L'AVVENTO DI GORBACIOV
Con la morte di
Konstantin Cernenko nel 1985 e la nomina alla guida del PCUS di Mikhail
Gorbaciov, si aprì per l'URSS una nuova fase politica, destinata a
produrre importanti cambiamenti all'interno della rigida e immobilistica
società sovietica. Che queste istanze di cambiamento e l'esigenza di
rinnovare le strutture economiche e politiche del Paese fossero presenti nella
realtà sociale e nell'apparato del Partito comunista, lo si era del resto
capito fin dall'epoca della scomparsa di Breznev. La breve stagione di Yuri
Andropov, succeduto al leader scomparso nel 1983, segnò infatti il timido
inizio di una politica riformistica, pur nel significato restrittivo che la
parola assumeva in Unione Sovietica.
La linea politica di Andropov non
incontrò l'appoggio unanime dei vertici del partito, nei quali era ancora
notevole l'influenza dell'ala conservatrice, legata all'apparato burocratico. La
stessa nomina di Cernenko alla guida del partito, dopo la morte di Andropov
(1984) venne interpretata dagli osservatori come una scelta di transizione che,
nel contempo, aveva la funzione di celare lo scontro in atto nel partito.
L'ascesa di Gorbaciov segnò la vittoria dell'ala riformista.
Il
neosegretario, nel luglio del 1985, consolidava il proprio potere esautorando
dal Politburo e dalla segretaria Grigori Romanov, il suo avversario più
pericoloso.
La promozione da parte di Gorbaciov di un nuovo corso, la
perestrojka, riscosse in Occidente vasti consensi e determinò un
immediato riavvicinamento tra URSS ed USA, sancito dagli accordi di Washington
del dicembre 1987. In essi si stabiliva la riduzione dei missili a medio e corto
raggio, primo passo sulla via del disarmo nucleare.
In politica interna,
il rinnovamento si tradusse in un clima di maggiore apertura intellettuale: il
premio Nobel per la fisica, Andrej Sacharov, lasciò l'esilio di Gorkij;
Nikolaj Bucharin, leader della Rivoluzione russa ucciso durante le repressioni
staliniane, venne riabilitato; per la prima volta si consentì la
pubblicazione del
Dottor Zivago di Boris Pasternak.
La
perestrojka (rinnovamento) e la
glasnost (trasparenza)
incoraggiarono però anche lo sviluppo di fermenti autonomistici che
misero in crisi la dirigenza del Cremlino: le Repubbliche baltiche rivendicarono
l'autonomia da Mosca; in Armenia si svolsero manifestazioni violente per
rivendicare l'annessione della provincia di Nagorny-Karabak, che Stalin aveva
assegnato all'Azerbaigian nel 1923.
Il Presidium del Soviet supremo
dell'URSS nel marzo 1988 negò tuttavia l'autorizzazione alla modifica dei
confini delle Repubbliche. La decisione avrebbe poi avuto ripercussioni pesanti
nel corso dell'anno con l'intensificarsi delle reciproche ostilità tra
armeni e azeri. Ad aggravare la situazione avrebbe poi contribuito anche il
terribile terremoto in Armenia. Con la visita di Reagan a Mosca nel maggio,
venne ribadita la volontà di procedere sulla via del negoziato. Il
vertice, tuttavia, al di là delle dichiarazioni d'intenti, non
approdarono ad alcun progresso rispetto al vertice di Washington. Erano infatti
rimaste sul tappeto alcune questioni non risolte: il problema dei diritti umani
e il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan. A questo proposito,
Gorbaciov, che dal marzo 1990 diventerà anche presidente dell'URSS, in un
memorabile discorso all'ONU annunciò il ritiro sovietico entro il
1989.
Nuovi appuntamenti si profilarono intanto per il leader comunista:
la conferenza pansovietica del partito (dedicata ai temi della
democratizzazione, della riforma del sistema elettorale e dell'apparato
giudiziario, nonché della lotta all'egalitarismo salariale) e le
celebrazioni per il millennio della cristianizzazione della Russia, occasione
ideale per riproporre il tema della coesione etnica e politica dell'URSS.
Nel 1989 la politica di Gorbaciov cominciò ad avere ripercussioni anche
sui Paesi dell'Est europeo: in Ungheria venne varata una riforma tesa
all'istituzionalizzazione dei partiti non comunisti, mentre in Polonia fu in
pratica riconosciuto il ruolo del sindacato libero Solidarnosc. Accanto a tali
avvenimenti, successi ulteriori per Gorbaciov erano rappresentati dall'effettivo
ritiro delle truppe dall'Afghanistan, ultimato nel febbraio, dalla ripresa delle
relazioni con la Cina e dal viaggio del ministro degli Esteri Shevardnadze al
Cairo, che, nella capitale egiziana, incontrò il premier Mubarak e il
ministro degli Esteri israeliano, in vista della convocazione di una conferenza
internazionale per la pace in Medio Oriente.
Michail Gorbaciov
LA CRISI DEL COMUNISMO
Il 1989 è passato alla storia come
l'anno decisivo per quanto riguarda l'evolversi della crisi generale dei Paesi a
regime comunista. Dall'Unione Sovietica alla Cina, dalla Polonia all'Ungheria,
il comunismo è entrato in un tunnel di cui non si riesce ancora a
intravedere lo sbocco. I dirigenti stessi, sotto la spinta degli eventi, sono
stati costretti ad ammettere apertamente che il sistema non ha funzionato, che
il sogno della rivoluzione d'ottobre di creare un modello alternativo al
capitalismo è tramontato per sempre.
Per comprendere l'attuale
situazione, occorre fare qualche passo indietro nel tempo. Fino a qualche anno
fa le economie centralizzate dei regimi comunisti sembravano funzionare bene. In
effetti la pianificazione statale aveva favorito lo sviluppo delle strutture
industriali nel contesto di economie arretrate o comunque devastate dall'ultimo
conflitto mondiale. Ben presto ne emersero però tutte le debolezze.
In altre parole apparve chiaro che occorrevano profonde trasformazioni del
sistema economico per reggere la concorrenza internazionale. Tuttavia le
trasformazioni economiche incisero inevitabilmente anche sul sistema politico,
facendo affiorare delle contraddizioni.
Quasi tutti gli Stati comunisti si
trovarono di fronte a un bivio: mantenere inalterato il sistema pagando un alto
prezzo in termini di arretratezza tecnologica, peggioramento del tenore di vita
e aumento del dissenso politico, oppure sperimentare nuove soluzioni
incentivando gli investimenti stranieri e permettendo la crescita di settori non
pianificati. Cina e URSS optarono per la seconda soluzione, mentre Paesi come il
Vietnam e Cuba scelsero di mantenere sostanzialmente inalterati i loro sistemi
politico-economici.
È interessante notare a questo punto come siano
gradualmente cambiati anche i rapporti che l'URSS intrattiene con i Paesi
dell'Est europeo: da una politica di stretto controllo si è passati a una
maggiore disponibilità al dialogo in condizioni di parità. Di pari
passo i Paesi dell'Est sono andati via via configurando in modo diverso e
imprevedibile i loro rapporti col "grande fratello". Polonia e Ungheria,
seguendo l'esempio e le esortazioni di Gorbaciov, scelsero la via delle riforme
e della democratizzazione, mentre l'Albania e inizialmente la Romania si
arroccarono su posizioni ultraconservatrici, respingendo l'esempio sovietico.
In una posizione intermedia si collocarono invece la Bulgaria, la
Cecoslovacchia e la Repubblica Democratica Tedesca, simulando l'accordo con
l'URSS sulla necessità delle riforme senza peraltro procedere alla loro
concreta attuazione.
In tal modo è andata infrangendosi
quell'uniformità che sembrava essere la caratteristica dominante dell'Est
europeo. Esaminiamo ora più da vicino gli avvenimenti in alcuni Paesi
comunisti per verificare le premesse generali.
LA CADUTA DEI REGIMI
La dissoluzione dell'URSS
Nell'Unione Sovietica
vi furono dei tentativi di modernizzare l'economia con Kruscev e Kossighin: tali
tentativi erano però falliti e durante i diciotto anni di dominio
incontrastato di Breznev il sistema rimase in pratica bloccato.
Gli
effetti disastrosi della politica brezneviana, via via accumulati, si fecero
evidenti alla metà degli anni Ottanta. Con l'avvento di Gorbaciov
finalmente il sistema politico poté confrontarsi con la necessità
di riforme, raccogliendo sia le pressioni esterne sia quelle interne.
La
posizione di Gorbaciov si fece subito difficile, soprattutto per l'urgenza di
una efficace riforma dell'economia e per le emergenti spinte centrifughe
nazionali. Le tendenze nazionalistiche emersero in maniera evidente nel 1989 e
scossero l'Unione Sovietica da un capo all'altro: dalle Repubbliche baltiche
alla Transcaucasia, divamparono improvvisamente gli antagonismi tra i vari
gruppi etnici (azeri, georgiani, armeni, uzbeki, ecc.) e tra le singole
nazionalità e il potere centrale. In particolare, Gorbaciov si
trovò a dover affrontare, all'inizio del 1990, il sanguinoso inasprimento
del conflitto fra gli armeni e gli azeri dell'Azerbaigian. L'intervento
dell'Armata Rossa a Baku, capitale della Repubblica, provocò una strage
di civili. La risoluzione definitiva del problema delle spinte autonomistiche
finì per chiamare in causa la ridefinizione dei rapporti fra potere
centrale e singole Repubbliche e favorì, in sostanza, i fautori di
riforme più radicali. Tra essi, Boris Eltsin, eletto presidente della
Repubblica russa, e l'ex ministro degli esteri Eduard Shevardnadze. Eltsin in
particolare si segnalò quale antagonista di Gorbaciov, soprattutto dopo
aver personalmente promosso la rivolta popolare contro il tentato colpo di Stato
perpetrato dal KGB nell'agosto 1991. Dopo il fallito golpe, Gorbaciov si dimise
da segretario del partito e decretò lo storico scioglimento del PCUS. Su
sollecitazione di Eltsin vennero tra l'altro riconosciute le dichiarazioni di
indipendenza dei Paesi baltici. Alla fine dello stesso anno, l'URSS cessò
formalmente di esistere. Nacque da essa la Confederazione degli Stati
Indipendenti, entità formata da 11 delle 15 Repubbliche sovietiche, una
creazione fittizia che perse ben presto ogni preciso connotato politico.
Con la
dissoluzione dell'Unione Sovietica siglata durante la Conferenza di Alma Ata
(dicembre 1991), e la nascita della CSI, la vita politica della Repubblica russa
fu caratterizzata dal confronto ininterrotto tra Boris Eltsin, che avviò
una serie di riforme economiche volte a realizzare in Russia un'economia di
mercato, e il Parlamento che, formato in maggioranza da ex comunisti di
orientamento conservatore, premeva invece per il loro blocco o, quanto meno,
rallentamento. Nel gennaio 1992 Eltsin decretò la liberalizzazione dei
prezzi, suscitando, con il conseguente rincaro dei prodotti di più vasto
consumo, manifestazioni di protesta. Nel giugno 1992 Eltsin, in visita ufficiale
negli Stati Uniti, stipulò con il presidente George Bush un importante
accordo per la riduzione degli armamenti strategici, che condurrà le due
potenze a possedere, nel giro di dieci anni, solo la metà di quante ne
prevedeva il trattato START (sottoscritto il 31 luglio 1991 da Gorbaciov e
Bush); a questo accordo fece seguito, nel gennaio 1993, il trattato START 2, con
il quale i due Paesi si impegnavano a ridurre drasticamente gli arsenali
atomici.
In ambito di politica interna, le riforme di Eltsin, che
intendevano accelerare la transizione a un'economia di mercato, trovarono
l'opposizione del Parlamento, cosicché il presidente russo decise di
sottoporre il proprio mandato alla verifica popolare: il referendum (aprile
1993) riconobbe un ampio consenso al presidente e alla sua politica economica.
Rafforzato dalla consultazione referendaria, Eltsin convocò in giugno
un'Assemblea costituente per mettere a punto il testo della nuova Costituzione;
successivamente, di fronte all'impossibilità di ottenerne l'approvazione
dal Parlamento, in settembre dichiarò il suo scioglimento. Scoppiarono,
allora, disordini, di fronte ai quali Eltsin reagì con veemenza:
proclamò il coprifuoco, mise fuori legge partiti e formazioni politiche
conservatori, fece chiudere tutti i giornali dell'opposizione comunista e
nazionalista e, infine, fece esplodere colpi di cannone contro i deputati
barricati nell'edificio del Parlamento. L'ordine fu in questo modo ristabilito e
nel 1993 la nuova Costituzione fu approvata: essa adottò un modello
federalista, che avrebbe dovuto arginare le rivendicazioni indipendentiste di
alcune Repubbliche autonome che travagliavano in quegli anni la Russia. La
situazione più critica si era venuta determinando in Cecenia, dove nel
novembre 1991 il neopresidente ceceno Dzhokhar Dudaev aveva proclamato la
secessione. Tale situazione avrebbe condotto nel dicembre 1994 Eltsin a ordinare
l'attacco dell'esercito russo contro la Repubblica caucasica: la popolazione
cecena oppose, però, una strenua resistenza, cosicché il conflitto
si trasformò in un terribile bagno di sangue per entrambe le parti.
