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Sociologìa.

Scienza dei fatti sociali in quanto spiegabili attraverso leggi generali. • Encicl. - La s. nacque nel XIX sec., allorché, con la Rivoluzione industriale, maturarono in Europa condizioni socio-economiche tali per cui la società iniziò a essere vista come oggetto dotato di una sua propria struttura nomologica, per indagare la quale occorreva un metodo analogo a quello in uso presso le scienze naturali. Di questa esigenza si fece portatore K. Marx; sebbene a rigore non possa essere considerato un sociologo, Marx, con l'introduzione della dottrina del materialismo storico e con l'utilizzo di categorie concettuali desunte dall'analisi empirica (classi sociali, divisione del lavoro, ecc.), ha nei fatti posto le premesse perché la s. potesse sorgere. Un altro autore che notevole peso ebbe nella nascita della s. come scienza autonoma fu C.-H. de Saint-Simon: egli, infatti, partendo dall'osservazione che la società moderna si caratterizzava essenzialmente per lo sviluppo dell'industria, argomentò in favore della costruzione di un nuovo tipo di sapere in grado di unificare le conoscenze umane e permettere l'integrazione sociale; egli sostenne, inoltre, la necessità che a capo di questo progetto fossero posti gli industriali e gli scienziati. Fu, però, solo negli anni Venti del XX sec., con A. Comte, che il termine s. fu coniato ed entrò in uso. Il filosofo francese, riprendendo le idee di Saint-Simon, teorizzò l'esigenza di costruire una scienza positiva, capace di fissare le leggi oggettive che governano lo sviluppo delle società; tali leggi vennero da Comte individuate nella cosiddetta legge dei tre stadi, in base alla quale la società è soggetta a un processo evolutivo che si compie attraverso tre fasi (fase teologica, fase metafisica, fase positiva). Questa visione della società quale organismo naturale, cui possono, pertanto, essere anche applicate le teorie evoluzioniste di C. Darwin, fu allora abbracciata da molti altri; ad esempio, si ritrova nel pensiero di H. Spencer, nonché nella riflessione di numerosi giuristi italiani (R. Ardigò, C. Lombroso, E. Ferri). Allo stesso modo, ebbe molti sostenitori l'approccio metodologico inaugurato da Comte, secondo cui la s. è scienza al pari delle scienze naturali e deve, dunque, impiegare modelli di spiegazione generalizzante; esponente di spicco di questo indirizzo teoretico fu E. Durkheim, cui va, anzi, il merito di aver fondato epistemologicamente la s. come scienza empirica. Secondo Durkheim, oggetto della s. sono i fatti sociali visti come modi di sentire, di pensare o di agire in grado di avere esistenza autonoma rispetto agli individui e di influenzarne la condotta; compito del sociologo è quello di unire questi fatti tra loro collegati mediante la costruzione di una trama di nessi causali. Su linee analoghe a quelle di Durkheim, si mosse V. Pareto, il quale argomentò che le uniche possibilità di ricostruzioni sociologiche con valore scientifico dipendono dalla possibilità di studiare le azioni logiche degli individui e di derivarne modelli generali di comportamento. Alternativo a questo impianto metodologico (e, comunque, minoritario nella storia della s.) fu l'approccio adottato all'inizio del XX sec. da autori come W. Windelband, H. Rickert e W. Dilthey i quali, sostenendo che in s., al posto della spiegazione generalizzante, dovevano essere adottate strategie di tipo interpretativo e che l'oggetto di analisi doveva essere studiato nella sua unicità e irripetibilità, avvicinarono lo statuto epistemologico della s. a quello della ricerca storiografica. La distinzione tra scienze della natura e scienze sociali, affermata con toni più o meno marcati da tutti questi autori, venne ricomposta da M. Weber, il quale, pur riconoscendo il fatto che le scienze sociali si occupano principalmente delle interpretazioni dei fenomeni, evidenziò come esse non rinuncino del tutto alle generalizzazioni e alle costruzioni di leggi, ancorché facendone strumenti prettamente euristici (come, ad esempio, nel caso del tipo ideale). Da allora in avanti la s. oscillò continuamente tra i due estremi della tendenza alle grandi generalizzazioni e del riferimento al dato empirico. Il primo approccio fu proprio soprattutto di quei sociologi che accettarono la lezione struttural-funzionalista di T. Parsons; tra