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STORIA CONTEMPORANEA - IL CROLLO DEL COMUNISMO

L'AVVENTO DI GORBACIOV

Con la morte di Konstantin Cernenko nel 1985 e la nomina alla guida del PCUS di Mikhail Gorbaciov, si aprì per l'URSS una nuova fase politica, destinata a produrre importanti cambiamenti all'interno della rigida e immobilistica società sovietica. Che queste istanze di cambiamento e l'esigenza di rinnovare le strutture economiche e politiche del Paese fossero presenti nella realtà sociale e nell'apparato del Partito comunista, lo si era del resto capito fin dall'epoca della scomparsa di Breznev. La breve stagione di Yuri Andropov, succeduto al leader scomparso nel 1983, segnò infatti il timido inizio di una politica riformistica, pur nel significato restrittivo che la parola assumeva in Unione Sovietica.
La linea politica di Andropov non incontrò l'appoggio unanime dei vertici del partito, nei quali era ancora notevole l'influenza dell'ala conservatrice, legata all'apparato burocratico. La stessa nomina di Cernenko alla guida del partito, dopo la morte di Andropov (1984) venne interpretata dagli osservatori come una scelta di transizione che, nel contempo, aveva la funzione di celare lo scontro in atto nel partito. L'ascesa di Gorbaciov segnò la vittoria dell'ala riformista.
Il neosegretario, nel luglio del 1985, consolidava il proprio potere esautorando dal Politburo e dalla segretaria Grigori Romanov, il suo avversario più pericoloso.
La promozione da parte di Gorbaciov di un nuovo corso, la perestrojka, riscosse in Occidente vasti consensi e determinò un immediato riavvicinamento tra URSS ed USA, sancito dagli accordi di Washington del dicembre 1987. In essi si stabiliva la riduzione dei missili a medio e corto raggio, primo passo sulla via del disarmo nucleare.
In politica interna, il rinnovamento si tradusse in un clima di maggiore apertura intellettuale: il premio Nobel per la fisica, Andrej Sacharov, lasciò l'esilio di Gorkij; Nikolaj Bucharin, leader della Rivoluzione russa ucciso durante le repressioni staliniane, venne riabilitato; per la prima volta si consentì la pubblicazione del Dottor Zivago di Boris Pasternak.
La perestrojka (rinnovamento) e la glasnost (trasparenza) incoraggiarono però anche lo sviluppo di fermenti autonomistici che misero in crisi la dirigenza del Cremlino: le Repubbliche baltiche rivendicarono l'autonomia da Mosca; in Armenia si svolsero manifestazioni violente per rivendicare l'annessione della provincia di Nagorny-Karabak, che Stalin aveva assegnato all'Azerbaigian nel 1923.
Il Presidium del Soviet supremo dell'URSS nel marzo 1988 negò tuttavia l'autorizzazione alla modifica dei confini delle Repubbliche. La decisione avrebbe poi avuto ripercussioni pesanti nel corso dell'anno con l'intensificarsi delle reciproche ostilità tra armeni e azeri. Ad aggravare la situazione avrebbe poi contribuito anche il terribile terremoto in Armenia. Con la visita di Reagan a Mosca nel maggio, venne ribadita la volontà di procedere sulla via del negoziato. Il vertice, tuttavia, al di là delle dichiarazioni d'intenti, non approdarono ad alcun progresso rispetto al vertice di Washington. Erano infatti rimaste sul tappeto alcune questioni non risolte: il problema dei diritti umani e il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan. A questo proposito, Gorbaciov, che dal marzo 1990 diventerà anche presidente dell'URSS, in un memorabile discorso all'ONU annunciò il ritiro sovietico entro il 1989.
Nuovi appuntamenti si profilarono intanto per il leader comunista: la conferenza pansovietica del partito (dedicata ai temi della democratizzazione, della riforma del sistema elettorale e dell'apparato giudiziario, nonché della lotta all'egalitarismo salariale) e le celebrazioni per il millennio della cristianizzazione della Russia, occasione ideale per riproporre il tema della coesione etnica e politica dell'URSS.
Nel 1989 la politica di Gorbaciov cominciò ad avere ripercussioni anche sui Paesi dell'Est europeo: in Ungheria venne varata una riforma tesa all'istituzionalizzazione dei partiti non comunisti, mentre in Polonia fu in pratica riconosciuto il ruolo del sindacato libero Solidarnosc. Accanto a tali avvenimenti, successi ulteriori per Gorbaciov erano rappresentati dall'effettivo ritiro delle truppe dall'Afghanistan, ultimato nel febbraio, dalla ripresa delle relazioni con la Cina e dal viaggio del ministro degli Esteri Shevardnadze al Cairo, che, nella capitale egiziana, incontrò il premier Mubarak e il ministro degli Esteri israeliano, in vista della convocazione di una conferenza internazionale per la pace in Medio Oriente.
Michail Gorbaciov


LA CRISI DEL COMUNISMO

Il 1989 è passato alla storia come l'anno decisivo per quanto riguarda l'evolversi della crisi generale dei Paesi a regime comunista. Dall'Unione Sovietica alla Cina, dalla Polonia all'Ungheria, il comunismo è entrato in un tunnel di cui non si riesce ancora a intravedere lo sbocco. I dirigenti stessi, sotto la spinta degli eventi, sono stati costretti ad ammettere apertamente che il sistema non ha funzionato, che il sogno della rivoluzione d'ottobre di creare un modello alternativo al capitalismo è tramontato per sempre.
Per comprendere l'attuale situazione, occorre fare qualche passo indietro nel tempo. Fino a qualche anno fa le economie centralizzate dei regimi comunisti sembravano funzionare bene. In effetti la pianificazione statale aveva favorito lo sviluppo delle strutture industriali nel contesto di economie arretrate o comunque devastate dall'ultimo conflitto mondiale. Ben presto ne emersero però tutte le debolezze.
In altre parole apparve chiaro che occorrevano profonde trasformazioni del sistema economico per reggere la concorrenza internazionale. Tuttavia le trasformazioni economiche incisero inevitabilmente anche sul sistema politico, facendo affiorare delle contraddizioni.
Quasi tutti gli Stati comunisti si trovarono di fronte a un bivio: mantenere inalterato il sistema pagando un alto prezzo in termini di arretratezza tecnologica, peggioramento del tenore di vita e aumento del dissenso politico, oppure sperimentare nuove soluzioni incentivando gli investimenti stranieri e permettendo la crescita di settori non pianificati. Cina e URSS optarono per la seconda soluzione, mentre Paesi come il Vietnam e Cuba scelsero di mantenere sostanzialmente inalterati i loro sistemi politico-economici.
È interessante notare a questo punto come siano gradualmente cambiati anche i rapporti che l'URSS intrattiene con i Paesi dell'Est europeo: da una politica di stretto controllo si è passati a una maggiore disponibilità al dialogo in condizioni di parità. Di pari passo i Paesi dell'Est sono andati via via configurando in modo diverso e imprevedibile i loro rapporti col "grande fratello". Polonia e Ungheria, seguendo l'esempio e le esortazioni di Gorbaciov, scelsero la via delle riforme e della democratizzazione, mentre l'Albania e inizialmente la Romania si arroccarono su posizioni ultraconservatrici, respingendo l'esempio sovietico.
In una posizione intermedia si collocarono invece la Bulgaria, la Cecoslovacchia e la Repubblica Democratica Tedesca, simulando l'accordo con l'URSS sulla necessità delle riforme senza peraltro procedere alla loro concreta attuazione.
In tal modo è andata infrangendosi quell'uniformità che sembrava essere la caratteristica dominante dell'Est europeo. Esaminiamo ora più da vicino gli avvenimenti in alcuni Paesi comunisti per verificare le premesse generali.

LA CADUTA DEI REGIMI

La dissoluzione dell'URSS

Nell'Unione Sovietica vi furono dei tentativi di modernizzare l'economia con Kruscev e Kossighin: tali tentativi erano però falliti e durante i diciotto anni di dominio incontrastato di Breznev il sistema rimase in pratica bloccato.
Gli effetti disastrosi della politica brezneviana, via via accumulati, si fecero evidenti alla metà degli anni Ottanta. Con l'avvento di Gorbaciov finalmente il sistema politico poté confrontarsi con la necessità di riforme, raccogliendo sia le pressioni esterne sia quelle interne.
La posizione di Gorbaciov si fece subito difficile, soprattutto per l'urgenza di una efficace riforma dell'economia e per le emergenti spinte centrifughe nazionali. Le tendenze nazionalistiche emersero in maniera evidente nel 1989 e scossero l'Unione Sovietica da un capo all'altro: dalle Repubbliche baltiche alla Transcaucasia, divamparono improvvisamente gli antagonismi tra i vari gruppi etnici (azeri, georgiani, armeni, uzbeki, ecc.) e tra le singole nazionalità e il potere centrale. In particolare, Gorbaciov si trovò a dover affrontare, all'inizio del 1990, il sanguinoso inasprimento del conflitto fra gli armeni e gli azeri dell'Azerbaigian. L'intervento dell'Armata Rossa a Baku, capitale della Repubblica, provocò una strage di civili. La risoluzione definitiva del problema delle spinte autonomistiche finì per chiamare in causa la ridefinizione dei rapporti fra potere centrale e singole Repubbliche e favorì, in sostanza, i fautori di riforme più radicali. Tra essi, Boris Eltsin, eletto presidente della Repubblica russa, e l'ex ministro degli esteri Eduard Shevardnadze. Eltsin in particolare si segnalò quale antagonista di Gorbaciov, soprattutto dopo aver personalmente promosso la rivolta popolare contro il tentato colpo di Stato perpetrato dal KGB nell'agosto 1991. Dopo il fallito golpe, Gorbaciov si dimise da segretario del partito e decretò lo storico scioglimento del PCUS. Su sollecitazione di Eltsin vennero tra l'altro riconosciute le dichiarazioni di indipendenza dei Paesi baltici. Alla fine dello stesso anno, l'URSS cessò formalmente di esistere. Nacque da essa la Confederazione degli Stati Indipendenti, entità formata da 11 delle 15 Repubbliche sovietiche, una creazione fittizia che perse ben presto ogni preciso connotato politico.
Con la dissoluzione dell'Unione Sovietica siglata durante la Conferenza di Alma Ata (dicembre 1991), e la nascita della CSI, la vita politica della Repubblica russa fu caratterizzata dal confronto ininterrotto tra Boris Eltsin, che avviò una serie di riforme economiche volte a realizzare in Russia un'economia di mercato, e il Parlamento che, formato in maggioranza da ex comunisti di orientamento conservatore, premeva invece per il loro blocco o, quanto meno, rallentamento. Nel gennaio 1992 Eltsin decretò la liberalizzazione dei prezzi, suscitando, con il conseguente rincaro dei prodotti di più vasto consumo, manifestazioni di protesta. Nel giugno 1992 Eltsin, in visita ufficiale negli Stati Uniti, stipulò con il presidente George Bush un importante accordo per la riduzione degli armamenti strategici, che condurrà le due potenze a possedere, nel giro di dieci anni, solo la metà di quante ne prevedeva il trattato START (sottoscritto il 31 luglio 1991 da Gorbaciov e Bush); a questo accordo fece seguito, nel gennaio 1993, il trattato START 2, con il quale i due Paesi si impegnavano a ridurre drasticamente gli arsenali atomici.
In ambito di politica interna, le riforme di Eltsin, che intendevano accelerare la transizione a un'economia di mercato, trovarono l'opposizione del Parlamento, cosicché il presidente russo decise di sottoporre il proprio mandato alla verifica popolare: il referendum (aprile 1993) riconobbe un ampio consenso al presidente e alla sua politica economica. Rafforzato dalla consultazione referendaria, Eltsin convocò in giugno un'Assemblea costituente per mettere a punto il testo della nuova Costituzione; successivamente, di fronte all'impossibilità di ottenerne l'approvazione dal Parlamento, in settembre dichiarò il suo scioglimento. Scoppiarono, allora, disordini, di fronte ai quali Eltsin reagì con veemenza: proclamò il coprifuoco, mise fuori legge partiti e formazioni politiche conservatori, fece chiudere tutti i giornali dell'opposizione comunista e nazionalista e, infine, fece esplodere colpi di cannone contro i deputati barricati nell'edificio del Parlamento. L'ordine fu in questo modo ristabilito e nel 1993 la nuova Costituzione fu approvata: essa adottò un modello federalista, che avrebbe dovuto arginare le rivendicazioni indipendentiste di alcune Repubbliche autonome che travagliavano in quegli anni la Russia. La situazione più critica si era venuta determinando in Cecenia, dove nel novembre 1991 il neopresidente ceceno Dzhokhar Dudaev aveva proclamato la secessione. Tale situazione avrebbe condotto nel dicembre 1994 Eltsin a ordinare l'attacco dell'esercito russo contro la Repubblica caucasica: la popolazione cecena oppose, però, una strenua resistenza, cosicché il conflitto si trasformò in un terribile bagno di sangue per entrambe le parti.
Nel 1993 vennero svolte le elezioni legislative, alle quali i partiti si presentarono divisi in tre grossi schieramenti: partiti che sostenevano Eltsin, partiti di centro e partiti di opposizione. L'opposizione era rappresentata dal Partito agrario, che riuniva tutti coloro che erano favorevoli al mantenimento della proprietà collettiva delle aziende agricole di Stato, dal Partito comunista, nettamente contrario alla transizione al capitalismo, e da vari movimenti nazionalisti, tra cui il Partito liberal-democratico di Vladimir Zhirinovskij. I risultati parziali del voto crearono subito allarme nel mondo occidentale perché videro la sconfitta dei riformisti: partito di maggioranza relativa risultò il Partito liberal-democratico. Ciò, tuttavia, non determinò alcun rallentamento nella transizione all'economia di mercato; nell'immediato la liberalizzazione dei prezzi, la privatizzazione delle imprese statali e tutti gli altri provvedimenti messi in atto da Eltsin comportarono un crollo della produzione industriale e una crescita esponenziale dell'inflazione, ma già nel 1995 l'economia russa diede i primi segnali di stabilizzazione. Fu così che le elezioni legislative di dicembre finirono per premiare una nuova formazione politica, guidata dal primo ministro Viktor Chernomyrdin; nel contempo, però, a testimonianza dell'estrema fluidità e frammentazione del panorama politico russo, il partito di maggioranza relativa divenne il Partito comunista della Federazione Russa. Nel luglio 1996, grazie anche all'appoggio dei nazionalisti di A. Lebed, fu nuovamente eletto presidente della Russia Eltsin, che confermò alla carica di primo ministro Chernomyrdin. Nel 1997, travagliato da problemi di salute, Eltsin riprese saldamente il potere dopo aver subito un tentativo di destituzione, nominando Anatolij Chubais vice primo ministro incaricato delle riforme economiche. Nel progetto di ristrutturazione delle dissestate finanze russe vennero approvati un nuovo codice tributario e un piano di risistemazione dei monopoli su energia e trasporti. Nel 1998 la situazione precipitò: il crollo del rublo determinò la caduta delle borse internazionali e una nuova crisi politica sfociata nella stroncatura del primo ministro Sergej Kirienko (23 agosto) da parte della Duma e nella successiva elezione di Viktor Chernomyrdin, a sua volta sostituito da Evgenij Primakov (11 novembre), esponente dello schieramento comunista ed ex capo dei servizi segreti. Nel 1999 la situazione economica e politica del Paese non migliorò, cosicché le crisi di Governo continuarono a susseguirsi: Primakov, infatti, venne destituito da Eltsin il 12 maggio e sostituito con Sergej Stepasin, a sua volta rimpiazzato da Vladimir Putin, ex spia del KGB, poi capo dei nuovi servizi segreti FSB e del Consiglio per la sicurezza nazionale.
Nel marzo 1999 si verificò un altro scontro tra il presidente e la Duma che diede il via a una procedura di impeachment nei confronti di Eltsin il quale doveva rispondere dello scioglimento dell'URSS nel 1991, della repressione della rivolta parlamentare del 1993, della guerra in Cecenia, dell'impoverimento e del declino demografico del popolo russo. Eltsin venne prosciolto da tutti i capi d'accusa.
Nel frattempo la profonda ed inarrestabile crisi dell'amministrazione Eltsin fu ulteriormente evidenziata da una serie di avvenimenti che contribuirono ad inasprire lo scontro politico interno in vista dell'appuntamento delle elezioni politiche fissate per il dicembre del 1999 e soprattutto dello scadere del mandato presidenziale. Tra i problemi maggiori che travolsero la Russia, ricordiamo il Russiagate, ovvero lo scandalo finanziario che coinvolse la famiglia del presidente e alcuni esponenti dell'oligarchia politico-finanziaria, oltre a diverse banche russe, accusate di esportazione illegale, truffa internazionale e riciclaggio di denaro sporco attraverso la Bank of New York; il conflitto con il Daghestan dove, ai primi di agosto, un gruppo di ribelli islamici, provenienti dalla Cecenia e guidati dal guerrigliero ceceno Shamil Basaev, occuparono la regione di Botlikh nel Sud-Ovest della Repubblica autonoma del Daghestan, proclamando la nascita di uno Stato islamico indipendente (7 agosto); gli attentati verificatisi in diverse città russe che il Governo attribuì al terrorismo di matrice islamica in seguito ai quali la Russia riprese la guerra con la Cecenia (1° ottobre).
Nelle elezioni per il rinnovo della Duma del dicembre 1999 il Partito comunista di Zyuganov, pur conservando il primo posto, perdeva il controllo della Duma che nella scorsa legislatura aveva consentito di bloccare le iniziative del Cremlino, mentre il movimento "Unità" del premier Putin e del presidente Eltsin otteneva un clamoroso successo, riconducibile, in buona parte, alla popolarità acquisita da Putin con la campagna in Cecenia. Il 31 dicembre 1999 Eltsin rassegnò le dimissioni da capo dello Stato; tale carica venne temporaneamente ricoperta dal primo ministro Putin, il quale, nel marzo 2000, venne ufficialmente eletto. Si ritrovò a dover affrontare un Paese in crisi, dove forte era il livello di povertà nelle periferie e nelle campagne e pesante il peso della criminalità organizzata. Tra i primi problemi che dovette affrontare, però, vi fu l'incidente al sottomarino nucleare Kursk (agosto 2000), nel quale perirono 118 persone. Nel maggio 2002 USA e Russia trovarono un accordo sulla riduzione del loro arsenale nucleare e nello stesso periodo venne deciso un importante e storico patto di cooperazione tra Mosca e la Nato.
Il capo dello Stato russo Vladimir Putin

