(dal greco
schísma: separazione,
squarcio). In ambito ecclesiale, la separazione dichiarata e volontaria di un
gruppo di fedeli dal corpo della comunità originaria di appartenenza, nel
senso di una maggiore o totale autonomia dalla sua gerarchia e dalla sua
organizzazione disciplinare. Dissidi di carattere schiettamente dottrinale,
invece, sono indicati più propriamente mediante il termine
eresia
(V.). Secondo il diritto canonico, il fedele
scismatico è punito da scomunica riservata alla Santa Sede. Gli
scismatici che abbiano ricevuto il sacramento dell'Ordine, che ha carattere
indelebile, mantengono perciò il potere d'ordine ma non la sua
giurisdizione; non è permesso conferire sacramenti agli scismatici
né riceverli da ministri scismatici, salvo in punto di morte. ║ Per
estens. - Per analogia, può essere definita
s. una divisione
interna a confessioni religiose non cristiane, in genere dovuta a
interpretazioni in senso più o meno rigorista di norme e regole
comportamentali alla base della religione stessa. Il fenomeno, estraneo alle
religioni nazionali che non si configurano come chiese, non è infrequente
nelle religioni sovranazionali o soteriologiche quali il Buddhismo, il Jainismo,
ecc. ║ Per estens. - Scissione interna a un partito o movimento politico,
oppure anche a una scuola o corrente artistica e letteraria dotata di una certa
coerenza e organizzazione interne. • St. delle rel. -
Confessioni
cristiane: nel Nuovo Testamento, il termine
s. indica un dissenso
interno alla comunità cristiana ed è più volte utilizzato
da Paolo nel suo epistolario, spesso affiancato e non chiaramente distinto da
hairésis (eresia), che pure sembra indicare un comportamento
più grave. Nella Patristica più antica si registra una certa
interscambiabilità tra i due vocaboli: solo in seguito si cominciò
a distinguere l'eresia, in quanto dissidio a contenuto dottrinale, dallo
s., in quanto divisione di natura gerarchica e disciplinare, cioè
insubordinazione all'autorità religiosa che però non incorre
nell'apostasia nei confronti del dogma. Ireneo, infatti, definì lo
s. come un peccato che viola la carità e l'amore fraterno, in
quanto rompendo l'unità della Chiesa, mira all'utile del singolo e non al
bene della comunità. In origine, tale peccato si configurava
concretamente nella separazione di un gruppo coeso di fedeli che rifiutava
obbedienza al proprio vescovo o, nel caso lo
s. fosse guidato da un
vescovo, dal proprio metropolita (V.). Anche
sant'Agostino, nell'ambito della controversia inerente al Donatismo
(V.), volle distinguere tra i due fenomeni: mentre
l'eresia è corruzione della fede, perché afferma il falso a
proposito di Dio, lo
s. è violazione del comandamento della
carità e dell'unità. Queste definizioni furono recepite e
perpetuate, in linea teorica, dalla tradizione canonica e teologica, anche se
nella concretezza storica già lo stesso Agostino doveva sottolineare come
questioni di natura disciplinare in realtà derivassero spesso da
divergenze dottrinali oppure ne determinassero il sorgere in breve tempo, quanto
meno a proposito della natura e struttura della Chiesa o del primato petrino. Al
crescere dell'autorevolezza religiosa e politica assunta dal vescovo di Roma,
corrispose infatti la definizione di
s. come rifiuto di obbedienza e di
comunione con il sommo pontefice, considerato guida, garante e segno
dell'unità ecclesiale. Quando, infine, il Concilio Vaticano I (1870)
proclamò verità di fede il primato papale e l'infallibilità
della sua predicazione
ex cathedra, fu evidente come, secondo la Chiesa
cattolica, non potesse darsi uno
s. (che per sua natura rifiuta la
comunione con il papa) senza che si determinasse anche un'eresia. Le Chiese
ortodosse orientali, tuttavia, che non riconoscono il primato di un metropolita
sull'altro, continuano a usare il termine in riferimento a episodi di
insubordinazione disciplinare operata da gruppi di fedeli (e non da singoli) nei
confronti del vescovo o del patriarca. Le Chiese riformate occidentali, invece,
dal momento che concepiscono la Chiesa come comunità spirituale e
invisibile di tutti coloro che hanno fede in Cristo (e pertanto non soggetta a
divisioni), respingono il concetto stesso di
s. Per quanto riguarda il
Cristianesimo in generale, tuttavia, gli episodi scismatici, frequentissimi
già nei primi secoli, furono rilevanti dal punto di vista storico non
meno che teologico. Nei primi secoli essi ebbero carattere ed estensione
limitata, come ad esempio lo
s. di sant'Ippolito (V. IPPOLITO DI ROMA) contro papa
Callisto; quello di tipo rigorista guidato da Novaziano
(V.) contro papa Cornelio; quello donatista (V. DONATISMO);
quello di Melezio (V. MELEZIANI), intransigente nei confronti dei
lapsi (V.), ecc. Tra gli
s.
