PERCHÈ L'ITALIA È (SE LO È) UN CASO
L'opinione pubblica
italiana è probabilmente più informata su ciò che accade
nel resto del mondo di quanto l'opinione pubblica degli altri Paesi non sia
informata di ciò che accade in Italia. Sintomo di una certa
marginalità del nostro Paese rispetto ai centri del potere politico ed
economico mondiale (un'attitudine da provincia colta, insomma), questa
attenzione, soggetta a mode e (com'è ovvio) sempre fortemente curvata
sulle convinzioni degli osservatori italiani, non produce necessariamente una
conoscenza davvero approfondita di quei mondi più o meno lontani dei
quali si vorrebbe vantare la dimestichezza. All'opposto, l'attitudine prevalente
tra gli osservatori stranieri (di quelli, almeno, dei quali gli stessi mezzi di
comunicazione di massa divulgano le opinioni; e si tratta in genere di studiosi
e giornalisti europei occidentali o statunitensi) è il disagio
nell'interpretare le vicende del nostro Paese: sia perché poco
corrispondenti ai modelli culturali e ai termini di riferimento politici propri
di quegli osservatori, sia perché contraddittorie con i luoghi comuni e
le opinioni correnti diffuse e alimentate non solo all'estero, ma nel nostro
stesso Paese.
Si è così gradualmente consolidata l'opinione
mistificatoria che esista un «caso italiano»: non nel senso ovvio che
le vicende italiane hanno avuto e continuano ad avere una specificità
storica, allo stesso modo di quelle francesi, inglesi o svedesi; ma nel senso
che ciò che accade in Italia va posto in qualche modo sotto il segno
dell'anomalo, rispetto a metri di paragone e standard europei presuntamente
ottimali. Che è, anche quando si presenta come ammirazione per i
progressi del nostro Paese nei livelli di vita e nelle realizzazioni produttive,
una forma di snobistico complesso di superiorità non sempre
giustificabile.
D'altra parte, i mezzi di comunicazione di massa del nostro
Paese riprendono e rilanciano volentieri questo tipo di attitudine, cogliendo a
pretesto il paragone con questo o quel fenomeno riscontrabile altrove per
suggerire l'esistenza di un’anomalia italiana, di un caso, appunto. La
tendenza a sottolineare le eccezionalità, del resto, non è
esclusivamente italiana. In Gran Bretagna la relativa lentezza dello sviluppo
industriale in questo dopoguerra, che si era tradotta in un relativo
arretramento dei livelli di vita e degli indicatori economici rispetto non solo
alla Germania occidentale, ma anche alla Francia e all'Italia, aveva sollecitato
preoccupate diagnosi sui mali dell'Inghilterra, che avevano accompagnato il
ritorno al potere nel 1979 di un partito conservatore dal programma fortemente
liberista e antiegualitario con l'autocritica accusa di debolezza, nel Paese
iniziatore della rivoluzione industriale, dello spirito industriale.
Per
chi e perché l'Italia sarebbe un caso? Intanto, nella sottolineatura
della particolarità italiana è per lo più sottinteso un
apprezzamento negativo; l'Italia sarebbe un caso perché non ancora
all'altezza di un modello implicito, rappresentato dagli altri grandi Paesi
europei: Germania, Francia, Gran Bretagna, sin dal secolo scorso, del resto,
termini di paragone e fonti di ispirazione di modelli politici o sociali. Questa
accezione della particolarità italiana ha un timbro schiettamente
conservatore; nell'elogio dei treni in orario e delle poste efficienti di altri
Paesi è sottinteso che la diversità italiana va imputata ai
lavoratori, alle organizzazioni sindacali, ecc. ma a questa attitudine
qualunquista ha fatto riscontro, almeno sino agli anni Ottanta,
un’accezione, speculare, di timbro progressista e radicale, secondo la
quale la diversità italiana rispetto ad altri Paesi costituirebbe un
vantaggio, offrendo la possibilità di sviluppi radicali, appunto,
impensabili altrove. Da questo punto di vista, l'effervescenza sociale,
l'inefficienza dei servizi pubblici e manifestazioni minori del costume
nazionale rappresenterebbero segni di anticonformismo, non omologazione dei
comportamenti. Per divergenti motivi ideologici, insomma,
l'«eccezionalità» italiana è stata di volta in volta
assunta al servizio di proposte politiche di segno opposto.
Rispetto alle
altre ex grandi potenze europee l'Italia partiva, alla fine della guerra, da
livelli più o meno nettamente inferiori, qualsiasi indicatore economico e
sociale venisse prescelto: nell'industria, nell'agricoltura, nell'efficienza
dell'apparato statale, nei livelli di alfabetizzazione, negli squilibri
regionali interni, nei consumi privati. Anche se il quadro generale era esatto,
la superiorità dei livelli di vita degli altri Paesi europei era forse
meno omogenea e netta di quanto le statistiche nazionali non dicessero.
Squilibri regionali esistono da sempre anche in Francia e Gran Bretagna (e,
soprattutto dopo l'unificazione, anche in Germania); e le condizioni di vita
negli slum inglesi o nelle banlieue francesi non devono essere mai state molto
più rosee che nelle periferie italiane. I processi di trasformazione
attraversati dall'Italia del dopoguerra (l'industrializzazione massiccia,
l'esodo dalle campagne, l'avvento della società dei consumi, la
secolarizzazione, il cambiamento dei costumi) sono stati del tutto analoghi a
quelli conosciuti in precedenza o nello stesso tempo da Francia, Gran Bretagna e
Germania, e più recentemente da Paesi, come la Spagna o ancora la Grecia
e il Portogallo, partiti ancor più in ritardo. Il caso non sembra
consistere dunque in una eccezionalità di sviluppi, ma semmai nella
rapidità con la quale essi hanno avuto luogo, dando la sensazione che un
Paese considerato all'estero, ma anche abituato a considerare se stesso,
arretrato rispetto ai suoi termini di confronto, abbia bruciato le tappe: una
sensazione riscontrabile anche in Spagna alla fine degli anni Ottanta. Il
«caso» sta perciò nel modo nel quale processi comuni a tutto il
mondo industrializzato hanno interagito con l'eredità di un passato
complesso e ricco e con specifiche difficoltà culturali e sociali.
E
viene da chiedersi, una volta raggiunto negli anni Novanta un largo consenso
sull'avvenuta omologazione del Paese con il resto dell'Europa occidentale (prova
ne è stata l’ingresso dell’Italia nel primo gruppo di Paesi
dell’area euro), se l'enfasi su una presunta particolarità del
nostro Paese non sia stata funzionale soltanto ai progetti politici
conservatori, e se non sia stata invece politicamente meno avvertita (proprio
perché troppo ideologica, e poco fondata su dati di fatto) l'idea che
l'imperfetta omologazione con le altre società industriali dell'Europa
occidentale potesse costituire la base per un progetto politico radicale: una
sorta di trasposizione sul piano della politica del rapporto tra Paesi first
comer e late joiner nello sviluppo industriale.
I CARATTERI ORIGINALI DELLA REPUBBLICA
L'originalità dell'Italia del
dopoguerra è risieduta assai più nelle vicende politiche, che non
negli sviluppi sociali ed economici. Entrata in guerra alleata della Germania
nazista, l'Italia ne uscì in una posizione ambigua: a metà
conflitto essendo passata con il suo Governo ufficiale dalla parte degli
alleati, e avendo combattuto in vaste aree del Paese una guerriglia di
liberazione antitedesca che era stata nel contempo una guerra civile, aveva
concluso il conflitto come cobelligerante degli angloamericani: combatteva
assieme, cioè, ma non era alleata su un piede di parità. Il
trattato di pace, infatti, sancì la perdita delle colonie, di alcuni
territori sul confine orientale (l'Istria e Zara, lasciando inoltre irrisolto
per un decennio il problema della città di Trieste, sotto amministrazione
militare alleata) e un lembo di terra montagnosa sul confine francese (Tenda).
La partecipazione del Paese allo sforzo bellico alleato era stata del resto
importante: non solo la penisola era stata una retrovia e una enorme base
militare per gli anglo-americani, ma soprattutto la guerra partigiana
antitedesca e antifascista aveva avuto un sensibile rilievo militare: per
radicamento, forza e peso la resistenza partigiana italiana non ebbe paragoni
apprezzabili nei Paesi dell'Europa occidentale occupati dai nazisti. Il
movimento di resistenza, che interessò quasi esclusivamente l'Italia
centrale e, soprattutto, settentrionale, presentava forti componenti di
radicalismo politico: la parte che vi ebbero i militanti comunisti e i
liberal-socialisti (azionisti, dal nome del partito d'Azione) ne fece una fucina
di progetti di rinnovamento della vita politica e sociale dell'intero Paese. Il
25 aprile, data della liberazione delle principali città del Nord da
parte delle forze partigiane, divenne subito una festività nazionale
importante e alla lunga è rimasta la sola festività civile,
assieme al Primo maggio e al 2 giugno, ripristinato nel 2001 dopo la
cancellazione fatta durante gli anni Settanta. La nuova Italia ha assunto i
valori dell'antifascismo e della Resistenza (intesi sostanzialmente come
rivendicazione di democrazia politica) a fondamento della legittimità del
nuovo Stato: valori condivisi con enfasi almeno verbale (sebbene con accenti e
con presupposti diversi) da tutti i partiti politici del Paese, tranne
ovviamente le formazioni eredi, sotto altro nome, del Partito fascista.
Tuttavia, un anno dopo la liberazione (2 giugno 1946) il referendum per decidere
se mantenere l'ordinamento monarchico o istituire quello repubblicano
rivelò, nelle ridotte dimensioni del successo repubblicano, l'esistenza
di una fortissima opinione conservatrice e la netta divaricazione tra il Sud,
ignaro di resistenza partigiana e amministrato sin dal 1943 dal vecchio apparato
statale e dagli anglo-americani, maggioritariamente monarchico, e il Centro-Nord
accesamente repubblicano. E se il primo Governo costituito alla liberazione fu
diretto da uno dei capi della resistenza, e rappresentante del partito d'Azione,
Ferruccio Parri, già nel dicembre la direzione della coalizione tra i
partiti antifascisti passò sotto la guida del leader democristiano Alcide
De Gasperi. Sin dalle prime elezioni (1946) risultò evidente la forza,
circa il 40 per cento, dei partiti di sinistra, il Partiti Socialista e
Comunista, in Italia in rapporti assai più cordiali che altrove (in
Francia quello comunista era il primo partito della sinistra, anzi singolarmente
il primo del Paese, ma i rapporti con il Partito socialista erano difficili;
altrove in Europa occidentale i Partiti comunisti erano nettamente minoritari, o
quasi inesistenti, rispetto a quelli socialdemocratici e laburisti).
Risultò anche subito evidente la forza del partito cattolico, denominato
Democrazia Cristiana (Dc), e il ridimensionamento delle tradizionali forze
liberali e del Partito d'Azione, rivelatosi espressione di una piccola minoranza
illuminata, e per giunta divisa, del ceto medio. Ancora durante la guerra
l'orientamento della Chiesa Cattolica nei confronti della politica nazionale era
stato incerto: un'ala della curia non gradiva la ricostituzione di un partito
cattolico (i rapporti tra il papa e il Partito Popolare di don Sturzo non erano
stati facili) e preferiva uno sparpagliamento dei leader cattolici fra tutte le
forze moderate. La Chiesa finì però per puntare sulla Democrazia
Cristiana, che si affermò subito come il partito di maggioranza relativa.
La Costituzione della Repubblica, approvata nel 1947, scaturì soprattutto
dal compromesso tra democristiani, socialisti e comunisti e in particolare dalla
disponibilità dimostrata dal Partito Comunista a riconoscere, come misura
di pacificazione, il Concordato stipulato dal regime fascista con la Chiesa. A
differenza che in Francia, infatti, la dirigenza del Partito Comunista, e
soprattutto il suo leader Palmiro Togliatti, mostrò l'intenzione di
costituire una forza politica che, senza ripudiare il patrimonio di idee del
movimento comunista internazionale e della Resistenza (anzi, riaffermandolo di
continuo), avesse non solo un carattere legalitario, ma un ruolo costruttivo
nella vita, anche amministrativa, del Paese, evitando di rinchiudersi, o
lasciarsi rinchiudere, nell'isolamento politico. Il Partito Comunista si
presentò quindi come erede tanto della tradizione riformista italiana
nelle roccaforti elettorali padane, quanto della tradizione culturale liberale,
accogliendo nelle sue fila una generazione di intellettuali di provenienza
idealistica (ma anche cattolica, in qualche caso). A paragone, il Partito
Socialista si rivelava incerto sulla strategia, diviso nella tattica, privo di
riferimenti programmatici e di modelli politici chiari da proporre. La
Democrazia Cristiana, attraverso il voto cattolico, radunava in sostanza tutta
l'opinione moderata, e rappresentava al tempo stesso gruppi sociali e
atteggiamenti culturali che non avevano mai trovato adeguata rappresentanza
nello Stato postunitario. I cattolici erano sempre stati rappresentati a livello
locale, ma nell'insieme avevano sostenuto un ruolo di semplice supporto alla
classe dirigente liberale. Dopo il 1945, invece, le forze eredi del liberalismo
e della democrazia prefasciste si presentavano come formazioni minoritarie,
ricche di personalità prestigiose ed anche di influenza culturale, ma
scarse di forza politica. Quando, il 18 aprile 1948, in un clima di «guerra
fredda», si tennero le elezioni politiche, la Democrazia Cristiana ottenne
un successo elettorale strepitoso e di dimensioni impreviste. Dalle elezioni il
Partito Comunista (alleato di quello Socialista in un Fronte popolare)
uscì battuto ma forte e quello Socialista, già indebolito da una
scissione, umiliato e diviso. Anche le forze liberali e democratiche laiche
risultarono debolissime. Si fissarono così molto per tempo alcuni tratti
caratteristici della politica italiana: un partito cattolico moderato saldamente
al potere, una «terza forza» liberal-radicale debolissima
elettoralmente, un'area socialista divisa e perciò anch'essa debole, un
Partito Comunista forte e assai più legalitario e moderato nella prassi
di quanto non volesse ammettere nelle dichiarazioni di principio.
La
Costituzione, scaturita da un dosato compromesso, affidava la realizzazione di
intenti assai progressisti (e condivisibili a parole da tutti) a un regime
parlamentare studiato in modo da evitare la formazione di un esecutivo forte: un
po' per il ricordo dell'esperienza fascista, un po' perché,
nell'incertezza di chi avrebbe governato il Paese, nessun partito era disposto a
regalare troppo potere ai possibili avversari. La proposta di istituire una
Repubblica presidenziale, sul modello americano, venne significativamente
avanzata da un rappresentante del minoritario partito d'Azione. La prassi
politica (quella che è stata definita la «costituzione
materiale») si è poi incaricata di modificare la lettera della Carta
costituzionale (quella che si dice la «costituzione formale»).
Soprattutto nel senso di lasciare ai partiti uno spazio e un'influenza
certamente non previste dalla Costituzione.
Questo fenomeno, evidente
abbastanza presto, è divenuto alla lunga oggetto di fortissime critiche.
Tuttavia, un Paese diviso e pressoché ignaro di democrazia parlamentare
(il suffragio universale maschile in Italia risale ad appena dopo la Prima
guerra mondiale e il voto alle donne è stato concesso solo nel 1945; le
ultime elezioni libere prima del 1946 avevano avuto luogo nel 1921) ha trovato
nel radicamento e nella pluralità dei partiti dei canali di
politicizzazione diffusa e, almeno per una fase della storia nazionale, di
sintesi degli interessi particolari e settoriali in progetti politici di ampio
respiro.
LE FASI DELLA STORIA POLITICA
Alla fine del 1945 il leader democristiano
De Gasperi assunse la presidenza di un Governo di coalizione dal quale nel
maggio del 1947 i partiti di sinistra (Comunista e Socialista) vennero
estromessi. Le elezioni del 1948 diedero alla Democrazia Cristiana la
maggioranza assoluta dei seggi; De Gasperi governò tuttavia alleato ai
partiti moderati minori: una formula detta «centrismo», che fu
perseguita per tutti gli anni Cinquanta, nonostante il ridimensionamento
elettorale democristiano del 1953, causato sia da un progresso delle sinistre,
sia da una ripresa della destra monarchica e neofascista. Prima delle elezioni
del 1953 i partiti di Governo fecero approvare una legge elettorale loro
favorevole (la cosiddetta «legge truffa»), di cui non poterono godere
i benefici per le perdite elettorali subite. La Dc continuò a dirigere
coalizioni centriste, apparentemente instabili, vista la breve durata dei
Governi, ma in realtà stabilissime, perché espressione di un forte
blocco di alleanze moderato.
Messo da parte De Gasperi, negli anni
Cinquanta con la segreteria di Amintore Fanfani la Dc si diede una capillare
organizzazione di partito, svincolandosi così in una certa misura
dall'appoggio delle organizzazioni cattoliche e occupò capillarmente i
centri direttivi degli enti pubblici e delle aziende a partecipazione statale,
affrancandosi così anche dalla dipendenza finanziaria dagli ambienti
industriali. La Dc era un partito composito, che coalizzava tendenze e interessi
di vario tipo, da conservatori a progressisti; ed anche se il suo ruolo è
stato quello di grande partito moderato o conservatore di massa, essa ha sempre
rifiutato di riconoscersi come tale, sottolineando sempre la
disponibilità all'apertura a forze politiche di sinistra. Del resto, sin
dal referendum istituzionale del 1946 la dirigenza del partito si è
dimostrata generalmente più illuminata di buona parte del suo elettorato.
L'obiettivo di un settore della Dc negli anni Cinquanta era quello di staccare
il partito Socialista dall'alleanza con i comunisti, per isolare e indebolire
questi ultimi. L'apertura a sinistra, come venne chiamata, fu contrastata da
vasti settori dell'industria privata e della Chiesa cattolica; ma fu realizzata
a partire dal 1962 (dopo un tentativo di Governo duramente conservatore
sconfitto dalla protesta popolare nell'estate 1960).
La nuova formula di
coalizione fu definita di «centro-sinistra»: comprendeva i socialisti,
amputati all'inizio del 1964 della loro ala sinistra, e dopo alcune iniziali
riforme (prolungamento della scuola dell'obbligo, nazionalizzazione dell'energia
elettrica), attuate per altro ancora dal Governo di Fanfani, fu ricondotta dalla
Dc, nella quale emerse come abile mediatore tra le diverse tendenze Aldo Moro,
ad una politica cautissima e deludente. I tentativi di proseguire le riforme
furono sabotati dai gruppi di pressione ostili all'interno del Governo e
dell'apparato statale. Come risultato, quando nel Paese esplosero nella seconda
metà degli anni Sessanta la protesta studentesca e un ciclo di lotte
sociali (fenomeni in corso anche altrove in Europa), il
«centro-sinistra» si trovò stretto fra una sinistra in ascesa e
l'impossibilità di realizzare per via parlamentare un programma
progressista, per la resistenza sorda ma efficacissima dei conservatori
attraverso le fazioni moderate democristiane. Nel corso del 1969, con una serie
numerosa di attentati e soprattutto con la strage di Piazza Fontana a Milano,
iniziò il torbido tentativo di settori degli apparati statali, in
particolare dei servizi segreti, di creare un clima di intimidazione nel Paese e
un contraccolpo conservatore, attraverso attentati dei quali vennero subito
incolpati gruppi di estremisti di sinistra. In seguito, si costituirono
effettivamente gruppi che praticavano, sotto denominazioni diverse, forme di
lotta terroristica; mentre gruppi neofascisti organizzavano a loro volta
attentati. L'esistenza di organizzazioni illegali di opposta derivazione
politica permise di coniare l'espressione «opposti estremismi», per
indicare la necessità di difendere il sistema politico rappresentato dai
partiti del cosiddetto «arco costituzionale» (tutti quelli,
cioè, che avevano partecipato all'elaborazione della Costituzione del
1947, esclusi quindi soltanto i neofascisti) da attacchi convergenti da due
parti.
