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Scolastica.

(dal latino scholasticus: colui che insegna nella schola). Scuola filosofica cristiana del Medioevo. ║ Categoria storiografica che identifica il pensiero teologico, filosofico e scientifico che si sviluppò e fu insegnato entro le scholae e le università medioevali tra il VI e il XIV sec. ║ In senso riduttivo, il vocabolo è utilizzato per indicare un atteggiamento intellettuale e culturale di tipo dogmatico e uniforme, né creativo né originale, improntato a una trasmissione di contenuti cristallizzati e astratti. • Encicl. - La fortuna del vocabolo S. ebbe inizio con l'Umanesimo e continuò durante il Rinascimento, quando esso assunse una forte valenza polemica, che mirava a contrapporre la nuova cultura e la nuova organizzazione nella trasmissione del sapere a quelle dell'epoca medioevale. Della S. furono dunque stigmatizzati aspetti considerati negativi, quali la rigida fedeltà a testi o autori considerati alla stregua di indubitabili auctoritates, la scarsa qualità filologica dei testi stessi di riferimento, la concezione statica del sapere che comportava una trasmissione dello stesso giudicata meccanicistica e ripetitiva (realizzata attraverso un gran numero di commentarii, disputationes, expositiones, ecc.), orientata più alla minuziosa analisi di un testo che all'elaborazione di sviluppi originali. L'origine e lo sviluppo della S., tuttavia, sono strettamente legati alla funzione dell'insegnamento nelle scholae (fatto che rende ragione del nome), entro cui veniva custodita e tramandata la cultura: le scuole plebane, cioè annesse alla pieve (V.), si occupavano dell'istruzione elementare, mentre quelle monastiche o, più tardi, quelle annesse alle cattedrali, impartivano insegnamenti superiori. Col tempo, a cominciare dal XIII sec., alcune fra queste ultime, particolarmente rinomate per i maestri che vi insegnavano o per la grandezza delle città che le ospitavano, cominciarono a essere frequentate da studenti di altre località, trasformandosi in studia generalia e quindi in università, cioè in corporazioni di professori e studenti. Questa diretta discendenza del sistema universitario medioevale dalle più antiche scholae fece sì che anche il magister continuasse a essere definito scholasticus e che essi perpetuassero e sviluppassero il metodo di insegnamento e apprendimento tradizionali, fondato sui due momenti della lectio e della disputatio (lettura e discussione) dei testi filosofici e delle Sacre Scritture, attraverso cui si perseguiva la diffusione e la comprensione del patrimonio culturale noto. La connessione della S. al problema dell'insegnamento e la coincidenza in essa di problema speculativo ed educativo non erano accidentali ma sostanziali, in quanto informanti la natura stessa di questo movimento filosofico: suo fine era infatti quello di condurre l'uomo, ma soprattutto il chierico, a una più profonda e totale comprensione della verità rivelata. Esso dunque non rivendicava, a differenza di quanto era stato per i filosofi antichi e greci in particolare, la necessità di una ricerca autonoma da esperienze precedenti, ma al contrario stabiliva come norma e alveo della propria speculazione la tradizione religiosa cristiana. Dal momento, infatti, che attraverso le Sacre Scritture e le definizioni dogmatiche elaborate dai Concili la verità era già stata rivelata all'uomo, si riteneva che a quest'ultimo competesse solo di accostarsi a tale verità e di renderla più accessibile per sé e per gli altri grazie al sostegno della tradizione e della riflessione dei Padri e dei Dottori della Chiesa. Per i pensatori scolastici, la comprensione della verità, infatti, non poteva essere conseguita dal singolo, ma era un'impresa corale e comune, sorretta dall'uso costante nella speculazione delle auctoritates. Le fonti della S. dunque - intesa nel suo duplice carattere di educazione e formazione di laici e chierici alla vita e alla coscienza cristiana e