rientrati, uno dei più consistenti fu quello dei Tre Capitoli
(V.), cosiddetto dal nome degli scritti di alcuni
teologi orientali che erano stati condannati nel 553 come sospetti di
Nestorianesimo. L'opposizione alla condanna da parte di un buon numero di
vescovi occidentali coinvolse in uno
s. le regioni nord-orientali
d'Italia, compresi il patriarcato di Aquileia e la diocesi di Milano, e
l'unità fu ricomposta solo dopo il Concilio di Costantinopoli del 680.
Tutti questi episodi, tuttavia, non ebbero conseguenze di particolare rilevanza,
al di là dell'immediata contingenza; al contrario altri
s. ebbero
effetti sostanziali e duraturi nella storia delle Chiese cristiane. ║
S. d'Oriente o
greco o
bizantino: la separazione ufficiale
tra Chiesa romana occidentale, di rito e lingua latina, e la Chiesa bizantina
orientale, di rito e lingua greca (costituita dal patriarcato di Costantinopoli
e da tutti quelli ad esso collegati), che si produsse nel 1054. Lo
s. fu
esito di un secolare processo di straniazione tra le due tradizioni ecclesiali,
e le sue cause ebbero natura politica e culturale non meno che dottrinale
(sembrando anzi il dissidio dogmatico più pretestuoso che
insormontabile). La concorrenza tra le due Chiese si delineò fin dal IV
sec., quando il trasferimento a Costantinopoli della capitale imperiale
attribuì a questa città centralità politica e religiosa,
sottraendola a Roma. Il primato romano e petrino, a quei tempi, non era ancora
sostenuto da un'organica argomentazione teologica, di modo che i vescovi
delle due sedi divennero poli potenzialmente antagonisti intorno ai quali si
aggregavano le diocesi occidentali e orientali (V.
anche PATRIARCATO). I concili dei secc. IV-V
promossero la costituzione della cosiddetta “pentarchia”,
cioè dei cinque patriarcati maggiori (Roma, Costantinopoli, Antiochia,
Alessandria d'Egitto e Gerusalemme) che avrebbero dovuto dirimere concordemente
le questioni inerenti alla Chiesa universale. Tuttavia entro la pentarchia agiva
una tendenza gerarchica, per la quale, mentre Roma godeva del “primato
d'onore” su tutte le Chiese e guidava l'Occidente cristiano,
Costantinopoli era preminente in Oriente, come sancito ufficialmente dal
Concilio di Calcedonia del 451. L'insistenza sulla questione
dell'autorità universale della cattedra di Pietro, non condivisa dagli
altri patriarcati, non fu che l'aspetto più costante e
“politico” del lento percorso che preparò lo
s. tra le
chiese d'Oriente e Occidente. Esse si trovarono spesso su posizioni opposte in
merito alle controversie dogmatiche dei secc. IV-VIII: furono divise, nei secc.
V-VI, dallo
s. acaciano; nell'VIII sec. dall'eresia iconoclasta (V. ICONOCLASTIA);
nel IX sec. dalle opposte alleanze politico-militari tra il Papato e Carlo Magno
e tra i patriarcati orientali e l'Impero bizantino; infine ulteriori
difficoltà sorsero a causa della necessità di delimitare le
rispettive aree di giurisdizione canonica (in territori come l'Illiria, la
Romania, il Meridione d'Italia) e i territori di missione (come la Bulgaria).