Nella prima metà degli anni Settanta l'alleanza di
centro-sinistra si andò via via logorando, mentre il Partito Comunista,
che dopo la morte di Togliatti (1964) e la direzione di un altro dei leader
storici, Luigi Longo, aveva dal 1971 come segretario un uomo politico più
giovane ed estraneo alla lotta clandestina, Enrico Berlinguer, accentuava le
prese di distanza dall'Urss nelle questioni internazionali, ed elaborava un
programma, detto del «compromesso storico», che, prendendo atto degli
ostacoli internazionali (cioè l'opposizione degli Stati Uniti) alla
eventuale ascesa al Governo delle forze di sinistra e in particolare del Partito
Comunista stesso, ipotizzava la necessità di una lunga intesa tra i
grandi partiti popolari, compresa quindi la Dc, per governare il Paese con una
formula di «unità nazionale».
La proposta suscitò
fortissime polemiche all'interno della sinistra. Nel 1974-75 essa ottenne
successi significativi dapprima nel referendum sulla abrogazione del divorzio,
che la Dc volle e nel quale fu sconfitta, e poi nelle elezioni amministrative,
che videro una grande avanzata elettorale del Pci e il passaggio di molte
amministrazioni locali a giunte di sinistra. Nelle elezioni politiche dell'anno
successivo (1976) il Pci raggiunse il suo massimo risultato (un terzo abbondante
dei voti); ma la Dc riuscì, raccogliendo tutto il voto moderato, anche a
scapito degli alleati minori, a confermarsi come il primo partito. Dopo le
elezioni, la politica del «compromesso storico» fu tradotta
parzialmente in atto con l'appoggio esterno del Pci al Governo di coalizione
diretto dal leader forse più consumato della Dc, Giulio Andreotti, in
cambio di alcune leggi di contenuto progressista. Il Pci appoggiò inoltre
lealmente la politica del Governo nei confronti dei gruppi terroristici di
sinistra, che nel 1978 riuscirono a rapire e uccidere il leader democristiano
Aldo Moro. Già nel 1979, tuttavia, il Pci, mantenuto fuori del Governo e
incapace di ottenere riforme incisive, ritornò all'opposizione, in una
posizione di isolamento accentuata dal fatto che i socialisti, con il loro nuovo
leader Bettino Craxi, avevano un orientamento loro ostile e mantenevano una
stretta collaborazione con i democristiani.
Con l'inizio degli anni Ottanta
l'esaurimento di un ciclo di conflittualità sociale e l'effetto delle
ristrutturazioni industriali indebolirono la base di consenso comunista: dopo il
1976 ad ogni elezione politica il Pci perdette, o comunque non guadagnò
più, voti, permanendo all'opposizione sia negli ultimi anni della
segreteria di Berlinguer (morto nel 1984), sia in seguito; nel 1987 tornò
ai livelli elettorali del 1968 e nelle amministrative del 1990 perse ancora
consensi. La nuova dirigenza del partito avviò perciò un
contrastato e discusso rinnovamento dei programmi e delle strutture del Pci,
stimolata anche dai cambiamenti del panorama ideologico e politico
mondiale.
In questo ambito politico-sociale, la Dc si era abilmente
mantenuta al governo del Paese per oltre quattro decenni, manovrando in modo da
subordinare nelle coalizioni governative da essa dirette, prima le formazioni
minori e poi il Partito Socialista, e negli anni della cosiddetta
«unità nazionale» lo stesso Partito Comunista. Qualcosa,
però, era destinato a cambiare e nei primi anni Novanta la storica
formazione politica italiana di ispirazione cattolica si andò via via
sbriciolando, arrivando al definitivo scioglimento.
Bettino Craxi
Giulio Andreotti
LA FINE DELLA DEMOCRAZIA CRISTIANA E LA CRISI DEI PARTITI
Nel momento in cui la Democrazia Cristiana
ha conosciuto una crisi come gli altri partiti tradizionali ed è arrivata
ad estinguersi (nel 1994 è stata sostituita da un ben più piccolo
Partito Popolare Italiano con segretario Rocco Buttiglione, a sua volta
destinato a smembrarsi – alla fine degli anni Novanta erano tre le
più importanti formazioni politiche di stampo cattolico: oltre al
già citato Ppi, il Centro Cristiano Democratico di Pierferdinando Casini
e i Cristiani Democratici Uniti, guidati da Rocco Buttiglione, esponente
politico non più legato al Ppi dal 1995) non riuscendo più a
svolgere quel ruolo di aggregazione delle istanze sociali e politiche del Paese,
tenuto per quasi cinquant'anni, è possibile avanzare qualche riflessione.
Certamente la fine della contrapposizione mondo occidentale/blocco sovietico e
la conseguente scomparsa del cosiddetto “pericolo comunista’’
hanno favorito una diaspora dell'elettorato democristiano verso altri poli.
è possibile anche che una società industrializzata e
tecnologicamente avanzata, come nella maggior parte delle regioni è
quella italiana, abbia avvertito l'inadeguatezza di una vita politica costruita
su ritmi e modi di un tempo passato. L'avversione o la diffidenza verso forme di
partecipazione alla vita politica espresse dai tradizionali partiti è
rivelatrice dell'esigenza di nuove aggregazioni più agili, meno
burocratizzate, in linea con un sistema di comunicazione e di propaganda che ha
come modello quello televisivo. Può essere comprensibile che la
Democrazia Cristiana abbia avvertito tardi queste esigenze, che non sia riuscita
a stare al passo con i ritmi veloci del cambiamento proprio per la sua natura di
partito interclassista dove ogni mutamento ha sempre avuto bisogno di lunghe
pratiche di mediazione e di amalgamazione. C'è infine da considerare che
la società italiana degli anni Novanta si è fortemente laicizzata;
con questo termine i sociologi intendono non tanto la perdita di dimensione
religiosa quanto un comportamento che appare dipendente più da modelli
consumistici o socialmente gratificanti che da scelte ideologiche o da valori
profondamente vissuti. Il rapido crollo della Dc ha confermato infine che quello
dell'unità del voto cattolico non era più un mito intoccabile; se
si pensa che per quasi cinquant'anni l'elettorato cattolico aveva trovato nella
Dc un riferimento obbligato verso cui era stato spinto anche dalle pressioni
delle gerarchie ecclesiastiche, si ha la misura dei cambiamenti intercorsi da
allora ad oggi nella società italiana.
Una crisi simile colpì
i tradizionali partiti politici che videro il loro prestigio calare rapidamente
di fronte ad una società che non si riconosceva più nei riti e nei
bizantinismi di pratiche lontane spesso dal buon senso comune; ma soprattutto il
colpo di grazia ai partiti fu inferto dall'indignazione della gente che vide in
loro la radice di tutti i mali dell'Italia. Certo la scoperta, a partire dal
1992 con l'inizio dei processi definiti poi "Mani pulite", che il sistema
politico si reggeva su un pauroso sistema di tangenti politiche e su meccanismi
di spartizione dello Stato (di "occupazione", fu detto) e di tutto ciò
che poteva dare ricchezza, potere ed anche solo privilegi, fu traumatica e
giustificò la forse eccessiva semplificazione con cui i partiti vennero
condannati.
In parte sfuggì a questo duro giudizio il Pci, che
aveva una storia tutto sommato meno direttamente coinvolta nella gestione del
potere politico ed economico della nazione; anche per questo partito tuttavia si
poneva il problema di ridarsi un'identità che tenesse conto delle mutate
condizioni internazionali con il crollo del comunismo mondiale. Annunciato nel
1990 da Achille Occhetto (segretario del partito succeduto nel 1988 ad
Alessandro Natta, a sua volta successore di Enrico Berlinguer) e approvato nel
febbraio del 1991 al congresso di Rimini, il Pci cambiò nome, assumendo
quello di Pds (Partito Democratico della Sinistra), e simbolo (una quercia
ospitante tra radici il vecchio simbolo della falce e martello). Pagava questo
mutamento con una scissione a sinistra che dava vita al partito di Rifondazione
Comunista, ma conservava un peso nettamente superiore a quello degli altri
partiti tradizionali sia sotto la guida di Occhetto sia con quella di Massimo
D'Alema a lui succeduto nel luglio del 1994. Nel 1998, anno di un ulteriore
cambio di nome (il Pds si trasformò in Ds ovvero Democratici di Sinistra)
D’Alema, divenuto nel frattempo presidente del Consiglio, si dimise, e la
sua carica fu affidata a Walter Veltroni che la mantenne fino alla sua elezione
a Sindaco di Roma. Alla fine del 2001 la guida del partito, di nuovo in crisi
dopo le elezioni del maggio dello stesso anno, passò nelle mani di Piero
Fassino.
Che la situazione politica italiana andasse avviandosi verso un
cambiamento radicale poteva apparire già alla fine degli anni Ottanta;
nella primavera del 1987 si era arrivati al quinto scioglimento anticipato delle
Camere, segno di indubbia difficoltà del sistema, e dalle elezioni erano
emersi aspetti decisamente nuovi, rappresentati non solo dalla buona
affermazione di liste Verdi ambientaliste, ma dal successo di liste autonomiste,
Leghe regionali, quella lombarda soprattutto, che avevano impostato la loro
propaganda su una polemica contro il centralismo fiscale, la corruzione
politica, ma anche facendo leva su pregiudizi xenofobi e antimeridionali e sulle
preoccupazioni suscitate dal fenomeno dell'immigrazione dal Terzo mondo.
Il problema dell'immigrazione dei clandestini extra-comunitari in Europa
Il
sistema politico non sembrava in grado di dare risposte efficaci, con una classe
dirigente che dava l'impressione di essere irretita negli stessi giochi di
potere di sempre; così apparivano i Governi dei democristiani Giovanni
Goria tra il 1987 e il 1988 e Ciriaco De Mita tra il 1988 e il 1989; neppure la
presenza di un vecchio leader come Giulio Andreotti a capo di ben due Governi
(dal 1989 al 1992) riuscì a frenare questo processo disgregatore o forse
si potrebbe meglio dire che proprio la riproposizione di un personaggio
decisamente usurato dava la misura di quanto il sistema fosse in
difficoltà a trovare strade e uomini nuovi.
Probabilmente tra i
più lucidi ad avvertire l'incombente crisi ci fu il presidente della
Repubblica Francesco Cossiga (1985-1992) che negli ultimi due anni del suo
incarico, mutando improvvisamente stile di comportamento, prese a manifestare un
desiderio di cambiamento che lo portò a violente polemiche verbali con
rappresentanti di altri organi dello Stato (con il Consiglio Superiore della
Magistratura, ad esempio) e con le tradizionali forze politiche accusate di non
essere sensibili alle richieste di rinnovamento della Nazione. Da quel momento
si cominciò a parlare di una "Prima Repubblica" da riformare per
eventualmente dare vita ad una "Seconda Repubblica".
Le elezioni politiche
del 1992 e l'elezione nello stesso anno di Oscar Luigi Scalfaro a capo dello
Stato non rappresentarono un significativo cambiamento, ma vennero visti
piuttosto come atti dovuti in attesa del cambiamento.
Un segno che il Paese
non si sentiva più rappresentato compiutamente dalle forze politiche
espresse in Parlamento può essere considerato il ricorso allo strumento
del referendum abrogativo; mentre i partiti erano impegnati in un lungo e
faticoso dibattito sulle possibili o opportune riforme, proprio a colpi di
referendum veniva modificata la legge elettorale: nel 1991 fu ridotto ad uno il
numero delle preferenze da assegnare alle liste nelle elezioni politiche (che si
tennero nell'aprile del 1992) e nel 1993 fu trasformato il sistema elettorale
del Senato che diventò di fatto maggioritario.
Tra i più
convinti sostenitori della necessità di cambiare le norme elettorali
attraverso l'uso di referendum vi era stato il democristiano Mario Segni, che
tuttavia, una volta ottenuto questo risultato, era praticamente uscito di scena.
Nel 1993 era stata approvata la modifica alla legge elettorale: anche per
eleggere i deputati sarebbe stato usato un sistema maggioritario con una
percentuale del 25 per cento proporzionale.
La situazione economica agli
inizi degli anni Novanta si presentava piuttosto preoccupante; sembrava che si
fosse interrotta la crescita produttiva del decennio precedente; molte imprese
italiane come la Fiat e la Olivetti avevano perso competitività sui
mercati internazionali; l'inflazione restava al di sopra della media europea a
causa soprattutto della spesa pubblica mentre il deficit del bilancio statale,
assorbito in gran parte dagli oneri degli interessi sul debito pubblico, non
sembrava ridursi. Una novità in questo settore rappresentarono i due
Governi che si sono succeduti nei primi anni Novanta, quello dell'onorevole
Giuliano Amato (aprile 1992-aprile 1993) e quello di Carlo Azeglio Ciampi
(aprile 1993 - marzo 1994) che tentarono di contenere il disavanzo con una
politica economica di rigore. Le misure messe in atto dal Governo Amato poterono
giovarsi di un clima di distensione con i sindacati che nell'estate del 1992
avevano accettato il blocco della scala mobile come misura capace di coadiuvare
il risanamento dell'economia. I successivi scioperi regionali indetti dai
sindacati contro la Legge finanziaria non sembrarono tali da mettere in
difficoltà il Governo.
Un atteggiamento di benevola attenzione da
parte del mondo del lavoro venne mostrata anche nei confronti del Governo
Ciampi; questo agli inizi comprendeva addirittura quattro esponenti indicati dal
Pds, ma, pur godendo di un notevole prestigio anche per la figura di Ciampi, che
era stato governatore della Banca d'Italia, era ormai indicato come il Governo
incaricato di gestire il Paese verso il nuovo tipo di elezioni col sistema
maggioritario.
Gli effetti di un diverso modo di votare erano stati
già sperimentati nelle elezioni amministrative del giugno del 1993, dove
si poté scegliere direttamente il sindaco (prima il sindaco veniva eletto
dai consiglieri comunali in quella che era detta "un'elezione di secondo
grado"), e dove la Lega Nord (nuovo soggetto politico direttamente discendente
dalla Lega Lombarda) ebbe un grande successo: molti sindaci di grandi
città del Nord (Milano, Novara, Vercelli, Padova, Lecco, Pordenone)
andarono proprio alla Lega. Un buon risultato fu ottenuto anche dal Pds che si
affermò nell'Italia centrale, mentre si verificò il tracollo della
Democrazia Cristiana e la quasi scomparsa del Psi. Questo partito pagava in tal
modo la perdita di immagine seguita alle inchieste sulla corruzione politica,
denominata "Mani pulite".
Per completare il panorama italiano dei primi
anni Novanta occorre ricordare l'offensiva della criminalità organizzata
che in Sicilia, Campania e Calabria ha mostrato di essere diffusa capillarmente
e di controllare quasi le intere regioni; nel 1991 in queste regioni sono stati
commessi i tre quarti dei reati di sangue consumati in tutto il Paese. L'aspetto
più preoccupante e drammatico fu quello della scoperta che la
criminalità era strettamente legata alla politica: enorme fu
l'impressione quando il 22 maggio del 1992 il giudice Giovanni Falcone venne
ucciso con la sua scorta in un attentato di stampo mafioso. Fu chiaro che ci si
trovava di fronte a un'azione progettata con abbondanza di mezzi e con
conoscenze che solo persone bene addentro alle strutture istituzionali potevano
avere. Anche la scelta dell'obiettivo, Giovanni Falcone, che era un po'
diventato il simbolo della lotta alla mafia, confermò che si trattava di
un vero e proprio attacco contro lo Stato. Il 19 luglio, meno di due mesi dopo,
un altro magistrato-simbolo della lotta alla mafia, Paolo Borsellino, venne
ucciso in un attentato.
Mentre è evidente la matrice mafiosa di
questi due attentati, più difficile fu capire il disegno criminoso di una
serie di attentati apparentemente senza un preciso obiettivo, come quello
dell'accademia dei Georgofili a Firenze dove il 25 maggio 1993 scoppiò
un'auto piena di esplosivo, con un bilancio di 5 morti, o ancora a Milano e
Roma, città nelle quali, nella notte del 27 luglio 1993 scoppiarono
alcuni ordigni che, nel capoluogo lombardo, provocarono la morte di sei persone.
Si parlò di risposta della mafia allo Stato (peraltro confermata dalle
indagini successive), di presenza di elementi dei servizi segreti (questa non
suffragata da prove evidenti): era chiaro comunque che c'era chi puntava a
creare tensione e disordine nel Paese.
L’AVVENTO DI FORZA ITALIA
Intanto un nuovo soggetto si preparava a
fare il suo ingresso nel delicato e complesso panorama politico italiano. Nel
1993 l'imprenditore milanese Silvio Berlusconi diede vita a un nuovo movimento
denominato Forza Italia destinato, negli intenti del fondatore e degli
appartenenti ai vari club sparsi in tutta Italia, a un elettorato moderato di
centro-destra orfano, tra l'altro, di un punto di riferimento quale la
Democrazia Cristiana.
Silvio BerlusconiPresentatasi alle elezioni del 27 marzo 1994 insieme ad Alleanza Nazionale, al Centro
Cristiano Democratico e alla Lega Nord nel cosiddetto Polo delle Libertà,
Forza Italia risultò vincente e Silvio Berlusconi venne designato a
coprire la carica di capo del Governo. Dopo due anni, però, fu costretto
a cedere il posto a Romano Prodi, leader di una coalizione di centro-sinistra
denominata Ulivo che si era aggiudicata la vittoria alla tornata elettorale
dell'aprile 1996. Forza Italia continuò comunque il suo cammino politico,
rafforzandosi sempre più grazie anche alla vasta campagna mediatica e
all'abilità dei suoi dirigenti di sfruttare al meglio la crisi che nel
frattempo stava pervadendo la coalizione avversaria (abbandono da parte di
Rifondazione Comunista; critica alla politica dei Ds, da molti considerata
troppo moderata e liberista; ecc.). Nel 1999, in occasione delle elezioni al
Parlamento europeo, Forza Italia risultò il primo partito italiano e nel
2000 ottenne un brillante risultato anche alle elezioni regionali. La strada era
aperta per un'ulteriore vittoria della coalizione di centro-destra, ora
denominata Casa delle Libertà, alle amministrative del 2001, che permise
al leader Berlusconi di divenire nuovamente presidente del Consiglio dei
Ministri. Le scelte politiche, economiche e sociali del nuovo esecutivo, del
quale facevano attivamente parte, tra gli altri, anche membri di Alleanza
Nazionale e Lega Nord, scatenarono però frequenti e sempre più
intense manifestazioni di dissenso in Italia e all'estero.