di speculazione filosofica - furono, oltre alla Bibbia ebraico-cristiana, la filosofia greca (stoico-platonica prima e aristotelica poi) mediata attraverso l'Ellenismo, gli autori latini e quelli arabi, la Patristica in generale e sant'Agostino in particolare. Rispetto a tali fonti, che rappresentarono il materiale e lo strumento della ricerca filosofica, la S. ebbe vocazione essenzialmente interpretativa, essendo la filosofia solo un mezzo per attingere la verità della Rivelazione (philosophia ancilla theologiae), pur operando con totale astoricità, decontestualizzando dottrine e concetti e adattandoli alle proprie necessità speculative. Entro questo schema generale di pensiero, tuttavia, la S. presenta una certa evoluzione, favorendo l'iniziativa razionale dell'individuo in relazione ad ambiti, diversi da quelli della fede, nei quali la verità poteva legittimamente essere ricercata e raggiunta per mezzo dei poteri naturali conferiti all'uomo. Così l'indagine razionale trovò sempre maggior spazio e applicazione, favorendo lo sviluppo delle scienze naturali e pratiche, dell'arte politica e dell'etica e caratterizzando ulteriormente la S. come sede speculativa in merito al problema del rapporto intercorrente tra fede e ragione, cui le singole personalità trovarono risposte differenti. Infatti, l'appartenenza di un pensatore alla S. si evince, al di là del mero criterio cronologico, dalla centralità che assume nella sua opera tale problema e non da una stretta coincidenza teoretica o dall'omogeneità della risposta che egli propone. Se è innegabile la condivisione, da parte di tutti gli autori di quell'epoca, di un metodo sillogistico e rigidamente deduttivo e di una comune matrice religiosa, tuttavia è errato considerare la S. come una sintesi dottrinale omogenea in cui siano fusi e indistinti i contributi individuali delle singole personalità: ad essa appartengono, con uguale diritto, infatti, sistemi ortodossi ed eterodossi, sintesi dottrinali o elaborazioni politiche, speculazioni filosofiche o ricerche naturali e scientifiche. Benché Bonaventura (V. BONAVENTURA DA BAGNOREA) sostenesse la necessità di ricondurre ogni dimensione della conoscenza umana alla teologia (reductio omnium artium ad theologiam), la S. affermò, in prevalenza, l'esistenza di una netta distinzione tra l'ambito della fede e quello della ragione, secondo una rigida gerarchia che vedeva la filosofia come apice della scienza (speculazione), a sua volta però sottomessa alla teologia (Rivelazione). La storiografia ha identificato, per quanto riguarda la S. medioevale propriamente detta, la seguente periodizzazione: 1) la prima S., dal IX sec. alla metà dell'XI sec., cioè il periodo della rinascita carolingia ; 2) l'alta S., dalla metà dell'XI sec. a tutto il XII sec.; 3) la fioritura della S. (XIII sec.), in cui furono elaborati i grandi sistemi; 4) la tarda S. (XIV sec.). La concezione filosofica che assume come centrale il problema del rapporto tra pensiero razionale e fede nella Rivelazione ha mantenuto una sua vitalità nel tempo, godendo di nuova fortuna tra i secc. XVI e XVII - anche sull'onda della Controriforma - e nel XIX sec. (V. NEOSCOLASTICA). ║ La prima S. (secc. IX-XI): con la rapida decadenza politico culturale dell'età tardo-antica, anche i centri di istruzione romani erano venuti meno, sopravvivendo solo residuali attività formative per la nobiltà barbarica, che si esaurivano però nella trasmissione di nozioni di arte bellica. Durante il Basso Impero, parte della cultura classica poté tuttavia essere raccolta da membri di antiche famiglie dell'aristocrazia romana convertitesi al Cristianesimo, che si opposero al declino delle discipline scientifiche e della filosofia, ridotta ormai alla sola retorica, proponendo un nuovo percorso di studi scientifici e teologici. Tra il V e il VII sec. furono attivi autori considerati, a posteriori, come i “padri del pensiero medioevale”: Severino Boezio (V.) tradusse e commentò parte dell'Organon