(dal greco
sotería:
salvezza e
lógos: discorso). St. delle rel. - Dottrina
religiosa pertinente al problema della salvezza sia dell'uomo in quanto
individuo sia del cosmo. Elemento comune a tutte le esperienze religiose che
possono essere definite
soteriologiche è infatti la nozione di
salvezza, che può prevedere o meno la presenza di un dio
salvatore. A seconda dei contesti socio-religiosi, il significato del
termine salvezza si determina in funzione dell'elemento negativo da cui il
singolo aspira ad affrancarsi. Si può dunque parlare di salvezza dal
male, dal peccato e dalla colpa, dalla condizione umana, dalla prigione del
corpo e della materia in genere, dai cicli cosmici, ecc. In generale si
può affermare che le religioni di interesse etnologico o a base statale
erano scarsamente orientate a contenuti soteriologici e più incentrate su
problematiche cosmologiche, finalizzate a giustificare e a garantire
l'equilibrio tra i vari aspetti della realtà fenomenica (ivi compresi il
bene e il male) e sociale (preminenza di una classe sull'altra, di un popolo
sull'altro, ecc.), perché fosse possibile la vita e la prosperità
della comunità (che coincideva appunto con lo Stato). Di
s.
è possibile parlare solo nell'ambito di religioni sovranazionali e a
carattere universale, il cui scopo era quello di proporre all'uomo una dottrina
di salvezza. I
misteri (V.) della Grecia
antica, forme svincolate dal culto pubblico delle
polis, ebbero carattere
soteriologico: l'iniziazione a questi riti era infatti una garanzia di salvezza
per il singolo fedele. Le più tipiche
s. furono sviluppate
all'interno delle religioni universali: sono tali, ad esempio, le grandi
dottrine dell'eterodossia indiana, Buddhismo e Giainismo, in cui l'aspirazione
alla salvezza non è meno caratterizzante per il fatto che non sia
prevista una divinità salvatrice. Elemento fondante la loro
s.
è il disvelamento del carattere illusorio (
maya) di ciò che
chiamiamo realtà e la liberazione dall'inganno dell'esistenza nel mondo
mediante la liberazione dai desideri e la rinuncia ai beni materiali che, quando
siano perfette, consentono la salvezza, cioè il raggiungimento del
nirvana. Assai differente era invece la prospettiva soteriologica della
grande religione fondata da Zoroastro: in base a una concezione del mondo come
luogo in cui si fronteggiano il Bene e il Male, la salvezza finale è
rappresentata dalla sconfitta di quest'ultimo. Di particolare interesse è
la
s. dell'Ebraismo che, pur essendo nato come religione etnica e
nazionale, ha considerato centrale il tema della salvezza: inizialmente intesa
come salvezza del popolo e della Nazione di Israele, solo in un secondo tempo si
sviluppò nella prospettiva di una salvezza individuale. Il popolo era
dunque chiamato ad aderire all'Alleanza con Yahvé affinché Dio
salvasse e rendesse prospero il Suo popolo: Dio è invocato come
“salvatore” e il momento centrale della sua rivelazione è la
liberazione di Israele dalla schiavitù. Solo all'epoca della Monarchia e
poi dei profeti la dimensione nazionale della salvezza acquisì un
carattere universale e, dunque, personale. Dio, soprattutto nei Salmi, è
cantato come Colui che corre in soccorso del debole e di chi lo prega (si pensi
al salmo “Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l'aiuto?