UNA SOCIETÀ IN MOVIMENTO
MOSTRARSI ED ESPRIMERSI
Improvvisamente, a
metà degli anni Sessanta, comparve la minigonna: le ragazze prima, e poi
anche donne non giovanissime, «mostrarono le gambe». Non era la prima
volta che le gonne si accorciavano: durante tutto il secolo XX la loro lunghezza
è cambiata più volte; ad esempio erano corte durante la Seconda
guerra mondiale e piuttosto lunghe subito dopo. Ma la minigonna, inventata da
una sarta inglese, Mary Quant, e poi il miniabito, non erano solo una gonna o un
abito più corto: erano il segno d'un cambiamento nel modo di pensare e di
comportarsi delle donne, un cambiamento del costume. In Italia ci volle del
tempo perché non venissero date connotazioni moralmente negative alle
ragazze che indossavano la minigonna, ma col tempo certi tabù vennero
superati, così come quelli relativi ad altri atteggiamenti legati alla
sfera giovanile e alla comunicazione corporea le cui radici stavano, ancora una
volta, negli anni Sessanta. In questo senso il raduno di Woodstock fu uno dei
momenti più significativi. Dal 15 al 17 agosto 1969 a qualche chilometro
dalla cittadina di Woodstock, negli Stati Uniti, si svolse un festival di musica
rock alla presenza di centinaia di persone, quasi tutte molto giovani, che
ascoltarono e cantarono canzoni contro la guerra. Le fotografie e i filmati di
allora ci mostrano giovani e ragazze sotto le tende, accanto a roulotte e
camper, o in un grande prato, sotto la pioggia o il sole, poco vestiti o nudi
del tutto.
La novità dell'avvenimento stava nel carattere proprio
del raduno - all'insegna della libertà assoluta - e nell'ampiezza dei
numeri - gli organizzatori si trovarono in grandissima difficoltà
nell'accogliere le 400.000 persone arrivate, un numero ampiamente maggiore
rispetto al previsto. Qualcuno ha scritto che furono tre giorni di «pace,
amore e musica». Qualcun altro li ha descritti come tre giorni di
sporcizia, oscenità e droga. Probabilmente avevano ragione gli uni e gli
altri. Ha ragione anche chi vede in quella nudità un messaggio espresso
nel linguaggio del corpo: per quei giovani, in quel momento, era un messaggio di
libertà che sarebbe passato direttamente anche oltre oceano, tra i
giovani italiani.
SCUOLA E SELEZIONE
Una scuola uguale per tutti, secondo la
convinzione comune, è più democratica di una differenziata, almeno
nel settore iniziale, che è o dovrebbe essere frequentato da tutti i
bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze, obbligatoriamente. Se frequentano
la medesima scuola, fanno gli stessi studi, imparano le stesse conoscenze, si
trovano in una condizione d'uguaglianza. è la situazione della maggior
parte dei Paesi, dove i primi anni di studio, in certi casi fino alle soglie
dell'università, si svolgono in un unico tipo di scuola.
In Italia
questo accadde dal 1962, quando fu istituita la scuola media unica. Fino ad
allora, dopo la quinta classe elementare una parte dei bambini e delle bambine
si iscriveva alla scuola media e dopo tre anni poteva continuare gli studi
secondari fino al diploma o proseguire all'università fino alla laurea.
Una parte invece si iscriveva alla scuola di avviamento al lavoro, che durava
anch'essa tre anni e dopo la quale non si potevano più continuare gli
studi, altri ancora frequentavano corsi di varia denominazione, come la
postelementare, che era formata dalle classi VI, VII, VIII, della scuola
elementare.
Con una legge approvata nel dicembre 1962 si decise di rendere
uguale per tutti l'istruzione obbligatoria (dal 1923 si deve andare a scuola per
almeno otto anni): a undici anni i bambini e le bambine non erano più
costretti a scegliere se tre anni dopo sarebbero andati a lavorare o avrebbero
continuato a studiare, ancora per almeno tre anni studiavano senza porsi quel
problema. Bisogna però tener presente che una parte non studiava affatto:
nel 1963 i ragazzi e le ragazze fra gli undici e i quattordici anni erano oltre
due milioni, ma di questi soltanto l'81 per cento erano a scuola; e di questi,
559.000, quasi il 30 per cento, erano ancora iscritti alla scuola elementare
perché avevano ripetuto uno o più anni. Come si vede le ripetenze
e gli abbandoni colpivano oltre il 40 per cento degli alunni.
La nuova
scuola entrò in funzione il 1° ottobre 1963 e nel luglio 1966 i
primi ragazzi che l'avevano frequentata conclusero il corso. Con quali
risultati?
Degli alunni nati nel 1952, 897.000 erano iscritti nel 1958 alla
prima elementare; nel giugno 1963 soltanto 680.000 terminarono la quinta classe;
nell'ottobre 1963, 570.000 di questi s'iscrissero alla prima media, dove
trovarono altri 146.000 ripetenti. Dei 716.000 complessivamente iscritti alla
prima media, tre anni dopo, nel luglio 1966, se ne presentarono 484.000
all'esame di terza e solo 443.000 furono promossi: più della metà
di quelli che avevano cominciato otto anni prima si erano persi per
strada.
L'anno dopo fu pubblicato un libro che parlava di questi argomenti;
era però molto diverso dai libri che trattavano di problemi
dell'istruzione. L'aveva scritto un gruppetto di ragazzi toscani che studiavano
insieme con un prete, don Lorenzo Milani, priore di Barbiana. Il libro
s'intitolava Lettera a una professoressa ed aveva come autrice la Scuola di
Barbiana, cioè quei ragazzi e il loro maestro.
Il libro di Barbiana
rifletteva sull'«insuccesso» e il «ritardo» scolastico, sui
ragazzi che abbandonavano la scuola e su quelli che erano bocciati - come
abbiamo visto dai dati riportati anche dagli alunni di don Milani, erano oltre
la metà -, e prima di tutto sul fatto più importante e
significativo: che la scuola bocciava soprattutto i «poveri»,
cioè i figli dei contadini e degli operai, come erano essi stessi, che
infatti erano stati bocciati nella scuola pubblica.
Secondo il modo comune
di pensare, se un alunno veniva bocciato significava che non aveva capito quello
che gli avevano insegnato, dunque era poco intelligente. I ragazzi di Barbiana
prolungavano il ragionamento: questi alunni poco intelligenti - loro dicevano
«cretini» - per lo più appartenevano ai ceti popolari; allora
sembrerebbe che i «poveri» fossero «cretini» o svogliati per
natura.
... Voi dite d'aver bocciato i cretini e gli svogliati.
Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei
poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. è più facile che
i dispettosi siate voi.
Questo «voi» era rivolto agli
insegnanti, anzi contro gli insegnanti. La Lettera a una professoressa è
un libro sgradevole e in qualche caso ingiusto (dando la «colpa» agli
insegnanti non si risolve nessun problema) e diceva cose che si sapevano
già, ma su cui la gente non era abituata a riflettere. Si sapeva
già che i bambini e le bambine che appartengono ai ceti popolari sono
svantaggiati a scuola, fanno più fatica, soprattutto perché
l'ambiente familiare e sociale non fa nascere il desiderio d'imparare (non li
«motiva»). I ragazzi di Barbiana lo dicevano a modo loro, con
aggressività e sdegno, parlando di Gianni, figlio di contadini,
«cretino» e bocciato, e di Pierino, figlio del dottore: «I
cromosomi del dottore sono potenti» (Pierino sembra nato pronto per
studiare, con una bella intelligenza ricevuta per trasmissione genetica. Infatti
secondo il pensiero comune se non si nasce «intelligenti» non
c'è niente da fare).
... Pierino sapeva già scrivere a
5 anni. Non ha avuto bisogno di far la prima. Entra a scuola a 6 anni. Parla
come un libro stampato. Già segnato anche lui [...] col marchio razza
pregiata...
La Lettera a una professoressa sembra parlare agli
insegnanti ma è rivolta soprattutto agli operai e ai contadini, ai
«poveri»; denuncia l'ingiustizia d'una scuola che sembra unica e non
lo è, che è divisa al proprio interno fra scuola dei Pierini e
scuola dei Gianni; che boccia perché non funziona e bocciando aumenta le
disuguaglianze; che non motiva allo studio perché non sa suscitare
interesse; che sembra trattare tutti allo stesso modo (ma «non c'è
nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali fra disuguali»),
cioè non si preoccupa di aiutare quelli che sono sfavoriti.
I
ragazzi di Barbiana proponevano anche delle soluzioni. Per esempio
dicevano:
... Perché il sogno dell'eguaglianza non resti un
sogno vi proponiamo tre riforme.
I - Non bocciare.
II - A quelli
che sembrano cretini dargli la scuola a pieno tempo.
III - Agli svogliati
basta dargli uno scopo...
Ma soprattutto il loro libro era una
protesta politica, un appello ai «poveri» perché si
ribellassero, cambiassero le cose, non solo della scuola ma di tutta la
società.
Il libro ha avuto migliaia di lettori e ancora oggi
continua ad essere venduto. A molte persone ha insegnato che bisogna studiare i
problemi della scuola come problemi politici: capire perché non funziona
e intervenire per cambiare le cose che non vanno.
Due anni dopo uscì
un opuscolo scritto da un gruppo di maestri e maestre di Genova intitolato Che
cosa studiano i nostri figli; anch'esso ebbe decine di migliaia di lettori
(studenti, insegnanti, anche lavoratori). Era stato scritto riportando alcune
fra le tante stupidaggini che si leggevano nei libri di lettura per la scuola
elementare. L'ultimo paragrafo s'intitolava Stupidario e con quel nome era
spesso chiamato l'intero opuscolo, che divertì molto e fece riflettere.
Anche prima di allora si sapeva che i libri di testo per la scuola elementare
erano bruttissimi, pieni di errori, di cose inutili e di vere e proprie
sciocchezze ma ci volle quella denuncia perché se ne accorgessero in
molti.
Da allora molta strada è stata fatta. La scuola si è
evoluta, creando nuove opportunità e cambiando al suo interno, prima di
tutto con nuove disposizioni in merito alle selezioni alla fine dei singoli
cicli (nel 1977 venne abolito l’esame alla fine della seconda elementare e
nel 1999 entrò in vigore il nuovo esame di Stato, destinato a sostituire
l’esame di maturità a sua volta inserito, in via
“sperimentale’’, nel lontano 1969), quindi con nuove norme in
materia di parità scolastica (L. 10-03-2000, n. 62) e con nuovi progetti
per inserire la realtà scolastica nella quotidianità (progetti di
sperimentazione, raggiungimento dell'autonomia scolastica dei singoli istituti,
ecc.).
LA LINGUA E I "MEDIA"
Disponiamo ormai di un autentico italiano
parlato. Ha superato felicemente un suo stadio infantile, e si avvia, sopra le
nostre bocche e nelle nostre orecchie, benché molto contrastato e
vilipeso, a farsi vigorosamente adulto. Ha un'adolescenza difficile, come tutte
le adolescenze, e non ha ancora fisionomia determinata né carattere
formato. Ma esiste, ed è vitale.
Per dargli un nome distintivo, lo
indicheremo come il nostro «volgare demotico». Conviene infatti, per
evidenziarlo, staccarlo nettamente, se non vogliamo dire contrapporlo, a quel
«volgare medio» che si era venuto lentamente affermando con l'ascesa
della borghesia, con il processo politico unitario, con lo sviluppo industriale,
e che la scuola aveva istituzionalizzato e, al possibile, cristallizzato
normativamente, in lotta contro la frantumazione dialettale. Una cosa è
certa, che se il «volgare medio» è stato, e rimane per
eccellenza, una lingua della scrittura e per la scrittura (anche considerando, e
anzi soprattutto considerando il categorico imperativo che gli è
connesso, «parla come scrivi», a prezzo di «parlare come un libro
stampato»), l'attuale «volgare demotico», che pure ne è il
figlio e l'erede necessario, è per contro, e finalmente, la
realizzazione, dotata di forte autonomia, di quella lingua dell'uso quotidiano,
della comunicazione colloquiale corrente, di cui la nazione era, sino a ieri,
effettualmente priva.
I mezzi di comunicazione di massa, ben inteso, non
hanno generato questo nuovo codice. Avrà agito, preliminarmente, è
pacifico, la scolarizzazione allargata e prolungata (ma soprattutto in quanto
non ha retto, per la pressione stessa delle cose, nella difesa dei suoi
più stretti parametri di ortodossia comunicativa), e la parte sostenuta,
in incubazione, dai flussi di migrazione interna, dalla diffusione dei linguaggi
scientifici e tecnoscientifici (aperti pure all'adozione e all'adattamento di
voci e modi stranieri), e dal costituirsi dei diversi e precari italiani
regionali, è stata certo determinante. Ma la svolta decisiva, e questa
sì davvero recentissima, si è avuta nel momento in cui la
modellizzazione della scrittura è regredita violentemente nei media, in
genere, e soprattutto nella televisione.
Il punto critico si è avuto
proprio da ultimo, con l'estensione, priva di qualunque preselezione,
dell'accesso al piccolo schermo, pubblico e privato. La partecipazione del
parlante comune, quale effimero «personaggio» in inchieste e in
conversazioni, in giochi e in intrattenimenti, con il supplemento di una sempre
più frequente integrazione di interventi telefonici, ha conferito, a
questo «volgare demotico», non soltanto una diffusione straordinaria,
ma tutta quella autorizzazione modellizzante che l'aura pressoché
autoritaria del mezzo inevitabilmente gli conferisce.
Le conseguenze,
almeno oggi, sembrano alquanto paradossali. Per un verso, infatti, viene
esibito, quasi anarchicamente, un lascio di soluzioni linguistiche eterogenee e
informi, quanto alla pronuncia, alla grammatica, al lessico, che induce comunque
nell'utente una sempre più generosa tolleranza, e gli offre insieme una
gamma di possibilità represse o sconosciute, tali da superare, per
larghezza di orizzonte, anche le più dilatate esperienze di ogni vissuto
quotidiano. E si aggiunga che il carattere audiovisivo del messaggio preme
intanto a tutto favore di quelle integrazioni mimiche e gestuali che fanno corpo
con lo stretto materiale verbale, e ne esaltano la specificità orale, in
un regime segnico pragmatico e situazionale (anche per l'ovvia predilezione
verso modalità estreme, spettacolari, tanto drammatiche e violente quanto
ludiche e comiche). Per altro verso, si impone progressivamente, e quasi
insensibilmente, una spontanea tendenza omogeneizzante, tipicamente e
univocamente dialogica, per le scelte che si vengono operando di fatto,
così presso i «personaggi» come presso gli spettatori, in un
perpetuo aggiustamento di reciproco controllo implicito, e con un notevole ruolo
di mediazione, presso l'intrattenitore e il moderatore di turno.
Chi sia
convinto che l'equilibrio, negli scambi e negli atti di parola, si determini,
assai meglio che per regolazione esterna, per graduali compromessi
intersoggettivi, e quasi per la forza di un «patto sociale» in
divenire, a livello di interpretazione e correzione reciprocamente infinite, in
una continua dialettica di censura e di licenza, vedrà dunque che si
è ormai disegnata, con questo articolarsi egemone in parlato di un simile
«volgare demotico», una sorta di coerente linguaggio di base, che
già reagisce anche sopra le pratiche scritte, come si verifica almeno
nelle forme più aperte e spontanee (dai messaggi puerili e
«incolti» ai graffitismi inconditi) e in quelle più interessate
alla mimesi (dal vignettismo satirico alla seduzione pubblicitaria, da certi
periodici giovanili a taluni assaggi narrativi più
«selvaggiamente» documentari).
Il momento importante, in breve,
nell'azione linguistica dei media, non è quello intenzionalmente
conformante, che dominava sino a ieri, muovendo ancora dagli schemi, pur
fortemente rilassati, del «volgare medio» scolastico e istituzionale,
normativamente libresco (e che generalmente procede ancora dalle varie forme del
«giornalese» meglio stabilizzato), ma quello di sempre più
incondizionato rispecchiamento, al quale può assicurare una energia di
inarrestabile moltiplicatore e di mobile garante. Se i livelli erano dunque
tradizionalmente segnati, con infinite sfumature, dal «volgare
illustre» letterario sino ai dialetti più localistici e meno
«italianizzati», si disegna adesso un bilinguismo fondamentale,
spartito, in essenza, tra scrittura e oralità. Che è una
condizione, linguisticamente, in qualche modo «classica» e
«normale».
COME CAMBIA IL MODO DI PARLARE
Come è cambiato il linguaggio in
questi cinquant'anni? Ecco una domanda a cui molti linguisti non vorrebbero
rispondere. I linguisti si occupano di studiare le varie lingue del mondo (ne
conosciamo migliaia e migliaia), scriverne grammatiche e vocabolari sempre
più perfezionati, descriverne le trasformazioni attraverso il tempo in
rapporto con la storia delle diverse società e nazioni. Studiano anche le
relazioni tra le diverse lingue: cercano di capire se e quanto sono simili, di
classificare le eventuali somiglianze. Alcune somiglianze sono dovute al fatto
che certe lingue hanno una lontana origine comune, appartengono a una stessa
«famiglia»: per esempio, in Europa, rumeno, italiano, francese,
ladino, spagnolo, portoghese appartengono a una stessa famiglia, quella delle
lingue derivate dal latino; e così tedesco, inglese, svedese, norvegese
islandese danese, olandese sono lingue della famiglia «germanica»,
ungherese e finlandese sono lingue della famiglia «ugrofinnica», ecc.
Altre somiglianze sono dovute agli scambi avvenuti tra le lingue: in inglese
molte parole fondamentali rassomigliano alle nostre italiane perché
l'inglese nel Medio Evo le ha prese in prestito dal latino di notai, preti,
medici, e dal francese (così, per esempio, face «faccia» o to
spend «spendere») e perché in questo secolo l'italiano ha preso
in prestito molte parole dall'inglese (per esempio, sport o film). Infine,
alcune somiglianze dipendono dal fatto che tutte le lingue sono... lingue:
cioè obbediscono a vincoli generali legati alla struttura dell'organismo
umano e, in particolare, del nostro cervello. Questi caratteri generali comuni a
tutte le lingue sono molto importanti per capire aspetti della nostra natura e
intelligenza, in confronto con quella di altri esseri viventi, e per studiare
come funzionano la memoria, l'attività cosciente e inconscia,
l'apprendimento, ecc.
Il campo di studio dei linguisti è diventato
sempre più vasto e le diverse «scienze del linguaggio» si
occupano di questioni sempre più specifiche e particolari. I linguisti si
occupano soprattutto di queste innumerevoli questioni particolari, spesso
incomprensibili per chi non è linguista, e diffidano delle questioni
troppo generali. ora, dire come sono cambiate o non cambiate in questi ultimi
cinquant'anni le lingue del mondo è appunto una questione generalissima,
di quelle che suscitano diffidenza nella gente del mestiere. Ma questo vale
anche per altre scienze. Proverò tuttavia a rispondere, per venire
incontro alle esigenze di quest'opera, con l'avvertenza che le affermazioni che
seguono sono molto, ma molto approssimative, rispetto alla assai maggior
precisione che possono avere e hanno le analisi e le affermazioni della
linguistica.