aristotelico e dell'Isagoghé di Porfirio (V.), lasciò un suo peculiare insegnamento nell'opera più celebre (De consolatione philosophiae) e infine, nei suoi Opuscola theologica, applicò sistematicamente ad argomenti teologici un procedimento di pensiero logico-razionale, elaborando una vera e propria terminologia che rimase valida per tutto il Medioevo. Cassiodoro, con le sue Institutiones, e Gregorio Magno ricondussero lo schema tradizionale delle sette arti liberali di Maurizio Capella nell'alveo della formazione cristiana, mentre Isidoro di Siviglia condensò, nei 20 libri di Etymologiae, le conoscenze sacre e profane allo scopo di sostenere una più profonda e completa comprensione delle Sacre Scritture. L'opera di questi autori, come già i testi biblici, patristici e i superstiti della classicità, furono trascritti e conservati nei secoli seguenti grazie all'attività degli scriptoria benedettini, finché, a cavallo tra l'VIII e il IX sec., la cosiddetta “rinascita carolingia” favorì l'apertura non solo della schola palatina, presso la corte del sovrano, ma di numerosi altri centri per la formazione del clero, scuole di scrittura e per la redazione di testi religiosi e normativi uniformi in tutto il territorio imperiale, con sede nelle pievi, nei monasteri o nelle cattedrali. Esse, tuttavia, essendo dirette principalmente alla formazione dei chierici, risultarono sistematicamente controllate dalla gerarchia ecclesiale, di modo che il pensiero scolastico fu non solo organico alla dogmatica cristiana, ma anche sede della sua elaborazione e sistematizzazione. Il desiderio di una maggiore penetrazione dei testi sacri, in verità, aveva già prodotto, entro gli ordini monastici, l'elaborazione della cosiddetta teologia monastica, basata sulla riflessione sul testo, sull'individuazione della sua valenza spirituale e in ciò conclusa. Affatto diversa fu la nascente teologia scolastica, che volle considerare come elemento essenziale per una piena adesione alla verità rivelata anche la filosofia, che soddisfacesse cioè l'esigenza di comprensione anche in termini razionali dell'ordinamento della creazione. Figure di rilievo della rinascita intellettuale europea furono tra gli altri Alcuino di York (V.), il grande organizzatore delle scholae nel Regno franco, Fredegiso di Tours (V.), Ratramno di Corbie (V.), che per primi applicarono a tematiche squisitamente teologiche (come ad esempio quella della transustanziazione o della predestinazione) le categorie proprie delle arti liberali. Il maggior filosofo dell'età carolingia fu tuttavia Giovanni Scoto (V. SCOTO ERIUGENA, GIOVANNI), che ebbe importanza capitale nella speculazione a lui posteriore e la cui opera non poté essere ignorata dai successivi filosofi scolastici, ma necessariamente considerata, fosse per accoglierla o per confutarla. Il suo capolavoro furono i cinque libri del De divisione naturae, in cui emerge il carattere della ricerca scolastica, il metodo aprioristico deduttivo; suo presupposto fu la convinzione dell'intrinseco accordo tra fede e ragione, tra verità attinta mediante la libera ricerca e verità rivelata, tra genuina autorità e retta ragione. Per Scoto, infatti, una vera auctoritas non ostacola né è ostacolata dalla retta ragione, in quanto entrambe emanano dalla medesima fonte, cioè la sapienza divina; anzi, la stessa auctoritas dei santi Padri nasce e si legittima dalla ragione, in quanto la verità che essa rivela è stata in precedenza da essi raggiunta in virtù della ragione e poi tramandata per vantaggio dei posteri. Una rivalutazione generale della ricerca storico-filosofica si affermò durante i secc. X-XI, producendo studi e commenti e un più convinto abbandono, in vista della societas christiana, del disprezzo del mondo di origine stoica in favore di una conquista al Cristianesimo di ogni espressione culturale e politica: grande interprete di questa istanza universalistica fu Gerberto di Aurillac, che fu ispiratore del progetto di renovatio