questi, si ricordano G.C. Homans, E. Shils, N.J. Smelser e R.K. Merton. A quest'ultimo, in particolare, si devono alcune novità teoretiche di rilievo come, ad esempio, la sostituzione del funzionalismo assoluto di Parsons con un funzionalismo relativo (che pone in dubbio il postulato secondo cui tutti gli elementi del sistema tendono a un equilibrio stabile) o l'idea dell'esistenza nel sistema di disfunzioni (accanto alle funzioni) e di funzioni latenti (assieme a quelle manifeste). Sul versante empirista spicca, invece, l'elaborazione teorica di F. Tönnies, E. Troeltsch, G. Simmel e, più avanti, della cosiddetta scuola di Chicago, della quale massimo esponente fu P.F. Lazarsfeld e che contribuì a porre l'accento sulla necessità che la s. si servisse di analisi statistico-quantitative. Il dibattito sullo statuto epistemologico della s. si venne a intrecciare nel corso del XX sec. con un'ulteriore alternativa metodologica, precisamente quella tra Individualismo e Olismo. Secondo i sostenitori dell'Individualismo metodologico (tra i quali possiamo annoverare i pensatori della cosiddetta scuola austriaca C. Menger, L. von Mises e F. von Hayek), la s. deve concentrarsi esclusivamente sulle azioni degli individui in quanto capaci di generare, ancorché in modo non intenzionale, ordini sociali efficaci. Al contrario, secondo i propugnatori dell'Olismo (tra cui spiccano gli esponenti della cosiddetta scuola di Francoforte M. Horkheimer e T.W. Adorno) concetti collettivi come Stato, classe sociale, ecc. sono indispensabili per la comprensione dei fenomeni sociali, in quanto questi sono transindividuali e, pertanto, soggetti a leggi di sviluppo loro proprie. Queste divergenze di fondo si sommano a un differente approccio ai problemi politico-sociali; laddove, infatti, gli Austriaci finiscono per diffidare della razionalità “costruttivista” (ovvero della capacità umana di progettare l'ordine sociale migliore o più giusto), i Francofortesi invocano la ragione per sottoporre a critica la società capitalista e i suoi strumenti di dominio sulle masse. L'alternativa metodologica tra Individualismo e Olismo venne ad attenuarsi all'inizio degli anni Ottanta, allorché prese piede la distinzione tra livelli microsociali e macrosociali. Sul versante microsociologico si trovano quelle metodologie e quelle analisi che si possono raggruppare sotto la categoria di s. della vita quotidiana: ad esempio, l'interazionismo simbolico (P.L. Berger, G.H. Mead, W.I. Thomas), l'etnometodologia (H. Garfinkel), la s. cognitiva e qualitativa (A.V. Cicourel), la sociofenomenologia (A. Shutz). Sul versante macrosociologico, invece, si collocano quelle prospettive che studiano le strutture sistemiche della società e che trovano nell'opera di N. Luhmann e nello Strutturalismo di C. Lévi-Stauss, di L. Althusser, di A. Giddens, di M. Crozier e di L.A. Coser i risultati più fecondi. ║ S. dell'arte: branca della s. che studia i rapporti che intercorrono tra arte e società. Tre, in particolare, sono gli ambiti problematici indagati dalla s. dell'arte: il primo riguarda le questioni di s. della cultura, il secondo si concentra su tematiche più propriamente sociologiche (meccanismi di distribuzione dell'arte, reclutamento degli artisti, mutamenti delle mode, ecc.), il terzo si preoccupa di problemi di carattere storico-sociale. Benché si faccia risalire la nascita della s. dell'arte agli studi di J. Ruskin, di H.-A. Taine e di G. Semper della seconda metà del XIX sec., è, tuttavia, solo alla fine del secolo che il rapporto tra arte e società venne sottoposto ad analisi sistematica; decisivi, al riguardo, furono i lavori di A. Riegl sull'arte popolare e sull'industria artistica tardo-romana e di A. Warburg sull'iconologia, ma grande importanza ebbero anche gli studi di E. Panofsky, R. Wittkower, F. Saxl e R. Krautheimer. Di grande rilevanza furono, poi, negli anni Trenta, le riflessioni di W. Benjamin sulla produzione di massa e di I. Mukarowsky sulla componente ideologica dell'arte; la posizione di Mukarowsky, in particolare, venne ripresa e sviluppata nel secondo dopoguerra da studiosi di orientamento marxista (A. Hauser e F. Antal, tra gli altri), i quali misero in relazione la pratica artistica con la questione della lotta di classe. Con gli anni Cinquanta si affermarono, invece, modelli di stampo microsociologico, i cui maggiori esponenti