Tante e tali divergenze culminarono nel IX sec., all'epoca del patriarca Fozio
(V.), eletto in sostituzione di Ignazio, deposto
dall'imperatore. Il papa aveva sostenuto i diritti del patriarca rimosso, di
modo che l'ostilità verso Roma era altissima quando Fozio, prendendo
occasione dall'invio di alcuni missionari latini in Bulgaria, dichiarò
uno
s. che fu breve (867-869) ma violento. La restaurazione nella carica
di Ignazio contribuì al rientro dello
s., ma non poté
sanare i rapporti tra le due Chiese, logorati nel secolo seguente da alterne
rotture e riconciliazioni. Nell'XI sec., infine, le incomprensioni e i rancori
reciproci sortirono lo
s. definitivo, anche se probabilmente ai
contemporanei esso apparve non più grave o irrimediabile degli episodi
precedenti. Elemento scatenante fu, nel 1053, l'accordo che papa Leone IX aveva
dovuto concludere con i Normanni dopo la sconfitta subita a Civitate sul
Fortore: con esso infatti egli contravveniva a precedenti patti stretti con
Bisanzio in funzione, appunto, antinormanna. L'allora patriarca Michele
Cerulario (V.) inviò una lettera aperta a
tutti i vescovi occidentali e “al molto onorevole papa”, denunciando
le principali divergenze esistenti di tipo dottrinale, disciplinare e liturgico.
Egli condannò infatti la formula trinitaria adottata dai Latini, che
differiva da quella concordata del Concilio di Costantinopoli del 778, secondo
la quale lo Spirito Santo procederebbe parimenti dalla persona del Padre e del
Figlio (
Filioque) e non, come sosteneva Cerulario, dal Padre attraverso
il figlio (
per Filium); rifiutò l'imposizione, voluta da Roma, del
celibato del clero, che per l'Oriente era invece del tutto lecito;
sconfessò le innovazioni liturgiche come l'uso del pane azzimo in luogo
di quello lievitato nella celebrazione eucaristica o la soppressione del canto
dell'
Alleluia nel periodo quaresimale o ancora l'abolizione del divieto
di mangiare la carne di animali soffocati durante il giorno di sabato. Papa
Leone aggiunse di suo l'affermazione intransigente della suprema autorità
del vescovo di Roma in materia di fede, dimostrando come il problema reale fosse
non tanto il disaccordo tra Latini e Bizantini sui contenuti di singole
verità dottrinali o di regole liturgiche, ma piuttosto la volontà
di entrambe le parti di acquisire per sé il diritto di stabilire tali
verità e regole. Tre legati, inviati a Bisanzio, recarono la scomunica
papale, proclamata ufficialmente nel luglio 1054; nel giro di pochi giorni il
patriarca di Costantinopoli scomunicò a sua volta il papa. La Chiesa
orientale, contrariamente a quanto forse ci si attendeva a Roma, mantenne una
forte unità interna e, anzi, grazie al principio di collegialità
attirò a sé tutte le diocesi orientali (Antiochia, Cipro, Sinai,
Romania, Bulgaria, Regni serbi, principati russi) che non avevano particolari
legami con Roma e dunque non avevano nemmeno interesse a riconoscere il cogente
primato papale. Nei secoli lo
s. non trovò soluzione; il dissidio
fu anzi invelenito dalla vicenda dei patriarcati latini (1204-54) durante le
Crociate, di modo che furono vani i tentativi di ricomposizione operati nel
Concilio di Lione del 1274 e di Firenze del 1439. In seguito si verificarono
riconciliazioni parziali tra Roma e alcune chiese ortodosse (V. UNIATI), ma
l'evoluzione dogmatica e liturgica delle Chiese finì per stabilizzare uno
s. in origine giocato tutto sul piano politico e culturale. Solo a
partire dal XIX sec. cattolici e ortodossi tornarono a dialogare e a
confrontarsi sul piano dottrinale e liturgico, raggiungendo nel secolo seguente
risultati significativi grazie alla volontà di papa Giovanni XXIII e al
Concilio Vaticano II. Con il decreto conciliare
De Oecumenismo (1964) la
Chiesa cattolica lanciò un appello all'unità di grande contenuto e
prospettiva, presto sostenuto dal duplice ritiro della reciproca scomunica
voluto da Paolo VI (
Ambulate in delectatione, 1965) e dal patriarca
ortodosso Atenagora I (
Tomos, 1965). Nella medesima direzione si è
mosso Giovanni Paolo II nel suo lungo pontificato, che ha contribuito a rendere
più frequenti e consueti i rapporti tra le due confessioni, a tutt'oggi
però ancora divise. ║
S.