Boris Eltsin

Polonia

Le rivolte operaie che scoppiarono in Polonia nel 1970 e nel 1977, furono i prodromi della vasta ondata di scioperi e manifestazioni popolari che nel 1980 fecero tremare il regime comunista, sintomo del crescente malessere economico e sociale e del crescente desiderio di libertà della popolazione. Dopo il colpo di Stato militare del 1981 attuato dal generale Jaruzelski, la proclamazione della legge marziale (dicembre 1981) e l'arresto in massa dei militanti di Solidarnosc (un sindacato libero guidato da Lech Walesa, che rivendicava l'autonomia del sindacato rispetto alle direttive del partito, nell'interesse della classe operaia) con il conseguente scioglimento dell'associazione (ottobre 1982), il regime militare comunista cercò di preservare il sistema. Tuttavia, a partire dal 1983 con la scarcerazione di Walesa, l'abrogazione della legge marziale e l'amnistia per tutti i prigionieri politici, iniziò a farsi lentamente strada il dialogo i riformisti all'interno del POUP (il Partito comunista polacco), la Chiesa cattolica e il sindacato libero di Solidarnosc.
Nel 1986 i Polacchi furono chiamati ad approvare la riforma economica attraverso un referendum nazionale boicottato duramente dall'opposizione; il risultato, anche per il tenore del pacchetto di leggi che prevedeva ancora forti aumenti dei generi di prima necessità, fu sfavorevole al Governo di Jaruzelski. Nel corso del 1987 furono varate riforme economiche che prevedevano tagli all'apparato burocratico, impulso all'iniziativa privata e all'autonomia aziendale, accompagnate da provvedimenti politici nel senso di una maggiore democratizzazione (istituzione di una seconda Camera del Parlamento, maggiore autonomia locale). Una nuova ondata di scioperi e proteste sociali ebbe luogo nel 1988, con rivendicazioni economiche e politiche, quali il riconoscimento legale di Solidarnosc. In seguito a ulteriori agitazioni sociali, e dopo la sostituzione di Messner con Mieczyslan Rakowski, venne avviato un vero e proprio negoziato fra il regime, l'opposizione, e la Chiesa.
Nel 1989 furono firmati una serie di accordi che prevedevano lo svolgimento di elezioni per un'Assemblea nazionale, il pluralismo sindacale, l'attribuzione della personalità giuridica alla Chiesa. Le elezioni del giugno 1989 decretarono una dura sconfitta per il regime, assicurando a Solidarnosc la maggioranza assoluta nelle due Camere. Presidente della Repubblica venne eletto Jaruzelski, mentre fu formato un Governo di coalizione fra POUP, Solidarnosc, Partito democratico e Partito contadino (PSL), sotto la direzione di Tadeusz Mazowiecki, esponente di Solidarnosc. Di fronte ad una situazione economica che registrava un'inflazione del 200%, furono varate misure restrittive della spesa sociale, una politica di privatizzazione dell'industria, una riforma fiscale, e decretata la svalutazione del 20% dello zloty. Dopo le dimissioni di Jaruzelski, nel 1990 venne eletto presidente della Repubblica Lech Walesa e la Polonia si trasformò da Repubblica popolare a Stato democratico di diritto. Nel gennaio 1991 Jan Krzysztof Bielecki sostituì Mazowiecki alla guida del Governo, mentre, anche a causa della difficile situazione economica, si registrarono spaccature all'interno del sindacato.
Le elezioni dell'ottobre 1991 sancirono una forte frammentazione politica: i principali partiti risultarono Unione democratica (UD), capeggiata da Mazowieski, e Alleanza della sinistra democratica (ASD), che raccoglieva i socialisti del POUP sciolto nel 1990. Nel 1993 si tennero elezioni anticipate: l'ASD fu il partito di maggioranza relativa. Il risultato elettorale, che portò a un Governo guidato da Waldemar Pawlak, decretò il progressivo isolamento di Walesa che, nel tentativo di ampliare le prerogative presidenziali, innescò una serie di conflitti istituzionali con il Parlamento e il Governo. Le difficoltà nell'attuazione delle riforme determinarono nel marzo 1995 la sostituzione di Pawlak con Jozef Oleksi, quindi, nel 1996, di quest'ultimo con Wlodzimierz Cimoszewicz. Le elezioni presidenziali del novembre 1995 si risolsero con la vittoria su Walesa di Aleksander Kwasniewski, esponente dell'ASD, che verrà rieletto nel 2000. Le elezioni politiche del settembre 1997 decretarono l'affermazione della coalizione formata dalla destra cattolica, riunita intono al vecchio sindacato Solidarnosc (AWS), e dai liberali (Unione democratica), che ottenne la guida del Governo con Jerzy Buzek. La Polonia entrava ufficialmente a far parte della NATO il 12 marzo 1999. Nel 2001 nuove elezioni portarono al Governo un'alleanza formata dall'ASD e dal Partito contadino nella persona del primo ministro Leszek Miller: nello stesso anno la Polonia venne ammessa nel novero dei 10 Paesi che potrebbero entrare nell'Unione europea a partire dal 2004.
Un'immagine di Lech Walesa

La scissione della Cecoslovacchia

In Cecoslovacchia il tentativo di democratizzazione del regime, conosciuto come la "Primavera di Praga" (agosto 1968), fu arrestato dall'intervento militare dell'URSS e dei Paesi aderenti al Patto di Varsavia. Alexander Dubcek, capo della rivolta e propugnatore di un socialismo dal volto più umano, venne improvvisamente sostituito alla segreteria del partito da Gustav Husak, il quale dal 1975 assunse anche la carica di presidente della Repubblica. Negli anni Ottanta la Cecoslovacchia, pur confermandosi tra i più fedeli alleati dell'Unione Sovietica, riuscì però a riallacciare normali rapporti anche con l'Occidente. Nel 1987 Husak lasciò la guida del Partito comunista, sostituito da Milos Jakes. Questi avviò un periodo di caute riforme.
Nel 1989 l'ondata di libertarismo anticomunista proveniente dall'Ungheria e dalla Germania Est investì anche la Cecoslovacchia, tanto da costringere alle dimissioni Jakes. Alexander Dubcek venne richiamato alla vita politica ed eletto presidente del Parlamento, mentre il dissidente Vaclav Havel fu nominato presidente della Repubblica. La ricostruzione economica e la privatizzazione, subito avviate, acuirono però la disparità economica e sociale fra Boemia e Slovacchia, rendendo sempre più urgente la ridefinizione del rapporto tra le due regioni. In Slovacchia, alle elezioni del 1992, la vittoria andò ai Nazionalisti slovacchi di Vladimir Meciar, favorevoli alla fine dell'unione federale con Boemia-Moravia. Per evitare scontri sanguinosi, il neo primo ministro Klaus accolse le proposte secessioniste di Meciar, sancendo così dal 1° gennaio 1993 lo smembramento dello Stato cecoslovacco in Repubblica Ceca e Slovacchia.
In Slovacchia fu eletto presidente della Repubblica M. Kovac, mentre capo del Governo fu nominato V. Meciar che, dimessosi nel marzo 1994, tornò nuovamente a governare il Paese nel settembre-ottobre 1994. Nelle elezioni politiche tenutesi nel settembre 1998, Meciar fu sconfitto dall'opposizione di centro-destra, che mandò al Governo M. Dzurinda. Nelle elezioni presidenziali del maggio 1999 ebbe la meglio il moderato Rudolf Shuster, primo presidente eletto a suffragio universale. Riavvicinatasi alla Federazione Russa, da cui importa materie prime a uso industriale, la Slovacchia venne inizialmente esclusa dal primo gruppo di candidati a entrare nella NATO e nell'Unione europea a causa della grave situazione economica in cui versa il Paese, impegnato in una difficile transizione verso un'economia di mercato, e anche per le accuse rivolte al Governo di scarso rispetto verso i diritti dell'opposizione e della minoranza ungherese. Bratislava decise allora di correre ai ripari promuovendo alcune variazioni alla Costituzione, tra cui la decentralizzazione del potere con la creazione di nuovi organismi regionali, il rafforzamento dell'indipendenza della magistratura e il riconoscimento dei diritti delle minoranze etniche. Queste importanti cambiamenti permisero alla Repubblica Slovacca di entrare a far parte, nel dicembre 2001, del gruppo di 10 Paesi che avranno la possibilità di essere ammessi nell'Unione europea a partire dal gennaio 2004.
Anche nella Repubblica Ceca la transizione economica si attuò in maniera difficoltosa. Con l'aggravarsi delle condizioni sociali, l'8 novembre 1997 la popolazione scese in piazza a Praga in un'imponente manifestazione contro il Governo. Nel dicembre il primo ministro Klaus si dimise; il presidente Havel insediò un Governo di centro-destra guidato da Josef Tosovsky. Nel giugno 1998 le elezioni legislative videro la vittoria del Partito socialdemocratico che formò un Governo avente come primo ministro Milos Zeman. Nel 2002, però, il Partito socialdemocratico non riportò una vittoria schiacciante alle elezioni legislative e fu costretto a cercare alleanze al centro e a destra per raggiungere una minima maggioranza parlamentare. Per quanto riguarda la prospettiva internazionale, la Repubblica Ceca entrava ufficialmente a far parte della NATO il 12 marzo 1999 mentre nel dicembre 2001 veniva inclusa nel gruppo di 10 Paesi che avrebbero avuto la possibilità di essere ammessi nell'Unione europea a partire dal gennaio 2004.
Il protagonista della "Primavera di Praga", A. Dubcek

