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Stato.

Forma complessa di organizzazione umana, che si configura - in ultima sintesi - come associazione che pone il suo fine generale nel soddisfacimento dei bisogni dei suoi consociati, mediante la realizzazione del bene comune. Con il medesimo termine S. si indica perciò sia il gruppo umano (popolo) che si organizza come tale, sia l'ordinamento mediante il quale viene esercitato il Governo (sovranità), sia infine il territorio su cui viene esercitato. Lo S. detiene il monopolio dell'uso della forza (potere coattivo) sia rivolta al proprio interno - per mantenere l'ordine pubblico - sia rivolta verso l'esterno per difendere la propria integrità territoriale. Pertanto, lo S. è tale in quanto sussiste un ordinamento in grado di esercitare il potere coattivo su un popolo e su un territorio. ║ Il termine S. è invalso nell'uso con questa pluralità di accezioni e concetti, che possono essere intesi tanto singolarmente quanto nel loro complesso, a partire dall'opera politica di N. Machiavelli, il quale - nel Principe - utilizzò il vocabolo sia nel significato di popolo e territorio sia in quello di potere sovrano sia, infine, in quello più astratto di scienza politica, arte del governare. Nella celeberrima frase del capitolo I - dove si legge “Tutti gli S. e tutti e' dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra li uomini sono stati e sono o republiche (sic) o principati”, il termine va inteso per la prima volta come fusione di tutti i significati sopra accennati. ║ S. sovrano o indipendente: che è pienamente titolare delle prerogative che gli competono, sia internamente sia esternamente al suo territorio. ║ S. assoluto: con riguardo all'ordinamento istituzionale, quello in cui i poteri dello S. convergono tutti nel sovrano, senza distinzione e divisione. ║ S. di diritto: in contrapposizione al precedente, quello che crea un corpus giuridico e insieme ne è vincolato, dal momento che solo il rispetto della norma è condizione di legalità. ║ S. totalitario: quello in cui chi detiene il potere (in genere un partito unico o una lobby) subordina ogni cosa al proprio interesse, anche a discapito del bene comune e dei singoli cittadini, utilizzando a tal fine metodi repressivi. ║ S. teocratico: quello in cui il potere politico viene esercitato dalla suprema autorità religiosa. V. anche TEOCRAZIA.
"Stato e repressione" di Giorgio Bocca

S. confessionale: quello che riconosce ufficialmente come propria una singola e specifica confessione religiosa, improntando la vita dello S. medesimo, l'indirizzo politico e le scelte legislative ed esecutive ai dettami di essa. ║ S. laico: al contrario del precedente, quello che - garantendo pari dignità e libertà di culto a tutte le confessioni religiose praticate attualmente o praticabili in futuro - risulta emancipato nella propria azione politica e sociale da ogni ingerenza. ║ S. corporativo: quello in cui l'attività politica dei cittadini è organizzata non secondo libere associazioni basate su consonanza ideologica o di pensiero ma in base alle occupazioni lavorative dei cittadini stessi, riuniti appunto in corporazioni. Di questo tipo fu lo S. fascista italiano, evolutosi in questo senso a partire dal 1925, per giungere alla precisa struttura del 1934, in cui lavoratori e imprenditori figuravano collaborare per favorire l'incremento della produzione, rinunciando a rivendicazioni sindacali e negoziando i contratti. Fu istituito un ministero delle Corporazioni, con compiti di coordinamento e guida di queste associazioni di lavoratori, ma in pratica il sistema corporativo aveva lo scopo di costringere l'intera vita economica nazionale al controllo esclusivo del Partito e del Governo fascista: gerarchi fascisti occuparono le posizioni chiave delle corporazioni, mentre Mussolini stesso guidò il ministero delle Corporazioni. In tal modo era possibile per il regime un controllo totale su lavoratori e datori di lavoro, cioè sull'intera struttura economica del Paese. L'apparato corporativo, nel 1934, consisteva di sindacati verticali di datori di