(dal latino
scholasticus: colui che
insegna nella
schola). Scuola filosofica cristiana del Medioevo. ║
Categoria storiografica che identifica il pensiero teologico, filosofico e
scientifico che si sviluppò e fu insegnato entro le
scholae e le
università medioevali tra il VI e il XIV sec. ║ In senso riduttivo,
il vocabolo è utilizzato per indicare un atteggiamento intellettuale e
culturale di tipo dogmatico e uniforme, né creativo né originale,
improntato a una trasmissione di contenuti cristallizzati e astratti. •
Encicl. - La fortuna del vocabolo
S. ebbe inizio con l'Umanesimo e
continuò durante il Rinascimento, quando esso assunse una forte valenza
polemica, che mirava a contrapporre la nuova cultura e la nuova organizzazione
nella trasmissione del sapere a quelle dell'epoca medioevale. Della
S.
furono dunque stigmatizzati aspetti considerati negativi, quali la rigida
fedeltà a testi o autori considerati alla stregua di indubitabili
auctoritates, la scarsa qualità filologica dei testi stessi di
riferimento, la concezione statica del sapere che comportava una trasmissione
dello stesso giudicata meccanicistica e ripetitiva (realizzata attraverso un
gran numero di
commentarii,
disputationes,
expositiones,
ecc.), orientata più alla minuziosa analisi di un testo che
all'elaborazione di sviluppi originali. L'origine e lo sviluppo della
S.,
tuttavia, sono strettamente legati alla funzione dell'insegnamento nelle
scholae (fatto che rende ragione del nome), entro cui veniva custodita e
tramandata la cultura: le scuole plebane, cioè annesse alla pieve
(V.), si occupavano dell'istruzione elementare,
mentre quelle monastiche o, più tardi, quelle annesse alle cattedrali,
impartivano insegnamenti superiori. Col tempo, a cominciare dal XIII sec.,
alcune fra queste ultime, particolarmente rinomate per i maestri che vi
insegnavano o per la grandezza delle città che le ospitavano,
cominciarono a essere frequentate da studenti di altre località,
trasformandosi in
studia generalia e quindi in università,
cioè in corporazioni di professori e studenti. Questa diretta discendenza
del sistema universitario medioevale dalle più antiche
scholae
fece sì che anche il
magister continuasse a essere definito
scholasticus e che essi perpetuassero e sviluppassero il metodo di
insegnamento e apprendimento tradizionali, fondato sui due momenti della
lectio e della
disputatio (lettura e discussione) dei testi
filosofici e delle Sacre Scritture, attraverso cui si perseguiva la diffusione e
la comprensione del patrimonio culturale noto. La connessione della
S. al
problema dell'insegnamento e la coincidenza in essa di problema speculativo ed
educativo non erano accidentali ma sostanziali, in quanto informanti la natura
stessa di questo movimento filosofico: suo fine era infatti quello di condurre
l'uomo, ma soprattutto il
chierico, a una più profonda e totale
comprensione della verità rivelata. Esso dunque non rivendicava, a
differenza di quanto era stato per i filosofi antichi e greci in particolare, la
necessità di una ricerca autonoma da esperienze precedenti, ma al
contrario stabiliva come norma e alveo della propria speculazione la tradizione
religiosa cristiana. Dal momento, infatti, che attraverso le Sacre Scritture e
le definizioni dogmatiche elaborate dai Concili la verità era già
stata rivelata all'uomo, si riteneva che a quest'ultimo competesse solo di
accostarsi a tale verità e di renderla più accessibile per
sé e per gli altri grazie al sostegno della tradizione e della
riflessione dei Padri e dei Dottori della Chiesa. Per i pensatori scolastici, la
comprensione della verità, infatti, non poteva essere conseguita dal
singolo, ma era un'impresa corale e comune, sorretta dall'uso costante nella
speculazione delle
auctoritates. Le fonti della
S. dunque - intesa
nel suo duplice carattere di educazione e formazione di laici e chierici alla
