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Tipologìa.

Classificazione di una molteplicità di individui, fenomeni, fatti, oggetti, elementi e fattori omogenei o similari, in insiemi che si caratterizzano per l'appartenenza a determinati tipi formali e funzionali (t. morfologica e t. funzionale), o per il fatto di essere riconducibili ad altrettanti tipi; anche, la teoria e la prassi con cui viene realizzata tale classificazione: t. dei racconti popolari. ║ Studio di tutto ciò che è attinente alla tipografia. • Dir. - T. dei reati, t. delle pene: la loro suddivisione secondo i vari tipi. • Econ. - T. economica: che ha per oggetto le strutture e i fenomeni economici. • Zool. - T. zoologica: che studia gli animali in quanto classificabili in tipi. • Ind. - T. tecnica, t. industriale: in cui il tipo viene assunto a parametro di distinzione e comparazione di prodotti, strutture e manifestazioni tecniche e industriali. • Bot. - T. vegetale: in fitogeografia, l'individuazione del gruppo di specie caratteristico dell'associazione, vale a dire di quel gruppo di piante che, mostrando di essere accomunate da un'ecologia particolare, risultano adatte a vivere in determinate condizioni ambientali. L'indagine tipologica svolge un ruolo determinante anche nell'ambito applicativo: la conoscenza della t. vegetale di un territorio costituisce infatti un prezioso punto di riferimento per qualsiasi sperimentazione agronomica e forestale. • Ling. - T. linguistica: studio delle analogie e delle diversità strutturali che esistono tra lingue anche appartenenti a ceppi molto diversi, al fine di una loro classificazione tipologica. L'inizio degli studi di t. linguistica va fatto risalire all'inizio del XIX sec. allorché, con l'intensificarsi dei rapporti con le lingue non europee e la conseguente scoperta della non adattabilità di queste ultime al modello di grammatica generale a base greco-latina, fu elaborato il concetto di diversità linguistica (W. von Humboldt). La prima classificazione tipologica fu proposta da F. Schlegel (1808); a questa fecero seguito quella di A. Schleicher (1848) e di A.F. Pott (1849); quest'ultimo distinse quattro tipi: isolante, con assenza di affissazione (cinese); agglutinante, con affissi a funzione univoca e basso grado di fusione con la radice (turco); flessivo, con affissi a funzione multipla e fusi con la radice (indoeuropeo); incorporante o polisintetico, in cui si ha la fusione di molti elementi della frase in un'unica lunghissima parola (eskimo). La t. linguistica ottocentesca, comunque, non andava oltre il livello di parola (cioè si occupava solo di morfologia) ed era strettamente collegata alla classificazione genealogica, a cui forniva un supporto euristico. La linguistica moderna, invece, si è sviluppata nell'ambito delle teorie strutturalistiche, studiando i fenomeni linguistici a prescindere dalle relazioni genealogiche che sussistono tra di essi: se due lingue conservano il tipo della lingua madre comune o hanno subito evoluzioni parallele, la loro somiglianza è data per scontata. In particolare i moderni linguisti, dopo aver riconosciuto la validità del principio della relatività linguistica, hanno preso in esame gli universali linguistici, ovvero le proprietà comuni a tutte le lingue del mondo; quindi, partendo dal presupposto che i tipi linguistici tradizionali sono costrutti teorici ideali insufficienti a descrivere i sistemi linguistici reali, ciascuno dei quali realizza in sé più tipi diversi, hanno cercato di rifondare la t. linguistica secondo nuovi principi. Le lingue sono state messe a confronto sulla base di procedimenti descrittivi derivati da un unico modello teorico, prendendo in considerazione tutti i livelli: fonologico, morfologico, sintattico e semantico. La scoperta di universali linguistici ha inoltre contribuito a classificare meglio la diversità: in particolare, si è cercato di mostrare in che modo le varie realizzazioni sostanziali degli stessi universali