Nel 1993 vennero svolte le elezioni legislative, alle quali i partiti si
presentarono divisi in tre grossi schieramenti: partiti che sostenevano Eltsin,
partiti di centro e partiti di opposizione. L'opposizione era rappresentata dal
Partito agrario, che riuniva tutti coloro che erano favorevoli al mantenimento
della proprietà collettiva delle aziende agricole di Stato, dal Partito
comunista, nettamente contrario alla transizione al capitalismo, e da vari
movimenti nazionalisti, tra cui il Partito liberal-democratico di Vladimir
Zhirinovskij. I risultati parziali del voto crearono subito allarme nel mondo
occidentale perché videro la sconfitta dei riformisti: partito di
maggioranza relativa risultò il Partito liberal-democratico. Ciò,
tuttavia, non determinò alcun rallentamento nella transizione
all'economia di mercato; nell'immediato la liberalizzazione dei prezzi, la
privatizzazione delle imprese statali e tutti gli altri provvedimenti messi in
atto da Eltsin comportarono un crollo della produzione industriale e una
crescita esponenziale dell'inflazione, ma già nel 1995 l'economia russa
diede i primi segnali di stabilizzazione. Fu così che le elezioni
legislative di dicembre finirono per premiare una nuova formazione politica,
guidata dal primo ministro Viktor Chernomyrdin; nel contempo, però, a
testimonianza dell'estrema fluidità e frammentazione del panorama
politico russo, il partito di maggioranza relativa divenne il Partito comunista
della Federazione Russa. Nel luglio 1996, grazie anche all'appoggio dei
nazionalisti di A. Lebed, fu nuovamente eletto presidente della Russia Eltsin,
che confermò alla carica di primo ministro Chernomyrdin. Nel 1997,
travagliato da problemi di salute, Eltsin riprese saldamente il potere dopo aver
subito un tentativo di destituzione, nominando Anatolij Chubais vice primo
ministro incaricato delle riforme economiche. Nel progetto di ristrutturazione
delle dissestate finanze russe vennero approvati un nuovo codice tributario e un
piano di risistemazione dei monopoli su energia e trasporti. Nel 1998 la
situazione precipitò: il crollo del rublo determinò la caduta
delle borse internazionali e una nuova crisi politica sfociata nella stroncatura
del primo ministro Sergej Kirienko (23 agosto) da parte della Duma e nella
successiva elezione di Viktor Chernomyrdin, a sua volta sostituito da Evgenij
Primakov (11 novembre), esponente dello schieramento comunista ed ex capo dei
servizi segreti. Nel 1999 la situazione economica e politica del Paese non
migliorò, cosicché le crisi di Governo continuarono a susseguirsi:
Primakov, infatti, venne destituito da Eltsin il 12 maggio e sostituito con
Sergej Stepasin, a sua volta rimpiazzato da Vladimir Putin, ex spia del KGB, poi
capo dei nuovi servizi segreti FSB e del Consiglio per la sicurezza nazionale.
Nel marzo 1999 si verificò un altro scontro tra il presidente e la
Duma che diede il via a una procedura di
impeachment nei confronti di
Eltsin il quale doveva rispondere dello scioglimento dell'URSS nel 1991, della
repressione della rivolta parlamentare del 1993, della guerra in Cecenia,
dell'impoverimento e del declino demografico del popolo russo. Eltsin venne
prosciolto da tutti i capi d'accusa.
Nel frattempo la profonda ed
inarrestabile crisi dell'amministrazione Eltsin fu ulteriormente evidenziata da
una serie di avvenimenti che contribuirono ad inasprire lo scontro politico
interno in vista dell'appuntamento delle elezioni politiche fissate per il
dicembre del 1999 e soprattutto dello scadere del mandato presidenziale. Tra i
problemi maggiori che travolsero la Russia, ricordiamo il Russiagate, ovvero lo
scandalo finanziario che coinvolse la famiglia del presidente e alcuni esponenti
dell'oligarchia politico-finanziaria, oltre a diverse banche russe, accusate di
esportazione illegale, truffa internazionale e riciclaggio di denaro sporco
attraverso la Bank of New York; il conflitto con il Daghestan dove, ai primi di
agosto, un gruppo di ribelli islamici, provenienti dalla Cecenia e guidati dal
guerrigliero ceceno Shamil Basaev, occuparono la regione di Botlikh nel
Sud-Ovest della Repubblica autonoma del Daghestan, proclamando la nascita di uno
Stato islamico indipendente (7 agosto); gli attentati verificatisi in diverse
città russe che il Governo attribuì al terrorismo di matrice
islamica in seguito ai quali la Russia riprese la guerra con la Cecenia (1°
ottobre).
Nelle elezioni per il rinnovo della Duma del dicembre 1999 il
Partito comunista di Zyuganov, pur conservando il primo posto, perdeva il
controllo della Duma che nella scorsa legislatura aveva consentito di bloccare
le iniziative del Cremlino, mentre il movimento "Unità" del premier Putin
e del presidente Eltsin otteneva un clamoroso successo, riconducibile, in buona
parte, alla popolarità acquisita da Putin con la campagna in Cecenia. Il
31 dicembre 1999 Eltsin rassegnò le dimissioni da capo dello Stato; tale
carica venne temporaneamente ricoperta dal primo ministro Putin, il quale, nel
marzo 2000, venne ufficialmente eletto. Si ritrovò a dover affrontare un
Paese in crisi, dove forte era il livello di povertà nelle periferie e
nelle campagne e pesante il peso della criminalità organizzata. Tra i
primi problemi che dovette affrontare, però, vi fu l'incidente al
sottomarino nucleare Kursk (agosto 2000), nel quale perirono 118
persone. Nel maggio 2002 USA e Russia trovarono un accordo sulla riduzione del loro arsenale nucleare e nello stesso periodo venne deciso un importante e storico patto di cooperazione tra Mosca e la Nato.
Il capo dello Stato russo Vladimir Putin
Boris Eltsin
Polonia
Le rivolte operaie che scoppiarono in Polonia
nel 1970 e nel 1977, furono i prodromi della vasta ondata di scioperi e
manifestazioni popolari che nel 1980 fecero tremare il regime comunista, sintomo
del crescente malessere economico e sociale e del crescente desiderio di
libertà della popolazione. Dopo il colpo di Stato militare del 1981
attuato dal generale Jaruzelski, la proclamazione della legge marziale (dicembre
1981) e l'arresto in massa dei militanti di Solidarnosc (un sindacato libero
guidato da Lech Walesa, che rivendicava l'autonomia del sindacato rispetto alle
direttive del partito, nell'interesse della classe operaia) con il conseguente
scioglimento dell'associazione (ottobre 1982), il regime militare comunista
cercò di preservare il sistema. Tuttavia, a partire dal 1983 con la
scarcerazione di Walesa, l'abrogazione della legge marziale e l'amnistia per
tutti i prigionieri politici, iniziò a farsi lentamente strada il dialogo
i riformisti all'interno del POUP (il Partito comunista polacco), la Chiesa
cattolica e il sindacato libero di Solidarnosc.
Nel 1986 i Polacchi furono
chiamati ad approvare la riforma economica attraverso un referendum nazionale
boicottato duramente dall'opposizione; il risultato, anche per il tenore del
pacchetto di leggi che prevedeva ancora forti aumenti dei generi di prima
necessità, fu sfavorevole al Governo di Jaruzelski. Nel corso del 1987
furono varate riforme economiche che prevedevano tagli all'apparato burocratico,
impulso all'iniziativa privata e all'autonomia aziendale, accompagnate da
provvedimenti politici nel senso di una maggiore democratizzazione (istituzione
di una seconda Camera del Parlamento, maggiore autonomia locale). Una nuova
ondata di scioperi e proteste sociali ebbe luogo nel 1988, con rivendicazioni
economiche e politiche, quali il riconoscimento legale di Solidarnosc. In
seguito a ulteriori agitazioni sociali, e dopo la sostituzione di Messner con
Mieczyslan Rakowski, venne avviato un vero e proprio negoziato fra il regime,
l'opposizione, e la Chiesa.
Nel 1989 furono firmati una serie di accordi
che prevedevano lo svolgimento di elezioni per un'Assemblea nazionale, il
pluralismo sindacale, l'attribuzione della personalità giuridica alla
Chiesa. Le elezioni del giugno 1989 decretarono una dura sconfitta per il
regime, assicurando a Solidarnosc la maggioranza assoluta nelle due Camere.
Presidente della Repubblica venne eletto Jaruzelski, mentre fu formato un
Governo di coalizione fra POUP, Solidarnosc, Partito democratico e Partito
contadino (PSL), sotto la direzione di Tadeusz Mazowiecki, esponente di
Solidarnosc. Di fronte ad una situazione economica che registrava un'inflazione
del 200%, furono varate misure restrittive della spesa sociale, una politica di
privatizzazione dell'industria, una riforma fiscale, e decretata la svalutazione
del 20% dello zloty. Dopo le dimissioni di Jaruzelski, nel 1990 venne eletto
presidente della Repubblica Lech Walesa e la Polonia si trasformò da
Repubblica popolare a Stato democratico di diritto. Nel gennaio 1991 Jan
Krzysztof Bielecki sostituì Mazowiecki alla guida del Governo, mentre,
anche a causa della difficile situazione economica, si registrarono spaccature
all'interno del sindacato.
Le elezioni dell'ottobre 1991 sancirono una
forte frammentazione politica: i principali partiti risultarono Unione
democratica (UD), capeggiata da Mazowieski, e Alleanza della sinistra
democratica (ASD), che raccoglieva i socialisti del POUP sciolto nel 1990. Nel
1993 si tennero elezioni anticipate: l'ASD fu il partito di maggioranza
relativa. Il risultato elettorale, che portò a un Governo guidato da
Waldemar Pawlak, decretò il progressivo isolamento di Walesa che, nel
tentativo di ampliare le prerogative presidenziali, innescò una serie di
conflitti istituzionali con il Parlamento e il Governo. Le difficoltà
nell'attuazione delle riforme determinarono nel marzo 1995 la sostituzione di
Pawlak con Jozef Oleksi, quindi, nel 1996, di quest'ultimo con Wlodzimierz
Cimoszewicz. Le elezioni presidenziali del novembre 1995 si risolsero con la
vittoria su Walesa di Aleksander Kwasniewski, esponente dell'ASD, che
verrà rieletto nel 2000. Le elezioni politiche del settembre 1997
decretarono l'affermazione della coalizione formata dalla destra cattolica,
riunita intono al vecchio sindacato Solidarnosc (AWS), e dai liberali (Unione
democratica), che ottenne la guida del Governo con Jerzy Buzek. La Polonia
entrava ufficialmente a far parte della NATO il 12 marzo 1999. Nel 2001 nuove
elezioni portarono al Governo un'alleanza formata dall'ASD e dal Partito
contadino nella persona del primo ministro Leszek Miller: nello stesso anno la
Polonia venne ammessa nel novero dei 10 Paesi che potrebbero entrare nell'Unione
europea a partire dal 2004.
Un'immagine di Lech Walesa
La scissione della Cecoslovacchia
In Cecoslovacchia il tentativo di
democratizzazione del regime, conosciuto come la "Primavera di Praga" (agosto
1968), fu arrestato dall'intervento militare dell'URSS e dei Paesi aderenti al
Patto di Varsavia. Alexander Dubcek, capo della rivolta e propugnatore di un
socialismo dal volto più umano, venne improvvisamente sostituito alla
segreteria del partito da Gustav Husak, il quale dal 1975 assunse anche la
carica di presidente della Repubblica. Negli anni Ottanta la Cecoslovacchia, pur
confermandosi tra i più fedeli alleati dell'Unione Sovietica,
riuscì però a riallacciare normali rapporti anche con l'Occidente.
Nel 1987 Husak lasciò la guida del Partito comunista, sostituito da Milos
Jakes. Questi avviò un periodo di caute riforme.
Nel 1989 l'ondata
di libertarismo anticomunista proveniente dall'Ungheria e dalla Germania Est
investì anche la Cecoslovacchia, tanto da costringere alle dimissioni
Jakes. Alexander Dubcek venne richiamato alla vita politica ed eletto presidente
del Parlamento, mentre il dissidente Vaclav Havel fu nominato presidente della
Repubblica. La ricostruzione economica e la privatizzazione, subito avviate,
acuirono però la disparità economica e sociale fra Boemia e
Slovacchia, rendendo sempre più urgente la ridefinizione del rapporto tra
le due regioni. In Slovacchia, alle elezioni del 1992, la vittoria andò
ai Nazionalisti slovacchi di Vladimir Meciar, favorevoli alla fine dell'unione
federale con Boemia-Moravia. Per evitare scontri sanguinosi, il neo primo
ministro Klaus accolse le proposte secessioniste di Meciar, sancendo così
dal 1° gennaio 1993 lo smembramento dello Stato cecoslovacco in Repubblica
Ceca e Slovacchia.
In Slovacchia fu eletto presidente della Repubblica M.
Kovac, mentre capo del Governo fu nominato V. Meciar che, dimessosi nel marzo
1994, tornò nuovamente a governare il Paese nel settembre-ottobre 1994.
Nelle elezioni politiche tenutesi nel settembre 1998, Meciar fu sconfitto
dall'opposizione di centro-destra, che mandò al Governo M. Dzurinda.
Nelle elezioni presidenziali del maggio 1999 ebbe la meglio il moderato Rudolf
Shuster, primo presidente eletto a suffragio universale. Riavvicinatasi alla
Federazione Russa, da cui importa materie prime a uso industriale, la Slovacchia
venne inizialmente esclusa dal primo gruppo di candidati a entrare nella NATO e
nell'Unione europea a causa della grave situazione economica in cui versa il
Paese, impegnato in una difficile transizione verso un'economia di mercato, e
anche per le accuse rivolte al Governo di scarso rispetto verso i diritti
dell'opposizione e della minoranza ungherese. Bratislava decise allora di
correre ai ripari promuovendo alcune variazioni alla Costituzione, tra cui la
decentralizzazione del potere con la creazione di nuovi organismi regionali, il
rafforzamento dell'indipendenza della magistratura e il riconoscimento dei
diritti delle minoranze etniche. Queste importanti cambiamenti permisero alla
Repubblica Slovacca di entrare a far parte, nel dicembre 2001, del gruppo di 10
Paesi che avranno la possibilità di essere ammessi nell'Unione europea a
partire dal gennaio 2004.