vita e alla coscienza cristiana e di speculazione filosofica - furono, oltre
alla Bibbia ebraico-cristiana, la filosofia greca (stoico-platonica prima e
aristotelica poi) mediata attraverso l'Ellenismo, gli autori latini e quelli
arabi, la Patristica in generale e sant'Agostino in particolare. Rispetto a tali
fonti, che rappresentarono il materiale e lo strumento della ricerca filosofica,
la
S. ebbe vocazione essenzialmente interpretativa, essendo la filosofia
solo un mezzo per attingere la verità della Rivelazione (
philosophia
ancilla theologiae), pur operando con totale astoricità,
decontestualizzando dottrine e concetti e adattandoli alle proprie
necessità speculative. Entro questo schema generale di pensiero,
tuttavia, la
S. presenta una certa evoluzione, favorendo l'iniziativa
razionale dell'individuo in relazione ad ambiti, diversi da quelli della fede,
nei quali la verità poteva legittimamente essere ricercata e raggiunta
per mezzo dei poteri naturali conferiti all'uomo. Così l'indagine
razionale trovò sempre maggior spazio e applicazione, favorendo lo
sviluppo delle scienze naturali e pratiche, dell'arte politica e dell'etica e
caratterizzando ulteriormente la
S. come sede speculativa in merito al
problema del rapporto intercorrente tra fede e ragione, cui le singole
personalità trovarono risposte differenti. Infatti, l'appartenenza di un
pensatore alla
S. si evince, al di là del mero criterio
cronologico, dalla centralità che assume nella sua opera tale problema e
non da una stretta coincidenza teoretica o dall'omogeneità della risposta
che egli propone. Se è innegabile la condivisione, da parte di tutti gli
autori di quell'epoca, di un metodo sillogistico e rigidamente deduttivo e di
una comune matrice religiosa, tuttavia è errato considerare la
S.
come una sintesi dottrinale omogenea in cui siano fusi e indistinti i
contributi individuali delle singole personalità: ad essa appartengono,
con uguale diritto, infatti, sistemi ortodossi ed eterodossi, sintesi dottrinali
o elaborazioni politiche, speculazioni filosofiche o ricerche naturali e
scientifiche. Benché Bonaventura (V. BONAVENTURA DA BAGNOREA) sostenesse la necessità di
ricondurre ogni dimensione della conoscenza umana alla teologia (
reductio
omnium artium ad theologiam), la
S. affermò, in prevalenza,
l'esistenza di una netta distinzione tra l'ambito della fede e quello della
ragione, secondo una rigida gerarchia che vedeva la filosofia come apice della
scienza (speculazione), a sua volta però sottomessa alla teologia
(Rivelazione). La storiografia ha identificato, per quanto riguarda la
S.
medioevale propriamente detta, la seguente periodizzazione: 1) la prima
S.,
dal IX sec. alla metà dell'XI sec., cioè il
periodo della rinascita carolingia ; 2) l'alta
S., dalla metà
dell'XI sec. a tutto il XII sec.; 3) la fioritura della
S. (XIII sec.),
in cui furono elaborati i grandi sistemi; 4) la tarda
S. (XIV
sec.)
. La concezione filosofica che assume come centrale il problema del
rapporto tra pensiero razionale e fede nella Rivelazione ha mantenuto una sua
vitalità nel tempo, godendo di nuova fortuna tra i secc. XVI e XVII -
anche sull'onda della Controriforma - e nel XIX sec. (V. NEOSCOLASTICA).
║
La prima S. (
secc. IX-XI): con la rapida decadenza
politico culturale dell'età tardo-antica, anche i centri di istruzione
romani erano venuti meno, sopravvivendo solo residuali attività formative
per la nobiltà barbarica, che si esaurivano però nella
trasmissione di nozioni di arte bellica. Durante il Basso Impero, parte della
cultura classica poté tuttavia essere raccolta da membri di antiche
famiglie dell'aristocrazia romana convertitesi al Cristianesimo, che si opposero
al declino delle discipline scientifiche e della filosofia, ridotta ormai alla
sola retorica, proponendo un nuovo percorso di studi scientifici e teologici.