lavoro e di lavoratori delle principali branche economiche, organizzati su scala locale, regionale e nazionale, e di corporazioni orizzontali che riunivano i datori di lavoro e i lavoratori delle varie industrie. Il sistema culminava nella Camera delle Corporazioni che fu creata solo nel 1939. • Filos. - La storia del pensiero politico occidentale evidenzia, nel suo dipanarsi, due differenti punti di vista in merito alle dottrine sullo S.: in alcuni casi, considerando in primo luogo gli organi (siano essi individuali o collettivi) cui sono affidate le decisioni di indirizzo ed esecutive, esse si occupano di descrivere la struttura dello S.; in altri casi, valutando invece la posizione di coloro su cui tali decisioni ricadono, esse si interrogano sui caratteri e sui limiti di legittimità dell'azione statale rispetto, ad esempio, ai diritti individuali. ║ Il pensiero politico antico e medioevale: il termine e il concetto di S. così come oggi è abitualmente inteso, si attaglia ad una precisa tipologia di strutture centralizzate del potere politico, esercitato entro un determinato territorio e in relazione ad una determinata popolazione, che si delineò in tal forma a partire dal XVI sec. Ciò non toglie che anche nell'antichità classica si sia sviluppata una riflessione sulla dimensione socio-politica della vita comunitaria: la pòlis costituiva il naturale e innegato orizzonte entro cui doveva svolgersi l'esistenza di ogni individuo, dal momento che senza vita comunitaria (koinonìa) il singolo era percepito come un essere incompleto. In generale, tutto il pensiero antico e medioevale considerò la vita e la società politica come condizione innata dell'essere umano, perché essa rappresenterebbe l'unico modo di conservare tanto gli individui quanto la specie: l'origine della struttura gerarchica e comunitaria dello S. sarebbe perciò naturale e non culturale, come affermarono invece i pensatori moderni. L'uomo era concepito in quanto destinato per natura a partecipare di una società (ánthropos politikòs estì: l'uomo è un essere politico): al di fuori della pòlis solo gli animali o gli dei possono vivere. Assai variegati i punti di vista e le dottrine che sostanziarono il pensiero politico classico: si ricordano qui, per il particolare valore e l'esemplarità, le opere di Platone (V. REPUBBLICA, LA) - per il quale la pòlis ideale è un'istituzione sociale di natura etica e pedagogica che ha lo scopo di rendere migliori i suoi cittadini - e di Aristotele (V. POLITICA) - per il quale etica e politica coincidono in sé e il fine ultimo e proprio della pòlis consiste nel favorire una vita felice e bella. Nella cultura latina, il concetto di pòlis fu sostituito dall'omologo civitas o da res publica, nel significato etimologico di ciò che riguarda o appartiene a tutti coloro che costituiscono la comunità di riferimento. Si verificò però, in epoca romana, uno spostamento semantico di grande importanza, dal momento che la comunità politica non fu più concepita come l'insieme delle relazioni antropologiche che costituiscono la piena realizzazione dei singoli individui, ma come una societas di natura giuridica e consensuale, fondata cioè sul rispetto che i singoli devono alle norme stabilite. Questa impostazione rimase valida anche quando la civiltà romana si estese dalla forma della città-s. a quella di potenza regionale e poi di Impero. Solo con il Cristianesimo si generò nel pensiero antico un dualismo, talvolta oppositivo, tra sfera spirituale e sfera temporale, tra religioso e politico, tra individuo e società. I primi cristiani vivevano infatti una riserva mentale nei confronti della comunità politica di appartenenza: ad essa erano leali purché le sue leggi non li chiamassero ad atti che ripugnavano alla loro coscienza (ad esempio il culto pagano). In tale riserva consistette la prima rivendicazione di libertà individuale nei confronti dello S.: il Cristianesimo affermò che la sfera religiosa era non solo intangibile, ma anche qualitativamente superiore a quella politica. Ne conseguì l'idea che la società entro cui si sviluppa la vita religiosa