UN MONDO DI STATI
Ogni angolo di
terra è sottoposto alla sovranità di qualche Stato. Anche
l'Antartide, continente di ghiaccio estremamente inospitale, è
debitamente ripartita fra 7 Stati, senza che ciò pregiudichi lo
l’uso delle sue risorse da parte di altri Paesi, nonostante iniziali
sforzi in senso contrario. L'Antartide conserva sotto forma di ghiaccio il 70
per cento dell'acqua fresca mondiale, è un'importante fonte di proteine
animali ed è molto ricca di giacimenti di minerali. Non c'è dunque
da meravigliarsi: gli Stati non esitano neppure a tracciare le proprie acque
territoriali o ad assicurarsi lo sfruttamento esclusivo di zone
economiche.
Oggi esistono nel mondo Stati sovrani e Paesi o territori in
vario modo dipendenti. Si considerano Stati sovrani quelli riconosciuti come
tali dalla maggioranza dei Governi e delle organizzazioni internazionali; per
contro non sono considerati tali gli Stati nati da decisioni che sono rimaste
unilaterali. è il caso dello Stato Federato Cipriota Turco del 1974 e, in
tempi più recenti, della storia iniziale di nuovi Paesi, quali la
Repubblica di Lituania, il cui Parlamento, pur avendo votato l'11 marzo 1990,
contro la volontà del Governo centrale, l'indipendenza dall'Unione
Sovietica, non ottenne il riconoscimento come Stato fino al 6 novembre 1991. A
volte il tentativo di formare nuovi Stati nasce da una strategia repressiva dei
Governi: il vecchio Governo sudafricano, ad esempio, per segregare in territori
ristretti e privi di risorse una parte della popolazione nera, creò
all'interno dei confini nazionali una serie di piccoli Stati
«indipendenti», le cosiddette «patrie bantù», a cui
la comunità internazionale negò ogni riconoscimento.
La
maggior parte degli Stati odierni è nata dopo il 1945, dalla
volontà di emancipazione dei popoli extraeuropei dal dominio coloniale.
è un processo che, nelle sue linee essenziali, si può considerare
concluso alla metà degli anni Settanta, con la fine del dominio
portoghese in Angola, Mozambico e Capo Verde, anche se oltre una ventina di
Paesi hanno avuto accesso all'indipendenza in anni successivi e ancora oggi
persistono alcune situazioni di dipendenza. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia
e altri Stati potenti conservano volentieri i frammenti degli antichi imperi
coloniali, situati spesso in punti nodali del traffico mercantile e in zone
strategiche dal punto di vista militare: nello stretto di Gibilterra, nei
Caraibi, nell'Oceano Indiano occidentale, nel Pacifico.
In Africa la
Namibia, colonia tedesca affidata in amministrazione fiduciaria al Sudafrica
dopo la Prima guerra mondiale, ha dovuto sostenere una guerriglia ventennale
prima di poter dichiarare la propria indipendenza nel novembre 1989, mentre
è ancora dipendente la Repubblica Araba Democratica Saharoui (Sahara
occidentale), proclamata a partire dal 1976 sui territori dell'ex Sahara
spagnolo, annessi nello stesso anno dal Marocco, ai quali se ne sono aggiunti
altri nel 1979. Nel 1948, inoltre, la decisione di costituire lo Stato di
Israele ha aperto nel Medio Oriente una serie di tragici conflitti e provocato
la diaspora del popolo palestinese. Dal dicembre 1987 i territori di Gaza e
della Cisgiordania, occupati da Israele dal 1967 e sui quali l'Organizzazione
per la liberazione della Palestina ha proclamato lo Stato Indipendente
Palestinese, sono stati teatro della rivolta dei Palestinesi e di una durissima
repressione da parte israeliana. Solo nel 1991, con la Conferenza di Pace di
Madrid, per la prima volta Arabi ed Ebrei si sono riuniti al tavolo delle
trattative, muovendo i primi passi verso un’auspicata soluzione del
problema mediorientale che tuttavia non ha dato i frutti sperati. Nonostante i
molti tentativi (nel settembre 1993 lo storico accordo tra il ministro
israeliano Itzak Rabin e il leader dell'OLP Yasser Arafat, firmato a Washington,
che ha sancito l'autonomia dei territori di Gaza e Gerico; nel 1994 la nascita
ufficiale dell’Autorità Palestinese, responsabile
amministrativamente per Gaza e Gerico; nel 1998 gli accordi di Wye Plantation,
determinanti un ulteriore ritiro israeliano dai territori della West Bank), la
situazione, già a rischio nel 1995 dopo l’assassinio di Rabin,
precipitò rapidamente nel 2000, con la nascita della cosiddetta Seconda
Intifada che portò a un inasprimento del conflitto latente fino alle
estreme conseguenze del 2002 (occupazione dei territori palestinesi, attacchi
kamikaze palestinesi, massacro del campo profughi palestinese di Jenin, assedio
alla Basilica della Natività di Betlemme, assedio al quartier generale di
Arafat, ecc.).
