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Sòcrate.

Filosofo greco. Il solo dato cronologico certo nella vita di S. è il 399 a.C., anno del suo processo e della sua condanna a morte. La data di nascita è assai più incerta: secondo le indicazioni di Platone, egli visse fino a 70 anni e in tal caso sarebbe nato intorno al 470 a.C.; gli studi più recenti però ritengono che Platone non sia completamente affidabile per quanto riguarda la biografia in senso stretto e che S. sia morto circa a 60 anni e sia nato forse nel 459 a.C. Da un punto di vista culturale egli fu contemporaneo di Democrito, pur se di una generazione più giovane, di Anassagora, di cui fu probabilmente allievo o quanto meno lettore della sua opera, e dei sofisti, condividendone la temperie culturale ma traendone conclusioni filosofiche assai dissimili. Figlio, secondo la tradizione, di un artigiano e di una levatrice, studiò nei ginnasi di Atene (musica, geometria, poesia, ecc.) scoprendo presto la propria vocazione filosofica. Il suo ritratto sia fisico sia morale ci è trasmesso dalle fonti in toni piuttosto apologetici (la sua resistenza al freddo e alla fatica, la concentrazione nella meditazione, ecc.), ma la sua rettitudine morale e il suo rispetto per le leggi sono dati condivisi da tutti. Si astenne dall'attività politica, ma assolse con rigore ai suoi compiti di cittadino: in occasione del processo contro i generali vincitori alla battaglia navale delle Arginuse (accusati di non aver tratto in salvo i soldati ateniesi caduti in mare) S. era membro sorteggiato del Consiglio dei Cinquecento e si oppose, senza curarsi dell'impopolarità che poteva derivargliene, a una procedura processuale che era palesemente illegale. S. non lasciò mai la città, se non per svolgere il suo dovere militare come oplita, partecipando alle battaglie di Delio, di Potidea e di Anfipoli, e si dedicò interamente alla speculazione filosofica, che egli intendeva in primo luogo come un esame incessante di se stesso e degli altri. S. non teneva lezioni, anzi, criticava aspramente i sofisti che le impartivano a pagamento, ma dialogava costantemente con i suoi concittadini: tuttavia, non lasciò nulla di scritto per tramandare la sua dottrina. Questo fatto non può essere un caso; non solo si inserisce nel quadro della grande crisi culturale che segnò il passaggio dalla trasmissione orale a quella scritta (e che fu propria anche a Platone), ma riflette anche la specifica concezione socratica della ricerca filosofica, intesa come percorso e relazione e non come nozione. Secondo S., ciò che è scritto e viene letto può forse comunicare una dottrina, ma non consente una ricerca e perciò offre non la sapienza ma la presunzione di essa. Conosciutissimo in città, S. era oggetto o di grande venerazione o del massimo disprezzo: Le nuvole di Aristofane, che proponevano un'ostile caricatura del filosofo, rendono l'idea del clima che si creò intorno a S. e che rese possibile il suo processo e la sua condanna. Meleto, Anito e Licone lo accusarono di empietà e di corruzione della gioventù: si trattava di capi di imputazione spesso utilizzati per realizzare strategie politiche ben definite (come fu, tra gli altri, nel caso dei processi contro Alcibiade, Anassagora o Andocide), ma nel caso di S. vi era in più una certa verosimiglianza nelle accuse stesse. Pur affermando di credere nelle divinità, S. rifiutava infatti le superstizioni della religione ufficiale della polis e i suoi discorsi sul daimon (spirito, forza interiore) che parlava in lui, sembravano voler introdurre nuove divinità. Inoltre, egli incitava i giovani a seguire la ragione, anche quando essa urtasse contro la tradizione o l'autorità dei padri. Giudicato colpevole, avrebbe ancora potuto essere punito con una semplice ammenda pecuniaria o, al più, con l'esilio, ma egli non volle concedere nulla ai giudici, rivendicando apertamente la propria missione educativa (come ci riporta l'Apologia di Platone). Venne così emessa la condanna a bere la cicuta (un veleno mortale) cui egli non volle sottrarsi, secondo il racconto platonico, benché la fuga fosse possibile e forse anche auspicata dalle autorità: ciò per non venire meno al sacro rispetto delle leggi che aveva sempre praticato e sostenuto. ║ Le fonti: in tutta la storia del pensiero occidentale, S. è l'unico filosofo che non abbia lasciato scritti e, nonostante questo, abbia esercitato un'enorme influenza sui posteri. L'assenza di scritti socratici, ancorché spiegabile con la radicale coerenza a una concezione dialettica della ricerca filosofica, pone il problema di ricostruire la vita e il pensiero di S. attraverso fonti indirette. La nostre conoscenze sono infatti ricavate dalle opere di scrittori che si occuparono di lui: Platone (negli scritti detti giovanili o socratici: Apologia di Socrate, Critone, Ipparco, Ippia minore, Alcibiade primo, Protagora, Eutifrone, Liside, Carmide, Lachete, Ippia maggiore, Ione, Menesseno), Senofonte (limitatamente alle opere socratiche: Memorabili, Economico, Simposio, Apologia) e Aristotele (soprattutto brani delle tre Etiche e della Metafisica), oltre che da testimonianze minori, come quella di Diogene Laerzio, Eschine di Sfetto, Aristofane (Le nuvole). La critica socratica ha sfruttato i primi tre autori, considerandoli congiuntamente: il gruppo di dialoghi platonici (in cui S. appare sempre come protagonista o almeno come interlocutore) fornisce il materiale più