dell'individuo (la Chiesa) potesse risultare superiore alla società che ne esplica invece la dimensione politica e giuridica (lo S.). Da questo nodo ebbe origine il diuturno problema dei rapporti tra S. e Chiesa, che già Agostino pose esplicitamente nella sua opera De civitate Dei, risolvendolo con una netta preminenza della prima sul secondo. Il vescovo di Ippona, tuttavia, conferì legittimità e autonomia allo S., anche quando esso non sia cristiano, dal momento che la civitas terrena deve vivere nell'ordine e nella pace, secondo un giusto rapporto tra autorità del sovrano ed obbedienza dei cittadini: il principe cristiano ideale, però, venne descritto più come protettore della Chiesa che come depositario di un potere indipendente. Molti furono gli oppositori di questa visione sostanzialmente teocratica e lo stesso san Tommaso, nella sua Summa theologica, sostenne l'autonomia dello S. Secondo il suo pensiero, infatti, in un mondo naturalmente improntato alla diversità tra gli uomini, era necessaria un'autorità politica unitaria che organizzasse in modo armonico la società umana. Il Governo migliore era per Tommaso quello monarchico, purché esso fosse integrato da leggi che ne impedissero la degenerazione in tirannia. Per quanto riguarda la genesi delle leggi che regolano la convivenza umana, il filosofo affermò, in un'ottica giusnaturalista (V. GIUSNATURALISMO), la loro derivazione da una superiore giustizia naturale e razionale, che, in ultima analisi, discendeva direttamente dalla legge eterna e immutabile di Dio. In certi termini, perciò, anche l'analisi tomista ripropose la superiorità della Chiesa sullo S.: l'autonomia del potere politico era considerata incontestabile, ma era pur sempre la Chiesa a delimitare gli ambiti di tale autonomia. Assai più radicale e conseguente fu invece la rivendicazione di reciproca indipendenza tra potere temporale e spirituale espressa, tra gli altri, da Guglielmo di Occam, Marsilio da Padova, Wycliffe. Del medesimo avviso fu anche Dante, che, nel De monarchia, elaborò la celeberrima similitudine dei due soli: il potere temporale deriva all'imperatore direttamente da Dio, come quello spirituale al pontefice e il primo deve deferenza al secondo solo in quanto egli rappresenta la guida verso un bene spirituale assoluto. Questi pensatori furono comunque gli iniziatori di una visione protomoderna dello S., emancipato e autonomo rispetto alla Chiesa così come l'azione politica lo era da quella religiosa: si affermava una sostanziale laicità dello S., che consisteva non certo in un ridimensionamento del fattore religioso nella vita sociale o in una presunta irrilevanza di esso, quanto invece nella sua valutazione in termini politici, cioè di effetti (graditi o non graditi, quanto e come intensi, ecc.) sulla vita dello S.Il concetto di S. nel pensiero moderno: si individua di norma nell'opera di Machiavelli il momento discriminante per una nuova concezione della politica, in quanto distinta senza ambiguità dalla dimensione etica e religiosa, e dello S., in quanto struttura “verticale” e gerarchica, potenzialmente violenta nei confronti degli altri S. ma rispettosa delle leggi, della libertà e della sicurezza dei suoi cittadini all'interno. La cittadinanza non accede direttamente all'esercizio del potere, dal momento che governare è compito e prerogativa di pochi, ma fruisce della sicurezza per sé e per i propri beni garantita dallo S. La dottrina elaborata da Hobbes fu invece determinante per superare la teoria dell'origine naturale dello S.: secondo la sua natura, infatti, l'uomo viveva isolato o comunque in forme associative assai limitate e differenti da quella statale. In questa condizione, tutti gli uomini erano uguali tra loro e perseguivano uguali fini di appropriazione nei confronti dei beni disponibili, dando così luogo ad una lotta reciproca e continua, fonte di miseria e infelicità per tutti. Solo in un secondo momento, suggerendo la ragione una diversa via per garantirsi il bene fondamentale che è quello dell'autoconservazione, gli uomini hanno stretto, ciascuno con ciascuno, un accordo