Anche nella Repubblica Ceca la transizione
economica si attuò in maniera difficoltosa. Con l'aggravarsi delle
condizioni sociali, l'8 novembre 1997 la popolazione scese in piazza a Praga in
un'imponente manifestazione contro il Governo. Nel dicembre il primo ministro
Klaus si dimise; il presidente Havel insediò un Governo di centro-destra
guidato da Josef Tosovsky. Nel giugno 1998 le elezioni legislative videro la
vittoria del Partito socialdemocratico che formò un Governo avente come
primo ministro Milos Zeman. Nel 2002, però, il Partito socialdemocratico non riportò una vittoria schiacciante alle elezioni legislative e fu costretto a cercare alleanze al centro e a destra per raggiungere una minima maggioranza parlamentare. Per quanto riguarda la prospettiva internazionale, la Repubblica Ceca entrava ufficialmente a far parte della NATO il 12 marzo 1999 mentre nel dicembre 2001 veniva inclusa nel
gruppo di 10 Paesi che avrebbero avuto la possibilità di essere ammessi
nell'Unione europea a partire dal gennaio 2004.
Il protagonista della "Primavera di Praga", A. Dubcek
La riunificazione della Germania
Il nuovo corso che investiva i Paesi dell'Est,
toccò anche la Germania Orientale: alla fine di ottobre la vecchia
leadership di Erich Honecker venne sostituita da quella del riformista Egon
Krenz che oltre ad essere il nuovo segretario generale del Partito comunista,
diventava anche capo dello Stato (1989).
La situazione si era fatta
incandescente: a Berlino, per anni roccaforte del socialismo reale, cominciarono
a levarsi richieste sempre più pressanti per una maggiore libertà
di espressione, di movimento e per una modificazione del sistema elettorale. Le
proteste furono accompagnate da una fuga sempre più consistente di
profughi verso la Germania Occidentale.
Di fronte a questa situazione, il
nuovo leader Krenz manifestò l'intenzione di avviare riforme in senso
democratico: accantonata ogni ipotesi di riunificazione delle due Germanie
(ipotesi che preoccupava non solo i leader più conservatori del Partito
comunista ma anche il Cremlino), Krenz si limitò a concedere un'amnistia
a tutti coloro che nei mesi precedenti erano fuggiti, a garantire libertà
di espatrio a quelli che avrebbero voluto lasciare il Paese (nuova legge sui
passaporti) e a consentire la partenza verso la Germania Federale dei 4.000
profughi rifugiatisi nell'ambasciata di Bonn a Praga.
La preoccupazione
principale di Krenz sembrava quella di arrestare l'emorragia di forze
produttive, promettendo cambiamenti per chi fosse rimasto: venne enunciato
infatti un programma per la riforma a lungo termine della Costituzione,
dell'economia e del sistema scolastico e garantita ai giovani la
possibilità di scegliere tra servizio militare o civile.
L'intenzione era quella di dare un nuovo volto al socialismo, di renderlo
più attraente, salvaguardando comunque l'identità politica della
Germania Democratica. Il problema principale per il nuovo leader era quello di
dover fare i conti da una parte con la pressione sempre più insistente
delle masse popolari, che credevano in un socialismo dal volto più umano,
ma vedevano che le riforme stentavano a partire, e dall'altra con i dirigenti
del SED (Partito socialista unitario) arroccati su posizioni
conservatrici.
La situazione non migliorò. Le manifestazioni di
piazza che invocavano libere elezioni continuavano, così come l'esodo
massiccio dei profughi.
Il 9 novembre 1989, in un clima di crescente
euforia, venne abbattuto, dopo 28 anni, il Muro fatto erigere nel 1961 dal
regime di Walter Ulbricht e il Comitato centrale della SED lasciava piena
libertà di espatrio ai propri cittadini. Sempre a novembre, dopo le
dimissioni di Krenz per attriti col Parlamento, venne eletto primo ministro Hans
Modrow che formò un Governo di coalizione di cui facevano parte anche
membri non iscritti ad alcun partito. Nel dicembre venne abolito il ruolo-guida
del Partito comunista sancito dal primo articolo della Costituzione, mentre il
capo dello Stato, incapace di soddisfare le ansie di rinnovamento della
popolazione, fu costretto a dimettersi, sostituito da Manfred Gerlach,
presidente del Partito liberale.
Nel 1990, sotto la spinta di un processo
ormai giunto al culmine, si compì la storica riunificazione delle due
Germanie: nel luglio venne siglato un trattato tra Modrow e Helmut Kohl che
sanciva l'abbattimento di ogni barriera economica e sociale tra i due Paesi. Il
31 agosto Kohl e il nuovo primo ministro della Germania Democratica Lothar De
Maizière stabilirono le condizioni dell'unificazione tedesca (annessioni
dei Länder orientali alla Germania Federale, spostamento della capitale a
Berlino), fissandone la celebrazione ufficiale al 3 ottobre 1990. A partire da
questa data la Germania Democratica cessò di esistere, essendo di fatto
annessa alla Repubblica Federale Tedesca.
Il cancelliere tedesco Helmut Kohl Il 2 dicembre 1990 si svolsero le prime elezioni
nella Germania unita, che sancirono la riconferma al cancellierato di Kolh,
leader del Partito cristiano-democratico (CDU), il quale formò un Governo
comprendente, tra gli altri, anche personalità della ex Germania dell'Est
(De Maiziére, Kreuse). Nel 1991, anno in cui venne votato il
trasferimento della sede del Governo e del Parlamento da Bonn a Berlino,
emersero i primi problemi economici e sociali conseguenti alla riunificazione,
per i quali Kohl fu costretto a venire meno alla promessa elettorale di non
aumentare le imposte e istituì un "contributo di solidarietà" a
sostegno dell'economia dei Länder orientali. Il Governo dovette inoltre
affrontare il problema dell'affermazione di gruppi razzisti e xenofobi, quali il
movimento neonazista degli Skinheads, i cui bersagli erano soprattutto gli
immigrati asiatici e africani.
Nei primi anni Novanta, a causa del
protrarsi di tale situazione, i partiti di Governo persero consensi, nonostante
Kohl riuscisse a favorire nel 1994 l'elezione del candidato democristiano Roman
Herzog a presidente. Nello stesso anno Kohl, alla guida del Governo tedesco da
12 anni, ottenne la quarta vittoria elettorale consecutiva, anche se di stretta
misura. Il programma di Governo si concentrò sugli obiettivi economici di
riduzione della spesa pubblica, alleggerimento dell'apparato burocratico
statale, allineamento ai parametri di Maastricht e apertura dell'Unione europea
ai Paesi dell'Est. D'altro canto le misure di austerità adottate dal
Governo per adeguarsi ai parametri di Maastricht, i tagli alla spesa sociale e
la disoccupazione crearono nuove tensioni sociali che portarono a nuovi episodi
di xenofobia e razzismo contro gli immigrati stranieri.
Il calo di
consensi verso la politica del cancelliere Kohl si evidenziò con le
elezioni politiche del 27 settembre 1998 che si conclusero con la grande
sconfitta dell'Unione cristiano-democratica di Kohl, alla guida della Germania
da ben 16 anni, e con la vittoria del Partito socialdemocratico (SPD) di Gerhard
Schroeder che raccolse oltre il 41% dei consensi. Il Governo Schroeder, formato
da una coalizione di socialdemocratici e verdi, si prefiggeva in particolare gli
obiettivi della lotta alla disoccupazione, della continuità nella
politica estera, della sicurezza interna. D'altro canto la sfiducia nella
politica di rinnovamento di Schroeder provocò un ribaltamento nelle
elezioni per il Parlamento europeo del giugno 1999, dalle quali i partiti di
Governo uscirono fortemente ridimensionati, mentre il CDU conquistò la
maggioranza dei seggi. Nel novembre scoppiò anche in Germania lo scandalo
di finanziamenti illeciti ai partiti; nella Tangentopoli tedesca venne, in
particolare, coinvolto l'ex cancelliere Kohl che nel gennaio 2000 si vide
costretto a dimettersi dalla carica di presidente onorario del CDU. Il mese
successivo si dimise anche il suo successore, Schäuble, prontamente
sostituito da Angela Merkel. Intanto continuò ad aumentare il pericolo di
focolai neo-nazisti (nel solo 2000 gli attacchi di stampo razzista erano
aumentati del 40%) e il Governo si vide costretto a rendere illegale il partito
Nazional-democratico di estrema destra. Intanto allarmanti dati economici, il
più importante dei quali l'aumento della disoccupazione, provocarono la
perdita costante dei consensi della coalizione al potere e il conseguente
avanzamento dell'opposizione conservatrice, uscita vincente dalle consultazioni
elettorali regionali in Sassonia-Anhalt nell'aprile 2002.
Il nuovo cancelliere tedesco Angela Merkel
Romania
In Romania, contrariamente a quanto avvenuto
negli altri Paesi dell'Est, il trapasso dal regime comunista ad uno Stato di
maggiore democrazia, si compì in modo drammatico, sull'onda di una vasta
e violenta rivolta popolare che sfociò in una vera e propria guerra
civile con migliaia di morti. La rivolta ebbe inizio nella seconda metà
del dicembre 1989 in alcune città del Paese (Bucarest, Timisoara), dove
decine di migliaia di persone scesero in piazza per manifestare contro Ceausescu
che nel corso degli anni aveva concentrato nelle sue mani tutte le più
importanti cariche dello Stato, mantenendo un ferreo controllo sul partito e sul
Paese e instaurando il culto della sua personalità. La risposta del
regime, immediata e violenta, non fermò però l'insurrezione. Gli
avvenimenti si susseguirono con un ritmo rapido e incalzante: il Fronte di
salvezza nazionale, costituito da ex leader comunisti in dissenso con Ceausescu,
che avevano preso in mano le redini della rivolta, nominarono un Governo
provvisorio con a capo Petre Roman. Ceausescu e la moglie Elena vennero
arrestati e condannati a morte dopo un sommario processo che li riconobbe
colpevoli di vari crimini, tra cui quello di genocidio e di furto di fondi dello
Stato (25 dicembre 1989). Alla fine del 1989 venne inoltre eletto presidente
della Repubblica Ion Iliescu.
I primi atti del nuovo Governo furono
l'impegno a redigere una nuova Costituzione e a indire elezioni libere previste
per il 1990. Dopo un mese dalla cosiddetta rivoluzione di Natale il Fronte di
salvezza nazionale si spaccò in due, avversato da tre piccoli partiti
indipendenti (i cristiano-democratici, i nazional-liberali e i
social-democratici) che lo accusarono di voler instaurare una nuova dittatura.
Il clima di tensione si accentuò ulteriormente dopo le elezioni del
maggio successivo, che videro il netto prevalere del Fronte popolare guidato da
Iliescu. Il malcontento popolare tornò ad esplodere nel 1990,
allorché la protesta degli studenti venne brutalmente repressa dal
Governo mediante l'impiego di ex membri della Securitate, la temibile polizia
segreta di Ceausescu. Una nuova ondata di rivolta contro il Fronte di salvezza
nazionale si verificò nel 1991, quando la capitale fu presa d'assalto per
tre giorni da 10.000 minatori che devastarono il palazzo del Governo.
Nuovamente, il Governo soffocò le rivendicazioni sociali ed economiche.
Nel 1991 fu approvata la nuova Costituzione; nel 1992 vennero indette elezioni
generali che videro la vittoria del Fronte democratico di salvezza nazionale,
formazione distaccatasi dal Fronte di salvezza nazionale ad opera di Iliescu,
che venne riconfermato a capo della Repubblica. Venne costituito un Governo del
Fronte democratico di salvezza nazionale, presieduto da N. Vacaroiu e aperto,
dal 1994, a due esponenti del nazionalista Partito dell'unità nazionale.
Dopo essere stata ammessa al Consiglio d'Europa nel 1993, la Romania
instaurò importanti rapporti diplomatici tra cui quelli con S. Milosevic,
presidente della Serbia, considerata da sempre uno degli interlocutori
privilegiati della Romania. Sul piano interno, nel 1994 l'economia romena
registrò una sensibile ripresa grazie all'incremento della produzione
agricola, ad un forte calo dell'inflazione e al deciso aumento delle
esportazioni che permise il riassestamento della bilancia commerciale. I
progressi economici guadagnarono al Paese un maggior credito presso l'Unione
europea e gli Stati Uniti. Nel 1995, la Romania chiese di entrare a far parte
dell'Unione europea e del gruppo di Visegrad; pose inoltre le basi per alcuni
progetti di collaborazione con i Paesi che si affacciano sul Mar Nero e diede un
forte impulso agli investimenti internazionali. Nel 1996 si tennero le elezioni
presidenziali, che si conclusero con la vittoria di E. Costantinescu. Capo del
Governo venne nominato V. Ciorbea; l'esecutivo da lui presieduto inaugurò
una politica di riforme per risollevare l'economia del Paese che prevedeva
interventi per accelerare la privatizzazione delle industrie statali, ridurre
l'inflazione e aprire ai mercati valutari esteri. Sul fronte internazionale
venne sottoscritto un accordo con l'Ungheria per la costituzione di un
battaglione comune rumeno-ungherese per il mantenimento della pace. All'accordo
seguì la visita del premier Ciorbea in Ungheria (prima visita di un capo
del Governo rumeno nel Paese magiaro dal 1989), dove venne sottoscritto un
accordo per la creazione di una commissione di vigilanza sull'applicazione del
trattato di comprensione, cooperazione e buon vicinato (1996). Il Governo
stipulò inoltre un trattato di amicizia con l'Ucraina. Nel 1997 la
Romania entrò a far parte del CEFTA, l'accordo di libero scambio
dell'Europa centrale tra Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Polonia e
Ungheria. Ha dovuto invece rimandare il suo ingresso nella NATO e nella UE a
causa della difficile situazione economica: da una parte la liberalizzazione dei
prezzi ha determinato un forte aumento della povertà e dall'altra il
mancato processo di privatizzazione delle grandi imprese pubbliche,
nonché l'inefficienza della burocrazia hanno scoraggiato gli investimenti
stranieri con la conseguenza di ritardare la modernizzazione dell'appartato
produttivo. Nel 1998 Ciorbea venne sostituito da Radu Vasile dopo importanti
tensioni all'interno della coalizione, ma nel dicembre 1999 lo stesso
Vasile venne rimpiazzato nella carica di primo ministro da Mugur Isarescu.