imperii perseguito dall'imperatore Ottone III (V.), dal quale venne poi sostenuto fino alla nomina a pontefice con il nome di Silvestro II (V.). ║ L'alta S. (secc. XI-XII): in questo periodo l'Occidente conobbe una grande fioritura intellettuale, mentre la S. cominciò a dibattere consapevolmente intorno a quale fosse la via migliore per condurre l'uomo all'intelligenza della verità rivelata (fides quaerens intellectum). A questo proposito è possibile distinguere l'opzione dei dialettici - che ritennero più adeguato allo scopo l'uso della ragione e della disciplina ad essa propria, cioè la dialettica - e quella degli antidialettici - che, appellandosi alle auctoritates, limitarono il compito della filosofia alla difesa delle dottrine rivelate. Questi ultimi, tuttavia, pur essendo rigorosi assertori della superiorità della fede sulle vie della ricerca razionale, non disdegnarono di applicare in campi più ristretti la medesima arte dialettica. Tra i dialettici puri citiamo la figura esemplare di Berengario di Tours (V.), che esaltò la dialettica e ne sostenne l'applicazione in ogni campo: nella sua opera De sacra coena adversus Lanfrancum, egli si valse del procedimento dialettico anche in merito al problema della transustanziazione, pervenendo così a una dottrina che fu poi condannata dalla Chiesa. Diretto avversario di Berengario fu Lanfranco di Pavia (V.), che giudicò la dialettica come scienza inadeguata a comprendere i misteri divini; ciò nonostante egli se ne valse in altri campi perché, a suo parere, mentre essa fallisce come strumento unico di indagine intorno ai misteri divini, quando invece sia sorretta e guidata dalla fede e dal rispetto per le auctoritates, può comunque rivelarsi utile per sostenere ciò che è affermato dalla fede e nella Rivelazione. In polemica coi dialettici fu anche Pier Damiani (V. PIETRO DAMIANI) che, conferendo particolare importanza all'attributo divino dell'onnipotenza, ne ricavava l'inaffidabilità dei percorsi logici della dialettica che da tale onnipotenza potevano in qualsiasi momento essere invalidati. La dialettica doveva perciò subordinarsi al dettato delle Sacre Scritture velut ancilla dominae (come una serva alla padrona). Damiani, peraltro, affermava l'assoluta onnipotenza divina non solo sulle leggi della logica ma anche su quelle della natura e della storia che la volontà divina potrebbe mutare secondo i suoi fini. A cavallo tra i due secoli visse un filosofo di grande statura, Anselmo d'Aosta (V.), considerato la prima voce della filosofia razionalista, il primo interprete della necessità della ricerca, seppur vissuta come valore religioso e trascendente dal momento che è esplicita nel suo pensiero la priorità della fede sull'intendere. Ad Anselmo risale infatti la celebre massima credo ut intelligam (credo al fine di capire) che trovò piena espressione nel punto culminante della sua speculazione - la prova ontologica dell'esistenza di Dio (V. PROVA) -, quando egli affermò che presupposto della prova è la fede. Tuttavia anche la fede deve essere confermata e dimostrata con gli argomenti della ricerca razionale: infatti dal momento che tale conferma è possibile, essa diventa anche doverosa. Anche per Anselmo, dunque (che si mosse nell'ambito del pensiero platonico e agostiniano pur se integrato da frequentazioni con la logica aristotelica e boeziana) l'accordo tra ragione e fede era intrinseco e sostanziale, benché egli ritenesse che non tutta la verità fosse attingibile per l'uomo: la ragione può condurre a riconoscere l'esistenza del Mistero ma non può spiegare in che modo esso sia. Il XII sec. si caratterizzò come momento di ulteriore crescita e sviluppo della S.: furono inseriti nel circuito culturale nuovi autori e nuovi testi, reperiti attraverso il contatto con il mondo arabo, fino ad allora sconosciuti all'Occidente latino. Venne tradotto e commentato il Timeo di Platone, opera che influenzò significativamente la speculazione di Pietro Abelardo da un