d'Occidente o
Grande
S.: locuzione con la quale si indica il periodo compreso tra il 1378 e il
1417, durante il quale la Chiesa cattolica si divise in due obbedienze facenti
capo l'una alla sede apostolica di Roma e l'altra a quella di Avignone. Questo
s. rappresenta, all'occhio dello storico, uno degli aspetti più
imponenti, complessi e significativi della crisi con cui si chiuse l'epoca
medioevale, dilaniata da opposte tendenze politico-culturali. L'universalismo
medioevale, infatti, sopravviveva tanto nell'istituto imperiale quanto nella
concezione monocratica dell'assolutismo papale, anche quando esso risultò
sottoposto al potere politico, come nel periodo della cosiddetta
cattività avignonese; parimenti le istanze nazionaliste o
autonomiste cominciavano a realizzarsi con il nascere e il crescere degli Stati
nazionali, in cui acquisivano maggiore identità le Chiese particolari e
trovavano alimento e sostegno ecclesiologie di tipo conciliarista (V. CONCILIARISMO) e
collegiale. Quello occidentale fu uno
s. in senso proprio, dal momento
che la divisione fu di ordine strettamente canonico, giuridico e politico e non
riguardò mai elementi di carattere liturgico o, tanto meno, dottrinale e
dogmatico. Da un punto di vista storico il Grande
S. fu diretta
conseguenza del settantennio avignonese, durante il quale la Sede apostolica e
la Curia pontificia erano state trasferite nella città di Avignone e di
fatto sottoposte al protettorato del re francese. Solo con Gregorio XI la corte
papale rientrò a Roma (1377) e così, alla morte di questo
pontefice, il conclave (7-8 aprile 1378) poté tenersi in quella
città. Esso si svolse tuttavia in un clima di forte tensione, dovuto ai
violenti tumulti con cui il popolo rivendicava la scelta di un papa italiano:
essi probabilmente indussero i cardinali alla frettolosa elezione
dell'arcivescovo di Bari, Urbano VI (1378-89). Il carattere duro e il programma
di segno nettamente autoritario, mirante a un drastico ridimensionamento della
Curia, alienò al nuovo pontefice il sostegno di 15 cardinali (13
francesi, uno spagnolo e tre italiani) che, contestando come non valida la sua
elezione perché coartata dalla violenza popolare, si riunirono nel
castello di Fondi e, forti dell'appoggio del re di Francia e della regina
Giovanna di Napoli, elessero papa il cardinale Roberto di Ginevra, col nome di
Clemente VII (1378-94). Questi cercò di conquistare Roma militarmente, ma
subito sconfitto dalle truppe di Urbano VI, si ritirò ad Avignone (1379).
La cristianità si divise in due obbedienze, “urbanista” e
“clementina”, ma la scelta non fu orientata da considerazioni in
merito alla legittimità canonica dei due antagonisti, quanto piuttosto da
motivazioni di tipo politico ed economico, essendo in gioco anche la
collocazione di cospicue rendite, benefici e patrimoni (mobili, immobili e
terreni) di proprietà ecclesiale entro i confini di vari Stati europei.
In linea generale, a sostegno del papa romano si schierarono l'Impero,
l'Inghilterra, la Fiandra, i Paesi scandinavi e numerosi Stati italiani (le
città dell'Italia centrale, Genova, Milano, Venezia): tutti coloro, in
pratica, che si sentivano danneggiati dal protettorato francese sul Papato. Con
l'avignonese Clemente VII si schierarono invece la Francia e tutti i Paesi della
sua sfera di influenza: Scozia, Savoia, Regno di Napoli, Aragona, Castiglia. In
realtà, tuttavia, non esisteva una linea di demarcazione netta, dal
momento che in molti Stati lo stesso clero e in generale il notabilato risultava
diviso tra le due obbedienze: tale era la situazione, ad esempio, in Portogallo,
Aquitania, Polonia e nei patriarcati dell'Oriente latino; ma tale era anche in
Paesi ufficialmente schierati, come Firenze, Milano o perfino Napoli, dove agli
Angiò clementini si contrapponevano i Durazzo urbanisti. Di fatto
entrambe le autorità papali si mostrarono disponibili a numerosi
compromessi, essendo grande la necessità di denaro per sostenere la
contesa; le curie si svilupparono enormemente, dovendo assolvere un complesso
lavoro di divisione delle decime e ricerca di fondi, anche presso le banche.