Avvenimenti eclatanti del 1999 in Romania furono lo scoppio di nuovi malcontenti
tra i minatori (gennaio), che si opponevano alla decisione del Governo di
chiudere gli impianti meno redditizi, e la visita di Giovanni Paolo II (aprile),
il primo papa a visitare un Paese ortodosso dallo scisma d'Oriente del 1054. Nel
dicembre del 2000 Ion Iliescu vinse le elezioni presidenziali battendo di misura
il rappresentante della coalizione nazionalista.
Il dittatore Nicolae Ceausescu
Ungheria
Tra i Paesi dell'Est europeo, l'Ungheria
è quello dove l'avviato processo di democratizzazione delle strutture
politiche trovò più ampio riscontro in un ammodernamento delle
strutture economiche.
Nonostante il potere fosse ancora nelle mani dei
leader provenienti dal vecchio regime, l'Ungheria manifestò il proposito
di stringere relazioni economiche con la Comunità Europea e, all'inizio
del novembre 1989, chiese di entrare a far parte dell'Efta (l'associazione
europea di libero scambio).
Questa maggiore apertura verso l'Occidente,
era la conseguenza di quanto avvenuto ai vertici del potere nel corso del 1989.
Il vecchio Partito comunista ungherese, il POSU, sollecitato dal clima della
perestrojka gorbacioviana, si ristrutturò in Partito socialista
ungherese e il nuovo ministro di Stato Imre Pozsgay tentò di recuperare
il terreno perduto e di mettersi al passo con l'Occidente, favorendo
l'iniziativa privata e l'introduzione delle leggi di mercato.
L'intenzione di aprirsi non solo sul piano economico ma anche su quello
politico, venne testimoniato dal fatto che il Parlamento ungherese accolse la
proposta di quattro referendum presentati dalle opposizioni (sull'elezione del
capo dello Stato, sullo scioglimento della milizia operaia, sulla revisione
pubblica del patrimonio del vecchio Partito comunista, sulla presenza del nuovo
Partito socialista sui posti di lavoro).
L'esito positivo del referendum
accelerò la caduta del regime comunista, culminato con le elezioni
dell'Assemblea nazionale (1990) che sancirono l'avvento al Governo del Forum
Democratico (MDF). Nello stesso anno venne eletto presidente della Repubblica il
liberal-democratico Arpad Goencz. In politica estera si registrò lo
storico abbattimento della "cortina di ferro", che per più di quaranta
anni aveva diviso la Nazione dall'Occidente. L'Ungheria divenne membro dell'ONU,
della CSCE e del Consiglio d'Europa. Le prime elezioni sindacali, tenutesi nel
1993, e quelle politiche del 1994 sancirono il successo degli ex comunisti. Il
Governo socialista, con l'avvio della transizione verso un'economia di mercato e
dell'integrazione con i sistemi dell'Europa occidentale, conseguì buoni
risultati economici. D'altro canto i sacrifici imposti dalle riforme costarono
ai socialisti la sconfitta nelle elezioni legislative del maggio 1998 che videro
la vittoria a sorpresa del Fidesz, un partito di centro-destra, che portò
a capo del Governo Viktor Orbán. Il 12 marzo 1999 l'Ungheria entrava a
far parte della NATO. Nel febbraio 2000 anche il Tisza, il secondo fiume
ungherese, venne coinvolto nella fuoriuscita di materiale tossico da una miniera
in Romania e il Paese chiese immediatamente un intervento internazionale per
arginare il propagarsi della contaminazione. Nel mese di agosto Ferenc Madl
venne eletto presidente della Repubblica: l'anno seguente il Paese fu ammesso
nella lista dei 10 che avranno la possibilità di entrare nell'Unione
europea a partire dal 2004. Nell'aprile 2002 i socialisti, guidati da Peter
Medgyessy, riportarono una vittoria di misura alle elezioni legislative battendo
i candidati del centro-destra al Governo.
Albania
Alla fine del 1990 il vento liberalizzatore, che
fin dall'anno prima aveva travolto i regimi comunisti dell'Est europeo,
investì anche Tirana. Pressato dalla protesta popolare, il Governo di
Ramiz Alia fu costretto a tollerare l'abbattimento delle statue di Stalin e di
Henver Hoxha e a estromettere dalla maggioranza governativa l'ala
staliniana.
Dal Paese, ormai ridotto alla fame, cominciò
così un disordinato esodo. Migliaia di cittadini, attratti dal miraggio
dei vicini Paesi capitalisti, si rifugiarono così in Italia e in
Grecia.
Le prime elezioni libere (1991) furono vinte a sorpresa dal
rinnovato Partito comunista, che venne però accusato di brogli elettorali
dall'opposizione. Nel giugno 1991 Ramiz Alia varò un Governo di
unità nazionale di cui faceva parte anche l'opposizione.
L'anno
seguente nuove elezioni segnarono la vittoria delle opposizioni, guidate dal
primo ministro Ylli Bufi. Nonostante i mutamenti in ambito politico, la
situazione sociale non subì miglioramenti evidenti: le precarie
condizioni della popolazione raggiungevano livelli allarmanti e il malcontento
generale sfociò in un incremento di tentativi di fuga dal Paese. Il
fenomeno dell'emigrazione clandestina suscitò non pochi problemi anche
sul piano dei rapporti internazionali, costringendo il Governo albanese a
prendere seri provvedimenti per cercare di arginare l'esodo incontrollato. Le
elezioni del marzo 1992, con la vittoria del Partito democratico, sancirono la
fine del regime comunista. A distanza di qualche mese Sali Berisha successe a
Ramiz Alia (in carica dalla fine del 1982).
L'Albania post-comunista
è caratterizzata da un quadro politico instabile e da un'economia che
stenta a decollare. Nel maggio 1996 si aprì la più grave crisi
politica dalla caduta del regime comunista: durante le operazioni di voto per le
elezioni politiche, i partiti dell'opposizione (tra cui quello ex comunista)
dopo aver denunciato un grave clima di violenze e brogli, si ritirarono dalle
competizioni, mentre il partito di Berisha, il Partito democratico (PD), si
proclamava vincitore. La situazione precipitò nel 1997 con il fallimento
delle società finanziarie in cui gran parte dei cittadini aveva investito
i risparmi. Tale situazione delegittimò ulteriormente il presidente
Berisha, mentre il fronte antigovernativo chiedeva le sue dimissioni. Accanto al
motivo economico e a quello politico, la ribellione fu fomentata anche dalle
profonde divisioni esistenti tra Nord, fedele a Berisha, e Sud, dove si
verificarono numerosi scontri tra manifestanti e polizia. Le elezioni
legislative di giugno decretarono la vittoria del Partito socialista (PS) e
Fatos Nano assunse la carica di primo ministro, fatto che costrinse Berisha a
rassegnare le dimissioni da capo dello Stato, sostituito da Rexhep Mejdani. A
partire da luglio i deputati del partito di Berisha cominciarono a boicottare il
Parlamento, non perdendo occasione per fomentare la violenza nelle piazze, allo
scopo di screditare il Governo di Nano e destabilizzare il Paese. Ad acuire il
caos interno si aggiunse anche la difficile situazione del vicino Kosovo (la
regione jugoslava a maggioranza albanese) che Berisha cercò di sfruttare
sostenendo le posizioni indipendentiste dei guerriglieri dell'esercito di
liberazione del Kosovo (UCK).
L'uccisione, avvenuta il 13 settembre 1998,
di Azem Hajdani, deputato del PD e braccio destro di Berisha, offrì
l'occasione a quest'ultimo per cercare di riportare il suo partito al Governo.
Dopo aver accusato il PS di aver ordinato l'uccisione di Hajdani (la polizia
sosteneva invece che fosse stato ucciso per una vendetta privata; erano note del
resto le sue frequentazioni malavitose), i sostenitori del PD diedero inizio a
una vera e propria insurrezione armata a Tirana, occupando gli edifici pubblici,
le sedi del Parlamento, del Governo e della televisione pubblica. Il tentativo
di golpe rientrò sia grazie all'intervento delle forze di sicurezza, sia
alla mediazione di Europa, Stati Uniti e OSCE. Il Parlamento votò poi (18
settembre) la revoca dell'immunità parlamentare a Berisha, aprendo la
strada all'incriminazione per insurrezione armata. Tuttavia, su pressione
dell'Occidente, e dell'Italia in particolare, alla revoca dell'immunità
non fece seguito l'incriminazione del leader del PD. Fatos Nano, a sua volta,
indebolito dal tentativo di golpe e dai non pochi episodi di corruzione tra le
fila del Governo, rassegnò le dimissioni. Subito dopo (29 settembre) il
presidente Mejdani diede l'incarico di formare il nuovo Governo a Pandeli Majko.
Il nuovo premier individuò nella questione del Kosovo e nell'approvazione
di una nuova Costituzione le immediate priorità dell'esecutivo.
Durante la guerra nel Kosovo, molti profughi che sfuggivano alla pulizia etnica
perpetrata dall'esercito jugoslavo, si rifugiarono in Albania. In suo aiuto si
prodigarono molti Paesi e organizzazioni internazionali (l'Italia lanciò
il 29 marzo la discussa missione Arcobaleno). L'11 aprile 1999 l'Albania
concesse alla NATO l'uso esclusivo del suo spazio aereo e dei suoi porti. Il 18
aprile la Jugoslavia ruppe i rapporti diplomatici con l'Albania, mentre lungo il
confine tra i due Stati si verificavano scontri a fuoco. Dopo la fine della
guerra (giugno 1999), nonostante il rientro in Kosovo di gran parte dei
profughi, l'Albania rimase in uno stato di profonda prostrazione.
Nell'ottobre del 1999 Majko si dimise dalla carica di primo ministro,
sostituito dal trentenne Iler Meta che divenne il più giovane capo di
Governo d'Europa. Nel 2001 Albania e Jugoslavia ristabilirono relazioni
diplomatiche dopo la rottura protrattasi dalla crisi in Kosovo del 1999. Nel
luglio dello stesso anno il Partito socialista al Governo vinse le elezioni
generali e Meta venne riconfermato alla carica di primo ministro. Pochi mesi
dopo, a causa di gravi incomprensioni con il leader socialista Fatos Nano, fu
costretto a dimettersi per venire sostituito, nel febbraio 2002, dall'ex premier
Pandeli Majko.
LA DISINTEGRAZIONE DELLA JUGOSLAVIA
Anche la Jugoslavia, sebbene con un po' di
ritardo rispetto agli avvenimenti dell'Europa orientale, venne colpita dal vento
di rinnovamento portato dalla
perestrojka. Nel 1990 il Partito comunista
della Slovenia abbandonò la Lega nazionale dei comunisti che si sciolse
dopo aver bandito libere elezioni: in Slovenia e Croazia i partiti di
ispirazione comunista furono sconfitti, mentre la popolazione palesò con
un referendum la volontà di completa autonomia rispetto al Governo
federale (dicembre 1990). Poco dopo anche la Bosnia proclamò la propria
sovranità, mentre le prime elezioni libere serbe premiarono lo
sciovinismo e il nazionalismo Milosevic, già presidente della Serbia dal
1989. Vojvodina e Kosovo vennero privati di ogni autonomia e le autorità
serbe repressero nel sangue le proteste di quest'ultima regione.
Dopo
mesi di disordini sanguinosi il 25 giugno 1991 il Parlamento sloveno e quello
croato proclamarono quasi contemporaneamente l'indipendenza delle due
Repubbliche. La reazione dell'esercito federale, allineato sulle posizioni della
Serbia, non si fece attendere ma esso andò incontro a una sconfitta in
Slovenia, la cui indipendenza venne riconosciuta in luglio dagli accordi di
Brioni. In Croazia, invece, la comunità serba insorse e, appoggiata dalle
forze armate serbo-federali, si impadronì di ampi territori. L'intervento
della CEE, restia a riconoscere l'indipendenza della due Repubbliche,
servì se non altro a far sedere i contendenti al tavolo di una conferenza
di pace organizzata all'Aja nel settembre 1991. In ottobre anche Macedonia,
Bosnia-Erzegovina e Kosovo proclamarono l'indipendenza, ponendo virtualmente
fine alla federazione jugoslava.
Nel gennaio 1992 la Comunità
Europea riconobbe ufficialmente le Repubbliche indipendenti di Slovenia e
Croazia. Il Governo di Belgrado, trovatosi così isolato, il 27 aprile
procedette alla costituzione della nuova Repubblica federale di cui facevano
parte le Repubbliche di Serbia (con le regioni del Kosovo e della Vojvodina) e
di Montenegro. La guerra civile nelle Repubbliche ex jugoslave però
continuò e anzi si intensificò, estendendosi alla
Bosnia-Erzegovina dove scoppiarono gravi disordini tra la maggioranza musulmana
, autonomista, e la minoranza serba della popolazione che mirava ad impadronirsi
delle regioni da essa abitate, in vista di una futura annessione di queste alla
Serbia.