volontario, in base al quale essi rinunciarono alla libertà innata di comportarsi solo secondo i propri desideri per assicurarsi in cambio ordine e pace. Si tratta di una teoria di tipo contrattualistico: fatto salvo il diritto di autoconservazione che è l'unico inalienabile, si verifica da parte dei cittadini un'alienazione dei propri diritti naturali in favore di un potere sovrano (sia esso un singolo uomo - il re - o un'assemblea), che agisce dunque per delega implicita e automatica dei cittadini e ha il compito di garantire la loro sicurezza esterna e interna; il potere sovrano è perciò anche fonte di legalità ed eticità ed è insindacabile. La dottrina contrattualistica forniva argomenti in grado di giustificare da un lato lo S. assoluto (il contratto di alienazione dei diritti è irrevocabile, dunque il popolo non può opporsi mai al suo sovrano), dall'altro l'esistenza di limiti a tale potere (la sovranità non emana dalla persona del re ma dal complesso della società, quindi il potere contrattuale deve essere esercitato nel rispetto dei contraenti). I concetti di natura e contratto sono utilizzati, se pur con contenuti molto diversi da quelli di Hobbes, anche nella speculazione di Locke. Per quest'ultimo l'uomo, nella sua condizione naturale originaria, era già capace di vita sociale, aveva senso della giustizia e perseguiva la propria sicurezza e insieme quella degli altri. Istituto fondamentale dello S. di natura era la proprietà, in un primo tempo comune (le risorse dell'ambiente naturale) poi privata (con l'introduzione del lavoro). Solo la corruzione di alcuni singoli individui rese necessario escogitare un sistema più efficace di protezione per le proprietà e le persone: un'associazione in cui il diritto potesse essere applicato da un'autorità. Il contratto su cui secondo Locke si basano lo S. e la società politica ha il solo scopo di tutelare meglio la proprietà dei singoli: un gruppo di individui si accordò in tal senso, senza perciò ledere il diritto di quanti preferirono restare invece allo stato di natura. Il popolo rimane ed è sovrano - non aliena cioè il proprio diritto - ma prende le decisioni a maggioranza. Le forme di Governo mutano in base alla collocazione del potere legislativo che è quello supremo: se le leggi sono votate a maggioranza direttamente dalla comunità, si ha una democrazia perfetta; se tale potere spetta a un gruppo ristretto, si ha un'oligarchia; se spetta ad un solo individuo (con carica ereditaria o elettiva che sia), si ha una Monarchia. In ogni caso l'azione dello S. deve essere sempre rispettosa delle leggi, deve perseguire l'interesse del popolo e delle sue proprietà: se il Governo non risponde a queste caratteristiche, il popolo - che è sempre depositario della sovranità - ha il diritto di reagire con la forza. Lo S., infine, deve essere tollerante in materia religiosa (come già aveva affermato Spinoza), perché il controllo di tale dimensione della vita umana eccede le sue finalità (sono escluse da tale tolleranza religioni che siano a loro volta intolleranti, soggette ad autorità civili esterne a quella dello S. di appartenenza - come i papisti - e gli atei, per loro natura asociali). Le teorie contrattualistiche possono anche essere definite utilitariste, in quanto l'adesione allo S. dei suoi membri avviene in virtù di un calcolo, appunto, utilitario (garanzia di autoconservazione di sé e dei propri beni nonché di una sfera di libertà personale ristretta ma protetta): il cittadino si sottomette al potere statale per interesse e vantaggio. Questo aspetto venne particolarmente sottolineato dalla riflessione settecentesca: secondo il pensiero illuminista lo S. non ha in sé il suo fine, ma riconosce il proprio obiettivo nello sviluppo e nella prosperità della società, nel progresso delle sue attività produttive, nell'incremento del benessere dei cittadini. Le forme di Governo risultano accettabili o meno in relazione alla loro capacità di assolvere a tale compito: la riflessione in merito portò alla formulazione di teorie politiche dette costituzionaliste, descrittive cioè della forma