formali vengano regolate da principi costruttivi sufficientemente coerenti e distinti da poter costituire dei tipi. Questi principi si realizzano spesso con modalità multilateralmente o unilateralmente implicate (R. Jakobson, J. Greenberg): per esempio, se una lingua possiede la categoria morfologica del duale, allora avrà necessariamente anche quelle del singolare e del plurale, ma non viceversa. Per accreditare la t. linguistica si può ricorrere anche all'analisi statistica. Esistono due tipi fondamentali di approccio alla t. linguistica: quello induttivo, proprio della maggior parte degli strutturalisti, che analizza i fenomeni nelle varie lingue per trarne a posteriori dei principi di carattere generale, e quello deduttivo, tipico dei generativisti, che formula a priori delle ipotesi teoriche per poi verificarne la validità effettiva. Entrambi i procedimenti cercano di giungere all'elaborazione di principi costruttivi generali comuni a vari livelli linguistici, quali l'ordine tra determinante e determinato o tra subordinata e principale (sintassi), l'ordine soggetto-verbo-oggetto (sintassi e pragmatica), le relazioni reciproche tra l'esistenza di preposizioni/ posposizioni (morfologia). Il fatto che la t. linguistica abbia esteso il proprio ambito di ricerca anche alla diacronia (dal punto di vista tipologico i mutamenti linguistici sarebbero solidali tra loro) e alla pragmatica linguistica (inserimento della t. delle lingue nel più ampio quadro della t. dei linguaggi), dimostra che essa, nella dialettica tra particolare e universale, potrà costituire per il futuro un importante punto di riferimento teorico e metodologico. • Paletn. - Scienza che riconosce, definisce e classifica le diverse varietà di manufatti preistorici. Può essere funzionale o morfologica: nel primo caso come criterio di classificazione degli oggetti viene assunto l'impiego presunto al quale essi erano destinati; nel secondo i manufatti vengono raggruppati in base alla forma. • Psicol. - T. psicologica: descrizione e classificazione dei caratteri e dei comportamenti umani. Nella nostra cultura, il primo tentativo di classificazione degli individui sulla base delle caratteristiche del comportamento e della personalità fu compiuto dai medici e dai filosofi dell'antica Grecia. Dietro la grande varietà di aspetti corporei e di comportamenti che distinguono gli individui, Ippocrate cercò di individuare delle proprietà più basilari che potessero rendere conto delle differenze: in questo modo gettò le basi di uno studio di indirizzo biotipologico, noto come dottrina dei quattro temperamenti e destinato a conservarsi oltre il XVII sec. Secondo questa dottrina, il temperamento costituisce la mescolanza di disposizioni affettive e cognitive, nonché il modo in cui queste influiscono sulla condotta manifesta; le qualità psichiche differenziali sono da attribuire agli umori biologici (sangue, flemma, bile gialla e bile nera o atrabile), e questi ultimi al mondo fisico in cui i quattro elementi (fuoco, aria, terra, acqua) assumono connotazioni psichiche che si sommano al loro primitivo significato (caldo, freddo, secco, umido). La predominanza di uno dei quattro umori nella crasi umorale generale determina le caratteristiche morfologiche e psicologiche dell'individuo il quale, in virtù di tale prevalenza, viene classificato come sanguigno, flemmatico, collerico o melanconico. In età moderna la dottrina dei quattro temperamenti fu ripresa e rielaborata da E. Kant. Nella sua Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798) il filosofo tedesco distinse i temperamenti in due gruppi (del sentimento, sanguigno e melancolico, e dell'attività, collerico e flemmatico), e fornì una serie di caratterizzazioni tipologiche descrittive, assai vicine, peraltro, alle intuizioni del senso comune. Agli esordi della psicologia moderna la tradizionale t. ricevette una nuova formulazione da parte di W. Wundt, che la rielaborò sulla base di due criteri fondamentali, la