Tre anni di guerra in Bosnia
La guerra totale in atto tra Serbi, Croati e
Bosniaci trasformò la Bosnia in un teatro di scontri senza quartiere, che
le pur numerose trattative di pace, condotte grazie alla mediazione di
diplomatici occidentali, non riuscirono a bloccare. A complicare la situazione
contribuì anche la pluralità degli interlocutori all'interno dello
stesso fronte genericamente etichettato come "serbo": c'era la voce della
Serbia, quello Slobodan Milosevic che aveva messo in moto la guerra jugoslava,
e, non sempre su posizioni di pieno accordo, quella del leader serbo-bosniaco
Radovan Karadzic, con il suo generale cetnico Ratko Mladic.
La Serbia di
Milosevic, nonostante le pesanti sanzioni economiche da parte dei Paesi europei,
continuò la sua offensiva contro la Bosnia-Erzegovina, ponendo l'assedio
alla città di Sarajevo (dal 1993 sotto la protezione ONU) e procedendo
con la pulizia etnica nei territori abitati dai musulmani. L'avanzata
serbo-bosniaca interessò così il centro e soprattutto la regione
nordorientale del Paese, con il ripetitivo copione dell'accerchiamento da parte
delle forze serbe delle enclaves musulmane che, sfinite dall'assedio e
bombardate, venivano conquistate senza risparmio di civili. Prima fu la volta di
Srebrenica, poi di Maglaj, Goradzee infine di Brcko e di Tuzla, violate
nonostante fossero sotto la protezione ONU. Emblematica la tragedia consumatasi
nella sacca di Bihac, stretta d'assedio e bombardata dai Serbi. Vuoi per la
vicinanza al cuore dell'Europa, vuoi per l'atrocità delle strategie
impiegate (si ricorse persino ai bombardamenti al napalm che non si ricordavano
dai tempi del Vietnam), l'agonia di questa città si è impressa
nella mente della comunità internazionale, tanto da diventare, con
Sarajevo, l'immagine-simbolo della guerra jugoslava.
Nella primavera del
1994, nell'impossibilità di giungere ad un accordo di pace, fu deciso il
primo intervento di aerei NATO nei cieli della Bosnia. Sul versante diplomatico
gli sforzi per la pace portarono ad una svolta con la firma dell'accordo
croato-musulmano in cui fu rilevante la mediazione statunitense. Con una solenne
cerimonia alla Casa Bianca il 18 marzo 1994 nacque la Federazione
croato-musulmana di Bosnia, sottoscritta dal presidente della Bosnia Alija
Izetbegovic e da quello della Croazia Franjo Tudjman. IL 1994 segnò un
deciso rivolgimento delle sorti, con il prevalere sempre più netto dei
musulmani di Bosnia sulle milizie serbo-bosniache.
Mentre l'Unione
europea scompariva dalla scena diplomatica, seguita in giugno dall'ONU, che
lasciava le trattative al neonato "Gruppo di Contatto" (Russia, Stati Uniti,
Gran Bretagna, Francia e Germania), quest'ultimo approntò nel gennaio
1995 il sofferto piano di pace da offrire come ultimatum alle parti. Tale piano,
che prevedeva l'assegnazione del 51% del territorio alla Federazione
croato-musulmana e il restante 49% ai Serbo-bosniaci, incontrò il favore
di Izetbegovic, mentre fu accettato con riserva dal leader serbo-bosniaco
Karadzic le cui milizie non cessarono le azioni militari nell'enclave musulmana
di Bihac. A maggio con l'intervento della Croazia, impegnata nella riconquista
della Kraijna (regione croata a popolazione serba che in un referendum del
giugno 1993 aveva deciso per l'annessione alla Serbia e che si trovava
ufficialmente sotto la protezione dell'ONU) e nella creazione di un asse
croato-bosniaco in funzione antiserba, il conflitto conobbe un nuovo
inasprimento. La situazione precipitò ulteriormente quando il 28 agosto i
mortai serbi spararono su un mercato di Sarajevo facendo strage di civili. A
questo punto la NATO intensificò l'offensiva aerea, ma nonostante questo
i Serbi continuarono a rispondere agli attacchi bombardando ripetutamente
Sarajevo. Sul piano diplomatico, mentre il presidente russo Eltsin
condannò duramente gli attacchi della NATO, il mediatore statunitense
Richard Holbrooke si incontrò a Ginevra (8 settembre) con i ministri
degli Esteri delle tre Nazioni in guerra. Si giunse così ad un accordo di
pace e al conseguente ritiro delle truppe serbo-bosniache da Sarajevo. La
conclusione del conflitto bosniaco fu decretata dalla firma degli accordi di
Dayton (14 dicembre 1995) che, tuttavia, ottennero un equilibrio piuttosto
instabile e precario. Tali accordi prevedevano infatti la divisione della Bosnia
in due entità dotate ciascuna di un proprio Governo, ma costituenti lo
Stato unitario della Bosnia-Erzegovina, avente come capitale la città di
Sarajevo: la Federazione croato-musulmana, con il 51% del territorio, e la
Repubblica serba di Bosnia, con il 49%. Ad uscire sconfitta fu proprio la Bosnia
multietnica, mentre vittoriosi risultarono i due grandi nazionalismi, quello
serbo e quello croato, pronti a riesplodere allo scopo di realizzare il loro
sogno di una Grande Serbia e di una Grande Croazia.
Carri armati in Bosnia
La crisi del Kosovo
Il problema del Kosovo ha radici lontane. Questa
provincia della Serbia, abitata in maggioranza da albanesi (90% della
popolazione), ha sempre goduto, durante il regime comunista di Tito, di una
larga autonomia: ai cittadini di etnia albanese erano riservati i posti di
comando, mentre la minoranza serba viveva in uno stato di soggezione. Nel 1989,
durante la lunga guerra che portò allo smembramento di quella che era un
tempo la Jugoslavia e alla costituzione della nuova Federazione jugoslava di
Serbia e Montenegro, il Kosovo si vide revocare dal presidente federale, il
serbo Slobodan Milosevic, l'autonomia da Belgrado: questa misura si inseriva in
un più vasto progetto di "integrazione etnica" (o meglio, di affermazione
della supremazia etnica serba) avente lo scopo di rassicurare l'opinione
pubblica sul fatto che il regime non avrebbe consentito ad una condizione
subalterna dei Serbi.
Ne nacquero, fin dall'inizio degli anni Novanta,
violenti scontri tra forze dell'ordine (serbe) ed Esercito di liberazione del
Kosovo (UCK); col tempo apparve sempre più evidente che i dirigenti
albanesi, anche contro il parere delle grandi potenze, non puntavano più
alla semplice autonomia, ma rivendicavano la piena indipendenza da Belgrado,
tanto da eleggere un proprio Parlamento (1992) e un presidente, Ibrahim Rugova,
per l'autoproclamata Repubblica del Kosovo. I Serbi, dal canto loro, per
risolvere il problema fecero ricorso, anche in questo caso, al triste copione
della "pulizia etnica", mettendo in atto una sistematica repressione
generalizzata contro la popolazione albanese del Kosovo, che, iniziata nel
febbraio del 1998, proseguì tra il giugno e il settembre dello stesso
anno.
Con l'acuirsi degli scontri, sull'onda delle migliaia di morti e per
timore dell'esplosiva polveriera che dai Balcani minacciava di sconvolgere anche
l'Occidente (se non altro per il massiccio afflusso di profughi che ogni giorno
si riversavano sulle coste italiane, per poi proseguire il viaggio verso il
resto dell'Europa), la comunità internazionale decise di intervenire. Il
mediatore americano Richard Holbrooke aprì una difficilissima trattativa
su due fronti: da un lato con il "duro" Milosevic, che, pur di non fare
concessioni agli albanesi, si era rifiutato persino di applicare l'accordo
sottoscritto nel settembre 1996 con Rugova, che prevedeva il ritorno nelle
scuole statali degli studenti albanesi, dopo sei anni di boicottaggio;
dall'altro con lo stesso Rugova e con l'UCK, nel tentativo di convincerli ad
abbandonare l'obiettivo dell'indipendenza politica dalla Serbia, accontentandosi
dello status di provincia autonoma all'interno della Serbia stessa.
Con
le due parti Holbrooke discusse di un'eventuale forza internazionale di pace da
schierare nel Kosovo, ma Milosevic, considerando il problema kosovaro una
questione interna di ordine pubblico, si oppose a una presenza internazionale di
controllo militare.
Di fronte al proseguire, da parte dei militari serbi,
della politica di pulizia etnica e di feroce repressione della popolazione
albanese del Kosovo, cominciò a farsi strada l'ipotesi di un intervento
armato della NATO per fermare le violenze e costringere Milosevic (ma anche i
dirigenti dell'UCK) al dialogo.
La minaccia delle armi sembrava sortire
l'effetto sperato: nell'ottobre 1998 si aprì un tavolo di trattativa
durante il quale Holbrooke raggiunse un accordo in tre punti col presidente
serbo Milosevic: 1) creazione di una missione di 2.000 persone che, sotto
l'egida dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE),
con il compito di verificare il rispetto della risoluzione 1199 dell'ONU (ritiro
delle truppe speciali jugoslave, cessazione delle violenze contro la popolazione
civile); 2) elaborazione di un programma di ricognizioni aeree da parte della
NATO (e forse della Russia); 3) ricerca di una soluzione politica per il
problema del Kosovo. Tale accordo tuttavia non divenne mai
esecutivo.
La guerra del Kosovo
Il piano proposto da Holbrooke per giungere a
una soluzione pacifica della questione kosovara, fallì; le trattative non
fecero alcun passo in avanti e le parti finirono per irrigidirsi nelle
rispettive posizioni: da un lato, lo stesso "presidente" Rugova si
rifiutò di avviare trattative con Belgrado e gli altri leader kosovari si
opposero a qualunque accordo che non avesse come sbocco finale l'indipendenza;
dall'altro Milosevic, pur ribadendo la disponibilità a concedere
l'autonomia all'interno della Serbia, non fece che proseguire nel suo disegno di
pulizia etnica della regione. La situazione precipitò rapidamente: l'UCK
violò più volte la tregua proclamata in ottobre occupando diverse
zone lasciate libere dalle forze serbe, mentre si verificarono scontri e
rappresaglie da entrambe le parti.
Di fronte all'incalzare del conflitto
e all'intensificarsi della pulizia etnica, il Gruppo di contatto riunì a
Rambouillet (presso Parigi) i rappresentanti della Serbia e le principali
formazioni albanesi, compreso l'UCK, per cercare una soluzione politica alla
crisi (6 febbraio 1999). Contemporaneamente la NATO autorizzò il
segretario generale Javier Solana a dare il via agli attacchi aerei contro le
forze serbe qualora Milosevic non avesse accettato il piano di pace elaborato a
Rambouillet. Tale piano, che prevedeva una sostanziale autonomia per il Kosovo,
venne accettato dagli albanesi, ma non dai Serbi, contrari alla presenza di una
forza della NATO sul loro territorio. Il negoziato si concluse quindi il 18
marzo con un nulla di fatto.
Falliti tutti gli sforzi per arrivare a una
soluzione negoziata della crisi, la NATO cominciò a bombardare la Serbia:
l'attacco (ovvero la cosiddetta operazione
Allied Force) prese il via la
sera del 24 marzo 1999, suscitando non poche perplessità nell'opinione
pubblica internazionale riguardo alla sua opportunità e
legittimità, dal momento che era la prima volta che la NATO decideva di
intervenire contro uno Stato sovrano, per di più senza un'autorizzazione
esplicita del Consiglio di Sicurezza. I cacciabombardieri decollavano dalle basi
NATO italiane, britanniche e tedesche per colpire inizialmente le postazioni
antiaeree jugoslave e gli obiettivi militari a Belgrado, Podgorica e Pristina.
Dopo aver dichiarato lo stato di guerra, le autorità di Belgrado chiusero
la radio indipendente B92 ed espulsero i giornalisti dei Paesi della NATO (ad
eccezione di quelli italiani). Due gli obiettivi dichiarati all'inizio
dell'attacco dai rappresentanti dell'Alleanza Atlantica: bloccare la pulizia
etnica e costringere il presidente jugoslavo Milosevic a sottoscrivere l'accordo
di pace, ripristinando l'autonomia del Kosovo e consentendo il ritorno dei
profughi. Lungi dal dissuadere Milosevic dal perseguire i suoi obiettivi, i
bombardamenti inasprirono ulteriormente la rappresaglia del regime serbo contro
gli albanesi, causando un esodo di dimensioni enormi (si parla di circa 1
milione di profughi) verso i confini della Macedonia, del Montenegro, della
Bosnia-Erzegovina e dell'Albania, dove vennero istituiti dei campi profughi.
Pochi giorni dopo l'inizio dell'attacco, la NATO giudicò inaccettabile la
proposta del presidente jugoslavo di un ritiro parziale delle forze serbe dal
Kosovo in cambio della cessazione dei bombardamenti, proseguendo così i
raid. Contrariamente alle aspettative, i bombardamenti non sortirono altro
effetto che quello di rafforzare all'interno della Serbia la posizione di
Milosevic. Sul campo, le operazioni di pulizia etnica, testimoniate dai
profughi, si susseguivano. Oltre a distruggere a poco a poco città e
villaggi, saccheggiati e dati alle fiamme, i Serbi ne bruciarono
sistematicamente gli archivi di Stato, in modo da impedire ai profughi di fare
ritorno nelle loro terre. Mentre fallivano ad uno ad uno i tentativi di
mediazione (tra cui quelli del Vaticano, della Russia, del segretario generale
dell'ONU Kofi Annan e del patriarca di Mosca Aleksej II), gli attacchi aerei
proseguivano a ritmo serrato, colpendo anche il centro di Belgrado e
distruggendo caserme, ponti, fabbriche, raffinerie, impianti petrolchimici e
ospedali, senza contare i missili che per errore centrarono obiettivi civili. In
più di un'occasione si temette che il conflitto potesse estendersi
all'Albania, dal momento che le forze serbe ne avevano ripetutamente bombardato
la zona settentrionale, ritenuta storicamente la principale retrovia dell'UCK.