dello S. Su una posizione razionale e, almeno teoricamente, egualitaria si attestò Montesquieu: pur riconoscendo la democrazia come la forma istituzionale migliore - in cui il popolo è nello stesso tempo sovrano e suddito - il filosofo ne analizzò l'effettiva applicabilità in funzione della differente estensione territoriale e demografica degli S. Al centro della sua trattazione egli pose il problema della limitazione dei poteri dello S. per evitare che esso conculchi le libertà individuali: da tale preoccupazione teoretica derivò la dottrina - fondamentale nello sviluppo del pensiero politico occidentale - della divisione dei tre poteri (legislativo, politico e giudiziario): il corretto funzionamento dello S. dipende dal mantenimento del reciproco equilibrio tra essi. Per Rousseau, l'unico S. legittimo e di diritto è quello democratico, quello cioè in cui il popolo partecipi direttamente all'esercizio del potere unico e fondamentale: il legislativo. Mediante il contratto sociale il singolo diventa parte integrante della società politica e ne condivide la volontà generale (che si identifica con l'agire razionale in ordine alle necessità della comunità intera e non dei singoli o di gruppi particolari): gli atti razionali e universali di questa società sono le leggi. L'applicazione di queste ultime e la punizione di che le viola sono compiti affidati a magistrati, che esercitano una funzione di governo autonoma rispetto al potere legislativo ma non indipendente. Kant, invece, ripropose la tripartizione dei poteri dello S.: in particolare legislativo ed esecutivo devono essere esercitati da soggetti differenti, pena il dispotismo. Il primo tuttavia ha funzioni di controllo sul secondo e il diritto di deporre chi lo amministra o di cambiare la forma stessa della sua amministrazione. Titolare della sovranità è il popolo e compito dello S., per Kant, è quello di conservare e proteggere la pace e le condizioni necessarie al libero sviluppo della vita dei singoli: non deve perseguire direttamente la felicità dei singoli, ma garantire la pacifica coesistenza di liberi cittadini e di liberi S. Le dottrine politiche ottocentesche svilupparono la categoria dello S. di diritto in contrapposizione allo S. assoluto: in essa è vincolante il riconoscimento dei diritti naturali e inviolabili dei cittadini, tra cui spiccano l'eguaglianza, la libertà - individuale, di stampa, di associazione, di culto, ecc. -, il diritto di proprietà, di sicurezza, ecc. Al medesimo periodo risalgono tuttavia anche le dottrine cosiddette dello S. etico, il cui carattere essenziale sta nella concezione dello S. stesso non come uno strumento di cui il cittadino si vale, ma come un fine in sé: appartenere alla comunità statale diventa per il singolo non più una scelta di tipo tecnico e utilitario, contrattuale, ma un dovere morale. Esemplare di questa concezione dello S. è il pensiero hegeliano (V. HEGEL, GEORG WILHELM FRIEDRICH), secondo il quale lo S. ha un compito specifico da svolgere, diverso e superiore rispetto a quello dei singoli individui. Esiste in Hegel un dualismo, di opposizione e dipendenza reciproca, fra S. e società civile: quest'ultima consiste nell'insieme di fatto dei rapporti economici e di classe, mentre lo S. rappresenta l'ideale razionale in sviluppo. Esso si vale della società civile per il compimento dei suoi fini: è questa che comprende il sistema dei bisogni e vi risponde, mediante l'amministrazione dei servizi, il mantenimento dell'ordine, l'amministrazione della giustizia, la regolamentazione dei rapporti economici, ecc. Dalla dottrina hegeliana prese le mosse anche K. Marx, rovesciandone però il rapporto tra S. e società civile: lo S. diventa infatti, dal punto di vista marxiano, il prodotto della società borghese. Esso non è più inteso quale portatore di una missione superiore a quella dei singoli individui (per Hegel lo S. era un'espressione totalizzante dello spirito, un soggetto morale e non il portato di una determinata società, storicamente mutevole), ma un complesso burocratico e funzionale mediante il quale una classe domina sull'altra. Si