lato e della scuola naturalista di Chartres dall'altro, si diffusero le traduzioni greco-latine o, più spesso, arabo-latine di opere di medicina, astronomia, astrologia, e soprattutto dei trattati di fisica, metafisica ed etica di Aristotele, fino ad allora noto limitatamente alla Logica in traduzione di Boezio. Tra i filosofi arabi furono studiati in particolar modo Avicenna e Averroè e l'ebreo Mosè Maimonide. L'accrescersi della materia di studio e delle auctoritates possibili accese il XII sec. di importanti controversie teologico-filosofiche, tra cui spiccano quella sulla predestinazione o quella intorno al problema degli universali. Ancora una volta è possibile scorgere due principali metodi e direzioni nella riflessione scolastica: da un lato operarono i dialettici, con Abelardo e la scuola di Chartres, dall'altro i mistici della scuola cistercense (Bernardo, Ugo da San Vittore, ecc.). Il razionalista Abelardo ribaltò di fatto l'impostazione di Anselmo, dando priorità all'intelligenza sulla fede che, anzi, doveva per lui essere non solo sostenuta e chiarificata dalla ragione ma addirittura sottoposta al vaglio di quella. L'esercizio della ragione, cioè la filosofia, rappresenta dunque per Abelardo il massimo e più nobile grado dell'attività umana e in essa la logica occupa un posto predominante. La ricerca di Abelardo si configurò dunque come ricerca razionale, che muovendo dal dubbio interrogava i testi, la natura e la realtà: il suo metodo dialettico puro si organizzò nella tecnica della quaestio che, partendo da testi che propongono soluzioni differenti a un medesimo problema, si valeva della logica per risolvere, ove possibile, tale contrasto o proporre una soluzione alternativa ad esso. Conseguente alla preminenza dell'intendere sulla fede è la primogenitura della ragione sulle auctoritates: secondo Abelardo, infatti, la funzione dell'autorità è valida solo finché la ragione rimane nascosta (dum ratio latet), ma decade quando la ragione può esercitare la sua azione. Infatti, al contrario di quanto sostenuto da Anselmo, per il grande maestro della cattedrale di Parigi l'uomo può credere solo a ciò che può comprendere (credo quod intelligo); e benché la mente umana sia evidentemente insufficiente a farsi misura di ogni mistero divino, essa ha tuttavia l'obbligo di trovare una spiegazione verosimile che soddisfi la ragione. La scuola di Chartres, ugualmente ascrivibile al filone dialettico-razionalista, pur senza trascurare l'interesse per la logica, coltivò in particolare quello per il mondo naturale, dirottando parte delle energie speculative dall'oggetto, fino a quel momento unico, della Rivelazione e della realtà trascendente in favore di un oggetto subordinato, ma ricco e in grado di offrire spazi di ricerca razionale indipendente, qual era appunto la natura. In quest'ambito si giunse anche ad attribuire alle cosiddette artes mechanicae pari dignità che alle arti liberali. Tra gli interpreti di maggior spicco della scuola di Chartres, ricordiamo Giovanni di Salisbury (V.), che cercò di stabilire i limiti, i fondamenti e gli ambiti di ricerca inerenti le scienze umane. Egli asserì che, benché spesso la ricerca sia costretta ad accontentarsi di affermazioni di probabilità, essa si basa comunque su alcuni elementi certi ed evidenti, indubitabili, attingibili mediante i sensi, la ragione e la fede. Egli perciò limitò drasticamente gli ambiti della speculazione teologica e cosmologica, mentre ritenne che la ricerca umana avesse buone possibilità di successo nelle scienze matematica, logica e politica. Figura di primaria importanza fu inoltre Alano di Lilla (V.), per certi versi antesignano di Tommaso d'Aquino, che delineò i confini tra ambito di ricerca razionale e ricerca teologica e organizzò la teologia sul modello della scienza più rigorosa e cioè la matematica. Nel XII sec., come già accennato, si verificò anche una rinascita del Misticismo, come affermazione di una via autonoma e alternativa a quella