Tra il V e il VII sec. furono attivi autori considerati, a posteriori, come i
“padri del pensiero medioevale”: Severino Boezio
(V.) tradusse e commentò parte
dell'
Organon aristotelico e dell'
Isagoghé di Porfirio
(V.), lasciò un suo peculiare insegnamento
nell'opera più celebre (
De consolatione philosophiae) e infine,
nei suoi
Opuscola theologica, applicò sistematicamente ad
argomenti teologici un procedimento di pensiero logico-razionale, elaborando una
vera e propria terminologia che rimase valida per tutto il Medioevo. Cassiodoro,
con le sue
Institutiones, e Gregorio Magno ricondussero lo schema
tradizionale delle sette arti liberali di Maurizio Capella nell'alveo della
formazione cristiana, mentre Isidoro di Siviglia condensò, nei 20 libri
di
Etymologiae, le conoscenze sacre e profane allo scopo di sostenere una
più profonda e completa comprensione delle Sacre Scritture. L'opera di
questi autori, come già i testi biblici, patristici e i superstiti della
classicità, furono trascritti e conservati nei secoli seguenti grazie
all'attività degli
scriptoria benedettini, finché, a
cavallo tra l'VIII e il IX sec., la cosiddetta “rinascita
carolingia” favorì l'apertura non solo della
schola
palatina, presso la corte del sovrano, ma di numerosi altri centri per la
formazione del clero, scuole di scrittura e per la redazione di testi religiosi
e normativi uniformi in tutto il territorio imperiale, con sede nelle pievi, nei
monasteri o nelle cattedrali. Esse, tuttavia, essendo dirette principalmente
alla formazione dei chierici, risultarono sistematicamente controllate dalla
gerarchia ecclesiale, di modo che il pensiero scolastico fu non solo organico
alla dogmatica cristiana, ma anche sede della sua elaborazione e
sistematizzazione. Il desiderio di una maggiore penetrazione dei testi sacri, in
verità, aveva già prodotto, entro gli ordini monastici,
l'elaborazione della cosiddetta
teologia monastica, basata sulla
riflessione sul testo, sull'individuazione della sua valenza spirituale e in
ciò conclusa. Affatto diversa fu la nascente
teologia scolastica,
che volle considerare come elemento essenziale per una piena adesione alla
verità rivelata anche la filosofia, che soddisfacesse cioè
l'esigenza di comprensione anche in termini razionali dell'ordinamento della
creazione. Figure di rilievo della rinascita intellettuale europea furono tra
gli altri Alcuino di York (V.), il grande
organizzatore delle
scholae nel Regno franco, Fredegiso di Tours
(V.), Ratramno di Corbie
(V.), che per primi applicarono a tematiche
squisitamente teologiche (come ad esempio quella della transustanziazione o
della predestinazione) le categorie proprie delle arti liberali. Il maggior
filosofo dell'età carolingia fu tuttavia Giovanni Scoto (V. SCOTO ERIUGENA,
GIOVANNI), che ebbe importanza capitale nella speculazione a lui
posteriore e la cui opera non poté essere ignorata dai successivi
filosofi scolastici, ma necessariamente considerata, fosse per accoglierla o per
confutarla. Il suo capolavoro furono i cinque libri del
De divisione
naturae, in cui emerge il carattere della ricerca scolastica, il metodo
aprioristico deduttivo; suo presupposto fu la convinzione dell'intrinseco
accordo tra fede e ragione, tra verità attinta mediante la libera ricerca
e verità rivelata, tra genuina autorità e retta ragione. Per
Scoto, infatti, una vera
auctoritas non ostacola né è
ostacolata dalla retta ragione, in quanto entrambe emanano dalla medesima fonte,
cioè la sapienza divina; anzi, la stessa
auctoritas dei santi
Padri nasce e si legittima dalla ragione, in quanto la verità che essa
rivela è stata in precedenza da essi raggiunta in virtù della
ragione e poi tramandata per vantaggio dei posteri. Una rivalutazione generale
della ricerca storico-filosofica si affermò durante i secc. X-XI,
producendo studi e commenti e un più convinto abbandono, in vista della
societas christiana, del disprezzo del mondo di origine stoica in favore
di una conquista al Cristianesimo di ogni espressione culturale e politica:
grande interprete di questa istanza universalistica fu Gerberto di Aurillac, che
fu ispiratore del progetto di
renovatio imperii perseguito
dall'imperatore Ottone III (V.), dal quale venne
poi sostenuto fino alla nomina a pontefice con il nome di Silvestro II
(V.). ║
L'alta S.