Il processo di decolonizzazione politica è giunto
alle sue ultime battute, ma sarebbe sbagliato trarne la conclusione che ci
troviamo finalmente in presenza di una situazione stabile e definitiva, almeno
sotto l'aspetto dell'identità territoriale dei singoli Stati.
In
molti casi l'aggregazione arbitraria di popolazioni diverse entro gli stessi
confini, la violazione da parte del Governo centrale di diritti economici e
politici delle minoranze, la spinta ad affermare con forza un'identità
culturale linguistica o religiosa, hanno portato alla nascita di movimenti
separatisti e indipendentisti. Eclatante in questo senso l'esempio della
Jugoslavia (vedi oltre).
Alcuni Stati non esercitano più la
sovranità effettiva su vaste porzioni del loro territorio; potremmo
citare ad esempio l'Etiopia, dove il Fronte Popolare di Liberazione dell'Eritrea
e il Fronte del Tigray, per anni hanno controllato quasi completamente le due
regioni in cui operavano, nonostante esse fossero ufficialmente facenti parte
dello Stato etiope. Solo dopo decenni di guerra, l'Etiopia si è vista
costretta a cedere il controllo dell'Eritrea che, con un referendum popolare
tenutosi nell'aprile 1993, ha sancito la propria indipendenza, diventando il
53° Stato africano e scatenando lunga e sanguinosa una guerra di confine
proprio con l’Etiopia.
Il Sudan è diviso dalla guerra fra
forze governative ed Esercito Popolare di Liberazione insediato nelle regioni
meridionali non musulmane; il Ciad è stato, fino al 1994, in una
situazione analoga, con la regione di Aouzu, al confine con la Libia, occupata
dalle truppe del Fronte Nazionale e da reparti libici (nel 1994 venne emanato un
atto dalla Corte internazionale di giustizia che sancì la
sovranità del Ciad sul territorio). L'Unione Indiana, che è un
mosaico intricatissimo di popoli, lingue e religioni, deve periodicamente
fronteggiare le spinte centrifughe di gruppi particolari, dal movimento
secessionista islamico del Kashmir, alla guerriglia del Fronte di Liberazione
Gurkha nella regione del Darjeeling. In particolare, si è poi assistito a
una nuova ondata di fanatismo religioso da parte degli integralisti indù,
che ha provocato diverse centinaia di morti.
L'elenco potrebbe, purtroppo,
continuare a lungo, spostandosi nei diversi continenti.
L'Europa non
può considerarsi al riparo da cambiamenti. Da un lato, in questi ultimi
anni i grandi gruppi economici hanno spinto verso un'integrazione politica ed
economica sovranazionale dei Paesi della Cee, divenuta ufficiale in seguito alla
ratifica del Trattato di Maastricht. Alla fine del 1993 ha infatti preso il via
l'Unione europea all’interno della quale si è che proceduto
all'abolizione delle frontiere, sia per le merci sia per le persone, tra gli
Stati membri della Comunità europea. Dall'altro si è assistito, in
senso diametralmente opposto, alla nascita di nuovi movimenti regionalisti e
localisti, che si sono aggiunti a quelli storici come l'indipendentismo basco ed
irlandese. In merito a quest'ultimo è opportuno aprire una breve
parentesi. Alla fine del 1993, infatti, per la prima volta il governo britannico
si è dichiarato pronto ad aprire un dialogo con l'Ira, l'organizzazione
clandestina irlandese. Le trattative, conclusesi nel settembre 1994, hanno
portato a uno storico annuncio da parte dell'esercito terrorista dell'Ulster
della sospensione delle azioni terroristiche. Il cessate il fuoco ebbe fine nel
1996, con la bomba posta ai Docklands di Londra, e trovò uno dei momenti
più drammatici nell’agosto 1998, quando una bomba a Omagh uccise 28
persone (qualche mese dopo l’accordo del venerdì santo per una
soluzione al problema nordirlandese con un graduale passaggio di poteri dal
Governo centrale a un’assemblea nordirlandese), ma il 6 maggio 2000 venne
annunciata da parte dell’Ira la totale consegna delle armi. In
realtà, nonostante un’iniziale disponibilità da parte della
maggioranza della popolazione e del movimento, l’accordo non venne mai
completamente rispettato; nel 2001, però, si pervenne a un nuovo
tentativo di disarmo.