della ricerca razionale, per elevarsi a Dio. L'opzione mistica ebbe ricadute non solo in campo filosofico e religioso, ma fu anche utilizzata dalla gerarchia ecclesiastica come arma polemica e di legittimazione dell'ortodossia dottrinale contro le aberrazioni eretiche da un lato e la fascinazione della dialettica dall'altro. Solo in un secondo momento la via mistica poté essere considerata non più in opposizione alla ricerca razionale, ma come suo completamento. Inizialmente, infatti, il Misticismo, con Bernardo di Clairvaux (V. BERNARDO DI CHIARAVALLE, SAN), negò valore sia alla ragione sia all'uomo stesso, il cui unico compito era quello di elevarsi, mediante il riconoscimento di tale propria nullità e per mezzo dell'ascesi, alla comprensione estatica di Dio: la Mistica fu dunque indicata come unica via efficace e sola alternativa alla ricerca razionale, via di umiltà e di rinuncia ad ogni pretesa di autonomia. Diversa invece la visione di Ugo da San Vittore (V.), autore della prima summa teologica medioevale, che sfuggì l'opposizione tra scienza sacra e profana, Misticismo e dialettica, mirando invece a ricomporli e armonizzarli in unico sistema in cui nessuna conoscenza fosse considerata inutile. Stesso carattere ebbe l'opera, di poco successiva, di Pietro Lombardo (V.) la cui summa fu presto adottata come testo ufficiale nelle università medioevali e la cui influenza si protrasse fino a tutto il XVI sec. ║ La fioritura della S. (XIII sec.): il secolo della piena maturità della S. fu segnato da due contemporanei e importanti fattori. Il primo riguardava la riforma dell'organizzazione del sapere nelle università, in cui veniva anche fissandosi il canone scientifico e la ripartizione delle discipline nelle varie facoltà: arti, medicina, diritto, teologia, accomunate dall'adozione del metodo razionale in quanto procedimento deduttivo in grado di condurre ad affermazioni di carattere universale. Ma il fenomeno di gran lunga più determinante per l'evoluzione culturale del secolo fu quello della diffusione, traduzione e discussione dei testi di Aristotele. Benché la circolazione di nuove opere dello Stagirita fosse già iniziata nel secolo precedente, l'iniziale e concorde accoglienza ad esse tributata era forse dovuta ad una conoscenza solo parziale e superficiale delle stesse. Durante il XIII sec., invece, il problema più urgente sul piano filosofico fu proprio quello di valutare obiettivamente la portata dell'Aristotelismo, nelle sue varie e possibili interpretazioni (non fu trascurabile il fatto che Aristotele giunse in Occidente non in originale, ma mediato da traduzioni linguistiche e culturali soprattutto arabe ed ebraiche). Il sistema aristotelico si presentò agli occhi medioevali come il più compiuto e perfetto tentativo della ragione umana di descrivere e spiegare il cosmo nella sua interezza in chiave immanente, senza bisogno di far ricorso cioè alla Rivelazione o comunque all'intervento divino. La disputa intorno all'Aristotelismo, in pratica, ripropose quella tra fede e ragione, trovando una sintesi di altissimo valore nel Tomismo (V.). La ricezione di Aristotele da parte della S. fu tuttavia assai complessa, trattandosi di innestarlo e conciliarlo entro un sistema filosofico platonico-agostiniano. In questo senso fu assai sfruttata la lettura dell'Aristotelismo fornita da Avicenna che, per rendere il filosofo greco accettabile al pensiero islamico, ne aveva per così dire adattato le affermazioni più problematiche, quali: l'eternità del mondo materiale, la mortalità dell'anima e l'assenza di un disegno provvidenziale. Si possono in definitiva distinguere tre grandi opzioni filosofiche con le quali gli scolastici risposero alla sfida dell'Aristotelismo: da un lato vi fu una sorta di reazione all'Aristotelismo della corrente più schiettamente platonizzante dell'Agostinismo latino, che trovò la massima espressione nella scuola francescana di Bonaventura da Bagnorea (V.) e dei neoagostiniani. Ad essi