(da greco
semáino:
indico, dò significato). Ramo della linguistica preposto allo studio del
significato delle parole, che assume i dati fonetici e morfologici solo in
quanto sussidiari a tale scopo. ║ Per
estens. - Processo di analisi di un complesso di segni o di oggetti, che mira a
determinare il loro significato, ciò a cui essi rimandano o che vogliono
esprimere:
s. del cinema. • Ling. - Il termine
s. fu
introdotto alla fine dell'Ottocento dallo studioso francese M. Bréal.
Attualmente si riconoscono nella
s. un ambito teorico, inerente alla
nozione generale di
significato in quanto distinto da quello di
significante (oggetto proprio della linguistica); un ambito storico o
diacronico, inerente all'indagine sull'evoluzione di un significato nel tempo,
sia all'interno di una sola lingua di riferimento, sia nel passaggio da una
lingua all'altra; un ambito sincronico, inerente all'esame contemporaneo di
più significati all'interno di una lingua.
║
Teorie semantiche: le prime
riflessioni sul problema del significato risalgono all'epoca classica.
Aristotele formulò, per così dire, una teoria semantica
ante
litteram (nota come universalismo ontologico-semantico e rintracciabile nel
De interpretatione) per la quale il significato di una parola coincide
con la cosa reale (
referente) che essa indica: dal momento che le
cose sono uguali per tutti gli uomini, a prescindere dalla lingua che essi
parlano, ne deriva che mentre per la diversità delle lingue cambiano i
nomi (
significanti) delle cose, i
significati restano tuttavia i
medesimi. Le lingue non sarebbero altro che insiemi di etichette diverse
riferite agli stessi oggetti. Da tale visione si discostarono gli stoici, che
introdussero una distinzione assai più problematica tra significato e
significante di un segno linguistico: il significato non consiste dunque in una
corrispondenza oggettiva ed esterna con l'oggetto reale, ma piuttosto nella
percezione mentale e interiore che di esso ha il parlante. Il significato
dunque, che è per sua natura predisposto all'espressione linguistica
(
lektón:
dicibile), essendo mentale e interiore non
può essere universale ma potrà variare da una lingua all'altra o,
perfino, da un parlante e all'altro. Nonostante la critica stoica,
l'impostazione aristotelica prevalse durante tutto il Medioevo, esercitando la
propria influenza fino all'Empirismo settecentesco inglese e addirittura su
riflessioni assai più recenti come quelle di B. Russell o di L.
Bloomfield. Alcune critiche all'universalismo aristotelico, soprattutto da un
punto di vista diacronico, furono poste da J. Locke (
Saggio sull'intelletto
umano, 1690), secondo il quale il significato non può coincidere con
il referente, perché tempi e luoghi ne daranno al parlante un'esperienza
diversa che determinerà il significato della parola utilizzata.
Perciò il significato di una parola è il risultato dell'esperienza
concreta che il parlante fruisce in relazione a un determinato oggetto. Ripreso
da G.W. Leibniz e supportato da G.B. Vico con elementi di storia culturale,
questo primo relativismo linguistico stentò tuttavia ad affermarsi. Si
impose però la necessità di spiegare fenomeni quali l'omonimia, la
sinonimia, la metafora, la sineddoche, la metonimia, la contraddizione,
l'analogia, la permutazione, ecc. che influivano chiaramente nel senso di un
mutamento del significato di particolari segni linguistici, senza peraltro
coinvolgerne il lato fonico o morfologico. Gli studiosi cominciarono a
classificare e descrivere le cause di tali cambiamenti, grossolanamente
distinguibili in esterni (cioè successivi a mutamenti negli oggetti di
riferimento) o interni (cioè connessi appunto a mutamenti dell'atto
linguistico) e considerati secondo una dimensione strettamente evolutiva. Alla
fine dell'Ottocento, con lo Strutturalismo linguistico di F. de Saussure, fu
evidente la necessità di una scienza semantica autonoma, che ricercasse
le leggi insite nell'evoluzione dei significati (secondo una visione diacronica)
e insieme considerasse le relazioni reciproche tra i vari significati e tra essi
e gli atti linguistici stessi (secondo una visione sincronica). De Saussure,
infatti, rifiutava sia la determinazione ontologica del significato di una
parola da parte dell'oggetto (in tal caso la lingua sarebbe una semplice
nomenclatura), sia la sua definizione come entità mentale e interiore:
per lui il significato è definito dalla lingua, è insito in essa e
muta con essa. A partire dalle affermazioni di De Saussure (carattere
linguistico del significato e sua natura sistemica), le teorie semantiche furono
distinte in
strutturali o
non strutturali. In precedenza, infatti,
le riflessioni erano di tipo non strutturale, in quanto l'analisi di ogni
singolo significato era condotta in modo indipendente da quella di altri.
Secondo questo procedimento, lo scopo della
s. (studio del significato)
si raggiunge mediante l'identificazione del referente della parola esaminata,
comprensiva del margine di variabilità consentito dal suo uso, a
prescindere dai possibili rapporti con altri significati, considerati
irrilevanti. Al contrario, De Saussure introdusse un concetto innovativo: la
lingua è un sistema non oggettivo ma arbitrario e pertanto ogni suo
elemento, compreso quello di significato, è definibile solo in base a
ciò che lo distingue dalle altre componenti del sistema cui appartiene.