noti come anche lo S. che Marx teorizzava sarebbe nato dalla rivoluzione proletaria avesse le medesime caratteristiche di potere di classe: la dittatura del proletariato sarebbe stata più democratica di quella borghese solo per il fatto di rappresentare un blocco sociale più numeroso e maggioritario. Molti pensatori successivi alla Rivoluzione russa (tra cui Rosa Luxemburg) rivendicarono la legittimità dell'uso della forza per creare lo S. proletario, ma sostennero - inascoltati - l'opportunità di adottare poi gli strumenti democratici nell'esercizio del potere. Durante il XX sec., trovò spazio sempre più ampio la concezione liberale dello S. - inteso come garante delle libertà individuali sia sul piano culturale e morale sia su quello politico-economico. Contemporaneamente si svilupparono anche teorie autoritarie e totalitarie: esse enfatizzarono la funzione dello S., attribuendogli compiti compensativi rispetto ad una presunta debolezza morale e spirituale dei singoli cittadini. Con questa giustificazione la presenza e l'iniziativa dello S. arrivò ad invadere, ad esempio nei regimi fascisti, ogni settore della vita personale dei cittadini, cui veniva negata ogni libertà che non fosse esplicitamente concessa dal potere statale. Di converso il pensiero anarchico tendeva a negare ogni autorità superiore in nome della inalienabile e assoluta libertà personale dei singoli, negando la validità di ogni delega nell'esercizio del potere statale (esperimenti di democrazia diretta furono tentati, ad esempio, nella Spagna repubblicana in lotta contro i ribelli franchisti). Di gran lunga prevalenti furono tuttavia le dottrine che si richiamarono allo S. di diritto, riconoscendo sia il diritto dei singoli alle libertà personali, sia quello dello S. di interferire con esse secondo quanto stabilito e garantito dalla legge. Afferiscono alla concezione dello S. di diritto sia il pensiero liberale - di matrice utilitarista - sia quello solidarista e socialista. Per il primo il compito precipuo dello S. è garantire l'esercizio della libertà individuale sia nella sfera spirituale (libertà di pensiero, di religione, ecc.), sia nella sfera economica (diritto di proprietà, di libera iniziativa imprenditoriale, ecc.); per il secondo, allo S. compete l'attiva promozione e tutela di un livello minimo di benessere economico e dell'eguaglianza sociale dei cittadini, anche mediante l'abolizione o la limitazione della proprietà privata e trasferimento alla società (associazionismo, cooperativismo) o allo S. (collettivismo) delle fonti di produzione. • Dir. - Perché l'ordinamento, l'organizzazione della vita collettiva di un gruppo umano possa definirsi come S. deve essere verificata la contemporanea presenza di tre elementi fondanti: un territorio, un popolo, un potere sovrano. Si intende per territorio di uno S. l'estensione geografica su cui sono validi ed efficaci un determinato ordinamento e una determinata sovranità. L'importanza di questo elemento per la sussistenza di un'entità statale si rileva anche dal fatto che, correntemente, lo S. è individuato in base al suo territorio, che lo distingue dagli altri S. Esso è elemento determinante, coessenziale allo S.: senza di esso lo S. non può esistere, in quanto il territorio rappresenta lo spazio che insieme limita e garantisce l'esercizio dei poteri statali. Ne consegue che istituzioni prive di base territoriale (come i Governi in esilio) non possono essere considerate entità statali. Parimenti, il territorio si configura come oggetto di utilizzo e di possesso da parte dello S. Le componenti territoriali di uno S. sono: lo spazio di superficie terrestre delimitato dai confini (siano essi naturali o convenzionali); il sottosuolo entro i medesimi limiti; lo spazio aereo sovrastante (anche secondo quanto stabilito dalle convenzioni internazionali); la fascia marina costiera entro i limiti stabiliti dai trattati internazionali (oggi, di norma, entro la linea delle 12 miglia). Si segnala anche, nell'ambito del diritto internazionale, l'istituto dell'extraterritorialità (V.). Le colonie non sono considerate