La riunificazione della Germania

Il nuovo corso che investiva i Paesi dell'Est, toccò anche la Germania Orientale: alla fine di ottobre la vecchia leadership di Erich Honecker venne sostituita da quella del riformista Egon Krenz che oltre ad essere il nuovo segretario generale del Partito comunista, diventava anche capo dello Stato (1989).
La situazione si era fatta incandescente: a Berlino, per anni roccaforte del socialismo reale, cominciarono a levarsi richieste sempre più pressanti per una maggiore libertà di espressione, di movimento e per una modificazione del sistema elettorale. Le proteste furono accompagnate da una fuga sempre più consistente di profughi verso la Germania Occidentale.
Di fronte a questa situazione, il nuovo leader Krenz manifestò l'intenzione di avviare riforme in senso democratico: accantonata ogni ipotesi di riunificazione delle due Germanie (ipotesi che preoccupava non solo i leader più conservatori del Partito comunista ma anche il Cremlino), Krenz si limitò a concedere un'amnistia a tutti coloro che nei mesi precedenti erano fuggiti, a garantire libertà di espatrio a quelli che avrebbero voluto lasciare il Paese (nuova legge sui passaporti) e a consentire la partenza verso la Germania Federale dei 4.000 profughi rifugiatisi nell'ambasciata di Bonn a Praga.
La preoccupazione principale di Krenz sembrava quella di arrestare l'emorragia di forze produttive, promettendo cambiamenti per chi fosse rimasto: venne enunciato infatti un programma per la riforma a lungo termine della Costituzione, dell'economia e del sistema scolastico e garantita ai giovani la possibilità di scegliere tra servizio militare o civile.
L'intenzione era quella di dare un nuovo volto al socialismo, di renderlo più attraente, salvaguardando comunque l'identità politica della Germania Democratica. Il problema principale per il nuovo leader era quello di dover fare i conti da una parte con la pressione sempre più insistente delle masse popolari, che credevano in un socialismo dal volto più umano, ma vedevano che le riforme stentavano a partire, e dall'altra con i dirigenti del SED (Partito socialista unitario) arroccati su posizioni conservatrici.
La situazione non migliorò. Le manifestazioni di piazza che invocavano libere elezioni continuavano, così come l'esodo massiccio dei profughi.
Il 9 novembre 1989, in un clima di crescente euforia, venne abbattuto, dopo 28 anni, il Muro fatto erigere nel 1961 dal regime di Walter Ulbricht e il Comitato centrale della SED lasciava piena libertà di espatrio ai propri cittadini. Sempre a novembre, dopo le dimissioni di Krenz per attriti col Parlamento, venne eletto primo ministro Hans Modrow che formò un Governo di coalizione di cui facevano parte anche membri non iscritti ad alcun partito. Nel dicembre venne abolito il ruolo-guida del Partito comunista sancito dal primo articolo della Costituzione, mentre il capo dello Stato, incapace di soddisfare le ansie di rinnovamento della popolazione, fu costretto a dimettersi, sostituito da Manfred Gerlach, presidente del Partito liberale.
Nel 1990, sotto la spinta di un processo ormai giunto al culmine, si compì la storica riunificazione delle due Germanie: nel luglio venne siglato un trattato tra Modrow e Helmut Kohl che sanciva l'abbattimento di ogni barriera economica e sociale tra i due Paesi. Il 31 agosto Kohl e il nuovo primo ministro della Germania Democratica Lothar De Maizière stabilirono le condizioni dell'unificazione tedesca (annessioni dei Länder orientali alla Germania Federale, spostamento della capitale a Berlino), fissandone la celebrazione ufficiale al 3 ottobre 1990. A partire da questa data la Germania Democratica cessò di esistere, essendo di fatto annessa alla Repubblica Federale Tedesca.
Il cancelliere tedesco Helmut Kohl

Il 2 dicembre 1990 si svolsero le prime elezioni nella Germania unita, che sancirono la riconferma al cancellierato di Kolh, leader del Partito cristiano-democratico (CDU), il quale formò un Governo comprendente, tra gli altri, anche personalità della ex Germania dell'Est (De Maiziére, Kreuse). Nel 1991, anno in cui venne votato il trasferimento della sede del Governo e del Parlamento da Bonn a Berlino, emersero i primi problemi economici e sociali conseguenti alla riunificazione, per i quali Kohl fu costretto a venire meno alla promessa elettorale di non aumentare le imposte e istituì un "contributo di solidarietà" a sostegno dell'economia dei Länder orientali. Il Governo dovette inoltre affrontare il problema dell'affermazione di gruppi razzisti e xenofobi, quali il movimento neonazista degli Skinheads, i cui bersagli erano soprattutto gli immigrati asiatici e africani.
Nei primi anni Novanta, a causa del protrarsi di tale situazione, i partiti di Governo persero consensi, nonostante Kohl riuscisse a favorire nel 1994 l'elezione del candidato democristiano Roman Herzog a presidente. Nello stesso anno Kohl, alla guida del Governo tedesco da 12 anni, ottenne la quarta vittoria elettorale consecutiva, anche se di stretta misura. Il programma di Governo si concentrò sugli obiettivi economici di riduzione della spesa pubblica, alleggerimento dell'apparato burocratico statale, allineamento ai parametri di Maastricht e apertura dell'Unione europea ai Paesi dell'Est. D'altro canto le misure di austerità adottate dal Governo per adeguarsi ai parametri di Maastricht, i tagli alla spesa sociale e la disoccupazione crearono nuove tensioni sociali che portarono a nuovi episodi di xenofobia e razzismo contro gli immigrati stranieri.
Il calo di consensi verso la politica del cancelliere Kohl si evidenziò con le elezioni politiche del 27 settembre 1998 che si conclusero con la grande sconfitta dell'Unione cristiano-democratica di Kohl, alla guida della Germania da ben 16 anni, e con la vittoria del Partito socialdemocratico (SPD) di Gerhard Schroeder che raccolse oltre il 41% dei consensi. Il Governo Schroeder, formato da una coalizione di socialdemocratici e verdi, si prefiggeva in particolare gli obiettivi della lotta alla disoccupazione, della continuità nella politica estera, della sicurezza interna. D'altro canto la sfiducia nella politica di rinnovamento di Schroeder provocò un ribaltamento nelle elezioni per il Parlamento europeo del giugno 1999, dalle quali i partiti di Governo uscirono fortemente ridimensionati, mentre il CDU conquistò la maggioranza dei seggi. Nel novembre scoppiò anche in Germania lo scandalo di finanziamenti illeciti ai partiti; nella Tangentopoli tedesca venne, in particolare, coinvolto l'ex cancelliere Kohl che nel gennaio 2000 si vide costretto a dimettersi dalla carica di presidente onorario del CDU. Il mese successivo si dimise anche il suo successore, Schäuble, prontamente sostituito da Angela Merkel. Intanto continuò ad aumentare il pericolo di focolai neo-nazisti (nel solo 2000 gli attacchi di stampo razzista erano aumentati del 40%) e il Governo si vide costretto a rendere illegale il partito Nazional-democratico di estrema destra. Intanto allarmanti dati economici, il più importante dei quali l'aumento della disoccupazione, provocarono la perdita costante dei consensi della coalizione al potere e il conseguente avanzamento dell'opposizione conservatrice, uscita vincente dalle consultazioni elettorali regionali in Sassonia-Anhalt nell'aprile 2002.
Il nuovo cancelliere tedesco Angela Merkel

Romania

In Romania, contrariamente a quanto avvenuto negli altri Paesi dell'Est, il trapasso dal regime comunista ad uno Stato di maggiore democrazia, si compì in modo drammatico, sull'onda di una vasta e violenta rivolta popolare che sfociò in una vera e propria guerra civile con migliaia di morti. La rivolta ebbe inizio nella seconda metà del dicembre 1989 in alcune città del Paese (Bucarest, Timisoara), dove decine di migliaia di persone scesero in piazza per manifestare contro Ceausescu che nel corso degli anni aveva concentrato nelle sue mani tutte le più importanti cariche dello Stato, mantenendo un ferreo controllo sul partito e sul Paese e instaurando il culto della sua personalità. La risposta del regime, immediata e violenta, non fermò però l'insurrezione. Gli avvenimenti si susseguirono con un ritmo rapido e incalzante: il Fronte di salvezza nazionale, costituito da ex leader comunisti in dissenso con Ceausescu, che avevano preso in mano le redini della rivolta, nominarono un Governo provvisorio con a capo Petre Roman. Ceausescu e la moglie Elena vennero arrestati e condannati a morte dopo un sommario processo che li riconobbe colpevoli di vari crimini, tra cui quello di genocidio e di furto di fondi dello Stato (25 dicembre 1989). Alla fine del 1989 venne inoltre eletto presidente della Repubblica Ion Iliescu.
I primi atti del nuovo Governo furono l'impegno a redigere una nuova Costituzione e a indire elezioni libere previste per il 1990. Dopo un mese dalla cosiddetta rivoluzione di Natale il Fronte di salvezza nazionale si spaccò in due, avversato da tre piccoli partiti indipendenti (i cristiano-democratici, i nazional-liberali e i social-democratici) che lo accusarono di voler instaurare una nuova dittatura. Il clima di tensione si accentuò ulteriormente dopo le elezioni del maggio successivo, che videro il netto prevalere del Fronte popolare guidato da Iliescu. Il malcontento popolare tornò ad esplodere nel 1990, allorché la protesta degli studenti venne brutalmente repressa dal Governo mediante l'impiego di ex membri della Securitate, la temibile polizia segreta di Ceausescu. Una nuova ondata di rivolta contro il Fronte di salvezza nazionale si verificò nel 1991, quando la capitale fu presa d'assalto per tre giorni da 10.000 minatori che devastarono il palazzo del Governo. Nuovamente, il Governo soffocò le rivendicazioni sociali ed economiche. Nel 1991 fu approvata la nuova Costituzione; nel 1992 vennero indette elezioni generali che videro la vittoria del Fronte democratico di salvezza nazionale, formazione distaccatasi dal Fronte di salvezza nazionale ad opera di Iliescu, che venne riconfermato a capo della Repubblica. Venne costituito un Governo del Fronte democratico di salvezza nazionale, presieduto da N. Vacaroiu e aperto, dal 1994, a due esponenti del nazionalista Partito dell'unità nazionale. Dopo essere stata ammessa al Consiglio d'Europa nel 1993, la Romania instaurò importanti rapporti diplomatici tra cui quelli con S. Milosevic, presidente della Serbia, considerata da sempre uno degli interlocutori privilegiati della Romania. Sul piano interno, nel 1994 l'economia romena registrò una sensibile ripresa grazie all'incremento della produzione agricola, ad un forte calo dell'inflazione e al deciso aumento delle esportazioni che permise il riassestamento della bilancia commerciale. I progressi economici guadagnarono al Paese un maggior credito presso l'Unione europea e gli Stati Uniti. Nel 1995, la Romania chiese di entrare a far parte dell'Unione europea e del gruppo di Visegrad; pose inoltre le basi per alcuni progetti di collaborazione con i Paesi che si affacciano sul Mar Nero e diede un forte impulso agli investimenti internazionali. Nel 1996 si tennero le elezioni presidenziali, che si conclusero con la vittoria di E. Costantinescu. Capo del Governo venne nominato V. Ciorbea; l'esecutivo da lui presieduto inaugurò una politica di riforme per risollevare l'economia del Paese che prevedeva interventi per accelerare la privatizzazione delle industrie statali, ridurre l'inflazione e aprire ai mercati valutari esteri. Sul fronte internazionale venne sottoscritto un accordo con l'Ungheria per la costituzione di un battaglione comune rumeno-ungherese per il mantenimento della pace. All'accordo seguì la visita del premier Ciorbea in Ungheria (prima visita di un capo del Governo rumeno nel Paese magiaro dal 1989), dove venne sottoscritto un accordo per la creazione di una commissione di vigilanza sull'applicazione del trattato di comprensione, cooperazione e buon vicinato (1996). Il Governo stipulò inoltre un trattato di amicizia con l'Ucraina. Nel 1997 la Romania entrò a far parte del CEFTA, l'accordo di libero scambio dell'Europa centrale tra Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Polonia e Ungheria. Ha dovuto invece rimandare il suo ingresso nella NATO e nella UE a causa della difficile situazione economica: da una parte la liberalizzazione dei prezzi ha determinato un forte aumento della povertà e dall'altra il mancato processo di privatizzazione delle grandi imprese pubbliche, nonché l'inefficienza della burocrazia hanno scoraggiato gli investimenti stranieri con la conseguenza di ritardare la modernizzazione dell'appartato produttivo. Nel 1998 Ciorbea venne sostituito da Radu Vasile dopo importanti tensioni all'interno della coalizione, ma nel dicembre 1999 lo stesso Vasile venne rimpiazzato nella carica di primo ministro da Mugur Isarescu.
Avvenimenti eclatanti del 1999 in Romania furono lo scoppio di nuovi malcontenti tra i minatori (gennaio), che si opponevano alla decisione del Governo di chiudere gli impianti meno redditizi, e la visita di Giovanni Paolo II (aprile), il primo papa a visitare un Paese ortodosso dallo scisma d'Oriente del 1054. Nel dicembre del 2000 Ion Iliescu vinse le elezioni presidenziali battendo di misura il rappresentante della coalizione nazionalista.
Il dittatore Nicolae Ceausescu