forza e la stabilità delle reazioni emotive. Risultarono quattro possibili combinazioni, corrispondenti in modo abbastanza preciso ai quattro temperamenti della tradizione: forte-stabile (melancolico), forte-mutevole (collerico), debole-stabile (flemmatico) e debole-mutevole (sanguigno). Nel corso del XX sec. importanti contributi alla t. vennero da E. Kretschmer, C.G. Jung, I.P. Pavlov e H.J. Eysenck. Avendo stabilito una correlazione statisticamente significativa tra i tre tipi di psicosi endogena (schizofrenia, psicosi maniacodepressiva, epilessia) e i tre tipi di costituzione somatica (leptosomico, picnico, atletico) da lui individuati, Kretschmer effettuò una serie di ricerche (1921) che sfociarono nell'elaborazione di una t. generale, in base alla quale ai vari tipi costituzionali sono associati i caratteri delle schizotimico, del ciclotimico e del viscoso. Assumendo a criterio di classificazione dei due tipi fondamentali, estroverso e introverso, l'orientamento dominante dell'energia psichica (libido) del soggetto verso la realtà o verso le proprie reazioni nei confronti di essa, Jung elaborò invece una t. specificamente psicologica (1921). Questa si articola ulteriormente considerando le quattro funzioni psichiche basilari, cioè sentimento, intelletto, sensazione e intuizione. Pavlov (1935) concentrò la propria attenzione sull'attività nervosa superiore, caratterizzata da processi di eccitazione e inibizione, nonché sulla correlazione esistente tra le tre proprietà che la contraddistinguono: forza, equilibrio e mobilità. Il soggetto forte-equilibrato-mobile corrisponde così al sanguigno, il forte-equilibrato-inerte al flemmatico, il forte non equilibrato al collerico e il debole al melancolico. Gli esiti della ricerca sperimentale furono ripresi e sintetizzati nella t. di Eysenck, che si definisce in base a tre dimensioni fondamentali: introversione-estroversione, neuroticismo e psicoticismo. Oltre a gettare le basi per una teoria scientifica della personalità, la t. di Eysenck ebbe il merito di prendere in considerazione le correlazioni tra caratteristiche tipologiche e biologiche, nonché il problema dell'ereditarietà delle caratteristiche tipologiche stesse. • Sociol. - T. sociologica: che ha per oggetto le strutture e i fenomeni sociali. Più specificamente, in ambito sociologico il concetto di t. designa una tassonomia in cui le categorie fondamentali dell'ordinamento dei fenomeni sociali (i tipi) sono ricavate induttivamente e risultano dall'incrocio di almeno due criteri di classificazione. Nel rapporto tra teoria e ricerca sociale, la t. svolge una funzione prioritaria, di sintesi. Nell'ambito sociologico, il dibattito metodologico sulle t. ha visto contrapporsi due diversi approcci: il primo, di carattere tendenzialmente positivistico, ha riconosciuto l'importanza delle t. in quanto strumenti conoscitivi in grado di riflettere oggettivamente raggruppamenti empirici di fatti sociali, vale a dire qualità comuni a più gruppi sociali; il secondo, di orientamento convenzionalistico e/o strumentalistico, ha posto l'accento sul ruolo orientativo delle t. e sulle loro connessioni con la teoria sociologica da cui parte la ricerca empirica. Il primo approccio ha portato a formulare l'idea dei tipi naturali, dati in re; il secondo è confluito nella sistematizzazione metodologica di P. Lazarsfeld, che si fonda sul concetto della “struttura latente”, sottostante all'immagine dei fenomeni sociali presi in considerazione dalla t. È dato per scontato, tuttavia, che il metodo per elaborare t. sociali si basa principalmente sull'induzione. Del resto lo stesso tipo ideale elaborato da M. Weber, pur implicando un iniziale atto creativo da parte del ricercatore, si determina per la sua aderenza alle tendenze dominanti di un sistema, le cui divergenze rispetto al modello sono da indagare empiricamente. Avvalendosi dello strumento creato da Weber, G. Simmel ha individuato e definito una serie di tipi sociali, a