(
secc.
XI-XII): in questo periodo l'Occidente conobbe una grande fioritura
intellettuale, mentre la
S. cominciò a dibattere consapevolmente
intorno a quale fosse la via migliore per condurre l'uomo all'intelligenza della
verità rivelata (
fides quaerens intellectum). A questo proposito
è possibile distinguere l'opzione dei
dialettici - che ritennero
più adeguato allo scopo l'uso della ragione e della disciplina ad essa
propria, cioè la dialettica
- e quella degli
antidialettici
- che, appellandosi alle
auctoritates, limitarono il compito della
filosofia alla difesa delle dottrine rivelate. Questi ultimi, tuttavia, pur
essendo rigorosi assertori della superiorità della fede sulle vie della
ricerca razionale, non disdegnarono di applicare in campi più ristretti
la medesima arte dialettica. Tra i dialettici puri citiamo la figura esemplare
di Berengario di Tours (V.), che esaltò la
dialettica e ne sostenne l'applicazione in ogni campo: nella sua opera
De
sacra coena adversus Lanfrancum, egli si valse del procedimento dialettico
anche in merito al problema della transustanziazione, pervenendo così a
una dottrina che fu poi condannata dalla Chiesa. Diretto avversario di
Berengario fu Lanfranco di Pavia (V.), che
giudicò la dialettica come scienza inadeguata a comprendere i misteri
divini; ciò nonostante egli se ne valse in altri campi perché, a
suo parere, mentre essa fallisce come strumento unico di indagine intorno ai
misteri divini, quando invece sia sorretta e guidata dalla fede e dal rispetto
per le
auctoritates, può comunque rivelarsi utile per sostenere
ciò che è affermato dalla fede e nella Rivelazione. In polemica
coi dialettici fu anche Pier Damiani (V. PIETRO DAMIANI) che, conferendo particolare
importanza all'attributo divino dell'onnipotenza, ne ricavava
l'inaffidabilità dei percorsi logici della dialettica che da tale
onnipotenza potevano in qualsiasi momento essere invalidati. La dialettica
doveva perciò subordinarsi al dettato delle Sacre Scritture
velut
ancilla dominae (come una serva alla padrona). Damiani, peraltro, affermava
l'assoluta onnipotenza divina non solo sulle leggi della logica ma anche su
quelle della natura e della storia che la volontà divina potrebbe mutare
secondo i suoi fini. A cavallo tra i due secoli visse un filosofo di grande
statura, Anselmo d'Aosta (V.), considerato la
prima voce della filosofia razionalista, il primo interprete della
necessità della
ricerca, seppur vissuta come valore religioso e
trascendente dal momento che è esplicita nel suo pensiero la
priorità della fede sull'intendere. Ad Anselmo risale infatti la celebre
massima
credo ut intelligam (credo al fine di capire) che trovò
piena espressione nel punto culminante della sua speculazione - la prova
ontologica dell'esistenza di Dio (V. PROVA) -, quando egli affermò che
presupposto della prova è la fede. Tuttavia anche la fede deve essere
confermata e dimostrata con gli argomenti della ricerca razionale: infatti dal
momento che tale conferma è possibile, essa diventa anche doverosa. Anche
per Anselmo, dunque (che si mosse nell'ambito del pensiero platonico e
agostiniano pur se integrato da frequentazioni con la logica aristotelica e
boeziana) l'accordo tra ragione e fede era intrinseco e sostanziale,
benché egli ritenesse che non tutta la verità fosse attingibile
per l'uomo: la ragione può condurre a riconoscere l'esistenza del Mistero
ma non può spiegare in che modo esso sia. Il XII sec. si
caratterizzò come momento di ulteriore crescita e sviluppo della
S.: furono inseriti nel circuito culturale nuovi autori e nuovi testi,
reperiti attraverso il contatto con il mondo arabo, fino ad allora sconosciuti
all'Occidente latino. Venne tradotto e commentato il
Timeo di Platone,
opera che influenzò significativamente la speculazione di Pietro Abelardo
da un lato e della scuola naturalista di Chartres dall'altro, si diffusero le
traduzioni greco-latine o, più spesso, arabo-latine di opere di medicina,
astronomia, astrologia, e soprattutto dei trattati di fisica, metafisica ed
etica di Aristotele, fino ad allora noto limitatamente alla Logica in traduzione
di Boezio. Tra i filosofi arabi furono studiati in particolar modo Avicenna e
Averroè e l'ebreo Mosè Maimonide. L'accrescersi della materia di
studio e delle