Le recenti spinte nazionaliste e separatiste hanno
avuto conseguenze molto importanti, modificando in modo radicale la situazione
politica del Vecchio Continente. Il caso più eclatante che possiamo
citare in proposito è quello della Federazione delle Repubbliche
jugoslave. All'inizio degli anni Novanta, infatti, anche la Jugoslavia è
stata investita dall'ondata di cambiamento che ha interessato tutti i Paesi
dell'Est europeo. Dopo mesi di sanguinosi combattimenti, nel 1991 la Slovenia e
la Croazia hanno dichiarato la propria indipendenza, riconosciuta ufficialmente
a livello internazionale, mentre l'anno seguente anche Macedonia,
Bosnia-Erzegovina e Kosovo hanno dato voce alle loro istanze separatiste,
ponendo virtualmente fine alla Federazione jugoslava. La dichiarazione di
indipendenza di queste ultime è stata però duramente osteggiata
dalla Serbia, che ha più volte represso nel sangue le proteste del Kosovo
(costringendo, nel 1999, la Nato a un pesante intervento), annettendolo
forzatamente nella nuova Repubblica federale di Jugoslavia, mentre ha dato
origine a un cruento e terribile conflitto nella regione della Bosnia-Erzegovina
protrattosi fino al 1995, anno degli accordi di Dayton che sancirono
l’unità di uno Stato formato da due entità
amministrativamente indipendenti, la Federazione croato-musulmana, comprendente
il 51% del territorio, e la Repubblica serba Srpska, occupante il restante 49%.
Alla fine degli anni Novanta quella che era stata per decenni la Confederazione
jugoslava si era trasformata in un insieme di Stati vicini: Slovenia, Croazia,
Bosnia-Erzegovina, Repubblica federale di Jugoslavia (Repubbliche di Serbia e
Montenegro) e Macedonia.
Il vento di rinnovamento ha portato a
trasformazioni di enorme portata in tutta l'Europa orientale. Prima fra tutte la
Germania che, dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1990 si è
ufficialmente riunificata sul piano politico e su quello economico-monetario. Il
cambiamento, però, di maggiore rilievo è stato sicuramente
determinato in seguito alla scissione dell'Urss. Il crollo dell'impero
sovietico, oltre ad aver avuto notevoli ripercussioni a livello socio-economico
e politico mondiale, ha segnato simbolicamente la fine di un'ideologia, di
un'era dalla quale non si può prescindere nell'affrontare un'analisi
della storia contemporanea. Con una rapidità sorprendente, nel corso dei
primi anni Novanta i Paesi appartenenti a quello che era il blocco orientale
hanno modificato radicalmente non solo il loro assetto politico, ma hanno anche
tentato di riorientare l'economia secondo il modello del libero mercato, anche a
costo di gravi scompensi sociali.
Questo passaggio è avvenuto
necessariamente in modo graduale ed estremamente complesso. Dal punto di vista
prettamente politico, le nuove nazioni, sorte dalle ceneri dell'Unione
Sovietica, si sono riunite nel 1991 nella Comunità di Stati indipendenti
(Csi) che ha visto l'adesione di quasi tutte le ex nazioni dell'Urss, eccezion
fatta per la Georgia (entrata solo nel 1993) e i tre Paesi Baltici (Estonia,
Lettonia, Lituania). La neonata Csi ha dovuto affrontare numerosi ostacoli, tra
cui la necessità di adottare costituzioni politiche pluralistiche e
quella di fronteggiare il risorgere dei nazionalismi e delle rivendicazioni
delle minoranze etniche, alimentatesi anche grazie al grave dissesto economico.