Mentre il clero era profondamente scosso e spaesato dalla situazione, i fedeli
delle classi più umili lo furono assai meno, anche perché la
normale amministrazione dei sacramenti non venne significativamente compromessa
e la validità del loro conferimento da ministri di diversa obbedienza non
fu mai contestata né da una parte né dall'altra, non sussistendo
nella contesa questioni dogmatiche o liturgiche. I teologi delle maggiori
università del tempo, o perché direttamente interpellati o
perché spontaneamente interessati, apportarono un fondamentale contributo
alla questione, analizzando la situazione canonica dei papi contendenti e
cercando di trovare una via di soluzione allo
s. che, benché
condannato, stigmatizzato e lamentato da ogni parte, tuttavia non trovava
composizione. Inizialmente si lavorò per l'abdicazione di uno o di
entrambi i pontefici, o almeno per un loro incontro diretto e chiarificatore, o
ancora per la designazione di una sorta di collegio arbitrale cui affidare una
decisione, ma tutte queste vie risultarono impercorribili. Infatti, nel 1389,
nonostante la morte di Urbano VI offrisse la possibilità di chiudere lo
s., il collegio cardinalizio romano, ormai in maggioranza italiano,
decise di eleggere un successore, Bonifacio IX (1389-1404); parimenti i
cardinali avignonesi, alla morte di Clemente VII nel 1394, elessero Benedetto
XIII (1394-1417). I due pontefici erano stati eletti dai rispettivi concistori
dietro impegno di superare lo
s. e a tal fine si erano dichiarati
disposti, se necessario, a rinunciare alla carica: alla prova dei fatti tale
disponibilità risultò, tuttavia, più teorica che reale, dal
momento che essi rifuggivano ogni occasione di incontro o di ricomposizione.
Nella Chiesa si generò un clima di diffusa insofferenza, soprattutto
nell'area di obbedienza avignonese, e nel 1398 il clero francese, provenzale e
castigliano utilizzò come inedito strumento di pressione sul proprio
pontefice, Benedetto XIII, la sospensione di tale obbedienza. Solo ne 1403,
infine, Benedetto dichiarò che si sarebbe dimesso in caso di analoga
abdicazione del pontefice romano o della sua morte. Tuttavia, quando Bonifacio
IX morì davvero, Benedetto XIII mantenne la propria carica e così
un nuovo conclave elesse a Roma Innocenzo VII (1404-06). Nel 1406 in Francia fu
decisa una nuova sospensione dell'obbedienza che, pur riconoscendo al pontefice
il primato spirituale, gli sottraeva però l'esercizio
dell'autorità temporale nell'amministrazione della Chiesa locale. Questo
fenomeno, in cui si situano le immediate radici del Gallicanesimo
(V.), si iscrisse nella più vasta
prospettiva della teoria cosiddetta conciliarista (V. CONCILIARISMO),
per la quale lo
s. avrebbe dovuto trovare soluzione nell'autorità
di un concilio generale, in cui non solo venisse ristabilita l'unità
della Chiesa cattolica ma fosse sancita la superiorità di tale organo
anche sulla persona stessa del legittimo pontefice. Nell'elaborazione di questa
teoria si impegnò in particolare lo Studio di Parigi, che contava i
maggiori teologi dell'epoca: Pierre d'Ailly, Jean Gerson, Nicola di
Clémanges. Nel novembre 1406 morì Innocenzo VII: i cardinali
romani non vollero recedere dallo
s.,
e perciò elessero un
nuovo pontefice, ma nello stesso tempo esibirono un segnale di
disponibilità con la scelta di Gregorio XI, un anziano cardinale tra i
più convinti sostenitori della riconciliazione tra le due obbedienze. Nel
1407 le parti si accordarono per un incontro diretto tra i due papi, nella
città di Savona: nel 1408 esso però non si era ancora verificato.