furono E.H. Gombrich, P. Burke, S. Settis e F. Haskell; contemporaneamente, si sviluppò una linea di ricerca interessata a ricostruire le preferenze e le griglie culturali del pubblico (E. Panofsky, M. Schapiro, M. Baxandall, H. Belting, E. Burns). Di epoca più tarda sono, infine, gli studi sulla funzione conoscitiva dell'immagine (S. Alpers, G. Romano) e l'originale approccio della gender critic (G. Pollock, T.J. Clark, L. Mulvey) che, fondendo insieme il Decostruzionismo di J. Derrida e le istanze femministe, sottolineò l'importanza della questione della differenza nella produzione artistica. ║ S. della comunicazione: branca della s. che studia i soggetti, i contenuti e le conseguenze della comunicazione all'interno dei singoli sistemi sociali. La s. della comunicazione è una disciplina che sorse nel XX sec. a partire dai pionieristici studi di H.D. Lasswell degli anni Venti; furono, però, gli anni Trenta a segnarne la definitiva affermazione, soprattutto a seguito dei lavori di A. Lewin sui canali comunicativi intercorrenti tra piccoli gruppi e sugli effetti dei condizionamenti del gruppo sul comportamento dei singoli e di P.F. Lazarsfeld sui meccanismi della persuasione. Lo stesso Lazarsfeld, negli anni Cinquanta, approfondì le sue analisi alla luce del vistoso sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, evidenziando, in collaborazione con E. Katz, l'infondatezza di molti dei timori associati ai mass media ed enunciando la teoria del flusso a due fasi quale spiegazione del modo tramite il quale un messaggio si diffonde dal mezzo al gruppo. Questa teoria, che rivendicava per i processi comunicativi mass-mediologici l'importanza della mediazione di leader d'opinione interni al gruppo, si affermò ben presto come dominante in s. della comunicazione, rivelandosi particolarmente adeguata per dar conto delle difficoltà di persuasione dei mass media al di fuori della subcultura di una ben delimitata fascia di pubblico; il che, peraltro, non impedì che la discussione sugli effetti di lungo periodo della comunicazione di massa, specialmente di quella televisiva, si arricchisse di nuove ipotesi, alcune rassicuranti (T. Klapper), altre assai meno (R.K. Merton). L'eccessivo grado di astrazione cui inevitabilmente conducevano queste teorie spinse negli anni Sessanta alcuni sociologi della comunicazione a interessarsi di questioni più circoscritte; in questo modo è stato possibile dimostrare come l'introduzione della radio o della televisione in aree rurali o, comunque, isolate, abbia determinato l'abbattimento di gerarchie sociali secolari (E. Katz, S. Acquaviva e G. Eisermann) o come l'aggressività infantile e adolescenziale possa essere incrementata da programmi televisivi violenti (C. Comstock). Questi studi provarono altresì come la televisione non necessariamente causi omogeneità dei comportamenti, dal momento che ciascun pubblico può decodificare in modo originale il medesimo messaggio; ciò significò conseguentemente l'abbandono del modello euristico del villaggio globale (espressione introdotta nel 1964 da M. McLuhan e che tanto successo ebbe anche al di fuori dell'ambito sociologico) a favore di schemi incentrati sul riconoscimento della compresenza di numerosi villaggi, ciascuno con la sua specificità comunicativa. Con gli anni Ottanta, un'attenzione crescente da parte dei sociologi della comunicazione venne, invece, prestata alla comunicazione politica e alla sua spettacolarizzazione; in questo senso, di rilievo furono gli studi di D.L. Altheide e di R.P. Snow, i quali evidenziarono come esista una logica dei media che, nel caso specifico della televisione, consisterebbe in una struttura narrativa elementare, con notizie presentate in modo rapido e incalzante mediante un linguaggio che esaspera la drammaticità degli eventi. Da ricordare, infine, sono due ulteriori approcci ai problemi di s. della comunicazione che si vennero affermando in quegli anni: l'approccio agenda-setting che, pur prescindendo dal problema della persuasione, mise in luce la forte capacità attrattiva esercitata dai media nei confronti del pubblico a riguardo delle definizione delle questioni di cui questo finisce per avere consapevolezza; l'approccio diffusivo, che pose in relazione sistematica gli elementi che diffondono (nello spazio e nel tempo e da un agente all'altro) proprietà comunicative. ║ S. della