Disciplina che ha per oggetto lo studio del
segno, della sua natura, funzione, produzione e interpretazione. In quanto le
lingue storico-naturali rappresentano i sistemi di segni più vasti e
complessi, ed essendo esse oggetto specifico di studio della linguistica, si
è di volta in volta considerata la
s. parte della linguistica
(valutando lo studio dei segni come sussidiario all'indagine sulla lingua) o
viceversa la linguistica parte della
s. (valutando la lingua come un
sistema semiotico parallelo ad altri, come l'arte, il cinema, i codici estetici,
ecc.). Il termine
semiologia (V.) è
stato a lungo utilizzato come sinonimo di
s.; secondo un'accezione
più particolare, tuttavia, il termine semiologia è invalso negli
ambiti francofoni ed europei, che si rifacevano ai primi studi di De Saussure e
con esso si indicarono dunque le teorie sviluppate dai discepoli del grande
linguista, riconducibili all'assunto fondamentale che universo linguistico e
universo culturale sono ontologicamente inseparabili e che dunque la semiologia
era la scienza generale insieme del segno linguistico e culturale.
• Encicl. - Per quanto la
s. abbia
conseguito un proprio statuto scientifico autonomo solo nel Novecento, numerosi
sono gli antefatti storici e filosofici di questa scienza, sia in Oriente (larga
parte della scienza grammatica cinese e soprattutto indiana ha indagato temi di
natura semiotica) sia in Occidente. Aristotele, negli
Analitica prima,
presentò una sua teoria della conoscenza mediante i segni, che egli
differenziò in segni certi (
tekméria) e incerti
(
seméia). Questa teoria era una sorta di estensione della
metodologia medica dei tempi classici (soprattutto dei medici empiristi), che ha
una sua continuazione anche oggi nella branca medica della semeiotica
(V.). Gli stoici riproposero l'idea che tutta la
conoscenza umana è basata sull'interpretazione di segni, sottolineando
per primi che anche la lingua non era altro che un sistema istituzionalizzato di
segni, a loro volta risultanti dall'unione di un significato e di un
significante (V. SEMANTICA). Determinante, per la
crescita in Occidente del concetto di conoscenza semiotica, fu il Cristianesimo
dei primi secoli, nei suoi sforzi di sistemazione filosofica e dottrinale. Il
Nuovo Testamento stesso, nella sua redazione greca, indicava i miracoli di
Gesù con il termine di segni (
seméia) e la nascente
teologia sacramentale fu impostata in chiave nettamente semiotica, essendo
definiti i sacramenti (V. SACRAMENTO) come
segni riferiti a realtà divine (
significati) e costituiti
ciascuno da un
elementum sensibile (
significante). Sant'Agostino
sottolineò, da un punto di vista teologico, il carattere semiotico della
creazione, la cui materialità costituiva per lui un unico grande segno
dell'esistenza di Dio. Parallelamente, da un punto di vista gnoseologico,
Agostino affermò che il segno non solo è strumento di conoscenza
ma è anche tramite del rapporto educativo tra maestro e discepolo; che il
segno per eccellenza strumento di conoscenza e comunicazione è quello del
linguaggio; che il significato del segno linguistico è un'entità
mentale e non esterna (V. SEMANTICA); che, infine,
l'uomo è costretto, per accedere alla conoscenza, a valersi di segni e
non di realtà, a causa della sua caduta dalla condizione di
santità originaria. Perciò la conoscenza semiotica è una
conoscenza inferiore e fonte di errori sempre possibili, perché il segno
è necessariamente più lento e inerte del pensiero che sottende, e
contiene il rischio dell'ambiguità, del fraintendimento, dell'errore e
dell'inganno. Queste linee di pensiero rimasero attive, benché piuttosto
sottaciute, attraverso i secoli per rivelarsi nuovamente vitali nel Settecento
europeo e inglese (Leibniz, Locke, Lambert, ecc.): la
s. premoderna si
caratterizzò per una concezione nomenclatoria del significante (che era
fatto consistere nell'aspetto fonico e morfologico del segno) e
referenzialistica del significato (identificato con il concetto o l'oggetto
denotato). La nascita della
s. moderna si fa coincidere di norma con
l'affermarsi della nozione di arbitrarietà, cioè col passaggio
dalla concezione del linguaggio come convenzione a una considerazione formale
del medesimo, che si occupa non del merito della comunicazione ma delle
condizioni linguistiche e non linguistiche che rendono effettivo il messaggio.
