Divinità suprema dell'Induismo classico,
membro della triade divina, detta
trimūrti
(V.), insieme a Brahma e Visnu. • Encicl. -
L'aggettivo
s'iva, che significa benevolo, fausto, propizio, compare
negli inni del
Rgveda come epiteto eufemistico associato al dio Rudra
(V.). Questa era una divinità terrifica,
legata alla natura selvaggia e ai fenomeni atmosferici, che da un lato
devastavano le campagne ma dall'altro donavano fertilità alla terra:
l'ambivalenza dei poteri del Rudra vedico giustifica la necessità, da
parte dei fedeli, di rivolgersi a lui con nomi apotropaici (secondo la
concezione della magia simpatetica, infatti, invocare una divinità
collerica con un nome che ne indichi la ferocia rafforzerebbe proprio l'ira
divina che il supplice voleva allontanare). Per queste ragioni, col tempo il
termine
s'iva da epiteto diventò nome aggiuntivo della
divinità stessa: nei riti
grihya essa è infatti indicata
come Rudra-
S'. Intorno al II sec. a.C., infine,
S'. diventò
un singolo e autonomo oggetto di culto, con una propria identità. La
separazione delle figure di Rudra e
S'. è dimostrata anche dalla
comparsa, in particolare nella letteratura epica e puranica, di un epiteto
riferito allo stesso
S'.:
s'ankara (fausto), che ha il medesimo
significato del nome proprio. Durante il periodo Kushana (secc. I-II d.C.) sono
attestate incisioni di tipiche rappresentazioni antropomorfiche di
S'.,
che brandisce il tridente (
tris'ula), presenta quattro braccia ed
è spesso accompagnato dal suo veicolo (tutte le divinità maggiori
ne hanno uno), il toro
Nandin. Al termine del periodo Kushana e al
principio di quello Gupta (III sec.), accanto a questi attributi di
S'.
è attestato come altrettanto tipico quello del
lingam (fallo):
quello del
lingam e della
yoni (vagina) era un antichissimo culto
prevedico, inizialmente censurato dai conquistatori ariani ma tuttavia
sopravvissuto soprattutto tra le popolazioni anarie del Deccan. Non stupisce che
tale culto si sia poi associato a quello di
S'. e della sua
s'akti
(V.), che già perpetuava i caratteri anari
a suo tempo assorbiti dal Rudra vedico. I numerosi titoli ed epiteti di
S'. in epoca classica, del resto, non sono che il riflesso di numerose
credenze e tradizioni delle antiche tribù aborigene confluite nell'alveo
del culto del dio. La concezione vedica e poi brahmanica della divinità,
per la quale coesistevano in unico dio aspetti multipli della sua potenza, ben
si accorda con la natura composta di
S'., venerato sotto ben 1.008 nomi
insieme alla sua sposa (
s'akti), cioè la sua ipostasi femminile, a
sua volta ambivalente: essa è
Pārvatī nel suo aspetto
benigno, ma è
Kali o
Durga in quello distruttivo. ║
Tra i principali appellativi di
S'., oltre al già citato tipo
eufemistico di
S'ankara (cui appartiene anche
Aghora,
non-terribile,
Īs'vara, signore e
Mahādeva, grande dio),
ricorrono
Pas'upati: signore delle greggi (che riconduce a un aspetto
preario di
S'., attestato fin dai sigilli delle civiltà della
valle dell'Indo trovati a Mohenjo-daro) o
S'arva: l'arciere (relativo
alla valenza distruttiva di
S'., seminatore di morte, come anche
Hara, distruttore o
Mahākala, grande morte o
Ugra,
violento). Dio degli asceti e lui stesso asceta,
S'. è noto anche
come
Natarāja: il re della danza, perché esprime la sua
essenza creatrice in una danza sfrenata - simbolo del ciclico divenire
dell'universo (scandito appunto da creazione, conservazione e distruzione dei
mondi) - con la quale egli, insieme a Pārvatī, dà vita
all'universo e poi ne provoca la distruzione. Per questo motivo
S'. viene
anche venerato come
Kāla, il dio del tempo che tutto logora e
inghiotte. L'iconografia tipica dello
S'. classico comprende un certo
numero di elementi ricorrenti: come gli asceti egli ha il torso nudo, i lunghi
capelli intrecciati, il corpo cosparso di cenere e la posizione seduta, a gambe
incrociate, della meditazione, attorniato da serpenti (simbolo ctonio della
fertilità). Al collo porta una collana di teschi (simbolo della
distruzione), ha quattro braccia e spesso cinque teste (segno del suo multiforme
potere), ciascuna con il terzo occhio centrale, che simboleggia la visione
interiore data dall'ascesi.
S'
. sta seduto su una pelle di tigre
nella profonda solitudine dell'Himalaya, indifferente alle sensazioni di piacere
e di dolore, acquisendo grazie alla sua ascesi un enorme potere magico (il
tapas, superiore perfino a quello dovuto alla propria natura divina). La
mitografia relativa a
S'. è, ovviamente, vastissima e complessa,
narrata soprattutto nei
Purana e nel
Mahābhārata: tra le
sue imprese, tuttavia, una delle più rilevanti è quella legata al
mito del frullamento dell'oceano di latte (V.
SAMUDRA). Tra i prodotti di tale operazione, compiuta dagli dei, ci
furono da un lato l'ambrosia che donava la vita eterna (
amrta),
dall'altro un potente veleno che avrebbe distrutto i tre mondi se si fosse
diffuso.
S'. bevve questo terribile
kālakūta,
annientandone il potere grazie al potere dell'ascesi: ne ricavò comunque
una sorta di ustione che gli rese bluastra la gola, donde il suo appellativo
nilakantha (gola azzurra) e il tratto iconografico per cui è
rappresentato con il collo di questo colore. Anche in un'altra occasione,
infine,
S'. salvò il mondo: quando il saggio Bhagirata
pregò il grande fiume celeste (
Gangā) di scendere sulla
terra, questi si precipitò verso il suolo, dalle altezze del cielo, in
tre enormi cascate d'acqua che avrebbero sommerso e travolto la terra se
S'. non si fosse frapposto, trattenendo grazie alla sua lunga chioma
ascetica la violenta caduta delle acque.