auctoritates possibili accese il XII sec. di importanti
controversie teologico-filosofiche, tra cui spiccano quella sulla
predestinazione o quella intorno al problema degli universali. Ancora una volta
è possibile scorgere due principali metodi e direzioni nella riflessione
scolastica: da un lato operarono i dialettici, con Abelardo e la scuola di
Chartres, dall'altro i mistici della scuola cistercense (Bernardo, Ugo da San
Vittore, ecc.). Il razionalista Abelardo ribaltò di fatto l'impostazione
di Anselmo, dando priorità all'intelligenza sulla fede che, anzi, doveva
per lui essere non solo sostenuta e chiarificata dalla ragione ma addirittura
sottoposta al vaglio di quella. L'esercizio della ragione, cioè la
filosofia, rappresenta dunque per Abelardo il massimo e più nobile grado
dell'attività umana e in essa la logica occupa un posto predominante. La
ricerca di Abelardo si configurò dunque come ricerca razionale, che
muovendo dal dubbio interrogava i testi, la natura e la realtà: il suo
metodo dialettico puro si organizzò nella tecnica della
quaestio
che, partendo da testi che propongono soluzioni differenti a un medesimo
problema, si valeva della logica per risolvere, ove possibile, tale contrasto o
proporre una soluzione alternativa ad esso. Conseguente alla preminenza
dell'intendere sulla fede è la primogenitura della ragione sulle
auctoritates: secondo Abelardo, infatti, la funzione dell'autorità
è valida solo finché la ragione rimane nascosta (
dum ratio
latet), ma decade quando la ragione può esercitare la sua azione.
Infatti, al contrario di quanto sostenuto da Anselmo, per il grande maestro
della cattedrale di Parigi l'uomo può credere solo a ciò che
può comprendere (
credo quod intelligo); e benché la mente
umana sia evidentemente insufficiente a farsi misura di ogni mistero divino,
essa ha tuttavia l'obbligo di trovare una spiegazione verosimile che soddisfi la
ragione. La scuola di Chartres, ugualmente ascrivibile al filone
dialettico-razionalista, pur senza trascurare l'interesse per la logica,
coltivò in particolare quello per il mondo naturale, dirottando parte
delle energie speculative dall'oggetto, fino a quel momento unico, della
Rivelazione e della realtà trascendente in favore di un oggetto
subordinato, ma ricco e in grado di offrire spazi di ricerca razionale
indipendente, qual era appunto la natura. In quest'ambito si giunse anche ad
attribuire alle cosiddette
artes mechanicae pari dignità che alle
arti liberali. Tra gli interpreti di maggior spicco della scuola di Chartres,
ricordiamo Giovanni di Salisbury (V.), che
cercò di stabilire i limiti, i fondamenti e gli ambiti di ricerca
inerenti le scienze umane. Egli asserì che, benché spesso la
ricerca sia costretta ad accontentarsi di affermazioni di probabilità,
essa si basa comunque su alcuni elementi certi ed evidenti, indubitabili,
attingibili mediante i sensi, la ragione e la fede. Egli perciò
limitò drasticamente gli ambiti della speculazione teologica e
cosmologica, mentre ritenne che la ricerca umana avesse buone possibilità
di successo nelle scienze matematica, logica e politica. Figura di primaria
importanza fu inoltre Alano di Lilla (V.), per
certi versi antesignano di Tommaso d'Aquino, che delineò i confini tra
ambito di ricerca razionale e ricerca teologica e organizzò la teologia
sul modello della scienza più rigorosa e cioè la matematica. Nel
XII sec., come già accennato, si verificò anche una rinascita del
Misticismo, come affermazione di una via autonoma e alternativa a quella della
ricerca razionale, per elevarsi a Dio. L'opzione mistica ebbe ricadute non solo
in campo filosofico e religioso, ma fu anche utilizzata dalla gerarchia
ecclesiastica come arma polemica e di legittimazione dell'ortodossia dottrinale
contro le aberrazioni eretiche da un lato e la fascinazione della dialettica
dall'altro. Solo in un secondo momento la via mistica poté essere
considerata non più in opposizione alla ricerca razionale, ma come suo
completamento. Inizialmente, infatti, il Misticismo, con Bernardo di Clairvaux (V. BERNARDO DI
CHIARAVALLE, SAN), negò valore sia alla ragione sia all'uomo
stesso, il cui unico compito era quello di elevarsi, mediante il riconoscimento
di tale propria nullità e per mezzo dell'ascesi, alla comprensione