La natura strutturale della lingua è necessariamente sistemica: alla
variazione di un elemento del sistema, cioè, corrisponde la variazione di
ogni elemento del sistema stesso e questo è vero anche per la
s.,
tanto diacronica, quanto sincronica. Come ha dimostrato E. Coseriu, fautore
della
s. diacronica strutturale, la modificazione di significato comporta
un riassestamento dei significati appartenenti al sistema, soprattutto dei
più vicini. Esemplare, in questo senso, era già stata negli anni
Trenta la ricerca condotta da J. Trier sui “campi semantici”, intesi
come sottosistemi coesi dell'intero sistema semantico (composti cioè da
unità lessicali che hanno una zona di significazione in comune, entro la
quale si trovano in opposizione immediata tra loro). Analizzando, in
particolare, l'insieme di termini quali “intelletto, intelligenza,
spirito, sapienza, abilità” nel tedesco dei secc. XIII-XIV, lo
studioso indagò l'evoluzione complessiva dell'intero campo e non dei
singoli significati, dimostrando la relazione che intercorreva tra questi non
solo nel momento sincronico (in un campo semantico significati affini sono
espressi da un certo numero di significanti e sono tra loro connessi) ma anche
in quello diacronico (il mutamento di un significato comporta un'evoluzione
più o meno armonica di tutti gli altri elementi del sistema). Alcune tra
le teorie più recenti nel campo della
s. sono state definite come
componenziali: loro peculiarità è l'assunzione del
principio per cui il significato delle parole non è un monolita ma
un'entità analizzabile e riducibile in elementi minimi, cioè in
tratti semantici distintivi, detti
semi. Questo tipo di analisi applica a
un livello inferiore ciò che la
s. strutturale fa a livello
superiore, riferendo il concetto di sistema anche al singolo significato. L.
Hjelmslev ha cercato di elaborare una tecnica che consentisse l'individuazione
dei tratti semantici minimi, che come tali possano essere condivisi tra
più parole e combinarsi variamente in più significanti. Si tratta
di rappresentare il significato di un termine come configurazione di più
tratti semantici minimi: per riconoscerli occorre, ad esempio, opporre termini
fra loro molto prossimi e rilevarne il tratto minimo che li differenzia (ad
esempio:
uomo = umano + maschile + adulto;
ragazzo = umano +
maschile - adulto).
Le teorie componenziali, che mirano ad analizzare il
piano del significato secondo principi analoghi a quelli utilizzati per
l'analisi dei significanti, non hanno ottenuto risultati paragonabili alle
teorie fonologiche dei tratti minimi, cui si erano esplicitamente ispirate: al
contrario hanno incontrato numerose difficoltà, risultando coerentemente
percorribili solo in riferimento a pochi e limitati gruppi di significati (nomi
di parentela, gradazioni di qualità, termini di colori, ecc.). In
un'ottica sistemica si colloca anche la teoria di P. Ziff, secondo la quale il
significato di un termine è funzione di tutti gli enunciati in cui il
termine stesso potrebbe accettabilmente ricorrere e insieme funzione di tutti i
termini che potrebbero accettabilmente sostituirlo in quei medesimi enunciati,
senza distorcerne il senso originario. L'introduzione negli anni Sessanta della
grammatica generativo-trasformazionale standard, particolarmente ad opera di
A.N. Chomsky, ha dato nuovo impulso alla
s. con il contributo, tra gli
altri, di S. Ulmann, secondo il quale i mutamenti semantici si sviluppavano a
partire da quattro criteri fondamentali: somiglianza o contiguità di
senso; somiglianza o contiguità di nome. La grammatica generativa
standard riconosceva tre componenti di base (sintattico, fonologico e semantico)
e faceva coincidere la struttura profonda con la rappresentazione sintattica di
una frase, cui l'elemento semantico attribuiva appunto una precisa connotazione
di significato. Una fase postchomskyana degli studi diede vita alla cosiddetta
s. generativa, critica rispetto al modello standard, in quanto
assumeva come elemento astratto profondo quello semantico, presupposto da cui
procedevano quello fonologico e sintattico: per questa scuola, dunque, l'atto
linguistico origina da una rete di elementi semantici. Alla fine degli anni
Settanta si è sviluppata la
s. cognitiva: essa rifiuta qualsiasi
distinzione tra fatti linguistici ed extralinguistici, affermandone invece
l'intrinseca unità. Il linguaggio non sarebbe una facoltà autonoma
e indipendente dalle altre, ma piuttosto ad esse strettamente legata; l'atto
linguistico perciò non è arbitrario ma conseguente al dato
esperienziale, condizionato dalla realtà e dal modo in cui essa viene
percepita dal parlante. Questo tipo di analisi semantica si è ispirata
alla cosiddetta
teoria dei prototipi elaborata nel campo della psicologia
cognitiva: essa spiega la formazione delle categorie e dei concetti mediante la
