L'arte e la tecnica di ideare e realizzare
le scene di una rappresentazione teatrale, cinematografica o televisiva. ║
Insieme degli elementi scenici montati o da montare per uno spettacolo. •
Teat. - Le origini della
s. risalgono alla nascita del teatro. Aristotele
nella
Poetica annoverò l'apparato scenico tra i sei elementi
costitutivi della tragedia in quanto, influenzando l'animo degli spettatori,
contribuiva a suscitare in loro il piacere proprio dello spettacolo teatrale. I
pannelli di legno dipinti, che potevano scendere o salire da una fossa scenica,
vennero adottati per la prima volta da Sofocle, verso il 465 a.C., e in seguito
anche da Eschilo. Si deve a Vitruvio la suddivisione delle scene in tre generi,
tragica, comica e satirica, ciascuno caratterizzato da una determinata tipologia
di ambiente scenico: la scena tragica era un luogo all'aperto con un tempio o
una reggia, o anche un recinto sacro o cimiteriale, un luogo desertico, un campo
militare; le scene comiche e satiriche, invece, variavano in relazione al luogo
e al tempo della rappresentazione (potevano essere l'
agorà o la
strada che conduce ad essa, una grotta o anche una località non
precisata). A partire dal 420 a.C. vennero edificati i primi palcoscenici fissi
in muratura, che si ispiravano al modello della reggia arcaica dell'età
classica. In epoca alessandrina si fece ricorso a pannelli dipinti raffiguranti
scenari architettonici diversi a seconda del genere drammatico (templi, palazzi,
strade con case, paesaggi con ponti, grotte, boschi), nonché a macchine
che venivano utilizzate per il sollevamento dei personaggi, per i voli e per
l'apparizione del
deus ex machina; la percussione di vasi di bronzo e la
presenza di pannelli metallici garantivano, poi, spettacolari effetti speciali,
in particolare per simulare i tuoni e i lampi. La
s. romana si
ispirò prevalentemente a quella greca di età ellenistica, sia nei
primi teatri provvisori dei secc. III-II a.C., sia nei successivi teatri
stabili, il primo dei quali fu quello di Pompeo (55 a.C.). Il modello greco
perdurò a lungo, addirittura fino al IX sec., quando si diffuse il dramma
liturgico. Nato nell'ambito di una funzione religiosa, quest'ultimo venne
egemonizzato dal clero, che vietava l'introduzione di qualunque elemento
profano; presbiteri, diaconi e chierici ne erano gli interpreti privilegiati. La
componente scenografica era garantita dalla chiesa al cui interno si svolgeva la
rappresentazione, mentre i fedeli si disponevano nelle navate centrali e nei
matronei. Nel XIV sec. il clero cessò di occuparsi di questo genere di
spettacolo, che passò alle cure di varie confraternite o corporazioni
laico-religiose, come pure di diverse comunità cittadine o rustiche. La
ragione del progressivo disinteresse da parte della Chiesa fu il processo di
laicizzazione cui andò soggetto il dramma liturgico, che adottò la
lingua volgare, optò per trame che attingevano non più soltanto
alla tradizione sacra, ma anche a scene realistiche della vita di tutti i giorni
e adottò maschere, parrucche, vesti e accessori vari. Gli apparati
scenici, per lo più provvisori, erano comunque tipici delle sacre
rappresentazioni: paradiso, inferno, reggia, capanna della natività,
prigione, mare, luogo desertico, tempio, Monte degli Ulivi, Calvario. Alla fine
del XIV sec., parallelamente alla riscoperta umanistica, si affermò la
necessità di un luogo di modello classico, esigenza ben interpretata da
S. Serlio. Nel suo
Secondo libro di prospettiva lo studioso, mantenendo
le tre unità di luogo, tempo e azione, propose una
s. unica sia
per le tragedie sia per le commedie, costituita da una prospettiva urbana
(strada con palazzi, piazza) in cui la scena di fondo era dipinta, ma le case in
primo piano erano a misura d'uomo e praticabili; a differenza dell'apparato
scenico medioevale, inoltre, la scena rinascimentale non era perfettamente
visibile dalla totalità del pubblico, ma solo dal principe e dai suoi
ospiti. Sul finire del XVI sec. si affermarono nuovi generi teatrali, per lo
più evasivi e fantastici, in cui le scene mutavano a vista, macchine con
regge celesti calavano dal soffitto e apparivano nuvole e fiamme infernali. Un
notevole progresso nelle tecniche scenografiche si registrò in
concomitanza della diffusione dello spettacolo lirico a pagamento, per cui
vennero reclutati specialisti nel campo delle arti meccaniche e pittori dalle
principali corti italiane ed europee. Gli elementi distintivi di queste
rappresentazioni risiedevano principalmente nei virtuosismi prospettici, nei
giochi ottici e nell'incalzante mutazione di scena, capace di variare
istantaneamente dal luogo magnifico, al carcere, al bosco. Dalla fine del XVII
sec. sino alla metà del XVIII sec. si mise in luce, nella costruzione di
teatri e
s., il laboratorio di Ferdinando Bibiena, cui successero il
fratello Francesco e tre generazioni di scenografi. A Ferdinando, in