Quest'ultima prova di incapacità o mancanza di volontà nel
risolvere lo
s. impose come obbligata la via del concilio ecumenico, alla
cui realizzazione contribuì la dichiarazione di neutralità tra i
due papi da parte di Francia, Germania, Ungheria, Boemia, Navarra.
Contemporaneamente, i cardinali romani sospesero l'obbedienza a Gregorio XII, in
vista del concilio ecumenico convocato a Pisa da cardinali di entrambe le parti
e aperto nel marzo 1409: Benedetto XIII e Gregorio XI furono dichiarati eretici
e scismatici e deposti, mentre fu eletto come unico papa l'arcivescovo di
Milano, con il nome di Alessandro V (1409-10). Non per questo lo
s. fu
risolto: i due pontefici decaduti non riconobbero il Concilio pisano (cui
avevano contrapposto altre due rispettive assemblee peraltro piuttosto disertate
e con effetti nulli), di modo che la cristianità occidentale si
trovò divisa fra tre pontefici, ciascuno con un proprio seguito (il papa
“conciliare” era stato riconosciuto da Francia, Inghilterra, Alta
Italia e Ungheria) e una propria linea di successione, dal momento che, morto
Alessandro V nel 1410, i cardinali che si riferivano all'autorità del
Concilio di Pisa, elessero come suo successore il cardinale Baldassarre Cossa,
con il nome di Giovanni XXIII (V. GIOVANNI XXIII, ANTIPAPA). Lo
s., ormai tricefalo, non era
ormai più tollerabile né sul piano ecclesiale né su quello
politico: lo stesso imperatore Sigismondo di Lussemburgo fece pressioni
affinché Giovanni convocasse un nuovo e risolutivo concilio, che si
aprì a Costanza nel novembre del 1414. Solo diversi mesi più tardi
si giunse a una composizione: nel maggio 1415 Giovanni, che aveva abbandonato il
concilio allo scopo di misconoscerlo, fu deposto; in luglio Gregorio XII
rinunciò spontaneamente alla tiara, mantenendo però il titolo di
cardinale. Solo l'avignonese Benedetto XIII non volle sottomettersi alle
decisioni del concilio: fu dunque processato in contumacia e scomunicato. Si
ritirò in un castello nei pressi di Valenza, dove lo
s.,
di
consistenza ormai trascurabile, continuò ad opera di due suoi successori
per esaurirsi nel 1420. Nel 1417, invece, il Concilio di Costanza elesse
finalmente un unico papa, il cardinale Ottone Colonna, con il nome di Martino V
(1417-31). Benché lo
s. fosse ormai ricomposto, il Concilio di
Costanza prese alcune decisioni allo scopo di mantenere il controllo sulle sue
possibili conseguenze: il decreto
Haec santa, infatti, sancì il
presupposto della superiore autorità del concilio anche sul papa, mentre
il decreto
Frequens ne dedusse la necessità e legittimità
di radunare regolarmente (a cadenza almeno decennale) l'assemblea conciliare, al
fine di sorvegliare l'integrità della fede e dei costumi nella Chiesa, ma
anche di giudicare l'operato del papa in carica. Si tennero così i
Concili di Pavia-Siena (1423-24) e di Basilea (1431-49). Quest'ultimo
(V. BASILEA, CONCILIO DI),
convocato e poi sconfessato da papa Eugenio IV, muovendo su una linea di
radicale ridimensionamento dell'autorità papale, produsse a sua volta una
divisione, nota come
Piccolo S., deponendo Eugenio, ed eleggendo al suo
posto Felice V (1439-49). Quest'ultimo, una volta riconosciuta
l'illegittimità della sua posizione, abdicò spontaneamente nel
1449 e si ritirò a vita monacale. Lo
s., che godeva di un seguito
assai ridotto a causa del suo radicalismo, si esaurì nel medesimo anno,
quando il concilio stesso si sciolse.
Lo scisma d'Occidente tra il 1378 e il 1409