cui i sociologi contemporanei hanno fatto ampiamente ricorso; così il sociologo francese G.D. Gurvitch ha sostenuto il carattere essenzialmente tipologico della metodologia sociologica, mentre lo statunitense P.A. Sorokin ha cercato di definire tre grandi tipi di sistemi socio-culturali (materialistico, idealistico e ideativo). Per definire i tipi sociali si ricorre prevalentemente a metodi qualitativi; tuttavia sono state messe a punto anche tecniche di classificazione tipologica altamente formalizzate in termini quantitativi. Queste ultime partono dal presupposto che la classificazione in tipi mutuamente esclusivi costituisce la forma più semplice di un ordinamento scalare (così, per esempio, la scala di Guttman, considerata da alcuni come un archetipo di classificazione tipologica, è costituita da una sequela ordinata di atteggiamenti, ciascuno dei quali implica necessariamente quello che lo precede). In questa direzione enormi progressi sono stati compiuti dalla psicologia sociale, delle cui tecniche di misurazione degli atteggiamenti si avvalgono i sociologi contemporanei, allo scopo di costruire t. più elaborate di quelle disponibili nell'ambito dei gruppi ristretti e meno vaghe e generiche di quelle formulate dai sociologi classici per classificare i macrosistemi sociali. • Edil. - T. edilizia: i tipi formali di costruzione, nonché la loro funzionalità rispetto alle esigenze dei diversi insediamenti. Il significato dell'espressione si spiega in realtà con quello del suo oggetto, il tipo. Tanto nell'ambito storico-critico quanto in quello tecnico-operativo, quest'ultimo designa qualcosa che esiste in quanto ripetuto e, almeno potenzialmente, ripetibile in più opere singole e differenti tra loro (differenziandosi così dal modello o prototipo della produzione industriale, inteso come il capostipite di un insieme di elementi tutti uguali fra loro). D'altro canto, a seconda delle modalità differenti di “vedere” e di “fare” l'edilizia, questo “qualcosa” può essere inteso come matrice operante per le singole realizzazioni, oppure come semplice strumento per la classificazione a posteriori di queste ultime. Questa problematica, sollevata per la prima volta dal movimento razionalista (V. RAZIONALISMO), ha costituito il punto di inizio di tutte le successive e più avanzate posizioni critiche. Le categorie critico-operative elaborate da queste ultime tendono a essere sempre più aderenti alla complessità della vita sociale e individuale, inglobando nel loro campo d'indagine non solo l'esame di singoli edifici, ma anche il rapporto tra edilizia e architettura da un lato, e tra edilizia e urbanistica dall'altro. Il rapporto tra edilizia e architettura deve essere considerato da due differenti prospettive: come intenzionalità dell'artefice, e come categoria critica dello storico. La problematica si focalizza su quesiti riguardanti scelte di materiale-struttura, di spazio-distribuzione e di coerenza compositiva; lo stesso vale per l'intenzionalità che, aspirando alla forma-organismo in quanto sintesi totale includente ogni altro aspetto umano, si configura come artistica piuttosto che estetica, caratterizzata non solo dall'artefice e dal committente, ma anche dal momento storico e dalla cultura della società nella quale l'opera viene a trovarsi. La distinzione tra edilizia e architettura, invece, dal punto di vista critico non può essere eliminata. Si parla di edilizia quando la forma edificata ha valore non di per se stessa, ma per le sue caratteristiche tecniche, economiche e sociali; in altre parole, la forma edilizia rappresenta una sintesi perennemente in fieri e, pur rientrando nell'ambito artistico, ha valore prima di tutto come entità etico-civile. Si parla di architettura quando la forma costruita, valendo di per se stessa, trascende le sue singole componenti e si configura come una sintesi finita; in questo caso, benché stimabile e storicizzabile in relazione alle sue componenti, la forma avrà un significato