parte del territorio di uno S. ma suoi possessi. Il popolo (V.) è il presupposto all'esistenza di ogni organismo statale, l'elemento personale necessario alla sua nascita, non potendosi dare uno S. cui non preesista un corpo sociale. In questo senso popolo è concetto giuridico che si distingue dal contiguo popolazione (V.), che ha invece valore puramente statistico, in quanto indica il dato numerico e strutturale del complesso di individui residenti e operanti in un dato territorio. Si definisce popolo di uno S. l'insieme dei cittadini, in quanto collettività unita e omogenea in relazione al godimento dei diritti civili e politici. Nei moderni regimi democratici il popolo è titolare e soggetto attivo della sovranità, arbitro delle proprie decisioni e depositario dei poteri politici, partecipando direttamente o, più spesso, indirettamente all'esercizio del Governo mediante gli organi di rappresentanza (V. DEMOCRAZIA). I cittadini sono, cioè, i soggetti giuridici che dalla loro condizione derivano diritti e doveri, in primo luogo l'esercizio della sovranità. L'assunzione del popolo come soggetto della sovranità e non come oggetto di essa (vale a dire il passaggio dell'individuo dalla condizione di suddito a quella di cittadino) segna il discrimine fra S. assoluto e democratico. La sovranità, infine, indica nel suo complesso la somma dei poteri dello S.: essa è originaria ed esclusiva perché non discende giuridicamente da nessun altro potere, ma è connessa al sorgere dello S. medesimo, e non consente l'esercizio sul territorio di altri poteri che non siano esplicitamente consentiti dallo S. (V. SOVRANITÀ). Per quanto riguarda la forma dello S. essa varia in relazione alla struttura e all'ordinamento costituzionale: si avranno S. nazionali o sovranazionali, unitari o federali, parlamentari o presidenziali, ecc. La forma di uno S. è di norma conseguenza della titolarità e dei modi in cui è esercitato il potere sovrano. ║ Lo S. persegue i propri scopi esercitando alcune funzioni fondamentali che, a prescindere dai diversi tipi di S., sono generalmente riconoscibili come: funzione legislativa (che stabilisce le norme e le regole cui la comunità obbedisce); funzione esecutivo-amministrativa (che riguarda il Governo concreto dello S.); funzione giurisdizionale (relativa all'accertamento e alla punizione della violazione di leggi); funzione politica (che consiste nell'attività di indirizzo e decisionale per il Governo della comunità). Se nella concezione assoluta e più antica dello S. queste funzioni potevano tutte accentrarsi nel re o in chi per esso, carattere precipuo dello S. moderno (derivato dall'esperienza del diritto pubblico inglese, della Costituzione statunitense e della Rivoluzione francese) è l'affidamento di ciascuna di esse a organi distinti e reciprocamente indipendenti, se pur tra loro coordinati. Nella Repubblica italiana, ad esempio, la funzione legislativa è esercitata dal Parlamento e, limitatamente, ai Consigli regionali; quella esecutivo-amministrativa al Governo e alle Giunte regionali; quella giurisdizionale dal corpo autonomo della Magistratura; quella politica dagli organi istituzionali (presidente, Parlamento, Governo, ecc.). ║ Si definiscono organi dello S. gli istituti mediante i quali lo S. esercita le sue funzioni. Si possono classificare in elettivi o non elettivi, rispettivamente quando la loro composizione sia indicata direttamente dal popolo o quando i singoli membri siano nominati da altri soggetti; altri organi, infine, come i magistrati, non sono eletti né nominati ma reclutati per concorso. In Italia, sono organi centrali costituzionali dello S. il Parlamento, il presidente della Repubblica, la Corte Costituzionale, il capo del Governo e il Governo. Sono organi di rilevanza costituzionale il Consiglio superiore della Magistratura, la Corte dei Conti, il Consiglio di S., il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro. Ad essi si aggiungono numerosi organi periferici, quali le istituzioni preposte al Governo degli enti locali territoriali, i prefetti, i questori, le sovrintendenze, ecc.