Ungheria

Tra i Paesi dell'Est europeo, l'Ungheria è quello dove l'avviato processo di democratizzazione delle strutture politiche trovò più ampio riscontro in un ammodernamento delle strutture economiche.
Nonostante il potere fosse ancora nelle mani dei leader provenienti dal vecchio regime, l'Ungheria manifestò il proposito di stringere relazioni economiche con la Comunità Europea e, all'inizio del novembre 1989, chiese di entrare a far parte dell'Efta (l'associazione europea di libero scambio).
Questa maggiore apertura verso l'Occidente, era la conseguenza di quanto avvenuto ai vertici del potere nel corso del 1989. Il vecchio Partito comunista ungherese, il POSU, sollecitato dal clima della perestrojka gorbacioviana, si ristrutturò in Partito socialista ungherese e il nuovo ministro di Stato Imre Pozsgay tentò di recuperare il terreno perduto e di mettersi al passo con l'Occidente, favorendo l'iniziativa privata e l'introduzione delle leggi di mercato.
L'intenzione di aprirsi non solo sul piano economico ma anche su quello politico, venne testimoniato dal fatto che il Parlamento ungherese accolse la proposta di quattro referendum presentati dalle opposizioni (sull'elezione del capo dello Stato, sullo scioglimento della milizia operaia, sulla revisione pubblica del patrimonio del vecchio Partito comunista, sulla presenza del nuovo Partito socialista sui posti di lavoro).
L'esito positivo del referendum accelerò la caduta del regime comunista, culminato con le elezioni dell'Assemblea nazionale (1990) che sancirono l'avvento al Governo del Forum Democratico (MDF). Nello stesso anno venne eletto presidente della Repubblica il liberal-democratico Arpad Goencz. In politica estera si registrò lo storico abbattimento della "cortina di ferro", che per più di quaranta anni aveva diviso la Nazione dall'Occidente. L'Ungheria divenne membro dell'ONU, della CSCE e del Consiglio d'Europa. Le prime elezioni sindacali, tenutesi nel 1993, e quelle politiche del 1994 sancirono il successo degli ex comunisti. Il Governo socialista, con l'avvio della transizione verso un'economia di mercato e dell'integrazione con i sistemi dell'Europa occidentale, conseguì buoni risultati economici. D'altro canto i sacrifici imposti dalle riforme costarono ai socialisti la sconfitta nelle elezioni legislative del maggio 1998 che videro la vittoria a sorpresa del Fidesz, un partito di centro-destra, che portò a capo del Governo Viktor Orbán. Il 12 marzo 1999 l'Ungheria entrava a far parte della NATO. Nel febbraio 2000 anche il Tisza, il secondo fiume ungherese, venne coinvolto nella fuoriuscita di materiale tossico da una miniera in Romania e il Paese chiese immediatamente un intervento internazionale per arginare il propagarsi della contaminazione. Nel mese di agosto Ferenc Madl venne eletto presidente della Repubblica: l'anno seguente il Paese fu ammesso nella lista dei 10 che avranno la possibilità di entrare nell'Unione europea a partire dal 2004. Nell'aprile 2002 i socialisti, guidati da Peter Medgyessy, riportarono una vittoria di misura alle elezioni legislative battendo i candidati del centro-destra al Governo.

Albania

Alla fine del 1990 il vento liberalizzatore, che fin dall'anno prima aveva travolto i regimi comunisti dell'Est europeo, investì anche Tirana. Pressato dalla protesta popolare, il Governo di Ramiz Alia fu costretto a tollerare l'abbattimento delle statue di Stalin e di Henver Hoxha e a estromettere dalla maggioranza governativa l'ala staliniana.
Dal Paese, ormai ridotto alla fame, cominciò così un disordinato esodo. Migliaia di cittadini, attratti dal miraggio dei vicini Paesi capitalisti, si rifugiarono così in Italia e in Grecia.
Le prime elezioni libere (1991) furono vinte a sorpresa dal rinnovato Partito comunista, che venne però accusato di brogli elettorali dall'opposizione. Nel giugno 1991 Ramiz Alia varò un Governo di unità nazionale di cui faceva parte anche l'opposizione.
L'anno seguente nuove elezioni segnarono la vittoria delle opposizioni, guidate dal primo ministro Ylli Bufi. Nonostante i mutamenti in ambito politico, la situazione sociale non subì miglioramenti evidenti: le precarie condizioni della popolazione raggiungevano livelli allarmanti e il malcontento generale sfociò in un incremento di tentativi di fuga dal Paese. Il fenomeno dell'emigrazione clandestina suscitò non pochi problemi anche sul piano dei rapporti internazionali, costringendo il Governo albanese a prendere seri provvedimenti per cercare di arginare l'esodo incontrollato. Le elezioni del marzo 1992, con la vittoria del Partito democratico, sancirono la fine del regime comunista. A distanza di qualche mese Sali Berisha successe a Ramiz Alia (in carica dalla fine del 1982).
L'Albania post-comunista è caratterizzata da un quadro politico instabile e da un'economia che stenta a decollare. Nel maggio 1996 si aprì la più grave crisi politica dalla caduta del regime comunista: durante le operazioni di voto per le elezioni politiche, i partiti dell'opposizione (tra cui quello ex comunista) dopo aver denunciato un grave clima di violenze e brogli, si ritirarono dalle competizioni, mentre il partito di Berisha, il Partito democratico (PD), si proclamava vincitore. La situazione precipitò nel 1997 con il fallimento delle società finanziarie in cui gran parte dei cittadini aveva investito i risparmi. Tale situazione delegittimò ulteriormente il presidente Berisha, mentre il fronte antigovernativo chiedeva le sue dimissioni. Accanto al motivo economico e a quello politico, la ribellione fu fomentata anche dalle profonde divisioni esistenti tra Nord, fedele a Berisha, e Sud, dove si verificarono numerosi scontri tra manifestanti e polizia. Le elezioni legislative di giugno decretarono la vittoria del Partito socialista (PS) e Fatos Nano assunse la carica di primo ministro, fatto che costrinse Berisha a rassegnare le dimissioni da capo dello Stato, sostituito da Rexhep Mejdani. A partire da luglio i deputati del partito di Berisha cominciarono a boicottare il Parlamento, non perdendo occasione per fomentare la violenza nelle piazze, allo scopo di screditare il Governo di Nano e destabilizzare il Paese. Ad acuire il caos interno si aggiunse anche la difficile situazione del vicino Kosovo (la regione jugoslava a maggioranza albanese) che Berisha cercò di sfruttare sostenendo le posizioni indipendentiste dei guerriglieri dell'esercito di liberazione del Kosovo (UCK).
L'uccisione, avvenuta il 13 settembre 1998, di Azem Hajdani, deputato del PD e braccio destro di Berisha, offrì l'occasione a quest'ultimo per cercare di riportare il suo partito al Governo. Dopo aver accusato il PS di aver ordinato l'uccisione di Hajdani (la polizia sosteneva invece che fosse stato ucciso per una vendetta privata; erano note del resto le sue frequentazioni malavitose), i sostenitori del PD diedero inizio a una vera e propria insurrezione armata a Tirana, occupando gli edifici pubblici, le sedi del Parlamento, del Governo e della televisione pubblica. Il tentativo di golpe rientrò sia grazie all'intervento delle forze di sicurezza, sia alla mediazione di Europa, Stati Uniti e OSCE. Il Parlamento votò poi (18 settembre) la revoca dell'immunità parlamentare a Berisha, aprendo la strada all'incriminazione per insurrezione armata. Tuttavia, su pressione dell'Occidente, e dell'Italia in particolare, alla revoca dell'immunità non fece seguito l'incriminazione del leader del PD. Fatos Nano, a sua volta, indebolito dal tentativo di golpe e dai non pochi episodi di corruzione tra le fila del Governo, rassegnò le dimissioni. Subito dopo (29 settembre) il presidente Mejdani diede l'incarico di formare il nuovo Governo a Pandeli Majko. Il nuovo premier individuò nella questione del Kosovo e nell'approvazione di una nuova Costituzione le immediate priorità dell'esecutivo.
Durante la guerra nel Kosovo, molti profughi che sfuggivano alla pulizia etnica perpetrata dall'esercito jugoslavo, si rifugiarono in Albania. In suo aiuto si prodigarono molti Paesi e organizzazioni internazionali (l'Italia lanciò il 29 marzo la discussa missione Arcobaleno). L'11 aprile 1999 l'Albania concesse alla NATO l'uso esclusivo del suo spazio aereo e dei suoi porti. Il 18 aprile la Jugoslavia ruppe i rapporti diplomatici con l'Albania, mentre lungo il confine tra i due Stati si verificavano scontri a fuoco. Dopo la fine della guerra (giugno 1999), nonostante il rientro in Kosovo di gran parte dei profughi, l'Albania rimase in uno stato di profonda prostrazione. Nell'ottobre del 1999 Majko si dimise dalla carica di primo ministro, sostituito dal trentenne Iler Meta che divenne il più giovane capo di Governo d'Europa. Nel 2001 Albania e Jugoslavia ristabilirono relazioni diplomatiche dopo la rottura protrattasi dalla crisi in Kosovo del 1999. Nel luglio dello stesso anno il Partito socialista al Governo vinse le elezioni generali e Meta venne riconfermato alla carica di primo ministro. Pochi mesi dopo, a causa di gravi incomprensioni con il leader socialista Fatos Nano, fu costretto a dimettersi per venire sostituito, nel febbraio 2002, dall'ex premier Pandeli Majko.

LA DISINTEGRAZIONE DELLA JUGOSLAVIA

Anche la Jugoslavia, sebbene con un po' di ritardo rispetto agli avvenimenti dell'Europa orientale, venne colpita dal vento di rinnovamento portato dalla perestrojka. Nel 1990 il Partito comunista della Slovenia abbandonò la Lega nazionale dei comunisti che si sciolse dopo aver bandito libere elezioni: in Slovenia e Croazia i partiti di ispirazione comunista furono sconfitti, mentre la popolazione palesò con un referendum la volontà di completa autonomia rispetto al Governo federale (dicembre 1990). Poco dopo anche la Bosnia proclamò la propria sovranità, mentre le prime elezioni libere serbe premiarono lo sciovinismo e il nazionalismo Milosevic, già presidente della Serbia dal 1989. Vojvodina e Kosovo vennero privati di ogni autonomia e le autorità serbe repressero nel sangue le proteste di quest'ultima regione.
Dopo mesi di disordini sanguinosi il 25 giugno 1991 il Parlamento sloveno e quello croato proclamarono quasi contemporaneamente l'indipendenza delle due Repubbliche. La reazione dell'esercito federale, allineato sulle posizioni della Serbia, non si fece attendere ma esso andò incontro a una sconfitta in Slovenia, la cui indipendenza venne riconosciuta in luglio dagli accordi di Brioni. In Croazia, invece, la comunità serba insorse e, appoggiata dalle forze armate serbo-federali, si impadronì di ampi territori. L'intervento della CEE, restia a riconoscere l'indipendenza della due Repubbliche, servì se non altro a far sedere i contendenti al tavolo di una conferenza di pace organizzata all'Aja nel settembre 1991. In ottobre anche Macedonia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo proclamarono l'indipendenza, ponendo virtualmente fine alla federazione jugoslava.
Nel gennaio 1992 la Comunità Europea riconobbe ufficialmente le Repubbliche indipendenti di Slovenia e Croazia. Il Governo di Belgrado, trovatosi così isolato, il 27 aprile procedette alla costituzione della nuova Repubblica federale di cui facevano parte le Repubbliche di Serbia (con le regioni del Kosovo e della Vojvodina) e di Montenegro. La guerra civile nelle Repubbliche ex jugoslave però continuò e anzi si intensificò, estendendosi alla Bosnia-Erzegovina dove scoppiarono gravi disordini tra la maggioranza musulmana , autonomista, e la minoranza serba della popolazione che mirava ad impadronirsi delle regioni da essa abitate, in vista di una futura annessione di queste alla Serbia.