importante per ricostruire la dottrina originale di S., mentre Senofonte e Aristotele consentono di circoscrivere con più attendibilità il S. storico e di distinguere ciò che gli è genuinamente attribuito dalle posteriori aggiunte e speculazioni di Platone. ║ Il pensiero: uno dei problemi che le fonti dovrebbero aiutare a risolvere è se S. fu un sofista. Nell'Atene del V sec. a.C., la filosofia si era sviluppata nella Sofistica: superata la pur ricca ricerca delle grandi scuole presocratiche sul problema della natura, si affermò l'esigenza di comprendere in primo luogo l'uomo e il suo mondo, la sua vita individuale e sociale. Da questo punto di vista S. si mosse in linea con i sofisti: affrancandosi dall'interesse naturalistico, si dedicò alla ricerca sull'uomo; dai sofisti, tuttavia, si distinse in quanto fu estraneo alla loro deriva pragmatistica e relativistica, conservando un grande rigore metodologico e speculativo. Pur non perseguendo una visione organica e totalizzante dell'universo, S. si impegnò in una ricerca, che potremmo definire etico-politica, che aspirava a una validità universale. Scopo della filosofia era infatti, per S., la ricerca della verità nella sua universalità, ricerca che doveva però radicarsi entro la sfera concreta delle cose umane, nel dialogo e nell'esame incessante di sé. S. assunse come punto di partenza la sentenza dell'oracolo di Delfi Conosci te stesso, che egli interpretò come monito a riconoscere innanzitutto la propria ignoranza. Vero sapiente è solo colui che sa di non sapere, perché in tal modo cercherà di progredire sulla via della verità e della virtù. Chi invece ha la presunzione della sapienza, non si impegnerà a progredire nel cammino della verità, ritenendo di conoscerla già. In ciò stava la netta antitesi e polemica contro i sofisti, la cui sapienza S. definiva come non-sapere. Il mezzo con il quale promuovere in sé e negli altri il riconoscimento della propria ignoranza era per S. l'ironia: essa consisteva in un'interrogazione avente lo scopo di suscitare quell'inquietudine che muove l'uomo alla ricerca e, svelando la vacuità del non-sapere, rappresenta uno strumento di liberazione. Chi veniva interrogato, infatti, era convinto di conoscere qualcosa, sulla base di un'astratta definizione pregiudiziale. Il metodo socratico portava gli interrogati a riconoscere la propria ignoranza, abbandonando definizioni false e astratte: fingendo di accettare le convinzioni dell'interrogato, per mezzo di continue aporie (assenza di vie d'uscita) S. lo costringeva a riconoscerne la falsità. L'ironia, dunque, da un lato consentiva di superare il blocco di qualsiasi dogmatismo, dall'altro istituiva una nuova solidarietà tra i dialoganti, ugualmente impegnati nella ricerca e nel tentativo di avvicinarsi alla conoscenza. S. stesso, che riteneva di possedere una sola conoscenza e cioè quella di non sapere, non intendeva insegnare né una dottrina né un sistema organico e completo, ma un metodo, una passione per la ricerca. Il secondo momento del suo processo educativo (che egli paragonò all'arte della madre, la maieutica) consisteva nel favorire l'altro nel suo parto intellettuale, perché giungesse da sé alla conoscenza. La maieutica, infatti, era per lui l'arte che rende fruttuosa la ricerca di un singolo individuo mediante il dialogo: per questa ragione essa era agli antipodi dell'individualismo radicale dei sofisti. S. praticava una sorta di universalismo, non in quanto negazione degli individui nel loro carattere di singolarità e unicità, ma in quanto affermazione di un vincolo di solidarietà e di giustizia tra gli uomini: solo attraverso un rapporto con il suo simile è infatti possibile all'uomo realizzare il proprio valore. L'esigenza di verità, risvegliata dall'intervento maieutico, impone una ricerca che ha il suo oggetto in valori universali, come la bontà, la giustizia, ecc.: tutti concetti inerenti al campo dell'etica. Sapere e virtù per S. si identificano, perché raggiungere il vero sapere significa anche ottenere la migliore vita possibile. Sapienza e virtù coincidono, perché l'uomo che conosce il vero bene vi aderisce: alla base di ogni colpa c'è l'ignoranza, un errore di giudizio che fa ritenere come vero e conveniente ciò che invece non lo è. Alla luce della razionalità, la virtù è il sommo bene, non in quanto rappresenta un ideale ascetico, ma in quanto è il sommo piacere: solo chi non sa valutare con razionalità sceglie il piacere passeggero in luogo del piacere maggiore e assoluto della virtù. Secondo Aristotele, S. introdusse per primo, con il suo metodo filosofico, due importanti elementi: il ragionamento induttivo e la definizione di universale. Partendo dall'esposizione di un certo numero di casi particolari egli guidava l'interlocutore a riconoscervi un'affermazione generale, espressione di un concetto universale. In tal modo la ricerca del sapere assumeva il rigore di una scienza e, se la virtù era una scienza, allora era anche insegnabile. L'educazione alla virtù era appunto la vocazione cui S. diceva di essere chiamato dal suo demone. Benché S. si sia occupato solo di concetti inerenti alla dimensione etico-pratica e non gnoseologica (oggetto delle sue conversazioni maieutiche, infatti, non era tanto ciò che è quanto ciò che deve essere), la sua importanza nella storia del pensiero occidentale riguarda non solo l'ambito dell'etica ma la dimensione filosofica in senso lato (Atene 570 o 559-399 a.C.).