particolare, si deve il trattato
L'architettura civile preparata sulla
geometria e ridotta alla prospettiva (1711), in cui l'autore, puntando
sull'utilizzo di elementi architettonici, definì nuove regole della
prospettiva destinate ad avere grande seguito nei decenni successivi. In base ad
esse, compito precipuo dello scenografo doveva essere quello di ampliare il
più possibile gli spazi del palcoscenico, creando l'illusione
dell'esistenza di altri ambienti e di ideali lontananze al di là dei
limiti della scena. Il Neoclassicismo rappresentò una vera e propria
svolta nella storia della
s. italiana. Il contributo teorico più
importante si deve a F. Milizia e al suo
Trattato completo materiale e
formale del teatro (1773), in cui vennero ridefiniti i generi rappresentati
e i mezzi per esprimerli; l'autore, inoltre, sottolineò l'importanza del
rispetto della verità, intesa sia come fedeltà agli stili storici
sia come conformità alle proporzioni architettoniche degli interni. Al
Neoclassicismo fece seguito il Romanticismo che, di contro alla
razionalità e alla verità storica, inneggiò alla
verità soggettiva e individuale, prediligendo una
s. grandiosa,
pittorica e architettonica al tempo stesso, con esterni lussureggianti, esotici
e suggestivi. Intorno alla metà del XIX sec. si registrò
nuovamente una reazione naturalistica (culminata poi nel Verismo) che si
ispirò alla fedeltà storica, alla precisione naturalistica e alla
documentazione degli stili e dei costumi, con un rigore descrittivo talvolta
addirittura eccessivo. Dopo un'ennesima riforma antiverista, che tornò a
un teatro di poesia e a una
s. essenzialmente decorativa, nel XX sec. si
affermarono le avanguardie, rappresentative di un'esigenza di rinnovamento
totale nello spettacolo. Con esse la pittura cessò di essere mera
imitazione della dimensione naturalistica per innalzarsi a strumento
privilegiato atto a evocare emozioni nell'animo dello spettatore. Fu il
Futurismo, in particolare, che si interessò al teatro e alle
s.,
da esso considerate l'elemento principale della rappresentazione. Gran parte di
queste idee venne teorizzata da E. Prampolini, cui si devono il
Manifesto
della scenografia (1915) e il
Manifesto dell'atmosfera scenica
futurista (1924); altre opere degne di nota furono:
Manifesto dei
drammaturghi futuristi (1911);
Teatro di varietà (1913);
Teatro sintetico (1915). Grazie all'influenza di Prampolini e di altre
personalità di spicco dell'avanguardia italiana (A. Acciardi, ideatore
del Teatro del colore; A.G. Bragaglia e V. Marchi, cui fece capo il Teatro degli
indipendenti, in via degli Avignonesi a Roma), la poetica del Futurismo si
diffuse rapidamente in altri Paesi europei, approdando a soluzioni nuove quali
la proiezione all'esterno di visioni interiori; l'irrazionalismo, il parossismo
e la deformazione di gesti, suoni e immagini; i chiaroscuri, le stilizzazioni e
le illusioni oniriche; la disumanizzazione della figura umana; la frantumazione
di ogni linguaggio quale premessa per elevarsi a una condizione di
creatività primigenia; varie soluzioni scenotecniche spettacolari
(proiezioni cinematografiche, scene multiple, palcoscenici girevoli e
trasparenti, speciali dispositivi illuminotecnici); la tendenza a cercare spazi
nuovi e inusuali per la rappresentazione, come i giardini o i sagrati delle
chiese. Tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX sec. B. Brecht inaugurò
un modo nuovo di fare teatro rispetto al passato: ispirandosi ideologicamente
alla vita conflittuale dell'uomo, della società e della storia, egli pose
l'attore in un atteggiamento freddo e distaccato nei confronti degli altri
personaggi e degli avvenimenti, concepiti come qualcosa di conosciuto ed
estraneo al tempo stesso. Oltre a ciò, per rendere chiari al pubblico gli
intenti del regista e del coreografo, Brecht adottò una scena
antifunzionale, ricorrendo a tal fine a cartelli, proiezioni di immagini,
maschere, interruzioni esplicative accompagnate da canti, commenti parlati e
scritte lapidarie. Per quanto riguarda il balletto, fu pregevole in Italia
l'opera di rinnovamento attuata da A. Milloss, il primo ad aver equiparato la
s. alla musica e alla danza. In accordo ai suoi principi, nella
costruzione scenografica si dovevano privilegiare la pittura e la scultura ed
evitare, invece, l'architettura, giudicata elemento di disturbo rispetto al
quale andavano preferiti i movimenti stessi dei ballerini (architettura in
movimento). Nel secondo dopoguerra il teatro italiano attinse nuove idee dai
modelli d'oltreoceano, costruttivisti ed espressionisti. L'attività dello
scenografo risultò fortemente dipendente da quella del regista: è
il caso di L. Visconti che, per le scene, si appoggiò alla collaborazione
di M. Chiari, F. Zeffirelli, P. Tosi e M. Garbuglia; lo stesso G. Strehler
collaborò con G. Coltellacci, G. Ratto, L. Damiani, E. Frigerio e G.