estatica di Dio: la Mistica fu dunque indicata come unica via efficace e sola
alternativa alla ricerca razionale, via di umiltà e di rinuncia ad ogni
pretesa di autonomia. Diversa invece la visione di Ugo da San Vittore (V.),
autore della prima
summa teologica medioevale, che sfuggì
l'opposizione tra scienza sacra e profana, Misticismo e dialettica, mirando
invece a ricomporli e armonizzarli in unico sistema in cui nessuna conoscenza
fosse considerata inutile. Stesso carattere ebbe l'opera, di poco successiva, di
Pietro Lombardo (V.) la cui
summa fu presto
adottata come testo ufficiale nelle università medioevali e la cui
influenza si protrasse fino a tutto il XVI sec. ║
La fioritura della
S. (
XIII sec.): il secolo della piena maturità della
S.
fu segnato da due contemporanei e importanti fattori. Il primo riguardava la
riforma dell'organizzazione del sapere nelle università, in cui veniva
anche fissandosi il canone scientifico e la ripartizione delle discipline nelle
varie facoltà: arti, medicina, diritto, teologia, accomunate
dall'adozione del metodo razionale in quanto procedimento deduttivo in grado di
condurre ad affermazioni di carattere universale. Ma il fenomeno di gran lunga
più determinante per l'evoluzione culturale del secolo fu quello della
diffusione, traduzione e discussione dei testi di Aristotele. Benché la
circolazione di nuove opere dello Stagirita fosse già iniziata nel secolo
precedente, l'iniziale e concorde accoglienza ad esse tributata era forse dovuta
ad una conoscenza solo parziale e superficiale delle stesse. Durante il XIII
sec., invece, il problema più urgente sul piano filosofico fu proprio
quello di valutare obiettivamente la portata dell'Aristotelismo, nelle sue varie
e possibili interpretazioni (non fu trascurabile il fatto che Aristotele giunse
in Occidente non in originale, ma mediato da traduzioni linguistiche e culturali
soprattutto arabe ed ebraiche). Il sistema aristotelico si presentò agli
occhi medioevali come il più compiuto e perfetto tentativo della ragione
umana di descrivere e spiegare il cosmo nella sua interezza in chiave immanente,
senza bisogno di far ricorso cioè alla Rivelazione o comunque
all'intervento divino. La disputa intorno all'Aristotelismo, in pratica,
ripropose quella tra fede e ragione, trovando una sintesi di altissimo valore
nel Tomismo (V.). La ricezione di Aristotele da
parte della
S. fu tuttavia assai complessa, trattandosi di innestarlo e
conciliarlo entro un sistema filosofico platonico-agostiniano. In questo senso
fu assai sfruttata la lettura dell'Aristotelismo fornita da Avicenna che, per
rendere il filosofo greco accettabile al pensiero islamico, ne aveva per
così dire adattato le affermazioni più problematiche, quali:
l'eternità del mondo materiale, la mortalità dell'anima e
l'assenza di un disegno provvidenziale. Si possono in definitiva distinguere tre
grandi opzioni filosofiche con le quali gli scolastici risposero alla sfida
dell'Aristotelismo: da un lato vi fu una sorta di reazione all'Aristotelismo
della corrente più schiettamente platonizzante dell'Agostinismo latino,
che trovò la massima espressione nella scuola francescana di Bonaventura
da Bagnorea (V.) e dei neoagostiniani. Ad essi si
contrapponevano nettamente i sostenitori di un'adesione incondizionata
all'Aristotelismo, nella veste del
Gran Commento di Averroè
(V. AVERROÈ e AVERROISMO), tra cui Sigieri di Brabante e Boezio
di Dacia. Noti come “averroisti latini”, essi sostenevano
l'inconciliabilità tra sistema agostiniano e aristotelico: le
verità rivelate, i contenuti della fede, non dovevano essere rinnegate,
ma bisognava ammettere che esse non sono dimostrabili dalla ragione. Fatto per
cui non è da escludersi la possibilità di un disaccordo tra
verità della scienza e della religione. Per gli averroisti, la filosofia
era dunque una scienza rigorosamente dimostrativa, improntata alla
necessità razionale di attingere la verità, mentre la religione
rivelata offriva un percorso approssimativo e imperfetto a coloro che non
fossero in grado di percorrere la via della scienza deduttiva. La religione,
quindi, si ridurrebbe a guida delle masse verso la salvezza, mentre la vera
felicità del filosofo coinciderebbe solo con il possesso della scienza.