Tre anni di guerra in Bosnia

La guerra totale in atto tra Serbi, Croati e Bosniaci trasformò la Bosnia in un teatro di scontri senza quartiere, che le pur numerose trattative di pace, condotte grazie alla mediazione di diplomatici occidentali, non riuscirono a bloccare. A complicare la situazione contribuì anche la pluralità degli interlocutori all'interno dello stesso fronte genericamente etichettato come "serbo": c'era la voce della Serbia, quello Slobodan Milosevic che aveva messo in moto la guerra jugoslava, e, non sempre su posizioni di pieno accordo, quella del leader serbo-bosniaco Radovan Karadzic, con il suo generale cetnico Ratko Mladic.
La Serbia di Milosevic, nonostante le pesanti sanzioni economiche da parte dei Paesi europei, continuò la sua offensiva contro la Bosnia-Erzegovina, ponendo l'assedio alla città di Sarajevo (dal 1993 sotto la protezione ONU) e procedendo con la pulizia etnica nei territori abitati dai musulmani. L'avanzata serbo-bosniaca interessò così il centro e soprattutto la regione nordorientale del Paese, con il ripetitivo copione dell'accerchiamento da parte delle forze serbe delle enclaves musulmane che, sfinite dall'assedio e bombardate, venivano conquistate senza risparmio di civili. Prima fu la volta di Srebrenica, poi di Maglaj, Goradzee infine di Brcko e di Tuzla, violate nonostante fossero sotto la protezione ONU. Emblematica la tragedia consumatasi nella sacca di Bihac, stretta d'assedio e bombardata dai Serbi. Vuoi per la vicinanza al cuore dell'Europa, vuoi per l'atrocità delle strategie impiegate (si ricorse persino ai bombardamenti al napalm che non si ricordavano dai tempi del Vietnam), l'agonia di questa città si è impressa nella mente della comunità internazionale, tanto da diventare, con Sarajevo, l'immagine-simbolo della guerra jugoslava.
Nella primavera del 1994, nell'impossibilità di giungere ad un accordo di pace, fu deciso il primo intervento di aerei NATO nei cieli della Bosnia. Sul versante diplomatico gli sforzi per la pace portarono ad una svolta con la firma dell'accordo croato-musulmano in cui fu rilevante la mediazione statunitense. Con una solenne cerimonia alla Casa Bianca il 18 marzo 1994 nacque la Federazione croato-musulmana di Bosnia, sottoscritta dal presidente della Bosnia Alija Izetbegovic e da quello della Croazia Franjo Tudjman. IL 1994 segnò un deciso rivolgimento delle sorti, con il prevalere sempre più netto dei musulmani di Bosnia sulle milizie serbo-bosniache.
Mentre l'Unione europea scompariva dalla scena diplomatica, seguita in giugno dall'ONU, che lasciava le trattative al neonato "Gruppo di Contatto" (Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania), quest'ultimo approntò nel gennaio 1995 il sofferto piano di pace da offrire come ultimatum alle parti. Tale piano, che prevedeva l'assegnazione del 51% del territorio alla Federazione croato-musulmana e il restante 49% ai Serbo-bosniaci, incontrò il favore di Izetbegovic, mentre fu accettato con riserva dal leader serbo-bosniaco Karadzic le cui milizie non cessarono le azioni militari nell'enclave musulmana di Bihac. A maggio con l'intervento della Croazia, impegnata nella riconquista della Kraijna (regione croata a popolazione serba che in un referendum del giugno 1993 aveva deciso per l'annessione alla Serbia e che si trovava ufficialmente sotto la protezione dell'ONU) e nella creazione di un asse croato-bosniaco in funzione antiserba, il conflitto conobbe un nuovo inasprimento. La situazione precipitò ulteriormente quando il 28 agosto i mortai serbi spararono su un mercato di Sarajevo facendo strage di civili. A questo punto la NATO intensificò l'offensiva aerea, ma nonostante questo i Serbi continuarono a rispondere agli attacchi bombardando ripetutamente Sarajevo. Sul piano diplomatico, mentre il presidente russo Eltsin condannò duramente gli attacchi della NATO, il mediatore statunitense Richard Holbrooke si incontrò a Ginevra (8 settembre) con i ministri degli Esteri delle tre Nazioni in guerra. Si giunse così ad un accordo di pace e al conseguente ritiro delle truppe serbo-bosniache da Sarajevo. La conclusione del conflitto bosniaco fu decretata dalla firma degli accordi di Dayton (14 dicembre 1995) che, tuttavia, ottennero un equilibrio piuttosto instabile e precario. Tali accordi prevedevano infatti la divisione della Bosnia in due entità dotate ciascuna di un proprio Governo, ma costituenti lo Stato unitario della Bosnia-Erzegovina, avente come capitale la città di Sarajevo: la Federazione croato-musulmana, con il 51% del territorio, e la Repubblica serba di Bosnia, con il 49%. Ad uscire sconfitta fu proprio la Bosnia multietnica, mentre vittoriosi risultarono i due grandi nazionalismi, quello serbo e quello croato, pronti a riesplodere allo scopo di realizzare il loro sogno di una Grande Serbia e di una Grande Croazia.
Carri armati in Bosnia

La crisi del Kosovo

Il problema del Kosovo ha radici lontane. Questa provincia della Serbia, abitata in maggioranza da albanesi (90% della popolazione), ha sempre goduto, durante il regime comunista di Tito, di una larga autonomia: ai cittadini di etnia albanese erano riservati i posti di comando, mentre la minoranza serba viveva in uno stato di soggezione. Nel 1989, durante la lunga guerra che portò allo smembramento di quella che era un tempo la Jugoslavia e alla costituzione della nuova Federazione jugoslava di Serbia e Montenegro, il Kosovo si vide revocare dal presidente federale, il serbo Slobodan Milosevic, l'autonomia da Belgrado: questa misura si inseriva in un più vasto progetto di "integrazione etnica" (o meglio, di affermazione della supremazia etnica serba) avente lo scopo di rassicurare l'opinione pubblica sul fatto che il regime non avrebbe consentito ad una condizione subalterna dei Serbi.
Ne nacquero, fin dall'inizio degli anni Novanta, violenti scontri tra forze dell'ordine (serbe) ed Esercito di liberazione del Kosovo (UCK); col tempo apparve sempre più evidente che i dirigenti albanesi, anche contro il parere delle grandi potenze, non puntavano più alla semplice autonomia, ma rivendicavano la piena indipendenza da Belgrado, tanto da eleggere un proprio Parlamento (1992) e un presidente, Ibrahim Rugova, per l'autoproclamata Repubblica del Kosovo. I Serbi, dal canto loro, per risolvere il problema fecero ricorso, anche in questo caso, al triste copione della "pulizia etnica", mettendo in atto una sistematica repressione generalizzata contro la popolazione albanese del Kosovo, che, iniziata nel febbraio del 1998, proseguì tra il giugno e il settembre dello stesso anno.
Con l'acuirsi degli scontri, sull'onda delle migliaia di morti e per timore dell'esplosiva polveriera che dai Balcani minacciava di sconvolgere anche l'Occidente (se non altro per il massiccio afflusso di profughi che ogni giorno si riversavano sulle coste italiane, per poi proseguire il viaggio verso il resto dell'Europa), la comunità internazionale decise di intervenire. Il mediatore americano Richard Holbrooke aprì una difficilissima trattativa su due fronti: da un lato con il "duro" Milosevic, che, pur di non fare concessioni agli albanesi, si era rifiutato persino di applicare l'accordo sottoscritto nel settembre 1996 con Rugova, che prevedeva il ritorno nelle scuole statali degli studenti albanesi, dopo sei anni di boicottaggio; dall'altro con lo stesso Rugova e con l'UCK, nel tentativo di convincerli ad abbandonare l'obiettivo dell'indipendenza politica dalla Serbia, accontentandosi dello status di provincia autonoma all'interno della Serbia stessa.
Con le due parti Holbrooke discusse di un'eventuale forza internazionale di pace da schierare nel Kosovo, ma Milosevic, considerando il problema kosovaro una questione interna di ordine pubblico, si oppose a una presenza internazionale di controllo militare.
Di fronte al proseguire, da parte dei militari serbi, della politica di pulizia etnica e di feroce repressione della popolazione albanese del Kosovo, cominciò a farsi strada l'ipotesi di un intervento armato della NATO per fermare le violenze e costringere Milosevic (ma anche i dirigenti dell'UCK) al dialogo.
La minaccia delle armi sembrava sortire l'effetto sperato: nell'ottobre 1998 si aprì un tavolo di trattativa durante il quale Holbrooke raggiunse un accordo in tre punti col presidente serbo Milosevic: 1) creazione di una missione di 2.000 persone che, sotto l'egida dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), con il compito di verificare il rispetto della risoluzione 1199 dell'ONU (ritiro delle truppe speciali jugoslave, cessazione delle violenze contro la popolazione civile); 2) elaborazione di un programma di ricognizioni aeree da parte della NATO (e forse della Russia); 3) ricerca di una soluzione politica per il problema del Kosovo. Tale accordo tuttavia non divenne mai esecutivo.