Il mio aiuto viene dal Signore, egli ha fatto cielo e terra”). Le attese
messianiche interpretano le aspirazioni salvifiche di Israele sia in quanto
popolo (in particolare perché soggetto a una dominazione straniera da cui
attende la liberazione) sia in quanto singoli fedeli che aspirano a una vita
terrena migliore. Con il progredire della dimensione escatologica (per lungo
tempo l'Ebraismo non contemplò l'idea di un giudizio
post mortem)
il contenuto soteriologico si specificò come liberazione dal peccato e
come premio di beatitudine dopo la morte. Nell'Islam, la
s. si sostanzia
di contenuti assai affini a quelli dell'ambito giudeo-cristiano, collegandosi
strettamente con la dimensione escatologica e l'intermediazione di Maometto, che
orienta il credente alla fede nel vero Dio. ║
S. cristiana: i
Vangeli hanno tramandato la figura di Gesù Salvatore sottolineando il
carattere personale e concreto della salvezza di cui Egli era portatore (si
pensi al riferimento alle parole di Isaia “i sordi odono, i muti parlano e
a chi era cieco ho ridato la vista”), non mai disgiunta da una più
profonda e spirituale liberazione (“ti sono rimessi i tuoi peccati”
dice Gesù al paralitico che lo implora di guarigione). Nel contesto
evangelico, la perdizione dell'uomo si configura essenzialmente come lontananza
da Dio, sordità alla Sua parola e, dunque, la salvezza si realizza
mediante la
vicinanza di Dio stesso: per questa ragione il momento
centrale della salvezza è l'
Incarnazione. La condivisione da parte
di Dio della natura umana è condizione per l'avverarsi della
Redenzione dal male estremo, che è la morte. Tutti questi elementi
sono ulteriormente sviluppati nell'epistolario di Paolo
(V. PAOLO, SANTO): nella teologia paolina la
s. si connette ai temi della giustificazione per fede. L'uomo, anche
quando sia fedele esecutore della legge, non è in grado di salvarsi con
le sue sole forze, egli è impotente davanti al proprio peccato: solo
l'intervento redentore del Figlio (che realizza il paradosso della trascendenza
divina incarnata nel tempo storico) è fonte di salvezza per l'uomo. Nel
vocabolario di Paolo, i termini “carne” e “spirito” sono
tra loro in opposizione ma non vengono disgiunti sul piano metafisico: la
salvezza che giunge all'uomo dalla fede e dal riconoscimento di appartenere a
Dio non è liberazione
dal corpo ma
del corpo in quanto
trasformato come il corpo glorioso di Cristo risorto, che comprende l'uomo nella
sua interezza corporea e spirituale. La Risurrezione di Cristo è infatti
primizia del destino cui tutti gli uomini, giudei o gentili, sono
chiamati: Cristo ha già vinto la battaglia contro il Male e la morte, ma
noi ne attingeremo la completa salvezza solo alla fine dei tempi. La riflessione
soteriologica si è approfondita nel corso dei secoli: nel II sec. essa si
concentrò soprattutto in reazione alle dottrine gnostiche
(V. GNOSTICISMO), per le quali la salvezza
coincideva con la liberazione dalla corporeità (secondo un'equazione
corpo = Male; spirito = Bene). Dalla disputa tra eresia docetista
(V. DOCETISMO) e ortodossia, la Patristica
(V.) - in particolare quella greca poi seguita da
quella latina - sviluppò la dottrina detta
realistica: attraverso
la sua reale e non apparente incarnazione e morte Gesù Cristo ha
riscattato l'uomo peccatore, che non era in grado di pagare da sé
il prezzo del suo riscatto dalla colpa. La tesi della cosiddetta
sostituzione
vicaria si impose con la Scolastica e venne sistematizzata da sant'Anselmo
(V. ANSELMO D'AOSTA, SANTO) nel suo trattato
Cur Deus homo: l'incapacità dell'uomo di autosalvarsi rende
necessaria la passione dell'uomo-Dio che in quanto uomo soffre
veramente
e in quanto Dio dà valore universale e salvifico alla propria sofferenza.
Diverse furono le posizioni circa l'inevitabilità dell'Incarnazione: per
la scuola francescana, e in particolare per Duns Scoto, anche se l'uomo non
fosse stato peccatore Dio avrebbe manifestato ugualmente la Sua infinità
bontà incarnandosi. Secondo san Tommaso, invece, senza peccato non ci
sarebbe stata Incarnazione (
felix culpa): tuttavia il sacrificio
redentore di Cristo fu compiuto secondo una volontà libera, piena di
amore verso l'uomo e di obbedienza verso il Padre, e fu sovrabbondante,
cioè non semplicemente adeguato alla colpa. Su questo punto fu
dissenziente la Riforma di Lutero, che riteneva l'espiazione conseguente al
sacrificio di Cristo come rigorosamente adeguata alla colpa: non esisteva
cioè una sovrabbondanza di meriti, derivante dalla Redenzione, che la
Chiesa fosse chiamata ad amministrare in favore degli uomini e con la loro
diretta partecipazione (cioè con le buone opere). Il Concilio di Trento
riconfermò invece la dottrina tomista: la Croce non fu solo un evento di
remissione dei peccati ma una sorgente di santificazione perenne e
sovrabbondante. Tale santificazione ha origine nella bontà di Dio ma non
può essere goduta senza una effettiva partecipazione del credente, che
deve essere aperto alla fede e disposto a compiere le buone opere.