Dunque: sono cambiate le lingue del mondo, è cambiato
il modo di parlare, scrivere e capirsi in questi ultimi cinquant'anni? E se
sì, come?
Segnalerei almeno quattro grandi cambiamenti.
1) Si
è rafforzato il fenomeno delle lingue «veicolari»: cioè
di lingue che sono molto parlate non soltanto dal popolo che ha dato loro
origine, ma anche, come seconde lingue, da molti altri popoli di madrelingua
diversa. Le più diffuse lingue veicolari del mondo sono oggi arabo,
cinese, francese, inglese, russo, spagnolo. Una qualche importanza tra le
persone più colte conserva il latino, grande lingua veicolare dell'Europa
medievale, ancora attivamente usata da dotti, scienziati, preti fino al Sette e
Ottocento. Inoltre, un milione di persone dei più svariati Paesi parlano
e leggono una lingua artificiale, nata proprio per fare da lingua ausiliaria
internazionale, l'esperanto.
Commerci, processi d'integrazione economica,
produttiva, ma anche politica e culturale hanno creato in vaste aree in cui
esistono molte lingue diverse il bisogno di conoscere e usare una stessa grande
lingua veicolare. E alla diffusione (a volte alla imposizione) della lingua
veicolare hanno dato un possente contributo la crescita della scolarizzazione
anche nel Sud del mondo (Africa, Sud-Est asiatico, America centro-meridionale,
Oceania) e diffusione e perfezionamento crescente delle tecnologie di
trasmissione dell'informazione a distanza, televisione, satelliti, ecc.
2)
Questi stessi fattori di consolidamento delle lingue veicolari (scolarizzazione,
e quindi aumento delle capacità di scrittura e lettura in tutti gli
strati delle varie popolazioni, donde una crescente diffusione di giornali e
libri; radioteletrasmissioni) hanno giocato anche un ruolo in un certo senso
paradossalmente opposto, che spesso sfugge ai profani: le lingue non veicolari,
anche quelle di popolazioni esigue, sono state scritte, stampate, lette,
radiodiffuse, telediffuse e da tutto ciò hanno ricevuto un grande
rafforzamento e sono venute incontro a un'altra grande esigenza del mondo
moderno: quella dell'autonomia nazionale, nascente dalla volontà di
riscatto dei popoli dal colonialismo, da condizioni di soggezione politica e
culturale e religiosa, dal diffondersi di un maggiore spirito di democrazia
anche nei rapporti tra popoli. Lingue che appena cento anni fa sarebbero state
ingoiate nel gorgo della storia, con o senza violenta imposizione di lingue
altre, nelle nuove condizioni hanno potuto acquisire un nuovo prestigio e nuove
possibilità di sopravvivenza.
La grande diffusione delle lingue
veicolari (e soprattutto di quella oggi più nota, l'inglese) tra
studiosi, dirigenti di imprese, ambienti finanziari ed economici, polarizza
troppo l'attenzione e questo fa perdere di vista che, complementarmente, il
nostro pianeta è oggi molto più solidamente e consolidatamente
plurilingue di quanto mai sia stato nella sua storia. Appena ieri lingue e
dialetti sparivano nel nulla senza che nessuno, tranne qualche specialista (e,
beninteso, chi pativa la deprivazione della propria lingua), ne sapesse
niente.
Oggi grandi organizzazioni internazionali e l'opinione pubblica di
molti Paesi vigilano sullo stato di salute delle tradizioni linguistiche anche
minori e minime, con più o meno successo nelle varie aree, ma certo con
un impegno mai registratosi prima nella storia della specie umana.
3) Il
terzo grande fenomeno è quello dell'intensificarsi dell'interscambio tra
le lingue. Più che in ogni altra epoca del passato le lingue si
compenetrano a vicenda, si prestano parole, si scambiano costruzioni e giri di
parole. L'inglese, soprattutto nella sua varietà nordamericana, assorbe
parole da tutte le lingue del mondo e, per dir così, le rilancia un po'
in tutte le lingue, come per secoli ha fatto il latino che ha diffuso in tutte
le lingue del mondo sia le sue parole sia parole prese in prestito dall'etrusco,
dal greco, dall'ebraico, dall'arabo, da lingue germaniche medievali.
4)
Ultimo grande fatto: in tutte le lingue è cresciuta a dismisura la
penetrazione del vocabolario tecnico-scientifico nel linguaggio quotidiano. Le
tecnologie, la medicina preventiva, la complessità dei processi
produttivi e di organizzazione della vita sociale e individuale hanno travasato
nei discorsi d'ogni giorno parole che appena ieri erano note soltanto a cerchie
ristrette, biologi o matematici o fisici o giuristi. Un grande scrittore
inglese, George Orwell, all'inizio di questo cinquantennio aveva previsto e
temuto che le varie lingue, a cominciare dalla sua, fossero invase dalla
«neolingua»: una lingua astratta, scientistica, tecnologica e
burocratica. Il pericolo c'è. La grande sfida la stiamo vivendo. Essa non
sembra potersi combattere se non facendo crescere in tutti le capacità di
intelligenza e cultura scientifica e, quindi, la capacità di rifiutare le
astrusità inutili e di parlare in modo responsabilmente appropriato e
comprensibile.
IL TEATRO ITALIANO
Nel dopoguerra il teatro italiano ha subito
un processo di accelerazione per inseguire innovazioni che negli altri Paesi
erano già acquisite. La novità forse più evidente è
stata l'affermazione del regista, figura prima praticamente inesistente. Della
messinscena si occupava per lo più il primo attore che dirigeva la
compagnia e si limitava ad impostare la recitazione degli altri attori e per il
resto seguiva, abbastanza fedelmente, le didascalie dell'autore. Nei confronti
dei classici c'erano magari anche grosse prevaricazioni, fatte però non
in funzione di una lettura «altra» del testo, quanto al servizio di
una esaltazione del primo attore. Per fare un esempio, i vari Rossi, Salvini,
Novelli, Zacconi, operavano tagli sulle parti cosiddette minori per esaltare
ancor più il ruolo del protagonista; sicché il Mercante di Venezia
diventava, semplicemente, anche nel titolo, Shylock. Adeguandosi al resto del
teatro europeo nel dopoguerra nasce anche in Italia il “teatro di
regia’’ con Visconti, Strehler, Costa, un teatro non più
predominio esclusivo dell'attore ma che presuppone una lettura critica dei testi
e allestimenti più curati non soltanto nell'ambito della recitazione,
tenendo conto del fatto che il teatro è sintesi di tante esigenze e
componenti, testuali sì, e attoriali, ma anche visive, sonore, spaziali.
E quindi insieme a quello del regista si affermano il ruolo del costumista e
dello scenografo, mentre prima le scene (con le eccezioni delle compagnie
dirette da Pirandello e da Bragaglia) erano addirittura fondali di tela dipinta
che indicavano genericamente dei salottini borghesi o degli esterni
convenzionali e accoglievano mobili affittati di volta in volta nelle
città toccate dalla tournée.
Insieme al regista nascono anche
i Teatri Stabili, Milano e Genova tra i primi, novità non soltanto
organizzativa e amministrativa del fare teatro ma anche culturale; si pongono in
alternativa al teatro privato e commerciale, propongono un'idea di teatro come
servizio sociale direttamente finanziato dai comuni e poi dalle regioni, che
dovrebbe permettersi scelte gestite con un'ottica più culturale che
commerciale e dunque con la possibilità di mettere in repertorio
tematiche e autori più difficili e impegnati culturalmente e, in alcuni
casi, politicamente. Funzione che con la crisi e la sclerosi dei teatri stabili
dopo il 1968 verrà svolta dalle cooperative teatrali, gruppi di attori e
registi che rifiutando la logica del divismo, del nome di richiamo in
cartellone, proponevano, almeno nelle intenzioni, un teatro gestito
collettivamente.
Una funzione alternativa al teatro commerciale, ma
soprattutto alternativa al linguaggio scenico tradizionale l'ha avuta il
cosiddetto «teatro d'avanguardia» che negli anni Sessanta e ancor
più Settanta, rifacendosi in parte alle avanguardie storiche e al
Futurismo in particolare, ha svolto una funzione di rinnovamento dei testi
(quando sopravvivevano e non erano sostituiti direttamente dalla scrittura
scenica), della recitazione (soprattutto gestuale e tesa ad andare oltre la
recitazione sia naturalistica sia epica o brechtiana) e dello spazio scenico non
più descrittivo di una situazione ma dotato di una propria forza
comunicativa vicina, in alcuni casi, all'arte figurativa. Certo molte di queste
novità in realtà non lo erano affatto: si trattava piuttosto di
materiale di riporto o di rimaneggiamento delle esperienze del Living, del Bread
& Puppet, di Grotowski, dell'ultimo Peter Brook. Restano nella loro
originalità autoctona fenomeni unici come Carmelo Bene, il teatro
prodotto dalla manualità creatrice di Remondi e Caporossi, oppure la
visualità sgargiante di certo teatro-immagine. L'avanguardia ha anche
tentato un rapporto più stretto del teatro con altre arti, dalla musica
alla pittura, che poi troverà alla fine degli anni Settanta e negli
Ottanta il suo momento di maggiore sintesi e felicità creativa - e poesia
- nel teatro danza della tedesca Pina Bausch.
L'avanguardia ha spesso e
volentieri messo da parte la parola e il regista si è quasi sempre
sostituito all'autore scrivendo direttamente sulla scena ed esprimendosi con un
linguaggio non prevalentemente verbale. E quindi l'autore, soprattutto in
Italia, ha conosciuto un periodo di astinenza, tanto più se confrontato
alla stagione anche clamorosa tra le due guerre, quando oltre al fenomeno di
Pirandello, c'erano comunque autori come Bontempelli, Rosso di San Secondo, De
Benedetti, Chiarelli. Nell'immediato dopoguerra è curioso osservare come
nella drammaturgia non si verifichi affatto un fenomeno che allora coinvolse
profondamente arti visive come cinema, letteratura, e cioè il
neorealismo, il rapporto diretto con la realtà sociale dopo gli anni del
fascismo. Il neorealismo, e più in generale il vecchio naturalismo, si e
ripresentato nel teatro in questi ultimi anni, con il vestito nuovo del
minimalismo, sull'onda del successo della drammaturgia anglosassone e americana.
Un settore dotato di vitalità autonoma è quello della drammaturgia
napoletana cresciuta dopo Eduardo (dal compianto Annibale Ruccello a Enzo
Moscato, a Manlio Santanelli), che proprio nel dialetto trovano una loro
autonoma forza espressiva e nella realtà sociale degradata di Napoli i
propri temi. Paradossalmente l'autore che più ha fatto conoscere
all'estero il teatro italiano è Eduardo, che usava il dialetto, come a
significare che una realtà circoscritta e circostanziata come quella
napoletana era l'unica capace davvero di diventare universale. E anche l'altro
autore conosciuto all'estero, non a caso è un attore-autore come Dario
Fo. Eduardo e Fo si contrappongono alla figura dello scrittore da tavolino,
lontano dalle tavole del palcoscenico, di cui non conosce più di tanto i
meccanismi; entrambi, Eduardo e Fo, continuano idealmente la tradizione della
Commedia dell'Arte, dell'attore-autore, dell'attore-maschera (razza tipicamente
nostrana) piuttosto che interprete. L'interprete intanto, diciamo negli ultimi
cinquant'anni, ha conosciuto alterne fortune. Il suo primato (spesso anche
imprenditoriale in quanto esercita il mestiere di capocomico oltre che di
attore) è stato messo un po' in ombra sia dall'affermarsi del regista che
dalla formazione dei Teatri Stabili, nati anche in alternativa al divismo
commerciale privato. Ma la fine delle compagnie capocomicali e del teatro di
repertorio (ogni compagnia aveva in programma vari spettacoli in alternanza con
regolarità) ha creato un problema di formazione dell'attore che una volta
cresceva all'interno delle compagnie misurandosi, in una stessa stagione, con
più ruoli; e dunque imparava il mestiere semplicemente facendolo,
direttamente sul palcoscenico. In sostituzione sono proliferate, soprattutto
negli ultimi anni, le scuole di recitazione pubbliche e private; l'estrazione
sociale dell'attore è mutata, allargandosi, mentre fino al dopoguerra
l'attore era quasi esclusivamente figlio d'arte, erede di un patrimonio di
famiglia, di una sapienza antica ma insieme con meno consapevolezza culturale
del proprio lavoro.
Con certa avanguardia sempre più legata alla
pura componente visiva dello spettacolo (non certo con Grotowski dove l'attore
è una sorte di sacerdote officiante) l'attore era spesso ridotto a puro
attrezzo o oggetto di scena, magari muto e nudo. Negli anni Ottanta si è
preso la sua rivincita, soprattutto facendosi le regie in prima
persona.
Importante inoltre il lavoro di ricerca e di innovazione fatto da
registi che, dalla classicità, sono passati all'avanguardia e alla
sperimentazione (ricordiamo, su tutti, Giorgio Strehler e Luca Ronconi, ma anche
Elio de Capitani e Ferdinando Bruni del milanese Teatro dell'Elfo, Franco
Parenti e, dopo la sua morte, Andrée Ruth Shammah, Gabriele Lavia, Mario
Missiroli, Carlo Cecchi, Cesare Lievi, Massimo Castri, e altri)
In fondo
in pochi decenni si è verificato un proliferare assai energico di forme
di espressione teatrale, dalla ricerca più rarefatta alla sopravvivenza
del teatro borghese più consolatorio, dal teatro politico all'analisi
della quotidianità, dal silenzio infinito di Beckett alla commedia
musicale. Non si può più parlare di un solo teatro ma, più
correttamente, di teatri, di tanti modi di fare teatro, ciascuno con un proprio
sistema di comunicazione, con un suo pubblico che magari non si travasa mai in
un altro tipo di spettacolo, e ciascuno con un proprio linguaggio. Ed è
almeno un segno di vitalità.
LA COMMEDIA ALL'ITALIANA
Diverse sono le ragioni dell'esplodere,
dello straordinario affermarsi di un fenomeno come la cosiddetta «commedia
all'italiana». Molti critici hanno fatto notare come al suo fiorire
corrisponda un processo di dissoluzione bozzettistica dell'impegno di
rappresentazione critica della realtà nazionale che aveva caratterizzato
il momento neorealista. Probabilmente, si tratta di un giudizio ingeneroso, ma
non del tutto infondato. è fuori discussione il fatto che nella
comicità e nella satira del nuovo cinema si possa cogliere un calo di
ideologia. Senza scomodare i grandi maestri - Visconti, Rossellini, De Sica - il
diagramma è evidente nell'opera di un autore come Pietro Germi: passato
dalla denuncia delle ragioni sociali ed economiche di fenomeni come la mafia e
l'emigrazione clandestina in In nome della legge e Il cammino della speranza,
entrambi datati allo scadere degli anni Quaranta, al grottesco di Sedotta e
abbandonata, Divorzio all'italiana (che suggerì il nome al filone) e
Signore e signori, in cui l'osservazione di precise realtà, siciliane o
venete, è scandita sul metro dell'umorismo (non privo di veleni,
tuttavia).
La perdita di peso dell'ideologia fu, dopo le elezioni del 18
aprile 1948, con la vittoria democristiana sulla coalizione socialista e
comunista del Fronte Popolare e con la conseguente ondata di generale
restaurazione, un dato comune all'intera società italiana. è
comprensibile che si riverberasse anche nell'ambito della produzione
cinematografica. Ma, a voler essere sinceri, le responsabilità non sono
del tutto da ascrivere al diverso quadro politico. Esistono leggi di mercato
difficilmente eludibili. Il cinema neorealista non ebbe dalla sua un vasto
pubblico, anzi. Capolavori come Paisà o Ladri di biciclette venivano
spesso proiettati davanti a platee semideserte; di La terra trema uscì
soltanto un'edizione molto tagliata, rifiutata da Visconti. Il solo film del
periodo che spuntò incassi apprezzabili fu Riso amaro di De Santis, ma
per motivi del tutto estranei alla rappresentazione della vita grama delle
mondine. Produttori, sceneggiatori e registi si trovarono presto a fare i conti
con l'esigenza di un forte recupero dello spettatore ancora abbagliato dalla
sirena hollywoodiana. Il filone della comicità apparve come lo strumento
più idoneo allo scopo.
Restava vivo, tuttavia, per i cineasti
italiani, il fondamento neorealista di rifarsi alla vita di tutti i giorni, al
costume, talvolta alla cronaca. La «commedia italiana» (non ancora
«all'italiana») emerse con naturalezza dalla sconfitta del neorealismo
in sede di mercato. L'onorevole Angelina, è primavera, Vita da cani,
Domenica d'agosto, Parigi è sempre Parigi, Poveri ma belli, Gli
innamorati, Guardie e ladri, Due soldi di speranza, citati alla rinfusa, sono
film in cui la risoluta denuncia critica del neorealismo si stempera in una
visione più sorridente della realtà. Per arrivare alla vera e
propria «commedia all'italiana» saranno necessarie altre mediazioni.
In primo luogo, tra il 1953 e il 1955, i due film di pungente satira di costume
girati da Luigi Zampa su soggetto di Vitaliano Brancati: Anni facili e L'arte di
arrangiarsi; inoltre, l'emergere nel panorama cinematografico nazionale di due
diverse équipes di sceneggiatori (divenuti anche registi) e di
interpreti. Tra i primi: Scola, Maccari, Monicelli, Steno, Age, Scarpelli,
Sonego, e, un poco più tardi, Benvenuti e De Bernardi. Tra i secondi:
Gassman, Tognazzi, Manfredi e, più coinvolgente di tutti, Alberto
Sordi.
Se gli sceneggiatori-principi del neorealismo erano stati Cesare
Zavattini e Sergio Amidei, i loro più giovani colleghi furono bravissimi
a disegnare una fisionomia precipuamente satirica per il cinema italiano.
Diversi di loro provenivano, come Fellini, dalle redazioni di giornali
umoristici, esperienza che li aveva addestrati al rapido scatto umoristico e al
gusto comico dello sketch. Infatti, quelli furono anni in cui il film a episodi
andò molto di moda: uno di questi - I mostri di Dino Risi - figura tra i
titoli più significativi della «commedia all'italiana», con in
evidenza l'esilarante episodio dei due pugili suonati Gassman e Tognazzi. A
Vittorio Gassman è toccata la sorte di segnare alcuni momenti
fondamentali della «commedia all'italiana» da quella che viene
considerata la sua prima apparizione ufficiale (I soliti ignoti di Mario
Monicelli) alla sua punta di intensa vibrazione umana (Il sorpasso di Dino
Risi); tuttavia, se si dovesse scegliere un attore emblematico per il genere,
questi non potrebbe che essere Alberto Sordi. Dalle premesse de Lo sceicco
bianco e I vitelloni (Fellini), Il seduttore (Franco Rossi), il già
ricordato L'arte di arrangiarsi, fino a Un eroe del nostro tempo, Lo scapolo, Il
vedovo, Il vigile, Tutti a casa, Il moralista, Una vita difficile, La mia
signora, Il medico della mutua, Il commissario, Mafioso, Il boom, Il maestro di
Vigevano, Il diavolo, Fumo di Londra, Scusi, lei è favorevole o
contrario?, Amore mio aiutami e molti altri: il medaglione di Albertone italiano
all'italiana è completo.