La guerra del Kosovo

Il piano proposto da Holbrooke per giungere a una soluzione pacifica della questione kosovara, fallì; le trattative non fecero alcun passo in avanti e le parti finirono per irrigidirsi nelle rispettive posizioni: da un lato, lo stesso "presidente" Rugova si rifiutò di avviare trattative con Belgrado e gli altri leader kosovari si opposero a qualunque accordo che non avesse come sbocco finale l'indipendenza; dall'altro Milosevic, pur ribadendo la disponibilità a concedere l'autonomia all'interno della Serbia, non fece che proseguire nel suo disegno di pulizia etnica della regione. La situazione precipitò rapidamente: l'UCK violò più volte la tregua proclamata in ottobre occupando diverse zone lasciate libere dalle forze serbe, mentre si verificarono scontri e rappresaglie da entrambe le parti.
Di fronte all'incalzare del conflitto e all'intensificarsi della pulizia etnica, il Gruppo di contatto riunì a Rambouillet (presso Parigi) i rappresentanti della Serbia e le principali formazioni albanesi, compreso l'UCK, per cercare una soluzione politica alla crisi (6 febbraio 1999). Contemporaneamente la NATO autorizzò il segretario generale Javier Solana a dare il via agli attacchi aerei contro le forze serbe qualora Milosevic non avesse accettato il piano di pace elaborato a Rambouillet. Tale piano, che prevedeva una sostanziale autonomia per il Kosovo, venne accettato dagli albanesi, ma non dai Serbi, contrari alla presenza di una forza della NATO sul loro territorio. Il negoziato si concluse quindi il 18 marzo con un nulla di fatto.
Falliti tutti gli sforzi per arrivare a una soluzione negoziata della crisi, la NATO cominciò a bombardare la Serbia: l'attacco (ovvero la cosiddetta operazione Allied Force) prese il via la sera del 24 marzo 1999, suscitando non poche perplessità nell'opinione pubblica internazionale riguardo alla sua opportunità e legittimità, dal momento che era la prima volta che la NATO decideva di intervenire contro uno Stato sovrano, per di più senza un'autorizzazione esplicita del Consiglio di Sicurezza. I cacciabombardieri decollavano dalle basi NATO italiane, britanniche e tedesche per colpire inizialmente le postazioni antiaeree jugoslave e gli obiettivi militari a Belgrado, Podgorica e Pristina. Dopo aver dichiarato lo stato di guerra, le autorità di Belgrado chiusero la radio indipendente B92 ed espulsero i giornalisti dei Paesi della NATO (ad eccezione di quelli italiani). Due gli obiettivi dichiarati all'inizio dell'attacco dai rappresentanti dell'Alleanza Atlantica: bloccare la pulizia etnica e costringere il presidente jugoslavo Milosevic a sottoscrivere l'accordo di pace, ripristinando l'autonomia del Kosovo e consentendo il ritorno dei profughi. Lungi dal dissuadere Milosevic dal perseguire i suoi obiettivi, i bombardamenti inasprirono ulteriormente la rappresaglia del regime serbo contro gli albanesi, causando un esodo di dimensioni enormi (si parla di circa 1 milione di profughi) verso i confini della Macedonia, del Montenegro, della Bosnia-Erzegovina e dell'Albania, dove vennero istituiti dei campi profughi. Pochi giorni dopo l'inizio dell'attacco, la NATO giudicò inaccettabile la proposta del presidente jugoslavo di un ritiro parziale delle forze serbe dal Kosovo in cambio della cessazione dei bombardamenti, proseguendo così i raid. Contrariamente alle aspettative, i bombardamenti non sortirono altro effetto che quello di rafforzare all'interno della Serbia la posizione di Milosevic. Sul campo, le operazioni di pulizia etnica, testimoniate dai profughi, si susseguivano. Oltre a distruggere a poco a poco città e villaggi, saccheggiati e dati alle fiamme, i Serbi ne bruciarono sistematicamente gli archivi di Stato, in modo da impedire ai profughi di fare ritorno nelle loro terre. Mentre fallivano ad uno ad uno i tentativi di mediazione (tra cui quelli del Vaticano, della Russia, del segretario generale dell'ONU Kofi Annan e del patriarca di Mosca Aleksej II), gli attacchi aerei proseguivano a ritmo serrato, colpendo anche il centro di Belgrado e distruggendo caserme, ponti, fabbriche, raffinerie, impianti petrolchimici e ospedali, senza contare i missili che per errore centrarono obiettivi civili. In più di un'occasione si temette che il conflitto potesse estendersi all'Albania, dal momento che le forze serbe ne avevano ripetutamente bombardato la zona settentrionale, ritenuta storicamente la principale retrovia dell'UCK. Con il passare dei giorni, vista l'impossibilità di fermare i Serbi con i bombardamenti, si cominciò a parlare di un eventuale intervento di truppe di terra, assolutamente osteggiato dalla Russia. A tre settimane dall'avvio dell'operazione Allied Force il bilancio era tutt'altro che incoraggiante: fallito l'obiettivo di arginare la pulizia etnica del Kosovo, l'accelerazione dell'esodo in massa, unito all'incapacità di fronteggiare adeguatamente l'emergenza umanitaria, aveva rafforzato nell'opinione pubblica la convinzione che la crisi si fosse aggravata. Nel frattempo i missili NATO colpivano una delle residenze del presidente Milosevic a Belgrado e la sede della Radiotelevisione serba, inserita negli obiettivi strategici in quanto "strumento della propaganda di regime", mentre i profughi che arrivavano nei campi di Blace (Macedonia) e Kukes (Albania) denunciavano omicidi e stupri di massa nei villaggi di Hallac Ivogel, Ribar Ivogel, Slavi e Dragacina e l'esistenza di fosse comuni. Alla fine di aprile fu abbattuto l'ultimo ponte sul Danubio di Novi Sad e il Nord della Serbia rimase isolato dal Sud (26 aprile). Ai primi di maggio il presidente Ibrahim Rugova si incontrò a Roma con i rappresentanti del Governo italiano e chiese il ritiro delle forze serbe, nonché il dispiegamento di una forza di pace che comprendesse la NATO, per sorvegliare il ritorno dei profughi. Allo stesso tempo, i ministri degli Esteri del G8 (i Sette Paesi più industrializzati e la Russia), riuniti a Bonn, proposero un piano di pace che, in cambio dell'immediata cessazione dei raid aerei, prevedeva l'autonomia per il Kosovo, l'arrivo di una forza militare internazionale e il disarmo dei gruppi paramilitari compreso l'UCK, punto questo respinto proprio dal movimento indipendentista kosovaro. Con il passare dei giorni aumentarono i bombardamenti giornalieri e, man mano che si ampliava la lista degli obiettivi, anche gli "errori di tiro": l'8 maggio, durante uno dei bombardamenti più violenti del conflitto, fu colpita l'ambasciata della Cina a Belgrado. Pechino accusò la NATO di crimini di guerra, aprendo una crisi diplomatica. Inoltre, si andavano intensificando gli scontri al confine con l'Albania, mentre le forze serbe si servivano dei civili kosovari come "scudi umani" spostandoli nei pressi delle installazioni militari.
Parallelamente ai bombardamenti si susseguivano tentativi per raggiungere una soluzione diplomatica alla crisi. In tal senso svolsero un ruolo decisivo il mediatore russo Viktor Cernomyrdin e il presidente finlandese Ahtisaari. A metà maggio cominciò a circolare la voce che Milosevic sarebbe stato disposto ad accettare, a determinate condizioni, la presenza di una forza internazionale in Kosovo. A questo punto il primo ministro italiano Massimo D'Alema propose la sospensione dei bombardamenti a patto che Russia e Cina approvassero al Consiglio di Sicurezza una risoluzione per imporre a Milosevic il piano di pace messo a punto dal G8: qualora il presidente jugoslavo lo avesse respinto, sarebbe partito l'attacco di terra. Dopo il vertice di Bari del 17 maggio tra D'Alema e Schroeder, Rugova prese parte al Consiglio dei ministri degli Esteri dell'Ue insieme al ministro degli Esteri russo Ivanov e al presidente montenegrino Djukanovic. Cominciò così a delinearsi la possibilità di una soluzione diplomatica.
Il 27 maggio il procuratore capo del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, Louise Arbour, incriminò il presidente Milosevic per crimini contro l'umanità e crimini di guerra. La messa in stato di accusa di Milosevic fu stata accolta con soddisfazione dall'opinione pubblica internazionale, anche se sollevò perplessità sull'ammissione di un criminale di guerra al tavolo delle trattative di pace. Nell'ultima fase del conflitto la NATO bombardò alcune centrali elettriche, lasciando Belgrado e la maggior parte del Paese al buio per diversi giorni. Il 28 maggio Viktor Cernomyrdin incontrò Milosevic che si era detto disponibile ad accettare il piano proposto dal G8, concernente la fine delle violenze in Kosovo, il ritiro delle forze serbe dalla provincia, il rientro dei profughi, il dispiegamento di una forza di interposizione e un'amministrazione transitoria. In attesa della firma definitiva dell'accordo da parte del presidente Milosevic, i bombardamenti però non si fermarono. Infine al settantaduesimo giorno di bombardamenti Belgrado cedette: il 3 giugno il Parlamento serbo votò a favore del piano di pace; anche Milosevic dichiarò di accettare il piano, che veniva invece respinto dal Partito radicale serbo del vice-primo ministro ultranazionalista Seselj.
In un primo tempo gli Jugoslavi non sottoscrissero il piano NATO, ribadendo di non volere truppe occidentali in Kosovo e sostenendo di non aver abbastanza tempo per ritirarsi e di temere ritorsioni da parte dell'UCK. Nel frattempo, l'8 giugno a Colonia i Paesi del G8 misero a punto un progetto di risoluzione che venne sottoposto al voto del Consiglio di sicurezza dell'ONU. La nuova proposta, articolata in 21 punti, ricalcava nella sostanza quella già accettata dal Parlamento serbo e prevedeva il dispiegamento di una forza internazionale in Kosovo (KFOR), il ritiro delle forze serbe e l'avvio di un'amministrazione civile per la provincia. Pur non contenendo alcun riferimento specifico alla NATO, la risoluzione autorizzò "gli Stati membri a stabilire la presenza internazionale di sicurezza in Kosovo", delegando di fatto all'Alleanza atlantica e alla Russia la formazione della KFOR. In particolare venne previsto che la provincia dovesse essere divisa in cinque zone militari poste sotto la responsabilità di Gran Bretagna, Francia, Germania, Stati Uniti e Italia. Per quanto riguardava la Russia, pur non essendole stato affidato un settore specifico, ne era stata prevista la sua presenza in forze. Il piano del G8 ribadì la volontà di assicurare il ritorno dei profughi e, pur prevedendo un'ampia autonomia per il Kosovo, riconobbe la sovranità e l'integrità territoriale della Federazione jugoslava. Gli accordi militari si conclusero infine con la sottoscrizione del piano di ritiro da parte delle forze jugoslave (9 giugno), che prevedeva entro 11 giorni la liberazione da parte dei Serbi di tutto il Kosovo e l'ingresso entro 24 ore della NATO nella provincia (prima gli europei, poi i marines). Infine il 10 giugno, subito dopo l'annuncio ufficiale da parte della NATO della sospensione dei bombardamenti, il Consiglio di sicurezza dell'ONU approvò la risoluzione contenente il piano di pace elaborato dal G8.
Il 12 giugno 1999 le truppe NATO entravano in Kosovo, divenuto di fatto un protettorato internazionale amministrato da ONU, Unione europea e OSCE. La minoranza serba, minacciata dalle vendette albanesi, che non avrebbero tardato a verificarsi, lasciava a sua volta il Kosovo.

La fine di Milosevic

Il 24 settembre 2000 si tennero le elezioni presidenziali in Jugoslavia, alle quali non poterono partecipare osservatori internazionali perché rifiutati da Milosevic. Il giorno seguente l'opposizione proclamò la sua vittoria, ma la commissione federale elettorale decise per il ballottaggio. Imponenti manifestazioni di piazza, coinvolgenti ampi strati della popolazione (minatori, operai, studenti) si conclusero il 5 ottobre con l'incruenta ma decisa, occupazione del palazzo del Parlamento e della televisione di Stato. Il giorno seguente la Russia riconobbe ufficialmente Vojislav Kostunica quale nuovo e legittimo presidente della Jugoslavia e il 1° novembre la Jugoslavia entrò a far parte dell'ONU. Il 1° aprile 2001 Slobodan Milosevic venne arrestato e il 28 giugno dello stesso anno estradato all'Aja per essere giudicato da un tribunale internazionale per crimini contro l'umanità, in particolare in riferimento alle atrocità perpetrate in Kosovo (1999), in Croazia (1991-1992) e in Bosnia-Erzegovina (1992-1995). L'ex presidente jugoslavo doveva rispondere ai capi di accusa sui massacri e le torture in Croazia, il tentato genocidio in Bosnia, i pogrom del Kosovo. Il processo, aperto davanti alla Corte internazionale dell'Aja nel febbraio 2002, fu interrrotto nel marzo 2006 a seguito della morte di Milosevic nella prigione del tribunale internazionale all'Aja.
L'ex premier serbo Slobodan Milosevic