conoscenza: branca della s. che studia i rapporti tra conoscenza e realtà sociale. Sorta in Germania in un contesto profondamente influenzato dallo Storicismo tedesco (il termine deriva dal titolo di un saggio di M. Scheler del 1926) e fortemente debitrice nei confronti di K. Marx, la s. della conoscenza trovò la sua più completa espressione nell'opera di K. Mannheim, il quale nell'opera Ideologia e utopia (1929) affermò l'inevitabilità dell'influenza del contesto sociale su qualsiasi forma di pensiero, cercando, quindi, attraverso un approccio epistemologico da lui denominato relazionismo, di superare gli esiti relativistici cui la sua tesi finiva per portare. Queste tematiche vennero riprese e integrate con la prospettiva struttural-funzionalista da R.K. Merton, mentre la costruzione di una s. della conoscenza come studio sistematico delle condizioni sociali della conoscenza impegnò W. Stark; in una direzione affine, che non affronta esclusivamente il problema dell'ideologia, ma che studia il rapporto tra conoscenza e contesto sociale, si mossero P.L. Berger e T. Luckmann. Di rilievo è, poi, l'opera di P.A. Sorokin, finalizzata a sviscerare l'evoluzione dei sistemi socioculturali e a coglierne le linee di tendenza generali. ║ S. criminale: branca della s. che si occupa dei fenomeni legati alla criminalità e, in particolare, dei rapporti tra delinquenza e ambiente sociale. È generalmente ritenuta parte della criminologia (V.). ║ S. del diritto: branca della s. che studia il rapporto tra istituzioni giuridiche e funzioni sociali che sono destinate a svolgere o che di fatto svolgono. La disciplina si occupa, pertanto, di tematiche per alcuni versi vicine alla criminologia (si pensi, ad esempio, all'analisi delle conseguenze derivanti dalla comminazione di sanzioni penali), per altri alla filosofia politica (ad esempio, il problema della legittimazione dell'autorità), per altri ancora alla s. della conoscenza (condizionamenti sociali operanti sulla giurisprudenza). Nata ufficialmente con l'opera di D. Anzillotti La filosofia del diritto e la s. (1892), nella quale veniva attribuito al sociologo il compito di determinare il ruolo sociale delle istituzioni giuridiche, la s. del diritto faticò, tuttavia, a raggiungere una reale autonomia rispetto alla teoria del diritto e alla filosofia del diritto; non è un caso, da questo punto di vista, che i maggiori sociologi del diritto della prima metà del XX sec. come E. Ehrlich (che sostenne che la fonte delle leggi va ricercata nella società) o come R. Pound (che argomentò che il diritto deriva dalla necessità di rendere compatibili interessi individuali tra loro spesso antagonisti) furono prima di tutto teorici del diritto. Il processo di autonomizzazione della disciplina iniziò negli anni Cinquanta soprattutto per merito di autori nord-americani, senza, però, condurre, come energicamente affermarono G. Gurvitch e P. Selznick, all'elaborazione di un convincente statuto epistemologico. ║ S. economica: branca della s. che studia l'insieme delle attività concernenti la produzione, lo scambio e il consumo di beni o servizi in rapporto alla realtà sociale all'interno della quale si inseriscono. La s. economica deriva dalla compenetrazione di elementi economici della vita sociale e di elementi sociologici della vita economica. Per quanto concerne il primo aspetto, si possono individuare due correnti di pensiero principali: una di stampo liberista (cui appartengono gli esponenti della cosiddetta Scuola austriaca C. Menger, L. von Mises, F. von Hayek) che sostiene che mercato e società coincidono in quanto prodotto della libera concorrenza; l'altra di origine marxiana che afferma che ciascuna società è la sedimentazione di particolari rapporti economici. Anche sul versante più propriamente sociologico due sono i filoni fondamentali: uno di matrice positivista ed evoluzionista che si ricollega ai lavori di H. Spencer e di E. Durkheim e che studia i problemi della complessità nelle società moderne; un secondo di impostazione storicista che discende da G. Simmel, W. Sombart e M. Weber e che ricostruisce la genesi e lo sviluppo dell'agire razionale. Dovendo, però, indicare chi più di ogni altro contribuì alla costituzione di un'identità epistemologica per la s. economica, il riferimento d'obbligo è alla scuola funzionalista e ad autori come T. Parsons e N.J. Smelser, essendo