Con il passare dei giorni, vista l'impossibilità di fermare i Serbi con i
bombardamenti, si cominciò a parlare di un eventuale intervento di truppe
di terra, assolutamente osteggiato dalla Russia. A tre settimane dall'avvio
dell'operazione
Allied Force il bilancio era tutt'altro che
incoraggiante: fallito l'obiettivo di arginare la pulizia etnica del Kosovo,
l'accelerazione dell'esodo in massa, unito all'incapacità di fronteggiare
adeguatamente l'emergenza umanitaria, aveva rafforzato nell'opinione pubblica la
convinzione che la crisi si fosse aggravata. Nel frattempo i missili NATO
colpivano una delle residenze del presidente Milosevic a Belgrado e la sede
della Radiotelevisione serba, inserita negli obiettivi strategici in quanto
"strumento della propaganda di regime", mentre i profughi che arrivavano nei
campi di Blace (Macedonia) e Kukes (Albania) denunciavano omicidi e stupri di
massa nei villaggi di Hallac Ivogel, Ribar Ivogel, Slavi e Dragacina e
l'esistenza di fosse comuni. Alla fine di aprile fu abbattuto l'ultimo ponte sul
Danubio di Novi Sad e il Nord della Serbia rimase isolato dal Sud (26 aprile).
Ai primi di maggio il presidente Ibrahim Rugova si incontrò a Roma con i
rappresentanti del Governo italiano e chiese il ritiro delle forze serbe,
nonché il dispiegamento di una forza di pace che comprendesse la NATO,
per sorvegliare il ritorno dei profughi. Allo stesso tempo, i ministri degli
Esteri del G8 (i Sette Paesi più industrializzati e la Russia), riuniti a
Bonn, proposero un piano di pace che, in cambio dell'immediata cessazione dei
raid aerei, prevedeva l'autonomia per il Kosovo, l'arrivo di una forza militare
internazionale e il disarmo dei gruppi paramilitari compreso l'UCK, punto questo
respinto proprio dal movimento indipendentista kosovaro. Con il passare dei
giorni aumentarono i bombardamenti giornalieri e, man mano che si ampliava la
lista degli obiettivi, anche gli "errori di tiro": l'8 maggio, durante uno dei
bombardamenti più violenti del conflitto, fu colpita l'ambasciata della
Cina a Belgrado. Pechino accusò la NATO di crimini di guerra, aprendo una
crisi diplomatica. Inoltre, si andavano intensificando gli scontri al confine
con l'Albania, mentre le forze serbe si servivano dei civili kosovari come
"scudi umani" spostandoli nei pressi delle installazioni militari.
Parallelamente ai bombardamenti si susseguivano tentativi per raggiungere una
soluzione diplomatica alla crisi. In tal senso svolsero un ruolo decisivo il
mediatore russo Viktor Cernomyrdin e il presidente finlandese Ahtisaari. A
metà maggio cominciò a circolare la voce che Milosevic sarebbe
stato disposto ad accettare, a determinate condizioni, la presenza di una forza
internazionale in Kosovo. A questo punto il primo ministro italiano Massimo
D'Alema propose la sospensione dei bombardamenti a patto che Russia e Cina
approvassero al Consiglio di Sicurezza una risoluzione per imporre a Milosevic
il piano di pace messo a punto dal G8: qualora il presidente jugoslavo lo avesse
respinto, sarebbe partito l'attacco di terra. Dopo il vertice di Bari del 17
maggio tra D'Alema e Schroeder, Rugova prese parte al Consiglio dei ministri
degli Esteri dell'Ue insieme al ministro degli Esteri russo Ivanov e al
presidente montenegrino Djukanovic. Cominciò così a delinearsi la
possibilità di una soluzione diplomatica.
Il 27 maggio
il procuratore capo del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia,
Louise Arbour, incriminò il presidente Milosevic per crimini contro
l'umanità e crimini di guerra. La messa in stato di accusa di Milosevic
fu stata accolta con soddisfazione dall'opinione pubblica internazionale, anche
se sollevò perplessità sull'ammissione di un criminale di guerra
al tavolo delle trattative di pace. Nell'ultima fase del conflitto la NATO
bombardò alcune centrali elettriche, lasciando Belgrado e la maggior
parte del Paese al buio per diversi giorni. Il 28 maggio Viktor Cernomyrdin
incontrò Milosevic che si era detto disponibile ad accettare il piano
proposto dal G8, concernente la fine delle violenze in Kosovo, il ritiro delle
forze serbe dalla provincia, il rientro dei profughi, il dispiegamento di una
forza di interposizione e un'amministrazione transitoria. In attesa della firma
definitiva dell'accordo da parte del presidente Milosevic, i bombardamenti
però non si fermarono. Infine al settantaduesimo giorno di bombardamenti
Belgrado cedette: il 3 giugno il Parlamento serbo votò a favore del piano
di pace; anche Milosevic dichiarò di accettare il piano, che veniva
invece respinto dal Partito radicale serbo del vice-primo ministro
ultranazionalista Seselj.
In un primo tempo gli Jugoslavi non
sottoscrissero il piano NATO, ribadendo di non volere truppe occidentali in
Kosovo e sostenendo di non aver abbastanza tempo per ritirarsi e di temere
ritorsioni da parte dell'UCK. Nel frattempo, l'8 giugno a Colonia i Paesi del G8
misero a punto un progetto di risoluzione che venne sottoposto al voto del
Consiglio di sicurezza dell'ONU. La nuova proposta, articolata in 21 punti,
ricalcava nella sostanza quella già accettata dal Parlamento serbo e
prevedeva il dispiegamento di una forza internazionale in Kosovo (KFOR), il
ritiro delle forze serbe e l'avvio di un'amministrazione civile per la
provincia. Pur non contenendo alcun riferimento specifico alla NATO, la
risoluzione autorizzò "gli Stati membri a stabilire la presenza
internazionale di sicurezza in Kosovo", delegando di fatto all'Alleanza
atlantica e alla Russia la formazione della KFOR. In particolare venne previsto
che la provincia dovesse essere divisa in cinque zone militari poste sotto la
responsabilità di Gran Bretagna, Francia, Germania, Stati Uniti e Italia.
Per quanto riguardava la Russia, pur non essendole stato affidato un settore
specifico, ne era stata prevista la sua presenza in forze. Il piano del G8
ribadì la volontà di assicurare il ritorno dei profughi e, pur
prevedendo un'ampia autonomia per il Kosovo, riconobbe la sovranità e
l'integrità territoriale della Federazione jugoslava. Gli accordi
militari si conclusero infine con la sottoscrizione del piano di ritiro da parte
delle forze jugoslave (9 giugno), che prevedeva entro 11 giorni la liberazione
da parte dei Serbi di tutto il Kosovo e l'ingresso entro 24 ore della NATO nella
provincia (prima gli europei, poi i marines). Infine il 10 giugno, subito dopo
l'annuncio ufficiale da parte della NATO della sospensione dei bombardamenti, il
Consiglio di sicurezza dell'ONU approvò la risoluzione contenente il
piano di pace elaborato dal G8.
Il 12 giugno 1999 le truppe NATO entravano
in Kosovo, divenuto di fatto un protettorato internazionale amministrato da ONU,
Unione europea e OSCE. La minoranza serba, minacciata dalle vendette albanesi,
che non avrebbero tardato a verificarsi, lasciava a sua volta il
Kosovo.
La fine di Milosevic
Il 24 settembre 2000 si tennero le elezioni
presidenziali in Jugoslavia, alle quali non poterono partecipare osservatori
internazionali perché rifiutati da Milosevic. Il giorno seguente
l'opposizione proclamò la sua vittoria, ma la commissione federale
elettorale decise per il ballottaggio. Imponenti manifestazioni di piazza,
coinvolgenti ampi strati della popolazione (minatori, operai, studenti) si conclusero il 5 ottobre con
l'incruenta ma decisa, occupazione del palazzo del Parlamento e della
televisione di Stato. Il giorno seguente la Russia riconobbe ufficialmente
Vojislav Kostunica quale nuovo e legittimo presidente della Jugoslavia e il 1° novembre la Jugoslavia entrò
a far parte dell'ONU. Il
1° aprile 2001 Slobodan Milosevic venne arrestato e il 28 giugno dello
stesso anno estradato all'Aja per essere giudicato da un tribunale
internazionale per crimini contro l'umanità, in particolare in riferimento alle atrocità perpetrate in Kosovo (1999), in Croazia (1991-1992) e in Bosnia-Erzegovina (1992-1995). L'ex presidente jugoslavo doveva rispondere ai capi di accusa sui massacri e le torture in Croazia, il tentato genocidio in Bosnia, i pogrom del Kosovo. Il processo, aperto davanti alla Corte internazionale dell'Aja nel febbraio 2002, fu interrrotto nel marzo 2006 a seguito della morte di Milosevic nella prigione del tribunale internazionale all'Aja.
L'ex premier serbo Slobodan Milosevic
LA GUERRA CECENA
Nell'ex impero sovietico si aprì un nuovo
fronte di guerra con il popolo ceceno, uno dei più antichi del Caucaso, a
maggioranza musulmana sunnita, che nonostante l'esiguità numerica - poco
più di un milione - aveva dimostrato nel passato di essere all'occorrenza
un avversario tenace, martire tra l'altro nelle deportazioni di Stalin nel 1944.
Crocevia tra Oriente e Occidente, la Cecenia da sempre fu epicentro di tensioni
per motivi sia strategici sia economici per via del petrolio: a questi si
aggiunsero le aspirazioni nazionaliste, gli odi etnici e religiosi che
infervorarono nuovamente la "polveriera" del Caucaso. La storia recente ricorda
come data decisiva il 1° novembre 1991 quando il Paese dichiarò la
propria indipendenza (85% dei voti) dalla Federazione Russa, proclamando suo
presidente Dzhokhar Dudaev.
Il problema ceceno rimase irrisolto fino al
dicembre 1994, quando il Governo di Mosca decise di ristabilire con la forza la
propria autorità nella Repubblica ribelle. Così le truppe russe
entrarono in Cecenia l'11 dicembre. Nelle previsioni russe la presa di Grozny,
la capitale cecena, doveva risolversi nel giro di pochi giorni. Non si era
però tenuto conto di Grozny "la terribile" (il nome della città in
russo significa appunto "terribile") cioè, fuor di metafora, della
resistenza della popolazione civile, della forza bellica della guerriglia cecena
(armata persino di batterie di razzi Grad), né del sostanziale sbando
tattico dell'esercito russo, tre elementi che trasformarono la strategia e
soprattutto i tempi dell'intervento.
Gli scontri sanguinosi con perdite da
entrambe le parti si ebbero prima nei singoli villaggi, in quella regione
montuosa propizia alle imboscate, poi via via sempre più vicino alla
capitale, per entrare in città il 22 dicembre. Intanto a Mosca era
cresciuto il dissenso e le madri dei soldati al fronte erano sfilate in cortei
di protesta nella Piazza Rossa rivendicando l'estraneità dei militari di
leva a questo conflitto, poco sentito dalla stessa opinione pubblica russa, mal
preparato e che minacciava di tramutarsi in un "nuovo Afghanistan".
L'assalto russo al palazzo presidenziale a Grozny risale al 19 gennaio 1995, ma
tale azione militare non impose un ePILogo al conflitto. Dalla città la
guerra si spostò nelle zone montuose a Sud del Paese. In aprile vi furono
dei massacri nei villaggi di Samashki e di Bamut (a 60 km a Sud-Est della
capitale), roccaforte della resistenza cecena. Quotidianamente si registravano
scontri tra truppe russe e separatisti ceceni e, in occasione delle elezioni
presidenziali e legislative di dicembre imposte alla Cecenia dal Cremlino, il
conflitto si inasprì per le continue offensive dei ribelli che
conquistavano Gudermes, seconda città per importanza dopo Grozny e
Urus-Martan (15 dicembre 1995).
Diverse organizzazioni internazionali
denunciarono la sistematica violazione dei diritti umani da parte delle armate
russe, ma il braccio di ferro continuò, mentre i morti si contavano a
decine di migliaia. Per i generali e per lo stesso presidente russo Eltsin si
trattava di non creare pericolosi precedenti secessionisti, per i patrioti
ceceni si trattava di non far cadere la causa indipendentista: l'arroccarsi su
posizioni così radicali allontanava il dialogo di pace tra le parti,
alimentando una guerra che si annunciava sempre più di logoramento e con
scarsi margini per le trattative diplomatiche.
Il conflitto ceceno
entrò così nel secondo anno, senza che si intravedessero segnali
di una sua conclusione. Per indurre la Russia a ritirare le sue truppe, ai primi
di gennaio 1996 i guerriglieri ceceni penetrarono nel vicino Daghestan, fuggendo
con quasi duecento ostaggi. Pochi giorni dopo sequestrarono una nave in Turchia
con altri ostaggi. Allo scadere di un ultimatum, i Russi intervennero
pesantemente nonostante la presenza degli ostaggi. Decine di morti rimasero sul
terreno.