LA GUERRA CECENA

Nell'ex impero sovietico si aprì un nuovo fronte di guerra con il popolo ceceno, uno dei più antichi del Caucaso, a maggioranza musulmana sunnita, che nonostante l'esiguità numerica - poco più di un milione - aveva dimostrato nel passato di essere all'occorrenza un avversario tenace, martire tra l'altro nelle deportazioni di Stalin nel 1944. Crocevia tra Oriente e Occidente, la Cecenia da sempre fu epicentro di tensioni per motivi sia strategici sia economici per via del petrolio: a questi si aggiunsero le aspirazioni nazionaliste, gli odi etnici e religiosi che infervorarono nuovamente la "polveriera" del Caucaso. La storia recente ricorda come data decisiva il 1° novembre 1991 quando il Paese dichiarò la propria indipendenza (85% dei voti) dalla Federazione Russa, proclamando suo presidente Dzhokhar Dudaev.
Il problema ceceno rimase irrisolto fino al dicembre 1994, quando il Governo di Mosca decise di ristabilire con la forza la propria autorità nella Repubblica ribelle. Così le truppe russe entrarono in Cecenia l'11 dicembre. Nelle previsioni russe la presa di Grozny, la capitale cecena, doveva risolversi nel giro di pochi giorni. Non si era però tenuto conto di Grozny "la terribile" (il nome della città in russo significa appunto "terribile") cioè, fuor di metafora, della resistenza della popolazione civile, della forza bellica della guerriglia cecena (armata persino di batterie di razzi Grad), né del sostanziale sbando tattico dell'esercito russo, tre elementi che trasformarono la strategia e soprattutto i tempi dell'intervento.
Gli scontri sanguinosi con perdite da entrambe le parti si ebbero prima nei singoli villaggi, in quella regione montuosa propizia alle imboscate, poi via via sempre più vicino alla capitale, per entrare in città il 22 dicembre. Intanto a Mosca era cresciuto il dissenso e le madri dei soldati al fronte erano sfilate in cortei di protesta nella Piazza Rossa rivendicando l'estraneità dei militari di leva a questo conflitto, poco sentito dalla stessa opinione pubblica russa, mal preparato e che minacciava di tramutarsi in un "nuovo Afghanistan".
L'assalto russo al palazzo presidenziale a Grozny risale al 19 gennaio 1995, ma tale azione militare non impose un ePILogo al conflitto. Dalla città la guerra si spostò nelle zone montuose a Sud del Paese. In aprile vi furono dei massacri nei villaggi di Samashki e di Bamut (a 60 km a Sud-Est della capitale), roccaforte della resistenza cecena. Quotidianamente si registravano scontri tra truppe russe e separatisti ceceni e, in occasione delle elezioni presidenziali e legislative di dicembre imposte alla Cecenia dal Cremlino, il conflitto si inasprì per le continue offensive dei ribelli che conquistavano Gudermes, seconda città per importanza dopo Grozny e Urus-Martan (15 dicembre 1995).
Diverse organizzazioni internazionali denunciarono la sistematica violazione dei diritti umani da parte delle armate russe, ma il braccio di ferro continuò, mentre i morti si contavano a decine di migliaia. Per i generali e per lo stesso presidente russo Eltsin si trattava di non creare pericolosi precedenti secessionisti, per i patrioti ceceni si trattava di non far cadere la causa indipendentista: l'arroccarsi su posizioni così radicali allontanava il dialogo di pace tra le parti, alimentando una guerra che si annunciava sempre più di logoramento e con scarsi margini per le trattative diplomatiche.
Il conflitto ceceno entrò così nel secondo anno, senza che si intravedessero segnali di una sua conclusione. Per indurre la Russia a ritirare le sue truppe, ai primi di gennaio 1996 i guerriglieri ceceni penetrarono nel vicino Daghestan, fuggendo con quasi duecento ostaggi. Pochi giorni dopo sequestrarono una nave in Turchia con altri ostaggi. Allo scadere di un ultimatum, i Russi intervennero pesantemente nonostante la presenza degli ostaggi. Decine di morti rimasero sul terreno.
Continuarono inoltre gli attacchi alle roccaforti della guerriglia e l'esercito conquistò in marzo i villaggi di Bamut, Stary Achkhoi, Orekhovo, Samashki, costringendo alla fuga migliaia di persone. La scomparsa a fine aprile del leader dei ribelli Dzhokhar Dudaev, forse per mano dei militari e dei servizi di sicurezza russi, fece temere a Eltsin, ormai in campagna elettorale, un inasprimento della guerriglia. Proprio in vista delle elezioni il presidente russo accettò di incontrare Jandarbiev, nuovo leader degli indipendentisti ceceni, con il quale firmò un accordo per il cessate il fuoco, la liberazione dei prigionieri e la ripresa dei colloqui di pace (27 maggio 1996).
Al termine delle elezioni la Russia ruppe la tregua con la Cecenia, riprendendo con violenza i bombardamenti dei villaggi ceceni e della stessa Grozny, da cui furono fatti evacuare i civili. Il 27 agosto 1996 il generale russo Lebed raggiunse con gli indipendentisti ceceni un accordo di pace che prevedeva la concessione di uno statuto speciale alla Repubblica e la cessazione delle ostilità. Le truppe russe cominciano a lasciare Grozny.
In ottobre Eltsin licenziò Lebed, accusato di ambizioni eccessive sostituendolo con Ivan Rybkin, che si impegnava a mantenere con i Ceceni gli accordi raggiunti dal suo predecessore.
L'accordo di pace siglato tra il Governo russo e il presidente ceceno Aslan Mashkadov non aveva tuttavia definito la questione dei rapporti istituzionali tra Federazione Russa e Cecenia, quindi l'equilibrio raggiunto rimaneva piuttosto instabile. Così, quando il 22 dicembre 1997 venne attaccata una base dell'esercito russo nel Daghestan, i Russi accusarono la vicina Cecenia, che tuttavia smentì qualsiasi coinvolgimento. Dal canto loro, i separatisti ceceni continuarono con i sequestri, inducendo molte organizzazioni umanitarie a lasciare la regione. Il 1° maggio 1997 venne rapito, tra gli altri, l'inviato personale di Eltsin, Valentin Vlasov, liberato poi in novembre dalle forze di sicurezza cecene e russe. La presenza di tensioni interne al Paese, apparvero in tutta la loro gravità con l'attentato contro il presidente Mashkadov, il 23 luglio, compiuto, probabilmente, dalle fazioni islamiche wahhabite, in lotta contro il presidente per la sua insufficiente adesione alle leggi islamiche e per la sua disponibilità a trattare con Mosca. Il 4 febbraio 1999 il presidente della Cecenia proclamò la legge islamica nella Repubblica secessionista del Caucaso.
Nel marzo, in seguito al rapimento del generale Ghennadij Shpigun, rappresentante del Ministero dell'Interno in Cecenia, Mosca decise di ritirare tutti i suoi rappresentanti in Cecenia, mettendo in stato d'allerta le truppe al confine con il Paese secessionista. L'occasione per la Russia di intervenire militarmente in Cecenia si presentò allorché nel settembre si verificarono in diverse città russe degli attentati terroristici, attribuiti a gruppi islamici del Caucaso. Nonostante le smentite dei ribelli ceceni di un loro coinvolgimento, la Russia intensificò la propria campagna contro i guerriglieri islamici ceceni, bombardando per due volte l'aeroporto di Grozny (23 settembre 1999) e rifiutando qualsiasi trattativa con i dirigenti locali finché non fossero stati consegnati i capi della guerriglia islamica. Per far fronte alla milizia islamica cecena, il 1° ottobre alcune unità dell'esercito russo entrarono in Cecenia, sancendo l'inizio di una nuova guerra. Il leader ceceno Mashkadov proclamò dunque la legge marziale.
Le truppe russe cominciarono a puntare sulla capitale Grozny, spargendo terrore e sangue tra la popolazione civile, massacrata da incessanti bombardamenti a tappeto. Il 23 ottobre, escluso ogni spiraglio di risoluzione politica dai militari di Mosca, i Russi stringevano la morsa intorno a Grozny, chiudendo ai profughi ogni via d'uscita verso l'Inguscezia, le cui frontiere, alla pari di quelle tra Inguscezia e Ossezia del Nord, erano state sigillate. Gli abitanti della capitale ribelle, ormai accerchiata, rimanevano dunque intrappolati ed esposti alle offensive russe. Accusata di aver infranto la Convenzione di Ginevra, "la campagna contro i terroristi" venne invece benedetta dal patriarca ortodosso Alessio II.
Un tentativo per trovare una soluzione negoziata alla crisi cecena, avvenne durante il vertice dell'OSCE tenutosi a Istanbul nel novembre 1999: il ministro degli Esteri russo Ivanov firmava un documento che riaffermava l'integrità territoriale della Federazione Russa, ma imponeva altresì che si arrivasse a una soluzione politica del conflitto in Cecenia. Secondo tale documento, inoltre, la Russia accettava un graduale e limitato coinvolgimento dell'OSCE nel conflitto. In realtà, i bombardamenti su Grozny, rifugio dei ribelli islamici, non cessarono, mentre altre città si consegnavano alle truppe russe senza opporre resistenza. Il 15 dicembre anche le armate russe subirono gravi perdite: una colonna corazzata, che aveva sfondato le linee cecene, avanzando fin quasi nel centro di Grozny, venne circondata da guerriglieri ribelli che ne fecero strage.
Mascherata come operazione contro il terrorismo, la campagna in Cecenia, in prossimità delle elezioni per il rinnovo della Duma, in Russia (18-19 dicembre 1999), venne sfruttata dal primo ministro Putin come fattore-chiave per ottenere il consenso elettorale a Mosca. Il 31 dicembre 1999 Eltsin rassegnava le dimissioni da presidente della Russia; tale carica veniva assunta ad interim (fino alle elezioni presidenziali del marzo 2000 che lo riconfermavano) dal primo ministro Putin il quale continuava a dipingere con eccessivo trionfalismo una guerra che sembrava non avere un rapido esito e che costava anche alla Russia gravi perdite umane.

I REGIMI COMUNISTI DEL TERZO MONDO

La fine del comunismo nel Terzo Mondo presenta caratteri a sé stanti, determinati dalla scarsa caratterizzazione politica di regimi impostisi solo grazie all'appoggio del gigante sovietico e in assenza di una qualsiasi forma di appoggio popolare.
Per questa ragione, gli avvenimenti europei del 1989 agirono da stimolo per il tramonto della dottrina marxista nei Paesi meno sviluppati. Spesso, l'affermazione di nuove formazioni politiche mascherava il ripudio opportunistico della dottrina marxiana da parte di classi politiche intenzionate a sopravvivere al crollo sovietico.
In Africa, per esempio, numerosi regimi ripudiarono formalmente il marxismo (Angola, Benin, Congo, Capo Verde, Mozambico, Guinea Bissau, Sao Tomé e Principe, Togo e Zambia) e affrontarono in seguito elezioni più o meno libere dalle quali, grazie a tale operazione trasformista, uscirono vincitori.
In Asia, il venir meno del sostegno sovietico al regime afghano portò nel 1992 alla vittoria della guerriglia di liberazione contro il regime di Najibullah. Nel mondo arabo si registrò la fine del regime dello Yemen del Sud, che si unificò nel maggio 1990 allo Yemen del Nord.
In Estremo Oriente, la fine della guerra in Cambogia coincise con l'abbandono della dottrina comunista da parte del Governo di Phnom Penh e con lo svolgimento delle prime elezioni libere. Nella Corea del Nord e in Vietnam, invece, i Governi impedirono ogni liberalizzazione, conservando un indiscusso monopolio politico, anche se, nel 2000, si verifico un importante riavvicinamento tra le due Coree in occasione del summit a Pyongyango tra il presidente nordcoreano Kim Jong-il e il presidente sudcoreano Kim Dae-jung, insignito, nello stesso anno, del premio Nobel per la Pace.
In America, mentre la leadership comunista a Cuba resisteva, il regime sandinista del Nicaragua, pressato dalla guerriglia, indiceva nel 1990 libere elezioni dalle quali uscì sconfitto.
Gli Stati del Terzo Mondo in cui il regime comunista, seppure tra crescenti difficoltà, continua a mantenere il potere sono la Cina (vedi Storia contemporanea - Asia e Africa) e Cuba (vedi Storia contemporanea - L'America Latina).

PICCOLO LESSICO

Perestrojka

Voce russa che significa rinnovamento. Utilizzato inizialmente nella politica interna sovietica , venne poi adottato dal giornalismo internazionale per definire il complesso di riforme politico-economiche avviate in Unione Sovietica, a partire dal 1985, da M. Gorbaciov. Questi, durante gli anni della sua attività come segretario del Partito comunista prima e come presidente dell'Unione Sovietica poi, attuò una radicale opera di riorganizzazione dello Stato, fondata sul rinnovamento ai vertici del Partito comunista, sull'adozione di nuovi sistemi di rappresentanza ed elettorali, sulla lotta alla burocrazia, sull'introduzione di un moderato liberismo economico, sul riconoscimento delle opposizioni interne, sulla riduzione del controllo del Partito comunista sulla vita pubblica attraverso la liberalizzazione dell'informazione (glasnost).

Glasnost

Voce russa che significa trasparenza. Vocabolo chiave del corso politico promosso da Michail Gorbaciov in Unione Sovietica fra il 1985 e il 1991. Accanto alla perestrojka (rinnovamento) caratterizzò il programma di riforme democratiche promosso dal leader sovietico.

Muro di Berlino

Nome attribuito alla recinzione muraria edificata nel dopoguerra dalle truppe sovietiche per isolare la zona di Berlino occupata dalle potenze occidentali dal resto della Germania Orientale. Al termine della guerra, la città e il territorio pertinente vennero dapprima divisi in quattro settori: russo (450 kmq, 430.500 ab.); britannico (150 kmq, 603.000 ab.); americano (210 kmq, 984.000 ab.); francese (90 kmq, 422.000 ab.). Successivamente, gli ultimi tre settori si unificarono, formando la città di Berlino Ovest (2 milioni 224.000 ab.), nettamente divisa dal settore sovietico, Berlino Est (1 milione 100.000 ab.). In seguito ad attriti fra l'URSS e le potenze Occidentali si ebbero blocchi e restrizioni dei trasporti, cui gli alleati reagirono con ponti aerei per il rifornimento della popolazione che furono soppressi nel maggio del 1949. Nell'agosto 1961 le autorità comuniste, in seguito ai continui tentativi di privati cittadini di trasferirsi dal settore orientale a quello occidentale, decretarono la costruzione di un invalicabile muro tra le due zone che sanciva la divisione della città. Durante gli ultimi mesi del 1989 Berlino Est, così come tutta la Germania Orientale, fu centro di numerose manifestazioni di dissenso da parte dei suoi cittadini che chiedevano maggior libertà personale e una progressiva democratizzazione del Governo. Il Governo della DDR non ha potuto trascurare i preoccupanti fermenti di rivolta e, allineandosi alla sempre maggiore apertura degli altri Paesi dell'Europa Orientale ai sistemi occidentali, accoglieva le istanze dei cittadini, inaugurando un rimpasto governativo e una direttrice politica più liberale. Data storica è quella dell'8 novembre 1989: le frontiere fra le due aree della città vennero ufficialmente abbattute e il famoso "muro" divenne solo un pesante ricordo. In seguito si aprì il dibattito tra gli architetti tedeschi intenti nel progettare la ricongiunzione delle due città, molti dei quali favorevoli alla conservazione di parte del muro quale memoria storica di un periodo irripetibile.

OSCE

Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione europea. Nata nel 1975 con la sigla CSCE (Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione Europea), assunse l'attuale status nel 1994. Ha sede a Vienna e comprende 54 Stati dell'emisfero Nord, compresa la Federazione jugoslava (sospesa nel 1992), gli Stati Uniti e il Canada. Si occupa della sicurezza e della prevenzione dei conflitti, del rispetto dei diritti umani e civili, della cooperazione economica, tecnologica, ambientale.

START

Acronimo di Strategic Arms Reduction Treaty (Trattative per la riduzione delle armi strategiche). È il termine con cui si indicano i negoziati condotti a partire dal 1982 da Unione Sovietica (dal dicembre 1991 Russia) e Stati Uniti per la riduzione delle armi nucleari strategiche con raggio d'azione intercontinentale. Proseguimento dei precedenti negoziati SALT, i negoziati START, avviati in un periodo di grave crisi internazionale e temporaneamente congelati in seguito all'abbattimento di un aereo di linea sudcoreano da parte dei Sovietici, ripresero nel 1985 in un clima di maggiore distensione internazionale dopo l'elezione a presidente dell'Unione Sovietica di Gorbaciov. Tali negoziati portarono alla firma di diversi accordi. Lo START I, firmato il 31 luglio 1991, da Gorbaciov e Bush, ridusse i missili a lungo raggio a 1.600 per parte e le testate nucleari a 6.000. Dopo la dissoluzione dell'URSS venne sottoscritto il Protocollo di Lisbona (23 maggio 1992) che prevedeva che gli Stati della CSI dotati di armi atomiche si impegnassero all'attuazione degli impegni presi dall'Unione Sovietica. I trattati START I e il Protocollo di Lisbona entrarono in vigore il 5 dicembre 1994. Lo START II venne firmato il 3 gennaio 1993 da Bush e B. Eltsin e prevedeva una riduzione delle testate a 3.000-3.500 per parte entro il 10 gennaio 2003 e il divieto di spiegare missili a testate multiple: venne ratificato dalla Duma nel 2000. Lo START III prevede la riduzione delle armi nucleari a 2.000-2.500 entro il 31 dicembre 2007. Per quanto concerne lo START IV i dettagli di tale accordo dipendono dalla negoziazione e dalla ratifica dello START III.