Infatti, accanto ai problemi di carattere politico, i nuovi Stati hanno dovuto
modificare fin dalle fondamenta il loro edificio economico e finanziario,
avviando il processo di destatalizzazione e privatizzazione delle imprese,
riformando la politica dei prezzi e quella agraria e cercando di incentivare gli
investimenti stranieri. La nuova svolta democratica ha rivestito un'importanza
notevole sul piano internazionale, andando a modificare completamente l'assetto
stabilitosi negli anni Ottanta a livello di politica mondiale. L'avvio del
processo di democratizzazione è stata infatti la discriminante
fondamentale per l'instaurarsi di un rapporto di collaborazione con l'Occidente
e con gli Stati Uniti, disposti a investire nei Paesi dell'ex Urss
proporzionalmente al livello raggiunto dalle riforme politiche ed economiche. In
particolare, nel quadro della politica di distensione portata avanti con gli
Usa, nella fase iniziale sono stati significativi i trattati sul disarmo, il
ritiro del contingente armato da Cuba e la sospensione delle forniture militari
all'Afghanistan.
Nel travagliato passaggio alla democrazia, in quasi tutti
gli ex Stati del blocco orientale si sono potuti rilevare alcuni denominatori
comuni, tra cui la difficoltà di affrontare concretamente il grave
dissesto economico e l'individuazione di linee politiche comuni ad alleanze di
gruppi assai eterogenei. Paradigmatica da questo punto di vista è stata
la vicenda della Cecoslovacchia, conclusasi con la formazione nel 1992 di due
nazioni, la Repubblica Ceca e la Slovacchia. L'avvio dell'economia di mercato ha
comportato pesanti e inevitabili sacrifici, con un aumento esponenziale dei
prezzi dei generi di prima necessità e un'impennata del tasso di
disoccupazione. La svolta liberista, inizialmente accolta con grande entusiasmo,
si è dunque rivelata estremamente problematica e costosa, ma necessaria
per poter modificare in senso positivo l'assetto politico ed economico anche a
livello mondiale.
SPARTIZIONE DELL'ANTARTIDE
Gli Stati tendono all'accaparramento di
territori, le cui risorse dovrebbero essere considerate un bene comune di tutta
l'umanità. Un esempio macroscopico è la situazione dell'Antartide,
la terra australe grande due volte e mezza l'Europa occidentale, circondata da
un oceano aperto, con una calotta glaciale che scende ad una profondità
media di 2300 m, l'unico dei continenti privo di insediamenti umani di antica
data.
L'Oceano antartico è ricco di banchi di krill, alimento base
di otto specie di balene, che viene già raccolto su vasta scala nel Mar
Glaciale Artico, per ricavarne mangime. Le catene montuose dell'Antartide,
prosecuzioni delle Ande sudamericane e del Rand del Sudafrica, contengono come
queste una vastissima gamma di minerali, dal ferro, al rame, al cromo, al
cobalto, ai metalli preziosi; intorno alla piattaforma continentale vi sono
inoltre grandi giacimenti di metano e di petrolio.
Fin dal 1943, prima
ancora che venissero alla luce le sue enormi potenzialità economiche,
sette Stati (Regno Unito, Argentina, Cile, Nuova Zelanda, Australia, Francia e
Norvegia) avanzarono diritti di sovranità sulla maggior parte del
territorio antartico. Da notare che il settore di pertinenza britannica coincide
in larga misura con quello argentino e parzialmente col territorio rivendicato
dal Cile. Nel 1959 i sette Stati sottoscrivevano insieme ad altri cinque (Stati
Uniti, Unione Sovietica, Giappone, Sudafrica e Belgio) il Trattato antartico,
impegnandosi a fare dell'Antartide una zona demilitarizzata, priva di impianti
nucleari e liberamente accessibile a insediamenti per la ricerca
scientifica.
Gli impegni sono stati mantenuti, e oggi il territorio
è gestito da un gruppo di Stati potenti, a cui si sono aggiunti, a
partire dalla fine degli anni Settanta, l'India, il Brasile, la Germania, la
Polonia, l’Italia, la Russia (al posto dell’Unione Sovietica), il
Canada, e altri, impegnati in loco in ambito scientifico. Contro questo
monopolio protestano non solo numerosi gruppi ambientalisti, promotori di
progetti di radicale salvaguardia del continente da ogni ipotesi di intervento
umano, ma anche i Paesi esclusi che da vari anni propongono di sottoporre
l'Antartide ad un'autorità internazionale, capace di garantire la
partecipazione di tutte le nazioni alle attività di sfruttamento
concordate.