si contrapponevano nettamente i sostenitori di un'adesione incondizionata all'Aristotelismo, nella veste del Gran Commento di Averroè (V. AVERROÈ e AVERROISMO), tra cui Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia. Noti come “averroisti latini”, essi sostenevano l'inconciliabilità tra sistema agostiniano e aristotelico: le verità rivelate, i contenuti della fede, non dovevano essere rinnegate, ma bisognava ammettere che esse non sono dimostrabili dalla ragione. Fatto per cui non è da escludersi la possibilità di un disaccordo tra verità della scienza e della religione. Per gli averroisti, la filosofia era dunque una scienza rigorosamente dimostrativa, improntata alla necessità razionale di attingere la verità, mentre la religione rivelata offriva un percorso approssimativo e imperfetto a coloro che non fossero in grado di percorrere la via della scienza deduttiva. La religione, quindi, si ridurrebbe a guida delle masse verso la salvezza, mentre la vera felicità del filosofo coinciderebbe solo con il possesso della scienza. Le tesi dell'Averroismo (esposte in 15 punti dallo Studio di Parigi nel 1270), furono condannate come eretiche nel 1277. Tra queste due opposte soluzioni ai problemi posti dall'Aristotelismo in Occidente si collocò un indirizzo mediano interpretato, in particolare, dai domenicani Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. Essi promossero una maggiore aderenza al pensiero originale dello Stagirita, rispetto a quanto proponevano i neoagostiniani o i sostenitori della lettura platonizzante di Avicenna: pur accettando in linea di massima la logica, la metafisica e la filosofia della natura di Aristotele, ne corressero alcuni punti inconciliabili con la dottrina cristiana (eternità del mondo, derivazione necessaria del molteplice dall'Uno, ecc.), utilizzando a tale scopo i medesimi principi informanti l'intero sistema aristotelico (come, ad esempio, il primato dell'atto sulla potenza). Il cristiano e il filosofo, dunque, nella costruzione della sacra doctrina, dovevano avvalersi della ricerca razionale, che proprio nell'Aristotelismo aveva raggiunto la formulazione di massimo rigore, pervenendo in tal modo ad affermare il sicuro accordo tra le risultanze della fede e della ricerca razionale. Alberto Magno (V.) volle indicare con la sua opera che l'Aristotelismo non solo non era un impedimento, ma anzi rappresentava il miglior fondamento per una comprensione filosofica della verità rivelata. Filosofia e teologia, tuttavia, avevano per lui domini separati, definiti e autonomi, essendo la prima scienza della dimostrazione necessaria, la seconda scienza fondata su principi ammessi per fede. Fu Tommaso d'Aquino (V.) a dare pieno compimento alla sintesi preannunciata da Alberto, di cui era stato discepolo. Attraverso la speculazione tomista, infatti, l'Aristotelismo riuscì a conciliarsi con ogni esigenza di tipo dottrinale, non però, come ancora accadeva in Alberto, mediante correzioni esterne e argomentazioni spesso tratte dal patrimonio agostiniano con cui era per altro in polemica. L'Aquinate, infatti, sviluppò rigorosamente in ogni direzione i concetti interni al sistema aristotelico stesso, riformandolo in armonia con essi e armonizzandolo con i principali risultati acquisiti dalla tradizione scolastica. Per Tommaso, Aristotele era già giunto fin dove la ragione può arrivare, al limite cioè oltre il quale vi è solo la realtà soprannaturale della fede, di cui la Chiesa è custode, maestra e garante: il compito che egli si proponeva era appunto quello di integrare filosofia e fede, ponendo questa a coronamento di quella. A tal scopo stabilì due presupposti irrinunciabili: la distinzione tra filosofia e teologia (la prima in quanto sorretta solo da principi di evidenza razionale, la seconda fondata sulla Rivelazione), che stanno fra loro reciprocamente come preparazione e compimento e il discernimento della disparità tra oggetto della filosofia e oggetto della teologia. Infatti