Le tesi dell'Averroismo (esposte in 15 punti dallo Studio di Parigi nel 1270),
furono condannate come eretiche nel 1277. Tra queste due opposte soluzioni ai
problemi posti dall'Aristotelismo in Occidente si collocò un indirizzo
mediano interpretato, in particolare, dai domenicani Alberto Magno e Tommaso
d'Aquino. Essi promossero una maggiore aderenza al pensiero originale dello
Stagirita, rispetto a quanto proponevano i neoagostiniani o i sostenitori della
lettura platonizzante di Avicenna: pur accettando in linea di massima la logica,
la metafisica e la filosofia della natura di Aristotele, ne corressero alcuni
punti inconciliabili con la dottrina cristiana (eternità del mondo,
derivazione necessaria del molteplice dall'Uno, ecc.), utilizzando a tale scopo
i medesimi principi informanti l'intero sistema aristotelico (come, ad esempio,
il primato dell'atto sulla potenza). Il cristiano e il filosofo, dunque, nella
costruzione della
sacra doctrina,
dovevano avvalersi della ricerca
razionale, che proprio nell'Aristotelismo aveva raggiunto la formulazione di
massimo rigore, pervenendo in tal modo ad affermare il sicuro accordo tra le
risultanze della fede e della ricerca razionale. Alberto Magno
(V.) volle indicare con la sua opera che
l'Aristotelismo non solo non era un impedimento, ma anzi rappresentava il
miglior fondamento per una comprensione filosofica della verità rivelata.
Filosofia e teologia, tuttavia, avevano per lui domini separati, definiti e
autonomi, essendo la prima scienza della dimostrazione necessaria, la seconda
scienza fondata su principi ammessi per fede. Fu Tommaso d'Aquino
(V.) a dare pieno compimento alla sintesi
preannunciata da Alberto, di cui era stato discepolo. Attraverso la speculazione
tomista, infatti, l'Aristotelismo riuscì a conciliarsi con ogni esigenza
di tipo dottrinale, non però, come ancora accadeva in Alberto, mediante
correzioni esterne e argomentazioni spesso tratte dal patrimonio agostiniano con
cui era per altro in polemica. L'Aquinate, infatti, sviluppò
rigorosamente in ogni direzione i concetti interni al sistema aristotelico
stesso, riformandolo in armonia con essi e armonizzandolo con i principali
risultati acquisiti dalla tradizione scolastica. Per Tommaso, Aristotele era
già giunto fin dove la ragione può arrivare, al limite cioè
oltre il quale vi è solo la realtà soprannaturale della fede, di
cui la Chiesa è custode, maestra e garante: il compito che egli si
proponeva era appunto quello di integrare filosofia e fede, ponendo questa a
coronamento di quella. A tal scopo stabilì due presupposti
irrinunciabili: la distinzione tra filosofia e teologia (la prima in quanto
sorretta solo da principi di evidenza razionale, la seconda fondata sulla
Rivelazione), che stanno fra loro reciprocamente come preparazione e compimento
e il discernimento della disparità tra oggetto della filosofia e oggetto
della teologia. Infatti le due scienze non possono essere tra loro distinte se
tali non sono i loro oggetti, costituiti rispettivamente dall'
essere
delle creature e dall'
essere di Dio. Inizialmente la dottrina tomista fu
sospetta di Averroismo, ma presto divenne evidente la profonda differenza
dell'Aristotelismo di Tommaso da quello di Averroè: la sua posizione
filosofica venne ufficialmente assunta dall'ordine domenicano e alcune sue parti
accolte nella formulazione dottrinale della Chiesa. Non ultimo tra le
elaborazioni conseguenti all'introduzione dell'Aristotelismo in Occidente va
considerato il filone dell'indagine sul mondo naturale, sulla sua struttura
materiale fisica, da un lato condotta mediante un esercizio sistematico della
ricerca razionale deduttiva, dall'altro mediante un percorso empirico induttivo,
come sostenuto da Ruggero Bacone. ║
La tarda S. (
XIV sec.):
una volta assimilato l'Aristotelismo nella sua sintesi tomista, il XIV sec.