Ormai siamo arrivati agli anni Settanta.
Sordi, sempre accompagnato dal fedele sceneggiatore Roberto Sonego, è
diventato regista di se stesso. E ha affinato la tastiera dell'interprete fino a
coincidere con il tipo canonico dell'Italiano medio, rappresentato con crudele
comicità particolarmente in versione romanesca (il nucleo è in un
americano a Roma, con il personaggio di Meniconi Nando): fissazioni, paure, vizi
e cattive abitudini inclusi. Non per nulla, negli anni Ottanta, la Tv ha
riproposto alcuni cicli di spezzoni di film interpretati da Sordi, sotto
l'emblematico titolo di Storia di un Italiano. Ma, in un certo senso, una
siffatta universalizzazione del carattere italico travalica i precisi confini,
storici e sociologici, della «commedia all'italiana». Infatti, Sordi
costruisce il suo grottesco mosaico umano anche con materiali
contenutisticamente e cronologicamente estranei ad essa: come in La grande
guerra di Monicelli, interpretato insieme con Gassman.
Per Gassman, come
per Manfredi e Tognazzi, l'identificazione nella «commedia
all'italiana» è più puntuale e circostanziata, anche se tutti
e tre partecipano indifferentemente a produzioni che sono commedie tradizionali
(e Gassman esporta addirittura il genere nel Medio Evo con L'armata
Brancaleone), titoli come Made in Italy, Menage all'italiana, La marcia su Roma,
La congiuntura, Se permette, parliamo di donne, Il federale, Il successo, La
voglia matta, non possono non saldare i tre interpreti con il vincolo dell'idea
e del disegno della «commedia all'italiana». Poiché questa si
situa, inizialmente, sul versante della satira al costume nazionale suo
contemporaneo, ma finisce per diventare presto lo specchio agro e fedele di un
decennio, o poco più, del tutto sorprendente e contraddittorio: con il
boom economico e le periferie borgatare, la lunga marcia verso il
centro-sinistra e lo squallido sottogoverno democristiano, le fortune
improvvisate nell'edilizia abusiva e l'ambiguo potere dell'Eni di Mattei. Al
centro di tutto, grigia, vogliosa e impudente, l'eterna figura del
piccolo-borghese nostro vicino di casa e di lavoro, alle prese con il problema
di tenere famiglia e di coniugare spudoratamente l'arte di arrangiarsi, pronto a
porre in atto gli stratagemmi dagli estri un po' pazzi e incredibili che,
riversati nel costume generale, hanno fatto definire quegli anni come «anni
del miracolo». Ma, nonostante ciò e nonostante il miraggio sempre
vivo del modello americano, si tratta di un piccolo borghese rimasto bloccato
dai condizionamenti di una cultura mediocre e provinciale, pigra e bigotta,
mammista e maschilista. Non è un caso se la «commedia
all'italiana» ha avuto alcuni mattatori, ma neanche una mattatrice, se
vogliamo escludere Monica Vitti.
I GUSTI DEGLI SPORTIVI
Giugno del 1954. Campionati del mondo di
calcio, in Svizzera. Per la prima volta la competizione viene ripresa dalla
televisione: un bianco e nero spesso sfuocato, frequenti interruzioni sul
circuito internazionale, ma intanto i bar delle principali città d'Italia
si popolano di appassionati e di curiosi, attratti dal prodigio della voce
«fuori campo» di Nicolò Carosio che segue e commenta le azioni
che si svolgono sul terreno di gioco. Per l'Italia andrà male; molto
male: eliminazione al primo turno dopo un'ingloriosa sconfitta per 4-1 contro i
padroni di casa della Svizzera. Ma non conta guardare al risultato. Conta invece
ripensare all'evento davvero decisivo, a suo modo «rivoluzionario»,
che si verificava: s'inaugura l'era della televisione come occhio assiduo e
continuo sullo sport; si era a una svolta che forse con un po' d'enfasi potremmo
dire «epocale» nel rapporto sport-pubblico, con riflessi di enorme
portata sul piano del costume.
Ci vorranno anni perché tutta una
serie di fenomeni collegati al filtro televisivo degli avvenimenti sportivi
impongano il loro peso nella società. Ma intanto, fin dall'inizio, si
avverte che qualcosa (qualcosa di rilevante) è mutato: l'immagine
diretta, oggettiva, realistica getta un colpo di spugna sul fascino
dell'immaginazione e la «leggenda» dello sport, con i suoi miti e il
suo epos, comincia a farsi cronaca.
Se l'avvento della televisione anche
nello sport come in altri campi della vita sociale costituisce il fatto di
più grande responsabilità nella modificazione di consolidate forme
di comunicazione e di percezione degli eventi, c'è da dire che per quanto
riguarda lo specifico dello sport gli anni che vanno dal secondo dopoguerra ad
oggi sono contrassegnati da non pochi elementi di
novità.
Sarà sufficiente soffermarsi su di un aspetto. Sport
popolari per eccellenza sono da sempre stati in Italia il calcio e il ciclismo.
E di forte presa era soprattutto il ciclismo che, per sua stessa natura, andava
incontro alla gente, si svolgeva per le strade; era lo sport
«gratuito» per eccellenza. L'Italia povera che usciva dalle rovine
della disastrosa guerra affidava anche alle imprese di Bartali e Coppi le
speranze di un riscatto d'immagine; e il profondo radicamento nel popolo di uno
sport come il ciclismo ha la sua innegabile verifica come quando, nel luglio del
1948 il trionfale successo di Bartali in una tappa del Tour de France viene
strumentalizzato per placare le masse insorte a seguito di un attentato nel
quale era rimasto gravemente ferito il segretario del Pci, Palmiro
Togliatti.
Ciclismo, dunque, e calcio: con il mito del «grande
Torino» la squadra di Loik e Mazzola, di Gabetto e di Grezar, distrutta al
culmine dei suoi trionfi a seguito dello schianto contro la collina di Superga
dell'aereo che riportava i giocatori dopo un incontro amichevole a Lisbona.
Calcio e ciclismo si distribuivano equamente interessi e passioni; e non a caso
uno dei settimanali di maggior diffusione negli anni Cinquanta aveva per testata
la denominazione «Calcio e ciclismo illustrato».
Ad apertura
degli anni Sessanta, precisamente il 2 gennaio 1960, muore all'improvviso,
all'età di trentanove anni, Fausto Coppi. E la sua morte può
essere assunta a linea di demarcazione cronologica, dopo la quale si assiste a
una lenta ma progressiva perdita d'interesse per il ciclismo, mentre accanto
alla persistenza e all'incremento della passione per il calcio altri -
più che il ciclismo - sono gli sport gratificati da un maggior seguito di
pubblico e che consolidano la loro presa nell'immaginario collettivo:
l'automobilismo, legato alla squadra di Maranello, la Ferrari, ma per il quale
non va dimenticato anche il grande fascino, esercitato in anni precedenti da
figure come Tazio Nuvolari o da competizioni del tipo delle Mille Miglia; sport
emergenti, come il basket e la pallavolo; sport che stentano da noi a decollare,
ad esempio il rugby; sport che ancora non reggono bene al trapianto entro un
humus estraneo a quello della loro origine, come è il caso, solo per fare
l'esempio più vistoso, dell'americano baseball, che alla maggior parte
degli Italiani risulta un complicato e incomprensibile gioco in cui sembrano
combinarsi la lippa e i quattro cantoni.
Questa, per grandi linee,
l'immagine dello sport italiano negli ultimi cinquant'anni; e per dare qualche
tratto di definizione più caratterizzante al rapido schizzo si
ricorderanno ancora le alterne vicissitudini, legate per lo più ai
successi di alcuni campioni (Loi, Benvenuti), del pugilato, i momenti di gloria
nell'atletica leggera (Berruti, Mennea, Bordin, May), e quegli sport di cui ci
si ricorda solo in occasione di alcune vittorie olimpiche che servono a far
apparire l'Italia quello che in verità non è, cioè una
delle nazioni più «sportive» del mondo: Rossini e Giovanetti
nel tiro al piattello, i fratelli Abbagnale nel canottaggio, Maenza nella lotta
grecoromana, la squadra di scherma femminile, la coppia Barbara Fusar Poli e
Maurizio Margaglio nel pattinaggio artistico su ghiaccio, Massimiliano Rosolino,
Emiliano Brembilla, Domenico Fioravanti per il nuoto.
Sono l'automobilismo
e lo sci (anche per i forti interessi economici ad essi collegati e per le
personalità sempre più eclettiche degli atleti - ricordiamo Gilles
Villeneuve, Ayrton Senna o Michael Schumacher, per l'automobilismo, Alberto
Tomba e Deborah Compagnoni per lo sci) a coinvolgere i maggiori interessi in
questi ultimi anni. Ma è sempre comunque il calcio a farla da padrone, in
assoluto: il calcio giocato e, soprattutto, il calcio parlato: gli errori degli
arbitri, la moviola, la campagna acquisiti, ecc. (unico Paese in Europa,
l'Italia vanta numerosissime pubblicazioni sportive tra cui il diffusissimo
quotidiano «La Gazzetta dello Sport», e ancora più numerose
trasmissioni televisive e radiofoniche sull'argomento). Un calcio
professionistico al massimo, divenuto business di dimensioni enormi, polarizzato
su alcune figure-simbolo, giocatori-immagine attorno ai quali ruotano affari
giganteschi, manovrati da un non sempre limpido apparato manageriale entro il
quale trovano collocazione procuratori, avvocati, faccendieri, commercialisti,
affaristi, ecc.
Giocatori-merce e squadre non più tanto
rappresentative di una città, quanto piuttosto mediatrici all'esterno
dell'immagine di una grande azienda e di una struttura finanziaria. Lo si
capisce molto bene considerando il modo di conduzione attuale di due tra le
maggiori squadre italiane, la Juventus e il Milan, la cui conduzione è
legata rispettivamente ai gruppi aziendali collegati alle famiglie Agnelli
(cioè Fiat) e Berlusconi (cioè il gruppo Mediaset).
TERRORISMO: MORTE E TENSIONE
LO STRANO CASO DEL TERRORISMO ITALIANO
Il terrorismo
politico ha accompagnato tutte le guerre di liberazione nazionale di questo
mezzo secolo, sia come fase preliminare ad una vera e propria guerriglia (ad
esempio nel Vietnam), sia come supporto a questa (ad esempio, in Algeria). In
Europa, organizzazioni terroristiche combattono da anni in Irlanda del Nord
(l'Ira, Irish Republican Army dei cattolici in lotta contro le organizzazioni
paramilitari protestanti e l'esercito britannico, per rivendicare la
riunificazione del Paese alla repubblica d'Irlanda) e nei Paesi baschi (l'Eta,
in lotta contro la polizia e l'esercito dello Stato spagnolo, per rivendicare
l'indipendenza del territorio basco, non soddisfatti della raggiunta
dell'autonomia già concessa). In entrambi i casi, l'uso del terrorismo
è collegato a un progetto nazionalistico e indipendentistico: ed anche se
in entrambe le organizzazioni esiste un'ala che si propone obiettivi politici
rivoluzionari di classe, non è questo l'aspetto che assicura ad esse
solidarietà ed appoggi tra la popolazione, in patria e fuori, se è
vero che l'Ira ha ricevuto clandestinamente aiuti dalle comunità
irlandesi degli Stati Uniti, e l'Eta può contare su una base sociale in
gran parte piccolo borghese e rurale. (Dalla metà degli anni Settanta
agisce anche un movimento indipendentista in Corsica, che ha organizzato
attentati a edifici e simboli della presenza francese e straniera nell'isola, ma
non campagne terroristiche vere e proprie).
Organizzazioni terroristiche
con obiettivi politici rivoluzionari non nazionalistici e non interclassisti
sono nate ed hanno operato dagli anni Settanta nella Germania occidentale e in
Italia. In Germania, però, la Raf (Rote Armee Fraktion = «Frazione
Armata Rossa»), con una base sociale borghese e intellettuale, ebbe una
scarsa consistenza numerica, quasi nessun contatto con la classe operaia tedesca
(del resto composta in una certa misura da immigrati fortemente subordinati alle
aziende), e fu repressa nel giro di alcuni anni dalle autorità tedesche,
che con l'occasione attuarono una incruenta epurazione del personale statale di
convinzioni radicali e dissidenti. Solo in Italia, perciò, è
esistito un fenomeno di terrorismo politico non nazionalista e indipendentista
protrattosi per un decennio abbondante, e attuato sia da organizzazioni
rivoluzionarie (terrorismo «rosso»), sia da organizzazioni neofasciste
(terrorismo «nero»), sia da sconosciuti che larga parte dell'opinione
pubblica ha indicato, non senza riscontri, in settori degli stessi apparati
statali (servizi segreti nazionali e stranieri, agenti provocatori). Il
terrorismo ha fatto anzi la sua comparsa nel 1969 con episodi, dagli attentati
ai treni alla strage di piazza Fontana, dei quali per anni non furono mai
individuati ufficialmente gli autori, prima additati in appartenenti al
movimento anarchico, poi in neofascisti. Nel 2001, infine, vennero ritenuti
colpevoli e condannati i neofascisti Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo
Rognoni
Quegli episodi hanno inaugurato la cosiddetta «strategia
della tensione», cioè la creazione di un clima di paura (di terrore,
in definitiva) nel Paese, utile a rendere difficile un'eventuale vittoria
elettorale delle forze di sinistra. Come corollario di questo clima, gruppi
neofascisti hanno in tempi e modi diversi progettato colpi di mano e costituito
organizzazioni terroristiche responsabili di attentati.
Contemporaneamente,
in alcune frange dell'estrema sinistra, nel clima successivo alla strage di
piazza Fontana e sull'onda del ciclo di lotte operaie di fine anni Sessanta,
maturò la convinzione, da un lato, che esistesse il rischio serio di un
colpo di Stato, dall'altro, che il Paese fosse in una situazione quasi
prerivoluzionaria, nella quale l'azione di avanguardie disposte a gesti
esemplari (come i sequestri di persona di dirigenti d'azienda e magistrati)
potesse innescare una protesta operaia diffusa e una catena di reazioni che
preludesse alla rivoluzione. Nel gruppo fondatore delle Brigate Rosse (o
più semplicemente Br: questo il nome della prima e principale
organizzazione terroristica, che si voleva guerrigliera) si trovavano ex
comunisti ed ex cattolici progressisti, impegnati in un'analisi della
società italiana ispirata a modelli culturali marxisti e leninisti
(almeno così pensavano). La natura di sinistra dell'organizzazione fu a
lungo negata, almeno ufficialmente, dalle forze della sinistra parlamentare,
inclini a presentare i brigatisti come agenti provocatori. Il gruppo fondatore
delle Br fu in gran parte arrestato entro il 1976.
Negli anni successivi,
però, non solo l'organizzazione proseguì la sua attività, e
in modo più micidiale, ma ne apparvero altre, meno preoccupate
dell'analisi ideologica ma non meno puntuali nell'azione, rivolta contro
poliziotti, magistrati, direttori di carceri, giornalisti, dirigenti
d'azienda.
L'azione più clamorosa delle Br fu il sequestro del
leader democristiano Aldo Moro, poi ucciso dopo il rifiuto del Governo di
trattare con i terroristi (1978). Il sequestro Moro, occasione di un'aspra
discussione tra favorevoli e contrari alle trattative, dimostrò in ogni
caso l'isolamento delle organizzazioni terroristiche. La sinistra parlamentare
era indotta dalla loro stessa azione a riconfermare in modo ancor più
netto la propria attitudine legalitaria, ed anzi a collaborare attivamente alla
lotta al terrorismo; il principale partito di Governo poteva rivendicare come un
martirio la morte di Moro e rilegittimarsi di fronte all'opinione pubblica come
simbolo dello Stato; misure repressive che in altra occasione sarebbero parse
inaccettabili (costruzione di carceri speciali, estensione dei poteri di polizia
e magistratura, legislazione speciale per favorire i terroristi catturati che
collaborassero con le forze dell'ordine) furono approvate col dissenso di esigue
minoranze. Nel corso della prima metà degli anni Ottanta il terrorismo
sia neofascista sia rivoluzionario venne sopito, con l'arresto o la fuga di
quasi tutti i suoi esponenti e degli appartenenti a movimenti di opposizione
radicale non strettamente terroristici.
Molti libri sono stati scritti per testimoniare esperienze
individuali o iniziare a interpretare un fenomeno che ha, esso sì,
distinto l'Italia dagli altri Paesi. Il problema non è rappresentato
tanto dal terrorismo neofascista, o «nero», in buona misura manipolato
dai servizi segreti, quanto dal terrorismo di sinistra, o «rosso».
Perché il terrorismo? e perché in Italia? è stato sostenuto
che il terrorismo ha rappresentato la reazione sbagliata di alcune frange
radicali a un sistema politico bloccato: e questa per diversi motivi sarebbe
stata appunto la situazione della Germania occidentale, dell'Italia e del
Giappone (dove, appunto, operò negli anni Settanta un piccolo movimento
terrorista). Ma, a parte il fatto che il blocco di un sistema politico non
è un dato ineluttabile e permanente, e che semmai l'azione dei terroristi
è riuscita a ribadirlo anziché a scardinarlo, perché tanto
a lungo il terrorismo proprio in Italia?
L'azione repressiva dello Stato,
una volta avviata, si è rivelata efficace (qualunque giudizio si voglia
dare delle sue modalità); tuttavia forte è stata l'impressione che
la sopravvivenza del fenomeno sia servita a tenere in scacco, sulla difensiva,
le forze di sinistra vecchia e nuova che con il terrorismo non volevano avere
nulla da spartire, ma che si auguravano trasformazioni anche profonde
dell'assetto politico del Paese. La polemica sull'album di famiglia dei
terroristi, cioè sulle loro matrici ideali, ha dato l'occasione per
gettare l'anatema sui movimenti e sulle lotte sociali del 1968-1972, e per
meschine recriminazioni di partito. Solo alcuni terroristi avevano avuto una
formazione nelle organizzazioni giovanili comuniste, o provenivano da famiglie
di tradizioni partigiane; e il fatto che altri avessero precedenti di cattolici
non significa molto in un Paese cattolico. Quanto poi alla provenienza sociale,
se una statistica completa fosse possibile, risulterebbe probabilmente
prevalente un retroterra non operaio e neanche borghese, ma semmai genericamente
popolare e piccolo o microborghese, in linea del resto con la fisionomia della
società italiana. L'impazienza e l'irrequietezza giovanili (estremismo
come infantilismo, secondo il vecchio adagio di Lenin) non spiegano
perché gruppi di giovani scegliessero la lotta armata anziché il
ripiegamento individualistico ed edonistico (come negli Stati Uniti); e nemmeno
la forte politicizzazione della società italiana degli anni Settanta
è una spiegazione del tutto soddisfacente, perché in Francia,
Paese di antichi e radicali contrasti politici e ideologici, il movimento del
Sessantotto non produsse fenomeni terroristici, se non trascurabili.
