(o
S'ankarācārya). Filosofo e mistico
indiano. Fu uno dei massimi maestri e riformatori religiosi dell'India e tra i
più venerati, come indicano sia la terminazione
acārya
(maestro), aggiunta stabilmente al suo nome, sia la credenza, da parte dei
fedeli s'ivaiti, che egli fosse un
avātara (incarnazione) di S'iva
stesso. Benché non molto noto in Occidente, l'importanza del suo pensiero
nella spiritualità indiana è pari, per l'influenza che
esercitò tanto sui suoi continuatori quanto sui suoi avversari, a quella
dell'insegnamento del Buddha S'akyamuni. La data di nascita è piuttosto
discussa, tuttavia, una volta scartate le indicazioni platealmente leggendarie
fornite dalle numerose ma poco affidabili biografie, gli studiosi propendono a
collocare la vita di
S'. a cavallo tra VII e VIII d.C., rigettando la
datazione piuttosto diffusa di circa un secolo più tarda. A questa
conclusione si è giunti soprattutto mediante un sistema di raffronti con
le opere di autori, di datazione sicura, che criticarono
S'. o furono da
lui criticati. Il maestro nacque in un villaggio del Kerala, nel meridione
dell'India, da una famiglia di casta brahmanica, che lasciò in
giovanissima età per abbracciare la condizione di asceta itinerante
(
samnyāsin); come tale viaggiò lungamente attraverso il
Paese, nelle sue città e nei suoi villaggi, insegnando e discutendo
pubblicamente con altri religiosi e fondando anche numerosi cenobi
(
matha) per i suoi discepoli in diverse zone dell'India (dalle sorgenti
del Gange a Badarinatha, fino a Kañci, nel meridionale Tamil).
Morì ancora giovane, poco dopo i trent'anni, ma le varie fonti non
concordano sul luogo della sua morte. Discepolo del grande maestro del
Vedānta (V.) Gaudapada, divenne a sua
volta caposcuola dell'indirizzo soteriologico di quel sistema filosofico,
sviluppando pienamente in esso la dottrina del
Levalādvaitavāda: il cammino del puro non dualismo.
S'.
si propose come campione dell'ortodossia brahmanica contro le scuole filosofiche
che, parzialmente o totalmente, rigettassero l'insegnamento dei
Veda
(V.) e in particolare contro le prospere dottrine
eterodosse buddhista e jainista; tuttavia egli stesso non fu totalmente esente
dall'influenza esercitata da tali sistemi, ed in particolare da alcune
concezioni buddhiste rispetto al mondo sensibile, al punto che filosofi a lui
posteriori lo definirono addirittura un “buddhista nascosto”. A lui
furono attribuite circa 400 opere in sanscrito, ripartite, secondo la divisione
tradizionale, in commenti, scritti originali e inni religiosi. All'occhio
moderno non tutte queste attribuzioni appaiono sicure, tra quelle assolutamente
genuine citiamo: i commenti ai
Brahmasūtra, a una decina di
Upanishad (di particolare importanza quelli alla
Chāndogya
Up. e alla
Mandukya Up.), alla
Bhagavadgītā (che
fissò anche la lezione definitiva di quel testo); il trattato
indipendente
Upades'asāhasrī (Ciò che conta mille
insegnamenti), redatto in forma dialogica, e l'inno religioso a
S'iva
Dakshinamurti, cioè al dio considerato nel suo aspetto benefico.
Nella sua prosa, dotata di equilibrio, classica limpidezza e concisione talvolta
al limite dell'aporia, si coniugarono un potente afflato religioso ed una rara
profondità e congruità nella speculazione filosofica. Suo scopo
era dare fondamenti razionali alla dottrina brahmanica, per assicurarne il
successo contro le eterodossie. Partendo dalla celebre affermazione delle
Upanishad “tat tvam asi”: tu sei quello,
S'. volle
dimostrare il rapporto di assoluta identità (
a-bheda: non
differenza) tra il
brahman,
in quanto
fonte e insieme
essenza universale e permanente di tutto ciò che esiste, e
l'
ātman, che ne costituisce l'emergere alla coscienza particolare e
individuale. Il fluire dell'essenza universale
brahman nelle sue
declinazioni fenomeniche si realizza, per
S'. mediante la
strumentalità della
māyā, che è insieme potere
creativo ma anche potere di illusione. Se l'uomo si basa, per attingere alla
conoscenza dell'identità tra sé universale e sé
individuale, sulla propria esperienza sensibile, egli rimane prigioniero della
māyā-illusione, ma se si vale delle proprie facoltà
superiori e razionali egli perviene alla vera sapienza, attingendo il concetto
di non dualismo e sconfiggendo così l'
avidyā (ignoranza) che
è la causa ultima della reincarnazione e del ciclo del
samsāra (V.). La particolare fortuna
della dottrina di
S'., nota anche come
Advaita vedānta, fu
dovuta anche al fatto che il suo fondatore, di fede s'ivaita, non solo
identificò il
brahman come principio cosmico, onnifondante e
onnipervadente, ma attribuì ad esso il carattere di divinità
personale e suprema, sotto il nome di
Is'vara: il signore, colui che ha
il potere. Il pensiero di
S'., dunque, non solo fu profondamente
innovativo, sistematico e rigoroso, ma ebbe anche le due grandi virtù
della sintesi e della mediazione culturale e religiosa, favorendo in questa sua
visione il superamento delle divisioni tra le varie confessioni (
bhakti,
(V.) dell'Induismo (VII-VIII
sec.).