rappresentò per la
S. un momento di riflessione sui risultati
raggiunti. La teologia era stata definita la massima scienza, cioè il
complesso dei discorsi necessari sul divino condotti dalla ragione umana. A tale
concezione si applicò tuttavia la critica di un altro grande filosofo
scolastico, Duns Scoto (V.), che in ciò si
oppose al Tomismo. Egli sostenne infatti che la teologia è sì una
scienza, ma
sui generis, diversa cioè dalle altre e priva di
qualsiasi primato su di esse; in quanto fondata su verità di fede, non
è suscettibile di un rigoroso procedimento dimostrativo, quindi ha il
proprio dominio nell'ambito della vita pratica e pertanto è soggetta non
all'attività della ragione ma della volontà (dell'uomo o di Dio),
cioè di un fattore arbitrario e libero e non necessario. Viceversa la
scienza è per sua natura autonoma, necessaria e dimostrativa; essa
coincide con l'attività della ragione, secondo il metodo del dubbio
sistematico, dell'analisi critica e della deduzione, in stretta coerenza con il
pensiero aristotelico. Lo stesso Aristotelismo, d'altra parte, aveva insignito
la ragione di validità nel campo della filosofia e della scienza, al di
fuori di un impegno e di una finalità meramente teologica e cristiana. Si
delineò così una pluralità di ambiti per l'indagine
razionale, informati al principio della verificazione empirica: la concezione
scientifica si era infatti arricchita con l'Aristotelismo di una maggiore
attenzione ai dati dell'esperienza e produsse una ricerca anche epistemologica e
metodologica. L'interesse per la metafisica risultò nel XIV sec.
secondario rispetto alla centralità di altre discipline che avevano come
oggetto il mondo concreto e l'uomo: la filosofia naturale e la fisica (Giovanni
Buridano), la politica (Marsilio da Padova), l'etica (Giovanni di Jandun). Tra
le figure di maggior rilievo del secolo - di particolare importanza anche nel
campo della fisica e della logica - si conta certamente quella di Guglielmo di
Occam (V.),
venerabilis inceptor. Ultimo
grande esponente della
S. e iniziatore della filosofia moderna,
dichiarò di fatto irrealizzabile l'accordo tra filosofia e verità
rivelata, i cui ambiti risultarono a suoi occhi, portando alle estreme
conseguenze quanto affermato da Duns Scoto, non solo distinti ma immiscibili e
non comunicanti. Se già Scoto aveva definito la teologia come scienza
pratica, atta cioè a dettare norme all'agire ma non a fornire
verità speculative, Occam stabilì nell'esperienza il fondamento di
ogni conoscenza e definì come inconoscibile ogni oggetto che trascendesse
appunto l'esperienza. L'affermazione della radicale eterogeneità di
scienza e fede segnò con Occam il punto di arrivo del percorso della
S. e il suo dissolvimento, mentre l'Empirismo radicale costituì il
preambolo della speculazione successiva. Una ricerca infatti che non riconosceva
più come sua guida o come suo coronamento la verità rivelata,
doveva assumere necessariamente come proprio criterio e norma la realtà
così come essa è fornita all'uomo dall'esperienza.