Forse,
tutti gli elementi chiamati in causa giocarono un ruolo parziale ed efficace, in
un momento di insolita effervescenza sociale. Forse fu l'improvviso mettersi in
moto della società alla fine degli anni Sessanta senza che le forze
politiche sapessero dare una risposta all'ondata antiautoritaria a preparare il
terreno per le disillusioni e le illusioni che alimentarono il terrorismo. E a
mettere in moto il fenomeno furono analisi della società italiana
sbagliate perché troppo ideologiche e, nonostante le pretese di realismo
e di comprensione dei fenomeni sociali, assolutamente astratte. L'eccesso di
attenzione per i fenomeni rivoluzionari e guerriglieri del Terzo mondo, i soli
per i quali potessero valere i riferimenti di rito alla vecchia tradizione
leninista, portò a confondere i problemi reali di una società
industriale complessa in trasformazione, come dopotutto l'Italia era già,
con quelli di società arretrate e meno articolate, e a interpretare come
richieste di rivoluzione agitazioni sociali tutto sommato normali, spiegabili e
regolabili in un contesto di democrazia parlamentare, di pluralismo politico e
di confronto tra organizzazioni del capitale e del lavoro. Astrattezza di
analisi, cultura invecchiata o inadeguata al momento e al luogo, eccesso di
ideologismo portarono in un vicolo cieco una frangia, del resto assai esigua,
della popolazione giovanile. I terroristi davano mostra di credere in una sorta
di «eccezionalità» dell'Italia; e a loro volta le forze dello
Stato e i partiti di Governo accettarono ed enfatizzarono questa impostazione,
che permetteva di tenere in permanenza all'ordine del giorno la patria in
pericolo e di fare del problema del terrorismo il problema fondamentale e la
pietra di paragone della democrazia in Italia. E quando il cambiamento di ciclo
economico e di clima sociale lasciò di fronte da soli terroristi e Stato,
risultò evidente la sproporzione tra l'attenzione prestata al fenomeno
(grandissima) e la sua incidenza reale sulle vicende italiane
(minima).
LA STRAGE DI STATO
Vediamo ora una testimonianza data da Luigi
Manconi, ex portavoce dei Verdi e membro attivo della sinistra giovanile dei
primi anni Settanta. Le sue opinioni denunciano il fatto di essere state
espresse prima della sentenza del 2001 sulla strage di Piazza
Fontana.
... Nel dicembre 1969 avevo ventun anni. Due anni prima,
accompagnato da mio padre, ero arrivato a Milano, proveniente da
Sassari.
Dopo alcune settimane, nel novembre 1967, l'Università
Cattolica a cui ero iscritto (facoltà di Scienze politiche) fu occupata
dagli studenti. Da allora, e per i due anni successivi, la mia vita fu
interamente presa dall'attività del movimento studentesco.
Il 12
dicembre 1969, la strage nella Banca dell'Agricoltura. Alcuni giorni dopo, alle
prime ore del 16 dicembre, da una finestra del quarto piano della Questura di
Milano, precipita un ferroviere anarchico: Pino Pinelli. Le versioni fornite
dagli agenti di polizia (presenti nella stanza) risultano ridicole; sulle cause
e sulla dinamica di quella morte, a distanza di alcuni decenni, ancora non sono
state fornite spiegazioni attendibili. Il 20 dicembre si svolge il funerale.
Poche persone e pochissimi adulti: qualche docente universitario, qualche poeta,
le bandiere nere dell'anarchia. Una sensazione di solitudine angosciante e
irreparabile.
Quella strage costituì - per me e per una parte
significativa di giovani tra i 15 e i 25 anni - «la perdita
dell'innocenza». Una sorta di «trauma originario» che modificava
i valori e le aspettative dei settori più attivi di due generazioni:
quella dei partecipanti ai movimenti studenteschi e quella dei loro
«fratelli maggiori».
Fino ad allora, lo scontro politico e di
piazza - pur aspro e, talvolta, violento - aveva rispettato un sistema di regole
non dette ma condivise, e aveva fissato un limite nell'insopprimibilità
della vita umana. Nel decennio successivo al luglio Sessanta, i morti negli
scontri di strada non erano stati voluti con premeditazione e messi,
anticipatamente, nel conto.
Col dicembre 1969 cambia tutto. La strage di
piazza Fontana introduce nel conflitto in corso un'arma spaventosa e non
prevista: non contemplata, si potrebbe dire dagli accordi taciti, dai
«protocolli bellici», tra i due avversari (il movimento studentesco e
quello operaio, da una parte, e gli apparati dello Stato, dall'altra). Il fatto
che la strage sia così intensamente «casuale» - indirizzata
contro inermi cittadini - e che, da subito, emerga la difficoltà a
individuarne gli autori produce, appunto, quel «trauma». Libero
Gualtieri, repubblicano, presidente della commissione parlamentare sulle stragi
e il terrorismo, ha dichiarato più volte che, dietro gli attentati di
quegli anni, si individua la «politica dei servizi segreti».
Le
conseguenze di quel sospetto - che si fece, allora, mentalità condivisa e
slogan collettivo - furono profonde. Si consuma in quella circostanza, per una
quota considerevole di giovani, una larga frattura nei confronti del sistema
delle istituzioni. Il patto di lealtà tra quei giovani cittadini e lo
Stato - un patto che sopravviveva anche alla contestazione radicale e agli
scontri di piazza - si rompe: uno Stato sospettato di essere coinvolto
(attraverso suoi funzionari e agenti) in quella vicenda e, comunque, di non
volerne venire a capo, non può pretendere la collaborazione dei
cittadini.
Questo ragionamento - elementare quanto si vuole -
dominò, all'epoca, il «senso comune» di estesi settori delle
giovani generazioni. In coloro che, poi, praticheranno la lotta armata quel
ragionamento prese la forma rigida di un meccanismo autogiustificativo.
Nel
corso di una ricerca condotta dall'Istituto Cattaneo, numerosissimi imputati di
fatti di terrorismo indicano in quella strage il fattore determinante della
propria scelta.
... «Intanto ci fu lo sciopero per la bomba di
piazza Fontana [...] in cui praticamente fu la prima volta che andando a scuola
non si faceva lezione, ma si andava in piazza [...] ci fu una manifestazione
proprio di popolo [...] nei giorni successivi poi ci fu la storia di Pinelli e
quindi assemblee infuocate».
«Per quello che riguarda la mia
storia, comincia nel momento in cui la sinistra in Italia [...] proprio per
collocarla anche storicamente, comincia nel momento in cui la sinistra in Italia
difende apertamente Pietro Valpreda e rivede almeno le posizioni iniziali sulla
strage di piazza Fontana [...]. Prima e contemporaneamente cominciano
l'attività aperta di massa, dico di massa tra virgolette, dei fascisti
[...]».
«Mi appariva evidente che nessuna esperienza di lotta di
massa che fosse arrivata - in questo anche suffragata dalle storie di piazza
Fontana - che fosse arrivata alle soglie del potere»...
Ma
perché caricare di tanti significati quello che potrebbe considerarsi
come uno dei tanti «misteri italiani»? Perché quella vicenda e
non la strage dell'Italicus o l'assassinio di Aldo Moro e degli uomini della sua
scorta?
Un motivo c'è. Ed è che quella strage avviene nel
pieno di una fase di crescita complessiva della società italiana: ripresa
economica e scolarizzazione di massa, espansione dei consumi e delle
opportunità di vita. Il massacro di piazza Fontana sembra annunciare che
quello sviluppo non sarà né facile né incruento. Ma non
solo; la strage interferisce brutalmente con il più vasto processo di
«presa di parola» mai realizzatosi in Italia e con il più
esteso movimento di politicizzazione e di socializzazione delle esperienze: di
«democratizzazione collettiva», si può dire. è quella
lacerazione tra un movimento che reclama - e immagina possibile - il
protagonismo di massa e un attentato che afferma l'incontrollabile potere della
cospirazione di pochi, a determinare la delusione collettiva.
Le altre
successive stragi, gli altri ulteriori misteri colpiranno una
collettività che ha già visto dissiparsi il proprio potenziale di
attese e di speranze.
Da qui l'enorme carica simbolica di quell'attentato;
da qui l'insopportabile peso della mancata individuazione di esecutori e
mandanti.
è come se lo Stato, le sue istituzioni, i suoi apparati
non avessero mai saldato il debito contratto con i giovani del 1968-69; è
come se non avessero mai ripristinato un rapporto equanime, uno scambio eguale,
tra i contraenti quel patto sociale che fu faticosamente realizzato negli anni
Settanta. Diceva, allora, Licia Pinelli: «Aspetteremo magari vent'anni, ma
la verità verrà fuori perché siamo in una democrazia».
Lo sappiamo: non è stato così...
GLI ANNI DI PIOMBO
I cosiddetti anni di piombo, in Italia, sono
stati anche anni di carta. In quella lunga stagione, i giornali hanno
contribuito in modo decisivo a sopravvalutare, ad esasperare le minacce del
terrorismo. Leggendo i titoli e gli aggettivi tonanti degli articoli, sembrava
davvero che la democrazia stesse per crollare, e che le istituzioni repubblicane
(esercito e Parlamento compresi) fossero sul punto di soccombere di fronte a
poche centinaia di sovversivi male armati e male organizzati. Non era vero,
naturalmente: i terroristi non avevano la minima possibilità pratica di
scalfire il potere dello Stato.
Ma, in quegli anni, quasi tutti (politici e
sindacalisti, cronisti e maestri di pensiero) si comportarono come se Annibale
fosse alle porte. I giornali, in particolare, valorizzarono con grande clamore
gli omicidi dei brigatisti, cioè le imprese più facili da eseguire
(ci vuol poco ad ammazzare un uomo, soprattutto quando non se l'aspetta), con il
risultato di presentare le Br all'opinione pubblica (e ai simpatizzanti
rivoluzionari) come una specie di falange invincibile. Nello stesso tempo, quasi
tutti rifiutavano di prendere in considerazione le idee dei sovversivi, che
rappresentavano il loro punto debole, e che potevano essere facilmente
sbaragliate. Tutto questo non avveniva per caso. Molte forze politiche, molti
servizi segreti italiani e stranieri, molti gruppi di pressione avevano
interesse ad approfittare dell'occasione fornita dal terrorismo per mettere in
campo, ciascuno ai propri fini, la «cultura dell'emergenza». Quando
«la Patria è in pericolo», di fronte a un'insidia catastrofica,
tutto diventa lecito, tutte le carte del potere si possono rimescolare, tutte le
ipotesi sono praticabili: nuove alleanze, grandi coalizioni, governi «dei
tecnici» o «degli onesti», e perfino svolte autoritarie. Tutti
questi progetti coesistevano, negli anni di piombo e di carta. Tutte le
organizzazioni che determinano un potere o aspiravano a conquistarlo
arroventavano (a parole) la mobilitazione contro il terrorismo, ma non
mostravano un reale interesse a sconfiggerlo immediatamente. Perché
l'interesse primario di ciascun potere consisteva nel trarre il maggior profitto
politico possibile dalla situazione d'emergenza. Diversi, naturalmente, erano i
propositi delle forze in campo (autorità dello Stato, partiti alleati o
contrapposti, servizi segreti, loggia P2, neofascisti): diversi e solo
occasionalmente consociati, ma sostanzialmente in conflitto tra loro.
Il
clima di quegli anni, dunque, era marchiato a fuoco dalla paura del terrorismo,
amplificata e aggravata dai mass media. Ma c'era anche una paura più
diffusa e sottile, un odore di sabbie mobili nelle quali sembravano affondare,
piano piano, molte libertà individuali e collettive. Da una parte si
moltiplicavano le retate, i posti di blocco, i richiami al rigore, alla
fermezza, all'obbedienza: criticare un uomo politico era sconsigliato,
significava «additarlo alle Br», assumere atteggiamenti garantisti era
imprudente, si rischiava l'accusa di «fiancheggiamento». Dall'altra
parte, cresceva una cultura che tendeva a delegittimare i partiti, e a
condannare la «classe politica» come una banda di corrotti e di
incapaci.
Al di là (e al disotto) di questi dibattiti strategici, i
terroristi sparavano davvero, ammazzavano innocenti e ottenevano l'infame
risultato di eliminare molte mediazioni politiche, di rendere impresentabili
molte denunce delle ingiustizie sociali e (dunque) di far terra bruciata di
tutto quel che si muoveva, pacificamente, alla sinistra del Pci. Un'intera
cultura antagonista e libertaria veniva schiacciata dall'atmosfera bellica
voluta dai sovversivi, ma accettata (anzi, alimentata) anche da partiti e gruppi
di pressione non disinteressati.
Poi, come tutti sanno, ha vinto la
democrazia. I diversi progetti di Seconde Repubbliche nate dal terrorismo si
sono denunciati ed eliminati gli uni con gli altri. I pentiti del terrorismo
hanno incominciato a parlare, e tutti li hanno visti e ascoltati, e la lezione
è stata amarissima. Erano quelli, i guerrieri invincibili, erano quelli
gli ideologi inafferrabili: quelli che, adesso, balbettano e piangono e
insultano se stessi alla Tv? Ed era quella, la fermezza dello Stato, quella che
non ha trattato per Aldo Moro, ma ha patteggiato per altri, ad esempio per Ciro
Cirillo?
Sono lontani, ormai, gli anni di piombo. Ma ci sono costati troppe
vittime che dovevano essere salvate, troppi sacrifici che si potevano evitare, e
troppi brandelli di libertà, da ricucire a poco a poco.
Aldo Moro prigioniero delle BrNel 1999, quattordici
anni dopo il delitto dell’economista Ezio Tarantelli e undici anni dopo
quello del collega Roberto Ruffilli, il terrorismo targato Br tornò a
colpire a Roma: venne scelto Massimo D’Antona, braccio destro
dell’allora ministro del Lavoro Antonio Bassolino. Nel 2002 fu la volta di
Marco Biagi, ancora un economista, docente universitario e collaboratore del
ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Roberto Maroni.
INDUSTRIA E SOCIETÀ
LE TAPPE DELLO SVILUPPO INDUSTRIALE
Le condizioni
dell'Italia del 1945 non facevano prevedere per il Paese una crescita economica
come quella che ebbe poi luogo. In vaste zone dell'Italia meridionale il
problema agrario dava lo spunto a movimenti di occupazione di terre da parte dei
braccianti. L'industrializzazione del Paese era cominciata dalle regioni
nord-occidentali: qui la guerra aveva recato distruzioni tutto sommato limitate.
La riconversione dell'economia alla pace e alla ricostruzione del Paese
iniziarono nondimeno con difficoltà; e la direzione dell'economia venne
affidata a personalità ortodossamente liberiste come Luigi Einaudi (nel
1948 eletto presidente della Repubblica) ed Epicarmo Corbino. Le forze di
sinistra non avevano chiarezza di progetto: il più articolato e
intelligente fu il cosiddetto «piano del lavoro» elaborato dalla Cgil,
la confederazione sindacale di ispirazione socialista e comunista, che proponeva
una politica di lavori pubblici per alleviare la disoccupazione. Fra le forze di
Governo, erano certamente la sinistra democristiana e la sinistra liberale a
possedere la cultura economica e i progetti di sviluppo più aggiornati,
al corrente degli orientamenti keynesiani. Così come, tra le opposizioni,
erano alcuni esponenti socialisti ed azionisti di sinistra a proporre iniziative
di piano in linea con le tendenze prevalenti negli stessi anni in Gran Bretagna
e in Francia. Del resto, gli esperti economici statunitensi operanti in Italia
alla fine della guerra ed immediatamente dopo, esponenti delle correnti vicine
al New Deal di Roosevelt, raccomandavano una politica di riforme, e non
l'applicazione di un liberismo ortodosso. Invece, la scelta dei governi
centristi fu per una riforma agraria che nel Sud portò alla costituzione
di piccole proprietà (coerentemente con il tradizionale progetto sociale
cattolico), e nel Nord al rilancio dell'industria nel triangolo puntando sulla
crescita delle esportazioni e sul basso costo del lavoro assicurato da un
continuo e forte esodo dalle campagne, particolarmente del Meridione. I settori
trainanti, come l'industria dell'automobile (la principale fabbrica di
automobili del Paese, la Fiat di Torino, conobbe una spettacolare espansione,
che trasformò la fisionomia dell'intera città attraverso il
trapianto di centinaia di migliaia di lavoratori immigrati dal Meridione), ma
anche il tessile, erano diretti al mercato estero; mentre i consumi interni
furono per tutti gli anni Cinquanta fortemente compressi. La fase della
ricostruzione terminò alla metà degli anni Cinquanta; dalla
seconda metà di quel decennio iniziò un periodo di rapida
espansione produttiva e un primo lancio dei consumi di massa: il boom degli anni
Sessanta, prima grande breccia nelle strutture sociali del Paese, e agente di
mutamento dei costumi. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta l'intervento pubblico
realizzò importanti infrastrutture (la rete autostradale, quella
ferroviaria), l'Italia si dotò di un ente petrolifero pubblico,
realizzò, nella primissima fase del centro-sinistra, la nazionalizzazione
dell'energia elettrica, migliorando ed estendendo la rete elettrica del Paese.
Il costo del boom venne pagato dai lavoratori dipendenti dell'industria, che fra
la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta furono
protagonisti di un ciclo di lotte: ne scaturì la spinta dell'apparato
produttivo alla razionalizzazione e all'ammodernamento degli impianti, insieme
ad una migliore tutela delle condizioni di lavoro e dei rapporti giuridici tra
aziende e dipendenti. Alla metà degli anni Settanta l'economia italiana
fu pesantemente colpita dalla recessione mondiale, tanto più in quanto
Paese esportatore, privo di materie prime, e caratterizzato da un'economia di
trasformazione. Nella seconda metà del decennio e negli anni Ottanta
hanno perciò avuto luogo una profonda ristrutturazione industriale e, con
la favorevole congiuntura economica mondiale, un nuovo boom. Nel frattempo,
però, l'industrializzazione si è allargata a macchia d'olio, nella
forma delle medie, piccole e piccolissime imprese, spesso originate da
iniziative artigianali e decentrate in regioni già agricole, dove
l'integrazione fra città e campagna era più favorevole e le
strutture familiari allargate in grado di fornire un supporto alle iniziative
individuali. Regioni già agricole e di emigrazione, come il Veneto, e
regioni di mezzadria, come le Marche, oltre alla Emilia e alla Toscana, sono
state teatro di una industrializzazione diffusa, collegata del resto a radicali
miglioramenti dell'agricoltura. E via via queste attività si sono estese
verso Sud lungo la dorsale adriatica, all'Abruzzo e alla Puglia. Nel processo,
alcune aree del Paese sono rimaste escluse dalla crescita, sviluppando
un'economia assistita e forme di economia illegale basate sulla mediazione
politica e amministrativa del flusso dei finanziamenti pubblici. Pur nel
generale miglioramento del Paese, gli squilibri tra aree avanzate e aree
arretrate, già sensibili alla fine della guerra, non sono stati colmati;
piuttosto, si sono modificati i rapporti relativi tra le diverse aree, ed
è divenuta più complessa la mappa produttiva, perché
accanto all'economia industriale del Nord-Ovest, e a quella agricola e terziaria
assistita di buona parte del Sud, si è affermato un tipo di
industrializzazione diffusa che dal Nord-Est e da parte del centro si è
esteso verso Sud al Lazio meridionale e alla dorsale
adriatica.