Continuarono inoltre gli attacchi alle roccaforti della
guerriglia e l'esercito conquistò in marzo i villaggi di Bamut, Stary
Achkhoi, Orekhovo, Samashki, costringendo alla fuga migliaia di persone. La
scomparsa a fine aprile del leader dei ribelli Dzhokhar Dudaev, forse per mano
dei militari e dei servizi di sicurezza russi, fece temere a Eltsin, ormai in
campagna elettorale, un inasprimento della guerriglia. Proprio in vista delle
elezioni il presidente russo accettò di incontrare Jandarbiev, nuovo
leader degli indipendentisti ceceni, con il quale firmò un accordo per il
cessate il fuoco, la liberazione dei prigionieri e la ripresa dei colloqui di
pace (27 maggio 1996).
Al termine delle elezioni la Russia ruppe la tregua
con la Cecenia, riprendendo con violenza i bombardamenti dei villaggi ceceni e
della stessa Grozny, da cui furono fatti evacuare i civili. Il 27 agosto 1996 il
generale russo Lebed raggiunse con gli indipendentisti ceceni un accordo di pace
che prevedeva la concessione di uno statuto speciale alla Repubblica e la
cessazione delle ostilità. Le truppe russe cominciano a lasciare
Grozny.
In ottobre Eltsin licenziò Lebed, accusato di ambizioni
eccessive sostituendolo con Ivan Rybkin, che si impegnava a mantenere con i
Ceceni gli accordi raggiunti dal suo predecessore.
L'accordo di pace
siglato tra il Governo russo e il presidente ceceno Aslan Mashkadov non aveva
tuttavia definito la questione dei rapporti istituzionali tra Federazione Russa
e Cecenia, quindi l'equilibrio raggiunto rimaneva piuttosto instabile.
Così, quando il 22 dicembre 1997 venne attaccata una base dell'esercito
russo nel Daghestan, i Russi accusarono la vicina Cecenia, che tuttavia
smentì qualsiasi coinvolgimento. Dal canto loro, i separatisti ceceni
continuarono con i sequestri, inducendo molte organizzazioni umanitarie a
lasciare la regione. Il 1° maggio 1997 venne rapito, tra gli altri,
l'inviato personale di Eltsin, Valentin Vlasov, liberato poi in novembre dalle
forze di sicurezza cecene e russe. La presenza di tensioni interne al Paese,
apparvero in tutta la loro gravità con l'attentato contro il presidente
Mashkadov, il 23 luglio, compiuto, probabilmente, dalle fazioni islamiche
wahhabite, in lotta contro il presidente per la sua insufficiente adesione alle
leggi islamiche e per la sua disponibilità a trattare con Mosca. Il 4
febbraio 1999 il presidente della Cecenia proclamò la legge islamica
nella Repubblica secessionista del Caucaso.
Nel marzo, in seguito al
rapimento del generale Ghennadij Shpigun, rappresentante del Ministero
dell'Interno in Cecenia, Mosca decise di ritirare tutti i suoi rappresentanti in
Cecenia, mettendo in stato d'allerta le truppe al confine con il Paese
secessionista. L'occasione per la Russia di intervenire militarmente in Cecenia
si presentò allorché nel settembre si verificarono in diverse
città russe degli attentati terroristici, attribuiti a gruppi islamici
del Caucaso. Nonostante le smentite dei ribelli ceceni di un loro
coinvolgimento, la Russia intensificò la propria campagna contro i
guerriglieri islamici ceceni, bombardando per due volte l'aeroporto di Grozny
(23 settembre 1999) e rifiutando qualsiasi trattativa con i dirigenti locali
finché non fossero stati consegnati i capi della guerriglia islamica. Per
far fronte alla milizia islamica cecena, il 1° ottobre alcune unità
dell'esercito russo entrarono in Cecenia, sancendo l'inizio di una nuova guerra.
Il leader ceceno Mashkadov proclamò dunque la legge marziale.
Le
truppe russe cominciarono a puntare sulla capitale Grozny, spargendo terrore e
sangue tra la popolazione civile, massacrata da incessanti bombardamenti a
tappeto. Il 23 ottobre, escluso ogni spiraglio di risoluzione politica dai
militari di Mosca, i Russi stringevano la morsa intorno a Grozny, chiudendo ai
profughi ogni via d'uscita verso l'Inguscezia, le cui frontiere, alla pari di
quelle tra Inguscezia e Ossezia del Nord, erano state sigillate. Gli abitanti
della capitale ribelle, ormai accerchiata, rimanevano dunque intrappolati ed
esposti alle offensive russe. Accusata di aver infranto la Convenzione di
Ginevra, "la campagna contro i terroristi" venne invece benedetta dal patriarca
ortodosso Alessio II.
Un tentativo per trovare una soluzione negoziata
alla crisi cecena, avvenne durante il vertice dell'OSCE tenutosi a Istanbul nel
novembre 1999: il ministro degli Esteri russo Ivanov firmava un documento che
riaffermava l'integrità territoriale della Federazione Russa, ma imponeva
altresì che si arrivasse a una soluzione politica del conflitto in
Cecenia. Secondo tale documento, inoltre, la Russia accettava un graduale e
limitato coinvolgimento dell'OSCE nel conflitto. In realtà, i
bombardamenti su Grozny, rifugio dei ribelli islamici, non cessarono, mentre
altre città si consegnavano alle truppe russe senza opporre resistenza.
Il 15 dicembre anche le armate russe subirono gravi perdite: una colonna
corazzata, che aveva sfondato le linee cecene, avanzando fin quasi nel centro di
Grozny, venne circondata da guerriglieri ribelli che ne fecero strage.
Mascherata come operazione contro il terrorismo, la campagna in Cecenia, in
prossimità delle elezioni per il rinnovo della Duma, in Russia (18-19
dicembre 1999), venne sfruttata dal primo ministro Putin come fattore-chiave per
ottenere il consenso elettorale a Mosca. Il 31 dicembre 1999 Eltsin rassegnava
le dimissioni da presidente della Russia; tale carica veniva assunta
ad
interim (fino alle elezioni presidenziali del marzo 2000 che lo
riconfermavano) dal primo ministro Putin il quale continuava a dipingere con
eccessivo trionfalismo una guerra che sembrava non avere un rapido esito e che
costava anche alla Russia gravi perdite umane.
I REGIMI COMUNISTI DEL TERZO MONDO
La fine del comunismo nel Terzo Mondo
presenta caratteri a sé stanti, determinati dalla scarsa
caratterizzazione politica di regimi impostisi solo grazie all'appoggio del
gigante sovietico e in assenza di una qualsiasi forma di appoggio
popolare.
Per questa ragione, gli avvenimenti europei del 1989 agirono da
stimolo per il tramonto della dottrina marxista nei Paesi meno sviluppati.
Spesso, l'affermazione di nuove formazioni politiche mascherava il ripudio
opportunistico della dottrina marxiana da parte di classi politiche intenzionate
a sopravvivere al crollo sovietico.
In Africa, per esempio, numerosi
regimi ripudiarono formalmente il marxismo (Angola, Benin, Congo, Capo Verde,
Mozambico, Guinea Bissau, Sao Tomé e Principe, Togo e Zambia) e
affrontarono in seguito elezioni più o meno libere dalle quali, grazie a
tale operazione trasformista, uscirono vincitori.
In Asia, il venir meno
del sostegno sovietico al regime afghano portò nel 1992 alla vittoria
della guerriglia di liberazione contro il regime di Najibullah. Nel mondo arabo
si registrò la fine del regime dello Yemen del Sud, che si unificò
nel maggio 1990 allo Yemen del Nord.
In Estremo Oriente, la fine della
guerra in Cambogia coincise con l'abbandono della dottrina comunista da parte
del Governo di Phnom Penh e con lo svolgimento delle prime elezioni libere.
Nella Corea del Nord e in Vietnam, invece, i Governi impedirono ogni
liberalizzazione, conservando un indiscusso monopolio politico, anche se, nel
2000, si verifico un importante riavvicinamento tra le due Coree in occasione
del summit a Pyongyango tra il presidente nordcoreano Kim Jong-il e il
presidente sudcoreano Kim Dae-jung, insignito, nello stesso anno, del premio
Nobel per la Pace.
In America, mentre la leadership comunista a Cuba
resisteva, il regime sandinista del Nicaragua, pressato dalla guerriglia,
indiceva nel 1990 libere elezioni dalle quali uscì sconfitto.
Gli
Stati del Terzo Mondo in cui il regime comunista, seppure tra crescenti
difficoltà, continua a mantenere il potere sono la Cina (vedi Storia
contemporanea - Asia e Africa) e Cuba (vedi Storia contemporanea - L'America
Latina).
PICCOLO LESSICO
Perestrojka
Voce russa che
significa rinnovamento. Utilizzato inizialmente nella politica interna sovietica
, venne poi adottato dal giornalismo internazionale per definire il complesso di
riforme politico-economiche avviate in Unione Sovietica, a partire dal 1985, da
M. Gorbaciov. Questi, durante gli anni della sua attività come segretario
del Partito comunista prima e come presidente dell'Unione Sovietica poi,
attuò una radicale opera di riorganizzazione dello Stato, fondata sul
rinnovamento ai vertici del Partito comunista, sull'adozione di nuovi sistemi di
rappresentanza ed elettorali, sulla lotta alla burocrazia, sull'introduzione di
un moderato liberismo economico, sul riconoscimento delle opposizioni interne,
sulla riduzione del controllo del Partito comunista sulla vita pubblica
attraverso la liberalizzazione dell'informazione
(
glasnost).
Glasnost
Voce russa che significa trasparenza. Vocabolo
chiave del corso politico promosso da Michail Gorbaciov in Unione Sovietica fra
il 1985 e il 1991. Accanto alla
perestrojka (rinnovamento)
caratterizzò il programma di riforme democratiche promosso dal leader
sovietico.
Muro di Berlino
Nome attribuito alla recinzione muraria
edificata nel dopoguerra dalle truppe sovietiche per isolare la zona di Berlino
occupata dalle potenze occidentali dal resto della Germania Orientale. Al
termine della guerra, la città e il territorio pertinente vennero
dapprima divisi in quattro settori: russo (450 kmq, 430.500 ab.); britannico
(150 kmq, 603.000 ab.); americano (210 kmq, 984.000 ab.); francese (90 kmq,
422.000 ab.). Successivamente, gli ultimi tre settori si unificarono, formando
la città di Berlino Ovest (2 milioni 224.000 ab.), nettamente divisa dal
settore sovietico, Berlino Est (1 milione 100.000 ab.). In seguito ad attriti
fra l'URSS e le potenze Occidentali si ebbero blocchi e restrizioni dei
trasporti, cui gli alleati reagirono con ponti aerei per il rifornimento della
popolazione che furono soppressi nel maggio del 1949. Nell'agosto 1961 le
autorità comuniste, in seguito ai continui tentativi di privati cittadini
di trasferirsi dal settore orientale a quello occidentale, decretarono la
costruzione di un invalicabile muro tra le due zone che sanciva la divisione
della città. Durante gli ultimi mesi del 1989 Berlino Est, così
come tutta la Germania Orientale, fu centro di numerose manifestazioni di
dissenso da parte dei suoi cittadini che chiedevano maggior libertà
personale e una progressiva democratizzazione del Governo. Il Governo della DDR
non ha potuto trascurare i preoccupanti fermenti di rivolta e, allineandosi alla
sempre maggiore apertura degli altri Paesi dell'Europa Orientale ai sistemi
occidentali, accoglieva le istanze dei cittadini, inaugurando un rimpasto
governativo e una direttrice politica più liberale. Data storica è
quella dell'8 novembre 1989: le frontiere fra le due aree della città
vennero ufficialmente abbattute e il famoso "muro" divenne solo un pesante
ricordo. In seguito si aprì il dibattito tra gli architetti tedeschi
intenti nel progettare la ricongiunzione delle due città, molti dei quali
favorevoli alla conservazione di parte del muro quale memoria storica di un
periodo irripetibile.
OSCE
Organizzazione per la Sicurezza e la
Cooperazione europea. Nata nel 1975 con la sigla CSCE (Conferenza per la
Sicurezza e la Cooperazione Europea), assunse l'attuale status nel 1994. Ha sede
a Vienna e comprende 54 Stati dell'emisfero Nord, compresa la Federazione
jugoslava (sospesa nel 1992), gli Stati Uniti e il Canada. Si occupa della
sicurezza e della prevenzione dei conflitti, del rispetto dei diritti umani e
civili, della cooperazione economica, tecnologica, ambientale.
START
Acronimo di
Strategic Arms Reduction
Treaty (Trattative per la riduzione delle armi strategiche). È il
termine con cui si indicano i negoziati condotti a partire dal 1982 da Unione
Sovietica (dal dicembre 1991 Russia) e Stati Uniti per la riduzione delle armi
nucleari strategiche con raggio d'azione intercontinentale. Proseguimento dei
precedenti negoziati SALT, i negoziati START, avviati in un periodo di grave
crisi internazionale e temporaneamente congelati in seguito all'abbattimento di
un aereo di linea sudcoreano da parte dei Sovietici, ripresero nel 1985 in un
clima di maggiore distensione internazionale dopo l'elezione a presidente
dell'Unione Sovietica di Gorbaciov. Tali negoziati portarono alla firma di
diversi accordi. Lo START I, firmato il 31 luglio 1991, da Gorbaciov e Bush,
ridusse i missili a lungo raggio a 1.600 per parte e le testate nucleari a
6.000. Dopo la dissoluzione dell'URSS venne sottoscritto il Protocollo di
Lisbona (23 maggio 1992) che prevedeva che gli Stati della CSI dotati di armi
atomiche si impegnassero all'attuazione degli impegni presi dall'Unione
Sovietica. I trattati START I e il Protocollo di Lisbona entrarono in vigore il
5 dicembre 1994. Lo START II venne firmato il 3 gennaio 1993 da Bush e B. Eltsin
e prevedeva una riduzione delle testate a 3.000-3.500 per parte entro il 10
gennaio 2003 e il divieto di spiegare missili a testate multiple: venne
ratificato dalla Duma nel 2000. Lo START III prevede la riduzione delle armi
nucleari a 2.000-2.500 entro il 31 dicembre 2007. Per quanto concerne lo START
IV i dettagli di tale accordo dipendono dalla negoziazione e dalla ratifica
dello START III.