Su questa linea si mosse, oltre al già citato F. De Saussure (1857-1913),
Ch.S. Peirce (1839-1914), che elaborò una teoria generale dei segni e una
loro classificazione. A lui si deve una prima definizione del processo detto
semiosi illimitata: tra un modello di segno e la realizzazione effettiva
di un messaggio intercorrono continui aggiustamenti, di modo che al “segno
tipico” (
type) corrispondono nell'uso reale una quantità di
occorrenze diverse (
token). Secondo Peirce, infatti, il processo
semiotico di produzione dei segni si verifica in base a tre fattori: un segno,
un oggetto di riferimento e un interpretante, cioè un segno più
complesso che si forma nella mente dell'interprete e che coincide con la
concreta occorrenza del
type. Egli distinse inoltre i segni in:
icone, quando il rapporto con il referente sia di similarità;
indici, quando il rapporto con il referente sia di contiguità e
quantificabile su scala reale;
simboli, quando la contiguità
consiste in una corrispondenza convenzionale, cioè in una regola in base
alla quale il segno rimanda ad un oggetto. L'impostazione di Peirce fu accolta e
ulteriormente sviluppata nell'ambito del Pragmatismo e Neopositivismo americano,
soprattutto ad opera di Ch. Morris (
Segni,
linguaggio e
comportamento, 1946). Quest'ultimo introdusse una partizione disciplinare
della
s. in sintattica, semantica e pragmatica: la prima si occupa delle
relazioni formali intercorrenti tra i segni, a prescindere da ciò che
essi denotano e da chi li usa; la seconda riguarda i rapporti dei segni con
ciò che denotano; la terza analizza i rapporti tra i segni e i loro
interpreti, cioè chi li produce, chi li riceve e chi li comprende, con
particolare attenzione agli effetti cui l'uso di un segno dà luogo,
cioè all'efficacia della comunicazione effettiva. Rilevante appare oggi
la riflessione di L.T. Hjelmslev, che attribuì oggetti specifici ai due
rami della nuova scienza, l'uno, semiologico, improntato come già visto
allo Strutturalismo linguistico di scuola saussuriana (E. Benveniste, L. Prieto,
C. Lévi-Strauss, ecc.) e l'altro semiotico, ispirato al Pragmatismo
anglosassone. Mentre alla semiologia spetterebbe il compito di elaborare un
metalinguaggio (V.) in grado di analizzare come
proprio linguaggio-oggetto una lingua storico-naturale (semiologia =
metalinguaggio di descrizione di testi, dispiegato in tutte le sue valenze dal
grande semiologo R. Barthes), competenza della
s. sarebbe invece la
costruzione di un metalinguaggio che abbia per oggetto i sistemi concreti di
segni (cioè quelli non puramente verbali). Hjelmslev inoltre
precisò il concetto di segno con quello di “funzione
segnica”, definita come correlazione tra le due classi astratte e formali
di espressione e contenuto (significante e significato): questi costituiscono
per lui il
sistema semiotico. La moderna
s. così costituita
ha ricevuto in seguito altri importanti contributi. Tra i più decisivi
ricordiamo quello dello studioso danese R. Jakobson: egli definì la
s. come scienza integrata che indaga i principi generali che regolano la
struttura e la funzione di ogni sistema di segni. Partendo dalla constatazione
che il senso di ogni espressione verbale corrisponde alla sua traduzione in
un'altra parola che può sostituirlo, Jacobson introdusse i concetti di
riformulazione (affine alla semiosi illimitata di Peirce) e di
trasmutazione. Secondo quest'ultimo la traduzione e la riformulazione di
un segno possono essere effettuate entro sistemi di segni differenti da quello
cui apparteneva il segno di partenza: la comunicazione si può cioè
svolgere su diversi piani semiotici, partendo da quello verbale per arrivare, ad
esempio, a quello visivo o a quello comportamentale, ecc. Il sincretismo della
comunicazione, che può valersi contemporaneamente di più codici,
costituisce ormai uno degli assunti centrali della
s. Ad esso si
riferisce anche la riflessione di U. Eco, al cui
Trattato di semiotica
generale (1975) si deve la diffusione in Italia della
s. Differente
l'approccio teorico di A.J. Greimas e dei suoi discepoli (tra cui ricordiamo J.
Courtés), secondo i quali non è corretto stabilire un'automatica
identità tra campo della comunicazione e della
s.: la prima
infatti postula sempre il caso dell'intenzionalità, cui la seconda non
può essere ridotta. Alla
s. spetta invece l'analisi e lo studio
non solo di messaggi dettati da una volontà di enunciare determinati
contenuti, ma anche di fenomeni, azioni, eventi e testi dotati di senso e di
effetti anche se non originati da una tale volontà. Al principio di
comunicazione va dunque sostituito quello di
significazione, cioè
del modo in cui il senso del segno viene offerto al ricevente (visivo, verbale,
gestuale, letterario, folclorico, pubblicitario, ecc.). Di questo principio, per
concludere, si sono valsi gli studiosi slavi Ju.M. Lotman e B.A. Uspenskij nella
loro analisi dei “sistemi modellizzanti secondari”: essi, secondo
una gerarchia di codici, vengono costruiti dalla lingua naturale - sistema
modellizzante primario - a esprimere specifiche concezioni (sistema religioso,
folclorico, estetico, ecc.).