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Samsāra.

Voce sanscrita: legame (di vita, morte e rinascita). Termine con il quale si indica, nella tradizione filosofica e religiosa indiana, il concetto di trasmigrazione delle anime da un corpo all'altro, sia animale, sia umano, sia divino. Secondo tale dottrina, infatti, la vita di ogni essere è sottoposta alla legge ineludibile del karman (azione) che stabilisce come ogni azione produca, in base alla sua bontà o malvagità, effetti positivi o negativi che possono esaurirsi nella vita presente o protrarsi in quella futura. Il piacere o il dolore, la buona o la cattiva sorte dei singoli viventi non sarebbero altro che la conseguenza dei meriti o dei demeriti acquisiti nelle esistenze anteriori, di modo che il destino di ciascuno risulta determinato, in ultima analisi, dal comportamento che egli stesso ha adottato in precedenza. L'accumulo di karman produce quindi la necessità di una nuova vita che ne possa esaurire gli effetti, in una condizione di volta in volta migliore o peggiore. La condizione umana, tuttavia, era considerata di implicito vantaggio, in quanto solo alla fine di una vita come uomo (e non come animale né come dio) si poteva conseguire la liberazione dal s. Secondo alcuni studiosi (tra cui H. Zimmer), l'idea del ciclo delle esistenze fu propria, in origine, di correnti di pensiero religioso non ariane (forse delle popolazioni indigene stanziate nella valle dell'Indo) e solo in un secondo momento fu accolto nel sistema brahmanico. A riprova di ciò starebbe il silenzio degli inni vedici (V. VEDA) al proposito: il termine s., nell'accezione sopra esposta, raggiunse una piena elaborazione solo nelle Upanishad (V.). In esse è riportato per la prima volta come la fonte dell'azione stia nel desiderio e come, perciò, la catena che vincola al continuo divenire possa essere spezzata solo mediante un ferreo controllo della mente e la soppressione del desiderio, che sola conduce all'annullamento del karman. La dottrina del s., che pure ha una precisa natura etica in quanto prevede una distinzione tra bene e male (configurati in quanto adesione o meno al proprio dharma), nella sua rigidezza tende ad un automatismo impietoso, non potendo il vivente sfuggire all'imperativo delle incarnazioni se non con una disciplina tanto austera da essere inaccessibile ai più. Ciò nonostante essa informò non solo il Brahmanesimo, ma senza eccezioni tutte le correnti e le scuole di pensiero filosofico-religiose (dars'ana) che sorsero in India. Il moksa (V.), cioè la liberazione dal s., rappresentò il fine ultimo tanto dell'ortodossia brahmanica quanto di ogni speculazione filosofica o fede religiosa, pur distinguendosi modi opposti e numerosi per ottenerlo. Tutte le concezioni eterodosse nate dal ceppo induista ebbero origine in quanto vie alternative al raggiungimento del moksa: il Buddhismo di S'akyamuni (V. BUDDHA), il Jainismo (V. GIAINISMO) di Mahāvīra, il sistema S'ankya (V.) fondato da Kapila, così come la multiforme dottrina della bhakti (V.).