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S'akuntalā.

Personaggio femminile della mitologia induista. Figlia di un'apsaras (una divinità minore) di nome Menākā e del rshi (saggio e veggente) Vishvāmitra, S. fu allevata, secondo quanto narrano testi vedici e le più tarde opere epiche, nell'eremo del rshi Kanva. Nel primo libro (Adi parvan, 71 e seguenti) del Mahābhārata (V.) è narrata la storia d'amore tra S. e il re Dushyanta, dalla cui unione nacque Bharata, il mitico fondatore del primo impero nell'India settentrionale. Questa versione rientra in una tipologia, piuttosto diffusa nei racconti popolari, delle nozze di un personaggio importante (un re o un asceta) con un'apsaras che si svolgono alle condizioni poste da quest'ultima: S., infatti, acconsentì ai desideri del re Dushyanta a patto che un suo eventuale figlio diventasse l'erede del Regno. Il fanciullo che nacque fu appunto Bharata. La medesima leggenda è ripresa, pressoché invariata, anche nel Padmapurāna (V. PURĀNA). • Lett. - La leggenda di S. ispirò la composizione, da parte del grande poeta indiano Kālidāsa (V.), di un celeberrimo dramma in cinque atti, considerato una delle migliori opere teatrali della letteratura universale: l'Abhijñānas'akuntalā (S. riconosciuta). Durante una partita di caccia, il re Dushyanta si imbatte in due eremiti che lo supplicano di risparmiare l'animale che sta inseguendo, poiché si tratta della gazzella sacra del loro eremo, e ne invocano l'aiuto per sconfiggere una banda di demoni (rakshasa) che impedisce loro di condurre in pace le pratiche di ascesi e i sacrifici. Dushyanta si reca con i due uomini presso l'eremo, dove vive anche il rshi Kanva e la sua figlia adottiva S., già famosa per la sua bellezza: curioso di farne la conoscenza, subito il re si innamora di lei e ne è ricambiato. Con la complicità di due amiche della fanciulla, Dushyanta e S. si uniscono in matrimonio secondo il rito gandharva, una sorta di matrimonio segreto (consentito dalla legge) per il quale è sufficiente il mutuo consenso degli sposi e la condivisione del letto per almeno una notte. Poco dopo il re deve tornare al suo palazzo: egli lascia in pegno alla moglie un suo anello e le promette di mandarla a prendere al più presto. Un giorno, però, S., immersa nei sogni d'amore, non si accorge dell'arrivo di un potente rshi che, offeso per la sua mancanza di rispetto, la maledice, condannandola a non essere riconosciuta da colui al quale ella stava pensando. Le amiche riescono, con insistenti preghiere, a mitigare la maledizione, in modo tale che la vista di un pegno d'amore (l'anello) possa far recuperare la memoria al re. S., scopertasi incinta, decide di recarsi da Dushyanta e, mentre guada un fiume, perde il prezioso anello. Ciò nonostante si presenta al re, che tuttavia, sotto effetto del sortilegio, non la riconosce ed è sul punto di scacciarla. Un suo consigliere, tuttavia, gli rammenta che secondo una profezia il figlio del re sarebbe nato con impressi sul corpo i segni della sovranità: la loro presenza o meno sul bimbo nato da S. sarebbe stata la prova della sua sincerità o del suo inganno. Così Dushyanta invita S. a fermarsi nella cinta del palazzo, ma quando giunge il tempo del parto, ella viene improvvisamente rapita da sua madre Menākā, che la porta nella sua dimora celeste. In quello stesso momento, un pescatore giunge a corte per consegnare al re un anello con il sigillo reale che ha trovato nel ventre di un pesce: Dushyanta nel vederlo riacquista la memoria del suo matrimonio e prova un terribile dolore per la perdita della sua sposa. Il dramma trova il suo scioglimento finale grazie all'intervento nell'azione del dio Indra, che si rivolge al re perché l'aiuti a combattere una stirpe di demoni (dānava) che insidia il suo cielo. Al ritorno dalla battaglia, sul carro da guerra di Indra, Dushyanta si ferma presso l'eremo celeste di Prajāpati (padre degli dei), dove si imbatte in un bimbo che reca sul corpo i segni della sovranità, che subito riconosce per suo figlio. A questo segue l'incontro con S., e la scena commovente del riconoscimento finale e della definitiva unione dei due amanti, con l'invito alla gioia universale e le preghiere beneaugurali per tutto il pubblico. ║ Il dramma di Kālidāsa, considerato modello insuperato dell'arte drammatica in sanscrito, è a tutt'oggi rappresentato sulle scene indiane e conta un gran numero di traduzioni in tutte le lingue. In Europa fu tra le prime opere indiane in assoluto ad essere tradotto e diffuso, fin dal XVIII sec., per opera di sir William Jones (V.) e accolta con entusiasmo dai letterati del tempo, tra cui Schiller e Goethe. Attualmente la S. di Kālidāsa è studiata nella versione in devanāgarī approntata da Monier-Williams, a partire da tutte le redazioni note, scartando gran parte di quelle in bengali, sicuramente spurie. In Italia il dramma fu reso noto per la prima volta nel 1918 grazie a un articolo su “Il Conciliatore” di Giovanni Berchet.