di ordine precipuamente estetico-simbolico. Alla luce del rapporto edilizia-urbanistica, il tipo edilizio si configura come l'istituzione attraverso la quale la singola forma edilizia si inserisce nella città. In linea di massima al concetto di tipo edilizio va attribuito un duplice valore: da un lato, di categoria critica capace di riportare la valutazione individuale di una singola opera, o di un aspetto specifico di essa, nell'ambito delle leggi di comportamento storico della società; dall'altro, di categoria operativa qualificante non solo la produzione edile di una società, ma anche quella del singolo artefice all'interno di essa. Se in ogni epoca storica l'opera edile rappresenta una creazione sempre individuale e nuova, essa è anche profondamente condizionata da un'idea di casa sostanzialmente storica, frutto dell'evoluzione della società e della vita stessa. In altre parole, il tipo è una forma-organismo in continua evoluzione, che si rinnova perennemente in un processo autocondizionato dai suoi stessi limiti. Questo processo si realizza in modo diverso non solo da città a città, ma anche, all'interno dello stesso quadro ambientale, da epoca a epoca e, nella stessa epoca, da zona a zona e, nella stessa zona, da edificio a edificio. Al contrario tale processo può essere scientificamente ricostruito: astraendo dalle discrepanze particolari, è possibile ottenere degli schemi di costanti, i tipi appunto, in funzione dei quali raggruppare i singoli edifici. L'unità e la continuità del processo di formazione presuppongono, inoltre, l'esistenza di una relazione che riconduca l'uno all'altro i vari tipi, ovvero l'esistenza di un tipo-base o primario, inteso come matrice dell'intero processo; in questa prospettiva ogni singolo tipo può essere considerato come esito delle successive differenziazioni di tale matrice. Si può affermare che questo tipo-base (detto cellula edilizia) costituisce la sintesi elementare tra struttura e utilizzazione, rappresenta il fattore primigenio costitutivo di ogni struttura edile: essa garantisce la “scala umana” di tutti gli organismi, compresi quelli più grandi e più complessi, in quanto consente il loro rapportarsi per sottomultipli strutturali-spaziali, non frazionabili ulteriormente, alla dimensione fisica e psicologica dell'uomo. Quanto è stato finora asserito implica l'esistenza di un mutuo rapporto tra i singoli edifici-organismi nel contesto urbano. È dato per scontato, infatti, che la città non si comporta come una pura e semplice sommatoria di edifici: la convivenza stessa di questi ultimi non sarebbe realizzabile in assenza di una vita associata e, quindi, di un sistema di relazioni. Tale sistema, già presente in potenza nel tipo edilizio, diviene realmente operante nel momento in cui trova concreta realizzazione. Difatti il tipo, attraverso l'intrinseca strutturazione della cellula edilizia, determina una certa modalità di aggregazione di quest'ultima con cellule simili, quindi un certo modo di impiego del suolo (un sistema di lottizzazione) e, conseguentemente, una certa rete di percorsi a esso connessi, cioè una rete viaria: in questo modo si crea il cosiddetto tessuto urbano, vale a dire un brano di città. I singoli tessuti, poi, si differenziano e si completano nella dialettica sociale, economica e storica risultante dalle caratteristiche dei tipi che li compongono; allo stesso modo si unificano e si coordinano in relazione ai contesti ambientali e ai centri della vita pubblica. In ultima analisi il tipo edilizio, costituendo la cellula base dell'organismo urbano, può esistere solo interagendo biunivocamente con quest'ultimo. Difatti, se all'interno il tipo si configura come continua individuazione delle caratteristiche peculiari del singolo edificio, determinato da condizioni e da esigenze specifiche (localizzazione, committente, artefice), all'esterno esso si inserisce nel processo formativo del tessuto edilizio, divenendo parte integrante dell'organismo urbano.