammaturghi francesi pervennero a una vera e propria restaurazione della t. classica. La prima t. regolare francese, ossequente alle regole e alle unità aristoteliche, fu la Sofonisba, composta nel 1634 da J. Mairet. D'altro canto, la produzione drammatica, romanzesca nonché ricca di spunti vitali, degli autori prediletti dal pubblico nei primi decenni del XVII sec. (J. Desmarets de Saint-Sorlin, J. Rotrou, G. de Costes de La Calprenède) fu offuscata soltanto in seguito all'emergere del genio di P. Corneille, con il quale la t. classica si impose dalla Francia a tutti gli altri Paesi d'Europa. Con Corneille e poi con J. Racine il dramma classico ebbe la sua massima fioritura in età moderna. D'altro canto, imitata e riprodotta, con esiti più o meno felici, da autori francesi, italiani e tedeschi, la t. di questo tipo venne presto esaurendosi; fa eccezione il teatro alfieriano, la cui eccezionale forza drammatica deriva dalla fusione dei canoni classici con una vigorosa ispirazione di natura romantica. La revisione critica alla quale l'Illuminismo sottopose anche le convenzioni letterarie, la riscoperta fuori dall'Inghilterra dell'opera di Shakespeare, insieme al graduale affermarsi del gusto realistico e, con esso, del dramma borghese in prosa, determinarono la crisi della t. classica. I principali sostenitori della necessità di un rinnovamento delle forme tragiche furono D. Diderot in Francia e G.E. Lessing in Germania, che con le loro opere e i loro scritti gettarono le fondamenta di una nuova sensibilità artistica. In epoca romantica, la t. classicheggiante e le tre unità pseudo-aristoteliche alle quali essa si conformava furono sottoposte a ulteriori critiche da A.W. Schlegel in Germania e da A. Manzoni in Italia. Tutto ciò non condusse alla morte della t., bensì alla nascita di un nuovo tipo di teatro tragico: con F.G. Klopstock, J.W. Goethe (Götz von Berlichingen) e F. Schiller in Germania, con G.G. Byron in Inghilterra, con S. Pellico e soprattutto con Manzoni in Italia questo genere, prendendo spunto dai drammi individuali e collettivi, si trasformò in una nuova forma di spettacolo, aperta alle grandi problematiche contemporanee e capace di trasmettere i nuovi ideali morali, religiosi e politici del Romanticismo. Ci furono, naturalmente, anche autori di primo piano che preferirono rimanere fedeli alle forme della t. classica, come Goethe con l'Ifigenia in Tauride, Foscolo e P.B. Shelley; bisogna tuttavia riconoscere che proprio con i poeti romantici il teatro tragico conobbe la sua ultima grande stagione. Dopo la fioritura romantica, la t. trionfò nelle varie forme che essa assunse dall'epoca del Realismo ottocentesco fino ai nostri giorni. Tra la fine dell'Ottocento e il principio del Novecento dominò il dramma borghese di gusto naturalistico; nel contempo figure isolate di poeti, quali Hofmannsthal e G. D'Annunzio, cercarono di far rivivere la t. in versi, senza tuttavia riuscire a incidere significativamente sull'evoluzione del teatro moderno. Nel Novecento della t. come struttura formale rimase ben poco; d'altro canto fu il concetto stesso del tragico a conoscere un notevole sviluppo. Il sentimento tragico dell'esistenza, tramandato dall'antichità ai tempi moderni attraverso opere artistiche, filosofiche e letterarie, trovò espressione in forme diverse, prime tra tutte il romanzo (F. Dostoevskij, F. Kafka, C. Pavese, ecc.) e, in ambito teatrale, rappresentazioni in cui la comunicazione verbale è ridotta all'essenziale (Th. Beckett) o addirittura eliminata per lasciare spazio alle performances corporali del Living Theatre.

"La tragedia greca" di Raffaele Cantarella

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