stati costoro a impegnarsi a dimostrare come il sistema economico vada considerato come un sottosistema diverso e, tuttavia, interdipendente rispetto all'agire sociale. Con questo, non va dimenticata la riflessione di autori come V. Pareto e J. Schumpeter, i quali contestarono la possibilità stessa dell'esistenza di una s. economica a ragione del diverso oggetto di studio delle due discipline che concorrono a formarla (le azioni logiche per l'economia, quelle non logiche della s.). ║ S. industriale e del lavoro: branca della s. che si occupa del rapporto tra società e industrializzazione. La disciplina, non di rado accomunata alla s. tout court, nacque verso la fine del XIX sec. allorché studiosi come T. Veblen, S. Webb e E. Durkheim posero l'attenzione su problemi specifici determinati dai nuovi modi di produzione e di organizzazione del lavoro; fu, però, M. Weber a darvi un impulso decisivo con la sua analisi dell'adattamento dei lavoratori alla grande industria. Dopo che negli anni Trenta E.G. Mayo aveva dimostrato l'insostenibilità di un paradigma che riducesse le motivazioni dell'uomo in azienda a quelle della razionalità produttiva, nel secondo dopoguerra le problematiche oggetto di analisi della s. industriale subirono una progressiva estensione, coinvolgendo le tematiche della conflittualità aziendale (in ambito anglosassone), dell'alienazione (in Francia soprattutto) e del superamento del modello tayloristico (in Svezia). Sul ruolo del conflitto, in particolare, si aprì negli anni Ottanta un intenso dibattito tra coloro i quali sostenevano l'avvenuta affermazione di un modello consensuale e coloro i quali, al contrario, rivendicavano la persistenza di un ruolo per il conflitto nella determinazione dei contratti di lavoro. ║ S. della letteratura: branca della s. che studia i rapporti tra letteratura e società. Sebbene l'origine dell'espressione risalga agli anni Trenta del XX sec., l'analisi del nesso tra letteratura e società rimanda all'età romantica, allorché iniziò la riflessione su problemi quali la funzione della letteratura nazionale, il legame con le tradizioni popolari e la definizione del concetto di pubblico. Tale riflessione si ritrova nei lavori di G.W. Hegel, il quale ricondusse le forme letterarie a tappe dello sviluppo dello Spirito nella storia e in K. Marx, il quale, peraltro, accentuò il carattere sovrastrutturale della produzione letteraria. Da Marx derivarono due filoni principali, uno incline a giudicare le opere letterarie in funzione della loro corrispondenza agli interessi della classe operaia, un altro, invece, tendente ad avvalorare quelle opere che rappresentavano la realtà sociale. Questi indirizzi metodologici, ripresi a volte anche in ambito positivista, subirono la contestazione della critica idealista e formalista del primo Novecento; i tempi erano ormai maturi per il decollo della disciplina, decollo che, infatti, avvenne nel XX sec. quando si ebbe l'affermazione della specificità del testo letterario e lo spostamento di interesse verso le convenzioni a esso soggiacenti. In questo modo, si ampliarono anche le direzioni della ricerca sociologica in letteratura, con studi sul sostrato sociale degli autori, sulla diffusione delle opere, sulla composizione del pubblico, sul ruolo dell'editoria, sulle cause della variazione dei canoni letterari. Per quel che concerne quest'ultimo problema, in particolare, meritano di essere citati: i Francofortesi (M. Horkheimer e T. Adorno), che attribuirono ai gruppi egemoni un controllo sociale della letteratura; O.D. Duncan, che evidenziò la funzione di integrazione della letteratura; J. Duvignaud, che assegnò alla letteratura un ruolo di sperimentazione di mondi possibili; L. Goldmann, che argomentò come l'opera letteraria fosse un'elaborazione sociale di elementi già presenti nel tessuto sociale. ║ S. dell'organizzazione: branca della s. che studia il complesso delle relazioni deliberatamente costruite dagli individui e le regole che le governano. Due sono gli approcci tradizionali all'interno di questo ambito disciplinare: uno di tipo manageriale e proprio della scuola classica, che si preoccupa degli effetti dell'ambiente sociale sull'organizzazione; un altro di tipo strutturale e proprio della scuola struttural-funzionalista, che analizza il ruolo dell'organizzazione nei riguardi del sistema sociale nel