IL MODELLO DI SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO COME MODELLO DI UNA ECONOMIA APERTA
Alla fine del secondo conflitto mondiale si
vennero a delineare due grandi poli a livello internazionale facenti capo,
rispettivamente, agli Usa e all'Unione Sovietica. Poiché l'Italia si
trovò inserita nella sfera di influenza americana, le scelte politiche ed
economiche di quegli anni non potevano che andare verso il libero mercato,
l'apertura economica, la liberalizzazione degli scambi e la cooperazione
internazionale promossi dagli Stati Uniti in occasione della concessione degli
aiuti ai Paesi europei previsti dal piano Marshall.
La situazione interna
dell'Italia era caratterizzata da una serie di problemi: un livello di sviluppo
economico basso rispetto agli altri Paesi europei; un modesto livello
tecnologico; una bassa specializzazione della forza lavoro; un tasso di
disoccupazione molto elevato; un apparato pubblico scarsamente efficiente, una
secolare carenza di materie prime; un forte divario tra il Nord e il Sud del
Paese; gravi sacche di povertà.
Gran parte di questi problemi non
erano risolvibili in tempi brevi; tuttavia la collocazione internazionale
dell'Italia imponeva scelte drastiche ed immediate. Due problemi premevano al di
sopra degli altri: occorreva ricostruire l'apparato industriale colpito dalle
distruzioni belliche e riconvertirlo dalla produzione di guerra a quella civile;
l'altro nodo da sciogliere era rappresentato dalla elevata disoccupazione, in
quanto non si poteva più far conto sulla tradizionale valvola di sfogo
delle emigrazioni.
Il Mezzogiorno costituiva un serbatoio di mano d'opera
disoccupata a causa della arretratezza non solo dell'industria, ma anche
dell'agricoltura. Pertanto, si operò creando un sistema di opere
pubbliche e introducendo la riforma fondiaria. Era questo lo strumento con cui
si voleva favorire la piccola proprietà terriera, frazionando il
latifondo e permettendo l'acquisto di piccoli appezzamenti da parte degli
agricoltori. Tuttavia, le dimensioni dei terreni assegnati si rivelarono troppo
ridotte e insufficienti al mantenimento delle famiglie contadine.
La
creazione di opere pubbliche si rivolse alle infrastrutture civili (abitazioni,
strade, ecc.), all'agricoltura, al turismo, ma nulla di concreto fu fatto per
dare corso anche nel Sud ad un processo di industrializzazione. A tale scopo
venne unicamente istituito un insieme di incentivi all'industrializzazione
(prevalentemente si trattò di finanziamenti a tasso agevolato, esenzioni
o riduzioni delle imposte, commesse statali) che avrebbero dovuto stimolare gli
imprenditori, anche di altre regioni, a creare nel Sud occasioni di
occupazione.
In realtà questa politica, anziché favorire
l'insediamento di imprese ad elevato impiego di mano d'opera, finì per
essere utilizzata unicamente dai grandi gruppi industriali del Nord che
installarono nel Mezzogiorno impianti ad elevato impiego di capitale e non di
forza lavoro (le cosiddette «cattedrali nel deserto»). Una tale
politica ebbe, pertanto, più un risvolto assistenziale che effettivamente
propulsivo.
Nel 1951, a processo di ricostruzione ormai completato, quello
agricolo era ancora il settore principale dell'economia italiana. Il settore
industriale era concentrato quasi esclusivamente al Nord, nel triangolo
industriale, e operava nei settori alimentare, tessile e dell'energia elettrica,
con tecnologie poco avanzate e scarsamente competitive a livello internazionale.
I settori più importanti per lo sviluppo economico (siderurgia,
meccanica, chimica) rivestivano scarsa rilevanza.
La struttura produttiva
italiana era pertanto più simile a quella di un Paese in via di sviluppo
che a quella di un Paese sviluppato. Tuttavia, la ripresa internazionale dei
primi anni Cinquanta trascinò l'economia italiana e impose scelte che
sarebbero state determinanti anche per lo sviluppo futuro, come l'adeguamento
della produzione industriale a quella che sarebbe dovuta diventare nel futuro la
domanda dei Paesi europei più progrediti. Si fabbricavano e si
esportavano, grazie ai prezzi competitivi dovuti ai salari più bassi,
prodotti dell'industria meccanica (radio, televisori, elettrodomestici,
autoveicoli) e di quella petrolchimica (materie prime e derivati della
raffinazione del petrolio), innescando quel processo di sviluppo economico che
per tredici anni (1950-1963) avrebbe caratterizzato la realtà economica
italiana.
La rapida crescita di questi settori industriali favorì il
sorgere anche in Italia di una domanda elevata di tali beni di consumo
alimentando la distorsione che si manifestava in acquisti sempre maggiori di
beni non necessari, mentre l'istruzione era carente, la sanità
disorganizzata, i servizi pubblici insufficienti, le abitazioni inadeguate, la
dieta troppo povera.
Inoltre, lo sviluppo dei settori trainanti
dell'economia favorì il formarsi del «dualismo» industriale.
Con questa espressione si indica l'esistenza al Nord di imprese di grandi
dimensioni, esportatrici, competitive ed efficienti, mentre al Sud operava un
settore industriale arretrato, non competitivo, basato su poche imprese di
piccole dimensioni, sui bassi salari, con prodotti rivolti al mercato locale. Fu
così che attratti dal «miracolo economico» del Nord, centinaia
di migliaia di disoccupati meridionali, ma anche provenienti dalle zone agricole
di tutto il Paese, affluirono nel triangolo industriale, provocando gravi
problemi di congestionamento delle aree urbane, inadeguate ad ospitarli. Nel
contempo alcune zone agricole o interne del Paese si spopolavano per mancanza di
effettive occasioni di lavoro, mettendo in luce un ulteriore elemento del
divario tra il Nord e il Sud del Paese.
Il processo di crescita sostenuta
dell'economia italiana nel dopoguerra rallentò dal 1963 in avanti per
arrestarsi nel decennio successivo con la crisi petrolifera
internazionale.
In quegli anni lo sviluppo economico del nostro Paese
è stato trainato dalle esportazioni verso i principali Paesi
industrializzati e ha originato il fenomeno del dualismo e le distorsioni tanto
nei consumi che tra il Nord e il Sud del Paese.
L'esperienza italiana (fino
agli anni Settanta) si può quindi interpretare come quella di una
crescita di carattere dualistico di un Paese sottosviluppato (a reddito
intermedio) e può permettere di comprendere la realtà di alcuni
Paesi in via di sviluppo (Brasile, Argentina, Messico), che successivamente si
trovarono in condizioni analoghe.
L'AUTUNNO CALDO
Il periodo “caldo’’ delle
rivendicazioni dei lavoratori visto dagli occhi di un giornalista di eccezione:
Gad Lerner.
... Non la smettevano nemmeno per un momento di suonare i
campanacci e di battere a mo' di tamburo sui contenitori di latta. Invece di
ritmare anch'essi i nostri slogan lungamente studiati a tavolino, preferivano
chissà perché sfiatarsi soffiando dentro ai fischietti. Facevano
un chiasso insopportabile, gli operai, quando scendevano in piazza nel
1969.
E noi studenti, che pure eravamo colti da timore reverenziale di
fronte a quella forza che disordinatamente invadeva le città, senza
curarsi di marciare in file ordinate né di rispettare la tradizionale
coreografia dei cortei, ci domandavamo che gusto ci provassero a far tanta
cagnara. Parlavano per loro, ai nostri occhi, quelle mani sporche d'olio,
smisuratamente ingrossate dalle asprezze del lavoro, troppo spesso mutilate di
un dito o di un'unghia (non era fondata sul nulla, la retorica delle «mani
callose»). Ma con quel frastuono - di volta in volta irato o festoso -
pareva proprio che non avessero null'altro da comunicare.
Solo molto tempo
dopo avrei colto l'ironia contenuta nel far cagnara: loro, a quel rumore, ci
erano abituati. Era la loro colonna sonora quotidiana, in officine dove per via
del clangore metallico ci si doveva intendere a gesti oppure urlando
nell'orecchio del vicino. Gli operai stavano semplicemente trasmettendo al resto
della società, ai frequentatori delle vie del centro e a noi studenti che
gli venivamo dietro in corteo, uno spezzone di «vissuto» della loro
realtà. Ci informavano.
Già, perché sul finire degli
anni Sessanta, nonostante che le fabbriche italiane si fossero gonfiate a
dismisura (l'immigrazione dal Sud era ripresa al ritmo di 120 mila nuovi venuti
all'anno), l'isolamento della classe operaia dal resto della società era
netto, e totale l'ignoranza su che cosa realmente fosse il lavoro manuale
all'interno delle officine. Sicché l'invasione dei centri cittadini da
parte di masse di operai, ebbe la forza di una rivelazione. Avrebbe condizionato
l'immaginario del mondo giovanile, attirato su di sé l'attenzione degli
intellettuali e dei mezzi di comunicazione di massa.
A partire dall'estate
del 1969 (l'estate degli scioperi a «gatto selvaggio» e delle scocche
scaraventate giù dalle catene di montaggio alla Fiat Mirafiori di Torino,
il più grande stabilimento automobilistico d'Europa, con i suoi 60 mila
dipendenti), l'Italia viveva il più grande sommovimento sociale della sua
storia. Avvisaglie ce n'erano già state nel 1968, in parallelo con la
rivolta studentesca, a partire da stabilimenti nei quali minore era la presenza
dei sindacati. Come la Marzotto di Valdagno e il Petrolchimico di Marghera, nel
Veneto cattolico e tradizionalista.
Ma l'apertura del conflitto alla Fiat
Mirafiori, dove gli iscritti al sindacato erano solo una piccola minoranza, ebbe
il significato di una svolta. Scendevano in campo gli immigrati. I giovani. Una
nuova generazione di operai che aveva frequentato la scuola dell'obbligo ma che
veniva adibita a mansioni professionali assai dequalificate, attività
ripetitive rese ancor più faticose dall'introduzione di nuove metodologie
nella regolazione del lavoro, come l'«analisi di tempi e metodi» che
immediatamente comportava l'accelerazione dei ritmi produttivi.
Ne
derivò uno strano fenomeno che in termini sociologici viene definito
«tendenza alla fusionalità» e che nel linguaggio corrente
passò come «la nascita dell'operaio-massa». Succedeva
cioè che persone incapaci perfino d'intendersi fra loro - per via della
babele dei dialetti che rendeva difficile la comunicazione fra compagni di
squadra -, provenienti da storie di vita e da tradizioni diversissime,
cominciarono a sentirsi «una cosa sola». Scoprivano le tantissime cose
che avevano in comune: essere giovani, per lo più immigrati, abitanti in
stanze o case in affitto, perfettamente interscambiabili nella produzione... Ma
anche fortissimi nel caso si fossero uniti contestando l'autorità dei
capi e bloccando (anche in un punto solo per volta) la produzione. La
rigidità dell'organizzazione del lavoro tayloristica, fondata sulla
catena di montaggio, era pure fonte della sua estrema
vulnerabilità.
Non può stupire che fra quegli operai
prevalesse largamente una nuova cultura ugualitaria. Come si poteva seriamente
sostenere, dentro a quell'organizzazione del lavoro, che le prestazioni dell'uno
dovessero essere valutate diversamente dalle mansioni dell'altro? Tanto
più che fino ad allora le differenze retributive erano state stabilite
sulla base di criteri arbitrari e discrezionali da parte della gerarchia di
fabbrica. Malvolentieri e dopo molte incertezze il sindacato - che aveva la sua
base di forza nella minoranza dei lavoratori qualificati - si adeguò. E
ancora negli anni Novanta, quando ormai si era affermata la cultura della
meritocrazia e venivano sottolineate le differenze di professionalità fra
lavoratore e lavoratore, non a caso gli operai adibiti alle catene di montaggio
continuavano in maggioranza a preferire il criterio degli «aumenti uguali
per tutti».
Molto rapidamente, come quando un incendio divampa in una
foresta rinsecchita dalla siccità, emergevano le ragioni del malcontento
e della protesta: dai bassi salari allo strapotere delle gerarchie di fabbrica,
dalle «gabbie salariali» per cui a parità di mansioni un
operaio del Sud veniva pagato meno di uno del Nord, alla carenza di
alloggi.
Così, quello che sarebbe passato alla storia come
l'«autunno caldo», si contraddistinse come un movimento che andava ben
al di là del semplice rinnovo dei contratti di lavoro di categorie pure
importanti come i metalmeccanici, i chimici e gli edili. Chi osserva con sguardo
distaccato, a decenni di distanza, quel movimento, ne coglie innanzitutto la sua
inedita, straordinaria estensione sociale. Scioperavano le grandi fabbriche ma
scendevano in lotta anche tante aziende minori, magari caratterizzate dalla
prevalenza di manodopera femminile. Non solo le grandi città, ma anche i
centri di provincia. Non solo i metalmeccanici, i chimici e gli edili, ma anche
i postini, gli insegnanti, gli infermieri, i commessi, gli inservienti di
albergo, i lavoratori dei trasporti. Novità ancor più grande: non
solo gli operai, ma anche i tecnici e gli impiegati.
Si calcola che nel
corso del 1969 scesero in lotta più di 6 milioni di lavoratori. La
cultura tradizionale dei partiti di sinistra e dei sindacati pareva del tutto
inadeguata a rappresentare quei nuovi soggetti sociali. Nacquero dapprima
assemblee autonome e comitati di base, poi i consigli di fabbrica che il
sindacato finì per riconoscere quale propria struttura di base.
Ben
pochi fra i lavoratori protagonisti di quel sommovimento credevano davvero nella
rivoluzione, probabilmente solo una minoranza si interessava agli sbocchi
politici della propria lotta. Non c'era bisogno di ciò per entusiasmarsi
nella scoperta dei propri diritti, del proprio potere e - perché no - di
un proprio acquisito prestigio sociale. Tanto più che la vita quotidiana
migliorava sul serio, grazie alle lotte, sia dentro alla fabbrica che fuori,
nonostante le reazioni di chiusura (culminate nella «strategia della
tensione») che pure quel sommovimento determinò.
Questo e un
aspetto purtroppo sottovalutato dell'«autunno caldo» e del ciclo
ininterrotto di scioperi e vertenze che caratterizzò i primi anni
Settanta. Le sconfitte successive, le degenerazioni violente, i compromessi, la
crisi di rappresentanza dei sindacati hanno oscurato un dato di fatto
riconosciuto molto più dagli storici stranieri che non da quelli
italiani: nel breve volgere degli anni successivi all'«autunno caldo»
la nostra democrazia conobbe il maggior numero di riforme significative di tutta
la sua storia, sia sul piano delle conquiste sociali che sul piano dei diritti
civili. Vediamo: superamento delle «gabbie salariali»; riforma delle
pensioni; introduzione dell'orario lavorativo di quaranta ore; diritto di
assemblea retribuita nei luoghi di lavoro. E inoltre: introduzione dell'istituto
delle regioni; diritto al referendum; legge per il divorzio; nuovo diritto di
famiglia. Infine, più importante di tutti: l'entrata in vigore, nel
maggio del 1970, dello Statuto dei lavoratori, una legge fondamentale che
avrebbe in qualche misura tutelato i diritti dei lavoratori dipendenti (nelle
aziende con più di 15 dipendenti) anche nei periodi successivi, quando il
loro potere contrattuale sarebbe di molto diminuito.
Quegli operai
disordinati e rumorosi, che ci stupivano con i loro cortei, probabilmente ne
erano già allora ben più consapevoli di noi...
LE ITALIE ALLE SOGLIE DEGLI ANNI NOVANTA
L'immagine di due Italie, una settentrionale
industrializzata e in sviluppo, ed una meridionale agricola e stagnante, non
rendeva in alcun modo la realtà del Paese alla vigilia dell'integrazione
europea. La controversa acquisizione del quinto (o sesto) posto nella
graduatoria dei Paesi più industrializzati era certamente oggetto di
propaganda; ma la realtà di una crescita sia delle strutture produttive
sia del benessere del Paese, era innegabile. Il fatto stesso che per l'Italia di
fine anni Ottanta si parlasse di «società dei due terzi», come
per le altre economie avanzate d'Europa, sottintendeva che la crescita fosse
data per scontata.
La cosiddetta «economia sommersa» o
«informale» (qualche volta sinonimo di «economia illegale»)
contribuì al miglioramento del tenore di vita complessivo ed finì
per diventare un caso di studio per gli economisti stranieri sorpresi dalle
trasformazioni italiane. Di fatto esistevano almeno tre Italie, distinte per
fisionomia economica e sociale: quella dell'industria tradizionale e più
antica, riconvertitasi (spesso dolorosamente) negli anni Settanta-Ottanta;
quella della nuova piccola e media industria decentrata (dal Nord-Est al Lazio e
alla Puglia); e quella della disoccupazione, dell'agricoltura di sussistenza,
dell'assistenzialismo statale.
La questione meridionale aveva lasciato il
posto alle questioni campana, calabrese e siciliana, di regioni dove decollo
industriale non c'era stato, e dove il modo stesso di produrre e di riferirsi
alle strutture statali mescolava modernità e criminalità. Erano le
regioni dove organizzazioni criminali articolate mediavano tra gruppi sociali
subalterni e in ascesa e istituzioni pubbliche e private, drenando a vantaggio
di pochi i denari pubblici, appoggiando forme di accumulazione di capitale
criminale, assicurando un ordine sociale basato sulla subordinazione. Tuttavia,
né il quadro delle stesse regioni più arretrate era riducibile
agli aspetti illegali, né mancanvano forme di mobilitazione spontanea
contro le attività criminali.
Le trasformazioni del Paese furono
moderatamente avvertibili nella politica, per molti versi vischiosa e legata
almeno verbalmente a contrapposizioni fittizie e di facciata mentre furono
grandissime nell'economia, e altrettanto grandi nel costume, nei modi di vita e
nelle mentalità.
Diversamente da quanto era stato osservato a
proposito delle società preindustriali, dove sarebbe esistita una
sfasatura tra il tempo della politica, il più rapido, e le modificazioni
nell'economia e nelle mentalità, più lente, l'Italia del
dopoguerra era tumultuosamente cambiata su tutti e tre i livelli. Da questo
punto di vista, gli anni Novanta vedevano il riaccendersi di un dibattito sulle
prospettive politiche generali (la cosiddetta Seconda Repubblica) e su quelle
dei partiti, preludio possibile ad una nuova fase della politica
nazionale.
LA SECONDA REPUBBLICA
L'espressione è discutibile e
inesatta; l'Italia del 1994 non era certo altra cosa rispetto a quella dell'anno
precedente, se non altro perché la struttura istituzionale era sempre la
stessa. Tutti gli osservatori politici sono concordi nel ritenere che per
parlare di Seconda Repubblica occorrerebbero trasformazioni ben profonde ed una
riscrittura almeno di parti della Costituzione. Eppure è vero che le
elezioni del 27 marzo 1994 segnarono un profondo cambiamento e possono essere
legittimamente prese come spartiacque della storia dell'Italia di oggi.