PERSONAGGI CELEBRI
Mikhail Sergheevic Gorbaciov
Uomo politico sovietico
(n. Privolnoe, Russia meridionale 1931). Iscrittosi nel 1952 al Partito
comunista, ricoprì in seguito la carica di responsabile locale e
provinciale del Komsomol (Lega della gioventù comunista) di Starvropol.
Legatosi a Yuri Andropov nei primi anni Settanta, compiva una rapida ascesa nei
ranghi del PCUS. Nominato nel 1978 responsabile dell'agricoltura presso la
segreteria del Comitato centrale, entrò poi nel Politburo come membro
supplente nel 1979 (effettivo nel 1980). Insediatosi Andropov alla segreteria
del partito, Gorbaciov divenne il numero due nella gerarchia del PCUS, quale
esponente dell'ala pragmatica moderata. Nel 1984, alla morte di Andropov,
conservò la sua posizione di primo piano nonostante l'elezione di K.
Cernenko alla guida del partito. Tuttavia dopo la scomparsa dell'anziano leader,
gli successe nel marzo del 1985. Assurto alla massima carica sovietica,
Gorbaciov promosse l'avvio di un nuovo corso politico, caratterizzato dai
concetti base di
perestrojka (rinnovamento),
glasnost (trasparenza
d'informazione) e
uskerenje (accelerazione). Il processo di
democratizzazione politica di Gorbaciov ebbe importanti ripercussioni sul piano
internazionale, quali l'avvicinamento agli Stati Uniti, le proposte di disarmo
bilaterale ed i grandi rivolgimenti politici verificatisi nel corso del 1989 nei
Paesi dell'Europa orientale. Molto importante anche il ripristino delle
relazioni diplomatiche con il mondo cattolico, culminato nell'incontro fra
Gorbaciov e il papa nel novembre 1989 a Roma. Fra il 1989 ed il 1990 Gorbaciov
si trovò a dover affrontare le tendenze indipendentiste manifestatesi in
diverse Repubbliche sovietiche (Armenia, Azerbaigian, Lituania). Nonostante
queste difficoltà il leader proseguì sulla strada delle riforme,
proponendo al Comitato centrale l'abolizione del ruolo guida del PCUS. Eletto
presidente dell'URSS nel marzo 1990, nell'ottobre dello stesso anno venne
insignito del premio Nobel per la pace. Sul piano interno Gorbaciov dovette
affrontare, oltre alle spinte centrifughe delle Repubbliche, l'opposizione
politica dei riformisti radicali e dei conservatori. Una grave crisi economica,
inoltre, ostacolava il processo di rinnovamento. Abbandonato dai fedelissimi
della
perestrojka, nell'agosto 1991 fu vittima di un golpe, guidato dalle
forze conservatrici. Fallito il colpo di Stato, Gorbaciov riprese in mano il
potere, ma il sopravvento dei riformisti radicali, capeggiati da Boris Eltsin,
lo costrinse ad accettare la dissoluzione del Partito comunista. Mentre le
diverse Repubbliche proclamavano la loro indipendenza, invano Gorbaciov lanciava
appelli all'unità. Nel dicembre 1991 il premier sovietico si dimise dalla
presidenza dell'URSS, mentre 11 Repubbliche dell'Unione Sovietica diedero vita
alla nuova Comunità degli Stati Indipendenti (CSI).
Mikhail Gorbaciov
Boris Nikolaevic Eltsin
Uomo politico russo (Sverdlovsk 1931 - Mosca 2007). Di umili origini, si laureò in ingegneria nel 1955 e dal 1963 intraprese la carriera politica nel comitato regionale del partito. Nel 1976 fu nominato responsabile del partito per la regione di Sverdlovsk e nel 1985 divenne primo segretario del partito a Mosca su incarico di Gorbaciov; ebbe così inizio la sua scalata ai vertici del PCUS. Grazie alla sua propensione per la demagogia e per il populismo, conquisto in breve tempo una vasta popolarità. Rieletto nel Parlamento della Repubblica nel 1989, si pose a capo di una consistente corrente di deputati per condurre una decisa opposizione alla politica di cauta decomunistizzazione intrapresa di Gorbaciov. Nel 1990, abbandonò il PCUS e riuscì a ottenere la presidenza del Parlamento.
Nelle prime elezioni a suffragio universale del 1991, Eltsin fu eletto alla presidenza della Repubblica russa. Si impose definitivamente sulla scena politica interna e internazionale in seguito al suo coraggioso intervento nel contrastare il tentativo di colpo di stato dell'agosto 1991 che costò a Gorbaciov una breve detenzione. Approfittando della crisi che seguì il tentativo di golpe, Eltsin si pose a capo di ogni iniziativa politica a scapito del potere di Gorbaciov. Alla fine del 1991, dopo lo storico scioglimento dell'Unione Sovietica (21 dicembre) e le dimissioni formali di Gorbaciov (25 dicembre), Eltsin diventò leader unico della nuova Russia, alla quale furono trasferiti tutti i poteri dell'Unione Sovietica.
Il vasto programma di riforme politiche, istituzionali, sociali ed economiche varato da Eltsin, sostenuto dalle potenze occidentali, impattò contro enormi problemi economici e sociali, evidenziati dalla selvaggia liberalizzazione dei prezzi e dall'affrettata privatizzazione delle imprese statali.
A partire dal 1992 emerse sempre più netto il conflitto tra Eltsin e le opposizioni. Gli scontri ripetuti con la Corte costituzionale russa portarono, nell'ottobre 1993, alla resistenza di una parte del Parlamento al tentativo presidenziale di assumersi poteri speciali. Eltsin costrinse alla resa, a colpi di cannonate, i deputati dell'opposizione asserragliatisi nella Casa Bianca. Una volta sciolto il Parlamento, Eltsin non esitò a imporre una nuova Costituzione che gli conferiva ben più ampi poteri.
In seguito la popolarità del presidente russo si avviò verso un lento e inesorabile declino: non a caso i comunisti, facendo leva sul diffuso malcontento, ottennero nello stesso anno un importante successo elettorale. Assente per intere settimane dalla vita politica, Eltsin dimostrò di patire il conflitto con le opposizioni e si mostrò incapace di fronteggiare la grave situazione economica. Alla fine del 1994 diede inizio all'avventura cecena, con una sanguinosa offensiva contro le truppe indipendentiste.
In politica estera Eltsin ebbe alterne fortune: se da un lato si presentò come il paladino della libertà contro il comunismo, dall'altro non rinunciò ad una politica di potenza e di ostracismo all'allargamento della NATO, cui chiedevano di aderire molte delle ex repubbliche sovietiche.
Alle elezioni amministrative del 1996 i comunisti riportarono una netta vittoria, candidandosi per una probabile vittoria alle elezioni presidenziale dell'estate successiva. Al termine di una dura campagna elettorale, Eltsin venne invece rieletto presidente, sconfiggendo al secondo turno il candidato comunista Ziuganov.
Nuovamente sottoposto a seri interventi chirurgici, Eltsin sparì nuovamente dalla scena politica, alimentando l'insorgere di nuovi scontri politici in Parlamento e al Cremlino. Nell'agosto del 1998, nel tentativo di far fronte alla difficile situazione politica ed economica, nominò primo ministro Evgenij Primakov.
Coinvolto in un grave scandalo finanziario, nel 1999 Eltsin licenziò Primakov, rimpiazzandolo con Sergej Stepasin. Evitato l'
impeachment per alcuni scandali finanziari, in agosto il presidente licenziò Stepasin, rimpiazzandolo con Cernomyrdin. Ormai gravemente malato, alla fine dell'anno Eltsin annunciò le proprie dimissioni, nominando suo successore Vladimir Putin.
Boris Eltsin
RIASSUNTO CRONOLOGICO
1985:
Michail Gorbaciov
assume la carica di segretario del PCUS.
1987 (dicembre):
Accordi di Washington siglati tra USA e URSS per
la riduzione dei missili a medio e corto raggio.
1989 (giugno):
In Polonia le elezioni decretano la vittoria di
Solidarnosc.
1989 (novembre):
Il Muro di Berlino comincia a sgretolarsi sotto
il peso delle manifestazioni scoppiate a Est.
1989 (dicembre):
A. Dubcek viene nominato presidente del
Parlamento cecoslovacco; V. Havel diventa presidente della
Repubblica.
1989 (dicembre):
In Romania prende avvio una rivolta contro il
dittatore Ceausescu.
1989 (25 dicembre):
Ceausescu viene arrestato e giustiziato insieme
alla moglie.
1990:
Lech Walesa viene eletto capo dello Stato
polacco; la Polonia si trasforma da Repubblica popolare a Stato democratico di
diritto.
1990:
In Ungheria cade il regime comunista; capo dello
Stato diviene Arpad Goencz.
1990 (marzo):
Gorbaciov viene eletto presidente
dell'URSS.
1990 (3 ottobre):
Riunificazione delle due
Germanie.
1990 (dicembre):
In Slovenia e Croazia la popolazione vota in
favore a un referendum che chiede l'autonomia dal Governo
federale.
1991:
La capitale della Germania viene spostata da
Bonn a Berlino.
1991 (giugno):
Eltsin viene eletto presidente della Federazione
Russa.
1991 (25 giugno):
I Parlamenti sloveno e croato proclamano
l'indipendenza.
1991 (luglio):
Accordi di Brioni; alla Slovenia viene
riconosciuta l'indipendenza.
1991 (31 luglio):
Gorbaciov e Bush firmano lo START
I.
1991 (agosto):
Fallisce un golpe ordito dal KGB contro
Gorbaciov.
1991 (ottobre):
Macedonia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo proclamano
l'indipendenza.
1991 (1° novembre):
La Cecenia proclama la propria autonomia dalla
Russia.
1991 (dicembre):
L'URSS cessa ufficialmente di esistere; Eltsin
si fa promotore della nuova CSI a cui aderiscono 11 delle 15 ex Repubbliche
sovietiche.
1992:
Gli albanesi del Kosovo eleggono un proprio
Parlamento e un presidente, Ibrahin Rugova.
1992 (gennaio):
La CEE riconosce ufficialmente le Repubbliche
indipendenti di Slovenia e Croazia.
1992 (marzo):
Le elezioni albanesi, vinte dal partito
democratico, decretano la fine del regime comunista; Sali Berisha è a
capo del Governo.
1992 (23 maggio):
Gli Stati della CSI dotati di armi atomiche
sottoscrivono il Protocollo di Lisbona.
1993 (1° gennaio):
Viene ufficialmente sancito lo smembramento
dello Stato cecoslovacco in Repubblica Ceca e Slovacchia.
1993 (3 gennaio):
Bush e Eltsin firmano lo START
II.
1994:
La NATO decide di intervenire in
Bosnia.
1994 (18 marzo):
Nasce la Federazione croato-musulmana di
Bosnia.
1994 (11 dicembre):
Le truppe russe entrano in Cecenia dando inizio
a un conflitto armato.
1995 (novembre):
A. Kwaniewski viene eletto presidente della
Repubblica polacca.
1995 (14 dicembre):
Accordi di Dayton che pongono fine al conflitto
bosniaco.
1996:
In Romania Costantinescu viene eletto presidente
della Repubblica; capo del Governo diviene Ciorbea.
1996 (luglio):
Eltsin viene confermato per la seconda volta
presidente della Russia.
1996 (27 agosto):
Il generale Lebed raggiunge un accordo di pace
con gli indipendentisti ceceni.
1997 (giugno):
Le elezioni albanesi vengono vinte dal partito
socialista di Fatos Nano che assume la carica di primo
ministro.
1998:
I Serbi danno il via alla pulizia etnica in
Kosovo.
1998 (settembre):
Le elezioni politiche tedesche decretano la
vittoria della SPD di Schroeder.
1998 (13 settembre):
Viene ucciso Azem Hajdani, braccio destro di
Berisha; in seguito a tale episodio il Partito democratico scatena
un'insurrezione armata a Tirana.
1999:
Albania e Jugoslavia interrompono le relazioni
diplomatiche che saranno riprese solo nel 2001.
1999 (24 marzo - 10 giugno):
Bombardamenti della NATO sulla
Serbia.
1999 (1° ottobre):
Inizia una nuova guerra tra Russia e ribelli
indipendentisti ceceni.
1999 (31 dicembre):
Eltsin si dimette dalla carica di capo dello
Stato che viene assunta
ad interim dal primo ministro
Putin.
2000:
Kwaniewski viene riconfermato alla carica di
presidente della Polonia.
2000 (marzo):
Putin è ufficialmente eletto presidente
della Russia.
2000 (giugno):
Storico incontro tra i leader delle due Coree e
inizio del processo di distensione.
2000 (24 settembre):
Si svolgono le elezioni presidenziali jugoslave
che vedono la vittoria dell'opposizione, fortemente negata dal presidente
in carica Milosevic.
2000 (5 ottobre):
Dopo imponenti manifestazioni di pazza e
l'occupazione di Parlamento e televisione di Stato, Milosevic viene
ufficialmente soppiantato da Vojislav Kostunica quale presidente della
Jugoslavia.
2000 (dicembre):
Ion Iliescu vince le elezioni presidenziali
romene.
2001 (28 giugno):
Milosevic, dopo l'arresto avvenuto nel mese
di aprile, viene estradato all'Aja.
2002 (febbraio):
Inizio del processo a
Milosevic.
2006 (marzo):
Milosevic muore nella prigione del Tribunale Penale internazionale all'Aja.