le due scienze non possono essere tra loro distinte se tali non sono i loro oggetti, costituiti rispettivamente dall'essere delle creature e dall'essere di Dio. Inizialmente la dottrina tomista fu sospetta di Averroismo, ma presto divenne evidente la profonda differenza dell'Aristotelismo di Tommaso da quello di Averroè: la sua posizione filosofica venne ufficialmente assunta dall'ordine domenicano e alcune sue parti accolte nella formulazione dottrinale della Chiesa. Non ultimo tra le elaborazioni conseguenti all'introduzione dell'Aristotelismo in Occidente va considerato il filone dell'indagine sul mondo naturale, sulla sua struttura materiale fisica, da un lato condotta mediante un esercizio sistematico della ricerca razionale deduttiva, dall'altro mediante un percorso empirico induttivo, come sostenuto da Ruggero Bacone. ║ La tarda S. (XIV sec.): una volta assimilato l'Aristotelismo nella sua sintesi tomista, il XIV sec. rappresentò per la S. un momento di riflessione sui risultati raggiunti. La teologia era stata definita la massima scienza, cioè il complesso dei discorsi necessari sul divino condotti dalla ragione umana. A tale concezione si applicò tuttavia la critica di un altro grande filosofo scolastico, Duns Scoto (V.), che in ciò si oppose al Tomismo. Egli sostenne infatti che la teologia è sì una scienza, ma sui generis, diversa cioè dalle altre e priva di qualsiasi primato su di esse; in quanto fondata su verità di fede, non è suscettibile di un rigoroso procedimento dimostrativo, quindi ha il proprio dominio nell'ambito della vita pratica e pertanto è soggetta non all'attività della ragione ma della volontà (dell'uomo o di Dio), cioè di un fattore arbitrario e libero e non necessario. Viceversa la scienza è per sua natura autonoma, necessaria e dimostrativa; essa coincide con l'attività della ragione, secondo il metodo del dubbio sistematico, dell'analisi critica e della deduzione, in stretta coerenza con il pensiero aristotelico. Lo stesso Aristotelismo, d'altra parte, aveva insignito la ragione di validità nel campo della filosofia e della scienza, al di fuori di un impegno e di una finalità meramente teologica e cristiana. Si delineò così una pluralità di ambiti per l'indagine razionale, informati al principio della verificazione empirica: la concezione scientifica si era infatti arricchita con l'Aristotelismo di una maggiore attenzione ai dati dell'esperienza e produsse una ricerca anche epistemologica e metodologica. L'interesse per la metafisica risultò nel XIV sec. secondario rispetto alla centralità di altre discipline che avevano come oggetto il mondo concreto e l'uomo: la filosofia naturale e la fisica (Giovanni Buridano), la politica (Marsilio da Padova), l'etica (Giovanni di Jandun). Tra le figure di maggior rilievo del secolo - di particolare importanza anche nel campo della fisica e della logica - si conta certamente quella di Guglielmo di Occam (V.), venerabilis inceptor. Ultimo grande esponente della S. e iniziatore della filosofia moderna, dichiarò di fatto irrealizzabile l'accordo tra filosofia e verità rivelata, i cui ambiti risultarono a suoi occhi, portando alle estreme conseguenze quanto affermato da Duns Scoto, non solo distinti ma immiscibili e non comunicanti. Se già Scoto aveva definito la teologia come scienza pratica, atta cioè a dettare norme all'agire ma non a fornire verità speculative, Occam stabilì nell'esperienza il fondamento di ogni conoscenza e definì come inconoscibile ogni oggetto che trascendesse appunto l'esperienza. L'affermazione della radicale eterogeneità di scienza e fede segnò con Occam il punto di arrivo del percorso della S. e il suo dissolvimento, mentre l'Empirismo radicale costituì il preambolo della speculazione successiva. Una ricerca infatti che non riconosceva più come sua guida o come suo coronamento la verità rivelata, doveva assumere necessariamente come proprio criterio e norma la realtà così come essa è fornita all'uomo dall'esperienza.