compresenza in un oggetto di proprietà di rilievo e importanza diversi al
fine dell'inclusione dell'oggetto medesimo in una data categoria, di modo che
sussistono prototipi in cui le caratteristiche salienti sono al massimo grado,
mentre sfumano nei casi meno tipici (si pensi a
passero e
pinguino
in riferimento alla categoria
uccelli). Applicata alla
s., questa
teoria supporta la negazione dei cognitivisti del principio di
arbitrarietà dell'atto linguistico e il loro rifiuto del metodo
componenziale. I significati lessicali non sarebbero infatti esito di tratti
semantici discreti e ben definiti, secondo nette classificazioni, ma piuttosto
insiemi polisemici, sfumati e sovrapposti: in essi sono compresenti un certo
numero di proprietà di importanza decrescente, alcune centrali per la
definizione di appartenenza a una classe, altre marginali, che concorrono al
significato. Un ulteriore sviluppo delle teorie semantiche è proposto
dalla
s. frasale, che ha per oggetto l'intera frase e non i suoi
singoli elementi. ║
S. descrittiva
sincronica: analizza e descrive i rapporti tra
lessemi, cioè
tra parole considerate dal punto di vista del significato e non della morfologia
o della sintassi. Si definiscono lessemi, perciò, tanto singoli vocaboli
(
scherzo) quanto locuzioni unitarie (
presa in giro). Tra le
relazioni basate sulla contiguità o somiglianza tra lessemi, citiamo la
sinonimia, che si verifica quando a due significanti diversi corrisponde
uno stesso significato: la sinonimia assoluta è assai rara
(
tra/fra), essendo assai più frequente una sostituibilità
parziale (
pietra/sasso) che comporta qualche differenza. Simmetrica
rispetto ad essa è l'
omonimia, per la quale due significati
corrispondono a un medesimo significante: tale caso può darsi o in
presenza di etimologie diverse delle due parole (
cavo: dotato di
cavità /
cavo: fune) o di appartenenze a categorie grammaticali
diverse (
peso: sostantivo /
peso: prima persona del presente del
verbo
pesare); nel caso invece si possa stabilire che i due significati
afferiscano al medesimo significante anche sul piano etimologico, si parla di
polisemia (
tirare: trarre e lanciare). Una relazione di
contiguità è anche l'
iponimia o
inclusione, che si
evidenzia quando un significato è compreso all'interno di quello
più ampio di un altro lessema, di cui il primo è una
specificazione: ad esempio
soriano rispetto a
gatto, che ne
è l'
iperonimo o il sovraordinato. Tra le relazioni basate sulla
diversità o opposizione di significato, citiamo l'
antonimia, in
cui i lessemi si situano come i capi di opposti di un
continuum, di cui
esistono gradi intermedi:
alto/basso,
bello/brutto,
uno/molti, ecc.; la
complementarietà, in cui i lessemi
afferiscono a un medesimo campo semantico, escludendosi però a vicenda,
in quanto la negazione dell'uno implica necessariamente l'affermazione
dell'altro:
uomo/donna,
celibe/sposato; l'
inversione o
reciprocità, in cui i lessemi sono partecipi di una relazione
della quale rappresentano prospettive differenti:
marito/moglie,
andare/venire,
vendita/acquisto. Quelle sopra esposte sono
relazioni di tipo paradigmatico, per le quali i lessemi sono tra loro legati da
percorsi del tipo “o ... o”; sussistono tuttavia reti relazionali
dette sintagmatiche, rappresentate da legami del tipo “e ... e”, per
le quali cioè l'uso di un determinato lessema può coinvolgerne, o
meglio selezionarne, un altro:
lingua/leccare. Un tipo particolare di
relazione sintagmatica è la cosiddetta
solidarietà
semantica, in cui un lessema può essere usato solo in relazione a un
altro che lo presuppone. L'insieme delle relazioni semantiche (assai più
numerose di quelle sopra citate a titolo esemplificativo) concorrono alla
creazione nel lessico di una sorta di organizzazione dei lessemi in sistemi e
gruppi tra loro imparentati (di volta in volta concepiti come campi semantici,
campi morfo-semantici, sfera semantica, ecc.) il cui studio deve seguire metodi
sistemici. • Log. - Nell'ambito della filosofia del linguaggio, si intende
per
s. il processo di attribuzione di un dato significato all'espressione
formale di una teoria riferita a un oggetto extralinguistico, secondo l'assunto
“un enunciato è vero se dice che le cose stanno in un determinato
modo ed esse stanno appunto nel modo detto”. A. Tarski fu l'iniziatore
della
s. logica applicata alle teorie elementari: secondo i suoi studi,
l'interpretazione consiste nell'assegnare ai simboli di funzione e relazione del
linguaggio di una formula funzioni e relazioni di una struttura esterna. Entro
ogni assegnazione di un'interpretazione, dunque, a ciascun termine corrisponde
un oggetto e alla formula un valore di verità vero o falso. Una formula
è logicamente valida in una struttura quando risulti vera per ogni
assegnazione di significato attribuita ai suoi
termini.