quale è situata. Esiste, poi, un indirizzo alternativo, costituito dalle teorie dell'azione razionale, che ha come interesse precipuo la determinazione dei modi mediante i quali un'organizzazione può raggiungere un elevato livello di efficienza nello svolgimento dei propri compiti. ║ S. della politica: branca della s., per molti versi affine alla scienza della politica, che studia i fenomeni del potere e dell'obbligo politico e tutti i fenomeni a questi collegati (organizzazione e funzione dei partiti, comportamenti elettorali, meccanismi della persuasione, ecc.). L'origine della disciplina va ricercata negli studi di G. Mosca e R. Michels sulle élites e nei lavori di critica sociale di T. Veblen e C. Wright-Mills, anche se i suoi presupposti teorico-metodologici rimandano alle analisi di K. Marx e di M. Weber. Da questi due autori, in particolare, deriva la distinzione tra i due approcci che andarono per la maggiore nel corso del XX sec.: l'approccio marxista, fondato sulla percezione della globalità delle dinamiche sociali e sulla dipendenza del politico dall'economico (aspetto quest'ultimo, per verità, decisamente ridimensionato col tempo); l'approccio pluralistico-borghese, incentrato sull'idea della progressiva autonomizzazione delle istituzioni politiche dalla struttura socioeconomica, senza che ciò dia luogo ad alcun rapporto di dipendenza. Un notevole sviluppo della s. politica si ebbe negli anni Settanta e non solo negli Stati Uniti e in Europa occidentale, ma anche in America Latina; questo in ragione delle proteste operaie e studentesche che richiamarono l'attenzione sui rapporti tra gerarchie sociali e partecipazione politica e dei processi di decolonizzazione che posero l'esigenza di uno studio comparativo sui differenti sistemi politici. ║ S. delle professioni: l'espressione traduce in senso restrittivo l'inglese sociology of occupation e indica quella branca della s. che studia i rapporti tra struttura occupazionale e altri segmenti della società, nonché tutte quelle problematiche collegate alla funzione e al significato del lavoro all'interno di un dato schema sociale. ║ S. della religione: branca della s. che studia i rapporti tra religione e società. L'interesse per il fatto religioso e per la sua funzione di integrazione sociale si affermò a partire dall'età illuminista presso molti filosofi moderni. Autori come D. Hume, L. Feuerbach o K. Marx costituirono il retroterra culturale al quale fecero riferimento le varie teorie funzionaliste della seconda metà del XIX sec., prima fra tutte quella di E. Durkheim. L'adeguatezza del paradigma funzionalista fu messa in discussione dai contributi di stampo evoluzionista di M. Weber e di E. Troelsch, i quali elaborarono uno schema interpretativo più articolato in cui la religione veniva ad avere il ruolo di variabile indipendente in grado di influenzare altri ambiti del sociale (si pensi, in particolare, alla connessione evidenziata da Weber tra Calvinismo e sviluppo capitalista). La centralità del problema religioso per gli studi sociologici, espressamente affermata da tutti questi autori, venne progressivamente meno nel XX sec. a seguito del ridimensionamento della sfera religiosa (la cosiddetta secolarizzazione); la s. della religione finì, in questo modo, per indirizzarsi verso ricerche prettamente empiriche, sebbene studiosi come J. Wach e G. Menshing prima e T. Luckmann e P.L. Berger poi, avvalendosi anche dei risultati conseguiti dalla storia comparata delle religioni, abbiano tentato di opporsi a questa tendenza che rigettava, nei fatti, la possibilità di giungere a una qualche sintesi del fenomeno religioso da un punto di vista sociologico. In questo senso, si determinò un'evidente differenziazione degli ambiti di studio della s. della religione; nella gran messe di lavori prodotti dopo questa svolta epistemologica si possono qui ricordare gli studi di M. Sklarke sull'Ebraismo conservatore, di T.F. O'Dea sui Mormoni, di R.N. Bellah sui valori religiosi del Giappone preindustriale, di N. Greinacher e di J.H. Fichter sulla parrocchia, di J. Séguy sugli ecumenismi e sugli ordini religiosi, di B. Wilson sui movimenti religiosi moderni. ║ S. urbana e rurale: branca della s. che studia le condizioni di vita riguardanti, rispettivamente, gli agglomerati urbani e le comunità agricole.
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