Le
elezioni del 27 marzo 1994 si tennero col nuovo sistema maggioritario che
prevedeva la vittoria in un collegio elettorale del candidato che ottenesse la
maggioranza relativa dei voti. Questo meccanismo obbliga i partiti a
raggrupparsi in blocchi più o meno omogenei perché è
evidente che la moltiplicazione delle liste riduce la possibilità di
ottenere la maggioranza relativa dei voti. Ideale in certo modo sarebbe andare
alle elezioni in due schieramenti contrapposti, un po' come avviene in Gran
Bretagna o negli Usa. Alle elezioni del 27 marzo 1994 si realizzò in
parte questa situazione: c'era uno schieramento progressista che riuniva i
partiti della cosiddetta sinistra, ma anche altri come i Verdi e i Repubblicani,
e c'era uno schieramento di centro-destra, che sotto diverse sigle metteva
assieme le forze della Lega, dell’ex Msi (allargato ad abbracciare un'area
contigua con il nome di Alleanza nazionale) e Forza Italia: quest'ultima era la
novità di maggior spicco. Il nuovo soggetto politico era nato da poco,
voluto da Silvio Berlusconi, imprenditore lombardo presidente della Fininvest,
una società tra le più potenti in Italia che oltre ad
attività produttive controllava anche tre televisioni private (Italia 1,
Canale 5 e Rete 4). Alle elezioni si presentava anche il Ppi, erede della Dc
(mentre altri ex democristiani erano confluiti in Forza Italia) che sperava di
ottenere consensi nell'area centrista, quella appunto una volta occupata dalla
Dc. Lo schieramento progressista, fiducioso nella vittoria, venne seccamente
sconfitto ed anche il Ppi raccolse pochi consensi: fu invece un trionfo per
Berlusconi che ebbe la maggioranza assoluta alla Camera (412 seggi su 630),
mentre al Senato non raggiunse la maggioranza per pochi seggi, e subito dopo
venne incaricato di formare il nuovo Governo. Alla presidenza della Camera dei
deputati fu eletta con facilità la giovane Irene Pivetti, deputato della
Lega, mentre più contrastata fu quella di Carlo Scognamiglio, senatore di
Forza Italia, alla presidenza del Senato: vinse con un solo voto di scarto
contro Giovanni Spadolini. Già l'elezione dei presidenti di Camera e
Senato aveva messo in evidenza che la maggioranza non intendeva stabilire
rapporti con l'opposizione ed infatti dopo il giuramento del nuovo Governo tutte
le cariche di pertinenza del Governo vennero occupate da uomini del nuovo
raggruppamento. Il controllo della Rai in particolare apparve pericoloso e
inaccettabile in mano a una forza politica che controllava già tre
televisioni private.
Questo modo di procedere apparve sconcertante sia
perché il Paese era abituato a vedere le forze partitiche, anche di
opposizione, stabilire accordi tra loro e rispettare un certo rapporto di forza,
sia perché tra i nuovi ministri ve n'erano alcuni che non rinnegavano la
loro origine missina né nascondevano le loro simpatie per il passato
regime fascista. Lo sconcerto non era solo italiano; c'era preoccupazione anche
in Europa dove si esprimevano riserve sul nuovo corso.
Il Governo
Berlusconi intanto tentava di realizzare le grandi promesse di cui non era stato
avaro durante la campagna elettorale, come quelle di non istituire nuove tasse e
di aumentare i posti di lavoro (“un milione di nuovi posti di
lavoro’’), obiettivi difficili da raggiungere in presenza di un
debito pubblico sempre più minaccioso. Il Governo poteva giovarsi
però di una situazione complessivamente migliorata dagli interventi del
Governo Ciampi e soprattutto della positiva congiuntura economica. L'economia
italiana sembrava infatti attraversare un periodo positivo: le esportazioni
erano in aumento e il tasso di sviluppo non era stato mai così alto negli
ultimi anni. Ma vi erano anche tensioni sociali fortissime; le misure del
Governo che proponevano una drastica riforma del sistema pensionistico
scatenarono la reazione dei sindacati e delle opposizioni dando vita ad uno
scontro sociale di inusitata asprezza. La stessa alleanza tra le tre forze
politiche al governo, Lega, Alleanza Nazionale e Forza Italia, sembrava
vacillare.
IL FENOMENO DELLE LEGHE
è questa una delle novità
politiche degli anni Ottanta-Novanta. Quando per la prima volta si parlò
di queste liste elettorali dall'aspetto localistico, dimesso, dal linguaggio
politico un po' approssimativo, ma spesso violento e aggressivo, gli osservatori
liquidarono il fenomeno come un fatto provinciale, destinato a scomparire in
breve tempo. Questi osservatori non colsero l'aspetto di disagio e di protesta
che questi raggruppamenti esprimevano nei confronti di una politica
centralizzata e centralizzatrice che appariva sempre più lontana dalla
gente comune.
I successi delle Leghe, e della Lega Nord di Umberto Bossi
(segretario e leader del raggruppamento) in particolare, diventarono di tale
ampiezza e di tale rilevanza politica che non poterono essere trascurati; ma
anche in questo momento non ne fu visto con chiarezza il senso del movimento,
liquidato troppo frettolosamente come manifestazione populista, velleitaria,
antidemocratica, di "destra", come si disse. Sarebbe stato opportuno riflettere
che i consensi che la Lega stava mietendo (alle elezioni politiche del 1992 la
Lega Nord ottenne 55 deputati e 25 senatori) erano anche quelli che le
attribuiva una popolazione, non necessariamente di destra, ma stanca e
disinteressata di un modo di far politica che era entrato in crisi e che stava
suscitando con le inchieste di "Mani pulite" aspetti di repulsione. In altre
parole c'era nella Lega Nord evidentemente anche un'anima popolare, legata alle
tradizioni democratiche e costituzionali, anima rivelata dalla partecipazione
dello stesso leader Umberto Bossi alla grande manifestazione di commemorazione
del 25 aprile nel 1994. Probabilmente l'interpretazione del fenomeno con schemi
tradizionali non consentì un recupero della Lega Nord sotto uno
schieramento diverso, costringendola in un certo senso all'alleanza con il
centro destra proposto da Silvio Berlusconi e dove, da subito, il movimento di
Bossi, che pure partecipava attivamente al Governo con suoi membri, non si
trovò a suo agio.
Umberto Bossi
MANI PULITE
Quando il 17 febbraio del 1992 il socialista
Mario Chiesa, direttore del Pio Albergo Trivulzio di Milano, venne arrestato
perché ritenuto colpevole di imporre il pagamento di tangenti ai
fornitori dell'istituto, sembrò che ci si trovasse di fronte ad un
piccolo caso di concussione. Non ci si sarebbe aspettati che stava per iniziare
uno dei capitoli più drammatici della storia politica italiana. Nel giro
di qualche mese gli italiani scoprirono che i Mario Chiesa erano assai
più numerosi di quanto si potesse prevedere ed erano anche assai
più voraci: non si accontentavano di qualche pugno di milioni, ma
ottenevano miliardi e miliardi sfruttando la loro posizione. La seconda
sconcertante sorpresa fu che questi individui non prendevano i soldi solo per
loro; anzi a loro ne toccava di solito una piccola parte; la fetta più
grossa dovevano versarla al partito che li aveva collocati nel posto di potere
che detenevano. E allora si precisò il quadro di una corruzione che
sembrava non conoscere limiti. I magistrati dell'inchiesta, che da allora venne
chiamata "Mani pulite", e i magistrati che per primi avevano indagato sui fatti
in cui era coinvolto Mario Chiesa (il pubblico ministero di Milano Antonio Di
Pietro e il capo della procura di Milano Saverio Borrelli) a poco a poco misero
in luce come quasi ogni contratto pubblico, ogni appalto, ogni posizione di
potere fossero stati per anni sfruttati per far soldi e per dar soldi ai
partiti.
Antonio Di PietroSarebbe stato facile accorgersi ben prima che le enormi spese dei partiti non potevano essere coperte
dal finanziamento pubblico o dai contributi volontari degli iscritti. Lo
scandalo fu enorme; vennero celebrati processi, che enfatizzati anche dalla
televisione, portarono nella casa della gente l'immagine di uomini politici una
volta potenti, come i segretari di molti partiti, ministri e addirittura capi di
Governo, a balbettare spiegazioni, a cercare attenuanti a trincerarsi dietro i
"Non ricordo...". Fu particolarmente decisivo per gettare luce sui meccanismi di
questo taglieggiamento il processo (1993-94) al finanziere Sergio Cusani, sotto
la cui abile guida erano passati centinaia di miliardi che si erano poi dissolti
in banche e in conti esteri.
Non c'è dubbio che lo scandalo diede un
grave colpo all'immagine dei partiti anche se non tutti furono coinvolti nello
stesso modo. Il Pci - e poi per lui il Pds - venne appena sfiorato, chi disse
per la particolare attenzione di alcuni giudici, ma certamente la
responsabilità di questo partito apparve minore rispetto a quella della
Dc e del Psi che dal finanziamento illecito avevano ricavato la
possibilità di svolgere una politica ambiziosa e dispendiosa. Il Psi in
particolare uscì distrutto dalla vicenda, tanto da arrivare allo
scioglimento (1994), non prima di avere visto crollare il suo peso elettorale
(dal 14 per cento del periodo d'oro degli anni Ottanta alla cancellazione in
Parlamento nelle elezioni del 1994) e il suo leader prestigioso Bettino Craxi,
raggiunto da decine di imputazioni, fuggire all'estero. Sorte più o meno
simile ebbe la Dc, mentre per i partiti minori si trattò di
un’inosservata scomparsa, come per il Psdi (Partito Socialista Democratico
Italiano), o di una specie caduta in letargo come per il Pri (Partito
Repubblicano Italiano).
TRA XX E XXI SECOLO: NUOVE REALTÀ E NUOVE PROSPETTIVE
Nel 1996 si tennero nuove elezioni. Una grave crisi politica all'interno della
maggioranza, infatti, e una mozione di sfiducia presentata dall'opposizione unitamente
a una transfuga Lega Nord fecero sì che il Governo Berlusconi presentasse le proprie
dimissioni nel dicembre 1994. Venne temporaneamente nominato un Governo di tecnici, presieduto
da Lamberto Dini, che portò il Paese fino alle elezioni anticipate del 21 aprile 1996.
Il Polo della Libertà si presentò senza la Lega, in corsa da sola in nome del suo progetto
secessionista "padano", mentre l'opposizione si coalizzò in una nuova alleanza politica
denominata Ulivo, avente a capo il docente universitario di economia, ed ex manager pubblico,
Romano Prodi. L'Ulivo risultò vincente e, grazie anche all'appoggio esterno di
Rifondazione Comunista, diede vita a un nuovo Governo di centro-sinistra presieduto
dallo stesso Prodi.
L'attività del nuovo Esecutivo si concentrò sull'ingresso del Paese in Europa e sul
necessario soddisfacimento dei cosiddetti parametri di Maastricht: gli sforzi non furono
vani e il 1° maggio 1998 l'Italia entrò a far parte del primo gruppo di Paesi dell'Unione
monetaria europea. Nello stesso 1998, però, il ritiro del sostegno di Rifondazione Comunista
al Governo Prodi ne provocò la caduta. Venne subito affidato un nuovo incarico a
Massimo D'Alema, leader dei Democratici di Sinistra, il partito più importante della
coalizione dell'Ulivo, e fu costituito un nuovo Governo grazie anche all'appoggio
del neonato Partito dei Comunisti Italiani (PdCI), costola di Rifondazione Comunista, e
dell'Unione Democratica per la Repubblica (UDR), nuova realtà politica nata intorno
alla figura dell'ex capo di Stato Francesco Cossiga.
Nel 1999, scaduto il mandato di Oscar Luigi Scalfaro, il Parlamento elesse Carlo Azeglio Ciampi
presidente della Repubblica. Intanto il lavoro del Governo continuava, ma nel 2000, dopo
la pesante sconfitta dell'Ulivo alle elezioni amministrative, D'Alema diede le dimissioni,
aprendo le porte a un nuovo gabinetto di centro-sinistra guidato dall'ex socialista Giuliano
Amato. Il bilancio di quattro anni di lavoro presentava luci e ombre: c'erano stati,
per esempio, il contestato intervento militare in Kosovo e l'introduzione di tipologie
d'impiego più flessibile e precario (che certo non avrebbero giovato al futuro
delle nuove generazioni: quali il lavoro interinale, il lavoro atipico, le collaborazioni
coordinate e continuative, ecc.), ma, d'altra parte, l'economia italiana era stata
in crescita in questo periodo; il quadro macroeconomico si era radicalmente modificato
non senza qualche vantaggio per un Paese in cerca di modernità (il terziario aveva
superato per numero di addetti il secondario; realtà geografiche un tempo periferiche,
come il Nord-Est e l'Italia centrale, divennero nuovi centri produttivi vitali); erano
state operate innovazioni in ambito finanziario, con privatizzazioni di servizi,
industrie, ecc., una volta di competenza essenzialmente pubblica; era stata data maggiore
autonomia alle Regioni e agli altri soggetti dell'amministrazione periferica, sgravando
lo Stato di compiti più facilmente assolvibili da realtà più vicine al cittadino; erano
stati incentivati progetti e programmi di carattere culturale, con una forte attenzione
all'arte e con lo sviluppo costante del turismo; l'Italia, inoltre, aveva acquisito
rilevanza in ambito europeo, diventando, dopo anni di difficoltà, partner affidabile
con il quale lavorare - in questo senso fu importante l'orientamento socialdemocratico
di buona parte dei Governi europei dell'epoca (inglese, francese e tedesco in testa).
Il 13 maggio 2001 la nuova tornata elettorale vide contrapposte le due coalizioni
della Casa delle Libertà (nuova denominazione del Polo), forte della ritrovata Lega Nord, e
dell'Ulivo, guidato questa volta da Francesco Rutelli e mancante dell'appoggio di
Rifondazione Comunista e del movimento Italia dei Valori (fondato dall'ex magistrato
Antonio di Pietro). La vittoria andò al centro-destra e Forza Italia, partito del
leader della coalizione Silvio Berlusconi, divenne il primo dei partiti italiani con il 30%
dei consensi. Allo stesso Berlusconi venne dato l'incarico di formare un
nuovo Esecutivo, al quale parteciparono anche i leader delle altre formazioni della
Casa delle Libertà (AN, Lega Nord, Biancofiore - CCD e CDU - e Nuovo PSI).
Dopo un momento
di iniziale sbandamento, il centro-sinistra provò a riorganizzarsi, spinto in questo
senso soprattutto da una serie di inviti derivanti direttamente dalla società civile
che si "autoconvocò" in manifestazioni pubbliche (importantissima quella del 23 febbraio 2002
al Palavobis di Milano) e iniziative politiche (i cosiddetti "girotondi''). Grande fermento,
inoltre, venne registrato in ambito sindacale, con un'imponente manifestazione organizzata
a Roma in marzo dalla CGIL, alla quale parteciparono centinaia di migliaia di persone,
e uno sciopero generale fissato per il 16 aprile in difesa dell'articolo 18 dello Statuto
dei Lavoratori (articolo della Legge n. 300 del 1970 che prevede l'annullamento di
un licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo), che una deroga del
Governo intendeva modificare (sullo stesso tema, l'anno seguente, si sarebbe anche
svolto un referendum popolare, per ampliare le tutele garantite dall'articolo 18 anche
alle aziende con meno di 15 dipendenti, che tuttavia non raggiunse il
quorum).
Nel 2003 la stagione della contestazione al Governo Berlusconi vide in prima fila il movimento
pacifista, contrario alla missione italiana in Iraq a sostegno degli anglo-americani. Nel
periodo successivo l'economia del Paese registrò un arretramento preoccupante, con il
netto calo degli ordinativi industriali, la crisi irreversibile di realtà che avevano
fatto la storia dell'industria italiana (dalla FIAT alle Acciaierie Terni, dalla Marzotto
all'Alitalia), il crescere della disoccupazione, l'erosione del potere d'acquisto dei salari,
la riduzione dei fondi destinati alla ricerca scientifica e l'emergere di colossali scandali
finanziari come quello della Cirio (risalente al novembre 2002) e quello ancor più
grave della Parmalat, esploso nel 2003-04. Anche sul piano dei conti dello Stato, da
più parti giungevano allarmi e notizie poco confortanti, che mettevano l'Italia in
una posizione alquanto difficile nei confronti dei parametri di riferimento della Ue.
La
solidità della maggioranza parlamentare giunse a un punto di crisi nell'aprile del 2005,
allorché i pessimi risultati fatti registrare dalla Casa delle Libertà, e da Forza Italia in
particolare, alle elezioni amministrative, nonché l'insofferenza degli alleati di
Governo (in primo luogo UDC e AN) per il cosiddetto "asse padano" - cioè verso la stretta
alleanza che si era stabilita fra il premier Berlusconi e la Lega Nord in funzione, in
particolare, della
devolution federalista - determinarono la caduta del Governo.
Tuttavia, al fine di portare a termine la Legislatura senza ricorrere a elezioni anticipate,
tra le forze della maggioranza di centro-destra si giunse a un precario compromesso che
rese possibile la formazione di un nuovo Esecutivo guidato ancora dal forzista Berlusconi.
Lo stesso Berlusconi cercò nei mesi seguenti di risollevare le sorti elettorali del
proprio schieramento mettendo in campo il progetto della costruzione di un grande
partito unico (progetto poi rimasto in sospeso) in cui si fondessero le varie anime
della precedente coalizione, nella
prospettiva d'instaurare in Italia un sistema parlamentare di bipolarismo compiuto,
possibilmente affiancato da una riforma costituzionale in senso presidenzialista. Nell'ottobre
del 2005, inoltre, la maggioranza parlamentare di centro-destra, incurante delle
dure accuse di scorrettezza e faziosità provenienti dall'opposizione, varò una nuova
legge elettorale di stampo neo-proporzionalista (ma con un premio di maggioranza che
attribuiva automaticamente 340 seggi alla Camera, su 630, e 170 al Senato, su 315, alla
coalizione che avesse ottenuto il maggior numero relativo di voti) che, nelle
intenzioni dei promotori, avrebbe dovuto scompaginare i piani dei rivali politici e
arginare, viceversa, una sconfitta ritenuta pressoché certa (per la Casa delle Libertà) con
il mantenimento del precedente sistema elettorale maggioritario.
Sul versante opposto, sempre in vista delle elezioni politiche dell'aprile 2006, le forze
di centro-sinistra (DS, DL-Margherita, SDI e MRE, Verdi, PdCI, Italia dei Valori, UDeuR e
Rifondazione Comunista), pur fra mille contraddizioni e pesanti polemiche interne, si
coalizzarono per sostenere la candidatura di Romano Prodi quale futuro (eventuale) capo
del Governo italiano. All'interno dell'Unione di centro-sinistra si svolsero, inoltre,
delle consultazioni primarie per mettere in evidenza i reali rapporti di forza tra
le varie componenti della coalizione (al fine di calcolare il "peso specifico" dei vari partiti
nella costruzione di un futuro programma di Governo); operazione che servì a legittimare,
anche formalmente, la leadership di Prodi, che su oltre 4.300.000 voti ottenne il 74%
delle preferenze. D'altra parte, tali consultazioni furono drammaticamente segnate
dall'omicidio del medico chirurgo Francesco Fortugno, esponente della Margherita e
vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, ucciso in un agguato camorristico
a Locri, proprio davanti al seggio elettorale dell'Unione per le primarie.
Francesco Rutelli