Polidori. Altri scenografi degni di nota furono: P.L. Pizzi (anche regista), E.
Luzzati, P. Zuffi, F. Clerici, V. Colasanti; si caratterizzarono, infine, per
esperienze più avanguardistiche E. Vedova, A. Perili e C. Bene. Nei
decenni seguenti si imposero all'attenzione della critica i lavori di diversi
gruppi, a metà strada fra il teatro ufficiale e la sperimentazione, che
si costituirono in veri e propri teatri-laboratori, al di fuori delle strutture
ufficiali. • Cin. - Il complesso delle costruzioni che vengono allestite,
o che già preesistono (è il caso degli esterni naturali), per la
realizzazione di un film. Nel cinema delle origini, specie in quello di
imitazione della vita (Lumière), la scena era in genere costituita da una
stazione, dall'esterno di un'officina, dal mare o da un giardino; fecero
eccezione gli spettacoli fantastici, che adottarono
s. ispirate al mondo
della fiera e degli spettacoli illusionistici. Nel corso del primo decennio del
XX sec., i film comici e drammatici esibirono indifferentemente
s.
dipinte o di carattere teatrale che, nella maggior parte dei casi, si limitarono
a essere semplici fondali; anche i primi film “storici” non
abbandonarono l'uso dei fondali dipinti, appoggiati su muri esterni o
improvvisati all'interno di veri e propri teatri. Fu in Italia che si
affermarono prima che altrove la
s. tridimensionale e, con essa, la
costruzione di
s. architettoniche, consentendo ai registi di sfruttare
come spazio scenico paesaggi innovativi quali i fori romani, i circoli, le
torri, le mura o le scalinate, tutti perfettamente ricostruiti in studio. Al
contrario, fin dagli anni Dieci la produzione realistica si avvalse di ambienti
veri, sia esterni sia, soprattutto, interni, meno costosi rispetto ai primi
quando le produzioni erano particolarmente complesse. Per influenza della
pittura espressionista, che privilegiava la deformazione, gli scenografi
ricorsero poi a
s. ideando organizzazioni dello spazio inquietanti e
altamente simboliche. Ai nostri giorni la
s. svolge un ruolo di primo
piano nei film di vari autori europei, sia come elemento artistico sia come
elemento spettacolare; basti pensare ai kolossal su temi biblici (
Judith of
Bethulia di W. Griffith), ai film d'ambientazione esotica (
Il Doctor
Zivago di D. Lean), ai film di fantascienza (
2001:
Odissea nello
spazio di S. Kubrick) o ai film d'avventura (la serie
Indiana Jones
di S. Spielberg). Al contrario di quanto avveniva in campo teatrale, la
letteratura sulla
s. cinematografica non è particolarmente ricca
di opere. In Italia, si distinsero nel cinema muto pittori, architetti e
scenografi come G. Marussig per
La nave di G. D'Annunzio (1920); D.
Cambellotti per
Frate Sole (1918); A. Brasini per
Quo vadis?
(1924); C. Innocenti per
Ben Hur di F. Niblo (1925). In seguito,
parallelamente alla diffusione del sonoro, spiccarono personalità come G.
Medin, collaboratore di A. Blasetti (
Sole, 1928), di R. Castellani
(
Zazà, 1942;
Un colpo di pistola, 1942) e di M. Soldati per
i film tratti dai romanzi di A. Fogazzaro (
Piccolo mondo antico, 1941;
Malombra, 1942); V. Marchi (
La corona di ferro di A. Blasetti,
1940); A. Valente per i film diretti da G. Forzano. Lavorarono con i principali
registi dei decenni successivi P. Ruffi e M. Garbuglia (L. Visconti), P.
Gherardi, D. Ferretti e D. Donati (F. Fellini, C. Simi, S. Leone). Dal
dopoguerra in poi le grandi case di produzione dell'industria cinematografica
californiana promossero a Cinecittà vari film, tutti ugualmente
caratterizzati dal monumentalismo e dalla fastosità d'oltreoceano (
Quo
vadis?, 1951;
Ben Hur, 1959;
Cleopatra, 1963).