IL COSTO DELLA GUERRA
Enorme è la quantità di
risorse che gli Stati impiegano nel settore delle spese militari: non si tratta
soltanto di mezzi finanziari direttamente destinati all'acquisto di strumenti
bellici sempre più efficaci, ma di investimenti che implicano campi anche
non immediatamente e evidentemente collegati con l'industria della guerra, e che
vanno dalla ricerca teorica «pura», alle più minute ideazioni
applicative. Non soltanto grandi somme di denaro, dunque, ma anche intelligenza,
immaginazione, invenzione sono finalizzate alla distruzione del potenziale
nemico.
I dati in proposito presentano non trascurabili problemi
interpretativi. Da un lato non è sempre ricavabile, dai bilanci degli
Stati, l'effettivo ammontare delle spese militari globali; ciò accade ad
esempio quando taluni corpi armati non dipendono dal Ministero della Difesa di
un Paese ma, poniamo, dal Ministero dell'Interno, o nei molti casi in cui somme
significative vengono stanziate per fini militari, ma all'interno dei bilanci di
istituzioni e servizi civili, ad esempio degli enti di ricerca o di quelli che
gestiscono le telecomunicazioni. D'altro lato gli indicatori economici che
consentono di stimare l'entità del Prodotto Interno Lordo (Pil) non sono
omogenei per tutti gli Stati, tanto a causa delle diverse situazioni strutturali
(per esempio nel caso dei Paesi a economia pianificata), quanto per le grandi
differenze esistenti sul piano dei metodi delle rilevazioni statistiche: in
questo senso, mancando la possibilità di una standardizzazione delle
informazioni, i dati a disposizione per poter effettuare un'analisi vanno intesi
come le più precise approssimazioni disponibili.
Le spese militari
sono in sostanza indipendenti dalle caratteristiche dei regimi istituzionali che
governano i diversi Paesi (democrazie di tipo occidentale, regimi autoritari,
ecc.), mentre, con ogni evidenza, dipendono dalle logiche degli schieramenti nei
blocchi politico-militari e, naturalmente, dalle tensioni a livello regionale.
Negli anni della «guerra fredda», per esempio, il peso delle spese
militari negli Stati Uniti, nell'Unione Sovietica e nell'area del Vicino Oriente
era notevole; in alcune zone dell'Africa taluni Paesi spendono tutt'oggi a scopi
militari dal 40 al 60 per cento del proprio bilancio, secondo valutazioni
realistiche, mentre i dati riguardanti altri Stati si presuppongono largamente
sottostimati. Risulta anche evidente che il peso delle spese militari dipende
dalle tensioni esistenti tra molti Stati, come ad esempio in Medio Oriente e in
altri settori dell'Estremo Oriente. Influiscono ovviamente anche i conflitti
interni (ma i costi della repressione interna sono generalmente bassi, a meno
che non si abbiano forme di guerriglia organizzata) o di confine, che impegnano
numerosi Paesi dell'America centrale. Per quanto riguarda invece l'America
meridionale, si potrebbe ricordare che la spesa militare ed il debito estero
sono strettamente connessi. Una parte significativa del debito estero
sudamericano attuale è infatti diretta conseguenza degli acquisti di armi
avvenuti nel corso degli anni Settanta.
A proposito della presenza di
militari stranieri nei diversi Stati, presenza che in parte corrisponde agli
schieramenti delineatisi dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale,
risulta difficile fare un'analisi globale in quanto vi sono numerose situazioni
possibili, che vanno dalla presenza dei cosiddetti «consiglieri
militari» a vere e proprie occupazioni armate, che andrebbero studiate caso
per caso.
IL POTENZIALE NUCLEARE
Fino all'inizio degli anni Novanta, gli
ordigni nucleari che componevano l'arsenale mondiale sarebbero stati in totale,
secondo stime ufficiali, circa 55.000, nella stragrande maggioranza in possesso
degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, mentre soltanto sei o settecento
sarebbero stati quelli della Cina e molto meno quelli della Francia e della Gran
Bretagna. Sarebbe inutile soffermarsi a sottolineare lo smisurato potenziale
distruttivo di tali armamenti; è tuttavia necessario ricordare come a
partire dalla conclusione della Seconda guerra mondiale, quando le prime bombe
atomiche vennero lanciate dagli Stati Uniti sul Giappone, la progressiva
escalation degli armamenti nucleari dei due blocchi si sia andata configurando
una sorta di equilibrio fra le due maggiori potenze mondiali, fondato sulla
consapevolezza della irreversibilità dei processi che si sarebbero
innescati non solo in caso di una guerra, ma anche solo quando si fosse
verificato un errore, umano o tecnico, nell'interpretazione di un evento non
previsto riguardante le relazioni fra le potenze.