PERSONAGGI CELEBRI

Mikhail Sergheevic Gorbaciov

Uomo politico sovietico (n. Privolnoe, Russia meridionale 1931). Iscrittosi nel 1952 al Partito comunista, ricoprì in seguito la carica di responsabile locale e provinciale del Komsomol (Lega della gioventù comunista) di Starvropol. Legatosi a Yuri Andropov nei primi anni Settanta, compiva una rapida ascesa nei ranghi del PCUS. Nominato nel 1978 responsabile dell'agricoltura presso la segreteria del Comitato centrale, entrò poi nel Politburo come membro supplente nel 1979 (effettivo nel 1980). Insediatosi Andropov alla segreteria del partito, Gorbaciov divenne il numero due nella gerarchia del PCUS, quale esponente dell'ala pragmatica moderata. Nel 1984, alla morte di Andropov, conservò la sua posizione di primo piano nonostante l'elezione di K. Cernenko alla guida del partito. Tuttavia dopo la scomparsa dell'anziano leader, gli successe nel marzo del 1985. Assurto alla massima carica sovietica, Gorbaciov promosse l'avvio di un nuovo corso politico, caratterizzato dai concetti base di perestrojka (rinnovamento), glasnost (trasparenza d'informazione) e uskerenje (accelerazione). Il processo di democratizzazione politica di Gorbaciov ebbe importanti ripercussioni sul piano internazionale, quali l'avvicinamento agli Stati Uniti, le proposte di disarmo bilaterale ed i grandi rivolgimenti politici verificatisi nel corso del 1989 nei Paesi dell'Europa orientale. Molto importante anche il ripristino delle relazioni diplomatiche con il mondo cattolico, culminato nell'incontro fra Gorbaciov e il papa nel novembre 1989 a Roma. Fra il 1989 ed il 1990 Gorbaciov si trovò a dover affrontare le tendenze indipendentiste manifestatesi in diverse Repubbliche sovietiche (Armenia, Azerbaigian, Lituania). Nonostante queste difficoltà il leader proseguì sulla strada delle riforme, proponendo al Comitato centrale l'abolizione del ruolo guida del PCUS. Eletto presidente dell'URSS nel marzo 1990, nell'ottobre dello stesso anno venne insignito del premio Nobel per la pace. Sul piano interno Gorbaciov dovette affrontare, oltre alle spinte centrifughe delle Repubbliche, l'opposizione politica dei riformisti radicali e dei conservatori. Una grave crisi economica, inoltre, ostacolava il processo di rinnovamento. Abbandonato dai fedelissimi della perestrojka, nell'agosto 1991 fu vittima di un golpe, guidato dalle forze conservatrici. Fallito il colpo di Stato, Gorbaciov riprese in mano il potere, ma il sopravvento dei riformisti radicali, capeggiati da Boris Eltsin, lo costrinse ad accettare la dissoluzione del Partito comunista. Mentre le diverse Repubbliche proclamavano la loro indipendenza, invano Gorbaciov lanciava appelli all'unità. Nel dicembre 1991 il premier sovietico si dimise dalla presidenza dell'URSS, mentre 11 Repubbliche dell'Unione Sovietica diedero vita alla nuova Comunità degli Stati Indipendenti (CSI).
Mikhail Gorbaciov

Boris Nikolaevic Eltsin

Uomo politico russo (Sverdlovsk 1931 - Mosca 2007). Di umili origini, si laureò in ingegneria nel 1955 e dal 1963 intraprese la carriera politica nel comitato regionale del partito. Nel 1976 fu nominato responsabile del partito per la regione di Sverdlovsk e nel 1985 divenne primo segretario del partito a Mosca su incarico di Gorbaciov; ebbe così inizio la sua scalata ai vertici del PCUS. Grazie alla sua propensione per la demagogia e per il populismo, conquisto in breve tempo una vasta popolarità. Rieletto nel Parlamento della Repubblica nel 1989, si pose a capo di una consistente corrente di deputati per condurre una decisa opposizione alla politica di cauta decomunistizzazione intrapresa di Gorbaciov. Nel 1990, abbandonò il PCUS e riuscì a ottenere la presidenza del Parlamento.
Nelle prime elezioni a suffragio universale del 1991, Eltsin fu eletto alla presidenza della Repubblica russa. Si impose definitivamente sulla scena politica interna e internazionale in seguito al suo coraggioso intervento nel contrastare il tentativo di colpo di stato dell'agosto 1991 che costò a Gorbaciov una breve detenzione. Approfittando della crisi che seguì il tentativo di golpe, Eltsin si pose a capo di ogni iniziativa politica a scapito del potere di Gorbaciov. Alla fine del 1991, dopo lo storico scioglimento dell'Unione Sovietica (21 dicembre) e le dimissioni formali di Gorbaciov (25 dicembre), Eltsin diventò leader unico della nuova Russia, alla quale furono trasferiti tutti i poteri dell'Unione Sovietica.
Il vasto programma di riforme politiche, istituzionali, sociali ed economiche varato da Eltsin, sostenuto dalle potenze occidentali, impattò contro enormi problemi economici e sociali, evidenziati dalla selvaggia liberalizzazione dei prezzi e dall'affrettata privatizzazione delle imprese statali.
A partire dal 1992 emerse sempre più netto il conflitto tra Eltsin e le opposizioni. Gli scontri ripetuti con la Corte costituzionale russa portarono, nell'ottobre 1993, alla resistenza di una parte del Parlamento al tentativo presidenziale di assumersi poteri speciali. Eltsin costrinse alla resa, a colpi di cannonate, i deputati dell'opposizione asserragliatisi nella Casa Bianca. Una volta sciolto il Parlamento, Eltsin non esitò a imporre una nuova Costituzione che gli conferiva ben più ampi poteri.
In seguito la popolarità del presidente russo si avviò verso un lento e inesorabile declino: non a caso i comunisti, facendo leva sul diffuso malcontento, ottennero nello stesso anno un importante successo elettorale. Assente per intere settimane dalla vita politica, Eltsin dimostrò di patire il conflitto con le opposizioni e si mostrò incapace di fronteggiare la grave situazione economica. Alla fine del 1994 diede inizio all'avventura cecena, con una sanguinosa offensiva contro le truppe indipendentiste.
In politica estera Eltsin ebbe alterne fortune: se da un lato si presentò come il paladino della libertà contro il comunismo, dall'altro non rinunciò ad una politica di potenza e di ostracismo all'allargamento della NATO, cui chiedevano di aderire molte delle ex repubbliche sovietiche.
Alle elezioni amministrative del 1996 i comunisti riportarono una netta vittoria, candidandosi per una probabile vittoria alle elezioni presidenziale dell'estate successiva. Al termine di una dura campagna elettorale, Eltsin venne invece rieletto presidente, sconfiggendo al secondo turno il candidato comunista Ziuganov.
Nuovamente sottoposto a seri interventi chirurgici, Eltsin sparì nuovamente dalla scena politica, alimentando l'insorgere di nuovi scontri politici in Parlamento e al Cremlino. Nell'agosto del 1998, nel tentativo di far fronte alla difficile situazione politica ed economica, nominò primo ministro Evgenij Primakov.
Coinvolto in un grave scandalo finanziario, nel 1999 Eltsin licenziò Primakov, rimpiazzandolo con Sergej Stepasin. Evitato l'impeachment per alcuni scandali finanziari, in agosto il presidente licenziò Stepasin, rimpiazzandolo con Cernomyrdin. Ormai gravemente malato, alla fine dell'anno Eltsin annunciò le proprie dimissioni, nominando suo successore Vladimir Putin.
Boris Eltsin

RIASSUNTO CRONOLOGICO

1985: Michail Gorbaciov assume la carica di segretario del PCUS.

1987 (dicembre): Accordi di Washington siglati tra USA e URSS per la riduzione dei missili a medio e corto raggio.

1989 (giugno): In Polonia le elezioni decretano la vittoria di Solidarnosc.

1989 (novembre): Il Muro di Berlino comincia a sgretolarsi sotto il peso delle manifestazioni scoppiate a Est.

1989 (dicembre): A. Dubcek viene nominato presidente del Parlamento cecoslovacco; V. Havel diventa presidente della Repubblica.

1989 (dicembre): In Romania prende avvio una rivolta contro il dittatore Ceausescu.

1989 (25 dicembre): Ceausescu viene arrestato e giustiziato insieme alla moglie.

1990: Lech Walesa viene eletto capo dello Stato polacco; la Polonia si trasforma da Repubblica popolare a Stato democratico di diritto.

1990: In Ungheria cade il regime comunista; capo dello Stato diviene Arpad Goencz.

1990 (marzo): Gorbaciov viene eletto presidente dell'URSS.

1990 (3 ottobre): Riunificazione delle due Germanie.

1990 (dicembre): In Slovenia e Croazia la popolazione vota in favore a un referendum che chiede l'autonomia dal Governo federale.

1991: La capitale della Germania viene spostata da Bonn a Berlino.

1991 (giugno): Eltsin viene eletto presidente della Federazione Russa.

1991 (25 giugno): I Parlamenti sloveno e croato proclamano l'indipendenza.

1991 (luglio): Accordi di Brioni; alla Slovenia viene riconosciuta l'indipendenza.

1991 (31 luglio): Gorbaciov e Bush firmano lo START I.

1991 (agosto): Fallisce un golpe ordito dal KGB contro Gorbaciov.

1991 (ottobre): Macedonia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo proclamano l'indipendenza.

1991 (1° novembre): La Cecenia proclama la propria autonomia dalla Russia.

1991 (dicembre): L'URSS cessa ufficialmente di esistere; Eltsin si fa promotore della nuova CSI a cui aderiscono 11 delle 15 ex Repubbliche sovietiche.

1992: Gli albanesi del Kosovo eleggono un proprio Parlamento e un presidente, Ibrahin Rugova.

1992 (gennaio): La CEE riconosce ufficialmente le Repubbliche indipendenti di Slovenia e Croazia.

1992 (marzo): Le elezioni albanesi, vinte dal partito democratico, decretano la fine del regime comunista; Sali Berisha è a capo del Governo.

1992 (23 maggio): Gli Stati della CSI dotati di armi atomiche sottoscrivono il Protocollo di Lisbona.

1993 (1° gennaio): Viene ufficialmente sancito lo smembramento dello Stato cecoslovacco in Repubblica Ceca e Slovacchia.

1993 (3 gennaio): Bush e Eltsin firmano lo START II.

1994: La NATO decide di intervenire in Bosnia.

1994 (18 marzo): Nasce la Federazione croato-musulmana di Bosnia.

1994 (11 dicembre): Le truppe russe entrano in Cecenia dando inizio a un conflitto armato.

1995 (novembre): A. Kwaniewski viene eletto presidente della Repubblica polacca.

1995 (14 dicembre): Accordi di Dayton che pongono fine al conflitto bosniaco.

1996: In Romania Costantinescu viene eletto presidente della Repubblica; capo del Governo diviene Ciorbea.

1996 (luglio): Eltsin viene confermato per la seconda volta presidente della Russia.

1996 (27 agosto): Il generale Lebed raggiunge un accordo di pace con gli indipendentisti ceceni.

1997 (giugno): Le elezioni albanesi vengono vinte dal partito socialista di Fatos Nano che assume la carica di primo ministro.

1998: I Serbi danno il via alla pulizia etnica in Kosovo.

1998 (settembre): Le elezioni politiche tedesche decretano la vittoria della SPD di Schroeder.

1998 (13 settembre): Viene ucciso Azem Hajdani, braccio destro di Berisha; in seguito a tale episodio il Partito democratico scatena un'insurrezione armata a Tirana.

1999: Albania e Jugoslavia interrompono le relazioni diplomatiche che saranno riprese solo nel 2001.

1999 (24 marzo - 10 giugno): Bombardamenti della NATO sulla Serbia.

1999 (1° ottobre): Inizia una nuova guerra tra Russia e ribelli indipendentisti ceceni.

1999 (31 dicembre): Eltsin si dimette dalla carica di capo dello Stato che viene assunta ad interim dal primo ministro Putin.

2000: Kwaniewski viene riconfermato alla carica di presidente della Polonia.

2000 (marzo): Putin è ufficialmente eletto presidente della Russia.

2000 (giugno): Storico incontro tra i leader delle due Coree e inizio del processo di distensione.

2000 (24 settembre): Si svolgono le elezioni presidenziali jugoslave che vedono la vittoria dell'opposizione, fortemente negata dal presidente in carica Milosevic.

2000 (5 ottobre): Dopo imponenti manifestazioni di pazza e l'occupazione di Parlamento e televisione di Stato, Milosevic viene ufficialmente soppiantato da Vojislav Kostunica quale presidente della Jugoslavia.

2000 (dicembre): Ion Iliescu vince le elezioni presidenziali romene.

2001 (28 giugno): Milosevic, dopo l'arresto avvenuto nel mese di aprile, viene estradato all'Aja.

2002 (febbraio): Inizio del processo a Milosevic.

2006 (marzo): Milosevic muore nella prigione del Tribunale Penale internazionale all'Aja.