Il permanere di un
equilibrio posto su basi di questo tipo ha richiesto da un lato ingentissimi
investimenti (gli armamenti nucleari presuppongono infatti l'esistenza di
avanzatissime infrastrutture industriali), imponendo dall'altro che il settore
nucleare militare rimanesse di fatto monopolio degli Stati «guida» dei
due blocchi. In questo senso si è anche proceduto a livello dei rapporti
internazionali quando, nel 1968, è stato sottoscritto il trattato per la
non proliferazione delle armi nucleari, con l'obiettivo di rafforzare la
stabilità e la sicurezza delle relazioni fra gli Stati ma anche, secondo
taluni Paesi, sancendo e garantendo ulteriormente la condizione di predominanza
di Usa e Urss.
Anche con giustificazioni di questo tipo diversi Paesi si
sono rifiutati di sottoscrivere quel trattato e hanno proseguito in
attività nucleari potenzialmente convertibili per la produzione di
armamenti atomici. Secondo valutazioni abbastanza attendibili per la loro
moderazione un gruppo di Paesi sono stati tenuti sotto controllo per il loro
operare nel settore, in quanto incombeva sempre il rischio che possano diventare
potenze nucleari a tutti gli effetti; si potrebbe portare ad esempio Israele,
India, Pakistan, Sudafrica, Argentina e Brasile.
Questa impostazione
strategica militare è diventata però superata alle soglie degli
anni Novanta quando, con la disgregazione dell'impero sovietico, si sono
radicalmente modificati i rapporti politici internazionali. Fino a quel momento,
l'equilibrio tra i due blocchi, occidentale e orientale, era stato l'obiettivo
fondamentale degli strateghi. Con il mutare della situazione politica, economica
e militare, si è assistito a una svolta anche nel settore della
produzione e del commercio degli armamenti. Gli anni Novanta infatti si sono
aperti con un tentativo da parte di Usa, Europa e Stati dell'ex Unione Sovietica
di ridurre sostanzialmente la produzione delle armi, attuando una sostanziale
riconversione delle industrie militari a impianti civili. Il passaggio è
risultato essere indubbiamente difficile e problematico, soprattutto per il
fatto che il Giappone e i Paesi del Terzo mondo hanno continuato ad investire
nell'approvvigionamento di armi. Nonostante il fatto che il "mercato della
guerra" continui ad essere il business per eccellenza, in questi anni sono stati
stipulati importanti accordi che pongono le basi per un ridimensionamento del
potenziale atomico e militare mondiale. Innanzi tutto, nel 1990 la NATO e il
Patto di Varsavia hanno siglato il trattato CFE sulla riduzione delle forze
convenzionali in Europa, mentre Stati Uniti e Unione Sovietica hanno cominciato
a prendere accordi per una limitazione delle armi chimiche. Alla fine di luglio
del 1991 è stato firmato dai presidenti Bush e Gorbaciov il trattato
Start 1 che prevede il taglio di circa un terzo degli arsenali nucleari
strategici delle due superpotenze. Questo accordo ha assunto una valenza
particolare, in quanto per la prima volta si è parlato non solo di una
limitazione degli arsenali, ma di una riduzione del potenziale bellico. Si
è trattato quindi di una svolta epocale che ha posto le basi per il
successivo accordo (Start 2) firmato nel gennaio 1993 da Bush ed Eltsin. Con
esso si è concluso quel periodo storico apertosi con il trattato di
Yalta, stipulato tra Roosvelt, Churcill e Stalin nel 1945, che stabiliva il
nuovo assetto militare dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il trattato
Start 2, ratificato in seguito dalla Duma (2000), prevedeva, entro il 2007, la
riduzione a 3.500 del numero delle testate nucleari possedute da ognuno dei due
Paesi. In realtà accordi successivi resero lo Start obsoleto e nel 2002 la Russia ritirò il proprio appoggio perchè non sussistevano più le premesse della sua esistenza.