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Mònade.

(dal greco monás: unità). Termine filosofico utilizzato dalla Scuola pitagorica per definire l'unità aritmetica, semplice e indivisibile, principio della serie dei numeri ed elemento primo di un universo a struttura matematica. Platone, nel dialogo Filebo, intese con il termine m. le idee, enti in sé uniti e indipendenti, immutabili e fondamento di ogni cosa. I neoplatonici cristiani, operando una commistione fra principio numerico e principio ontologico, fecero del dogma unitario delle tre persone divine la M. per eccellenza. Il Rinascimento riportò in auge il termine che era stato a lungo in disuso, particolarmente con Nicolò Cusano (per il quale ogni unità è un microcosmo, riproduzione in piccolo del tutto) e con Giordano Bruno. Nella sua opera De monade, numero et figura il filosofo definì la m. come elemento costitutivo dell'universo, semplice, unitario ed ultimo. La peculiarità della m. risiede proprio nella sua sostanziale unità e semplicità che manca ad ogni ente che sia composto: come unità è essenza dei numeri, come atomo è essenza dei composti. Riprendendo la concezione pitagorica, per Bruno Dio sarebbe m. delle m. Nella storia della filosofia moderna, però, il termine si lega in modo prevalente al pensiero di G.W. Leibniz che intese la m. come sostanza semplice e inestesa, atomo immateriale, individuale e di natura spirituale che in se stessa riproduce la struttura di tutte le altre m. e quindi la realtà. Essa è principio di attività e percezione: quanto più la m. è attiva, tanto più è spinta dalla sua forza appetitiva a raggiungere percezioni sempre più chiare. Fra m. non esiste comunicazione, dato che ciascuna svolge la propria attività chiusa in se stessa, tuttavia esse si accordano fra loro in un'armonia prestabilita dal creatore di ogni m. I corpi materiali non sarebbero in sé m. ma aggregati che godono solo di percezioni ottuse; al contrario, è una m. l'anima, dotata di percezioni chiare e continue, e creata per fulgurazione da Dio: dunque le m. non nascono, ma ottengono istantaneamente l'essere, e in realtà neppure muoiono, poiché Dio non può volere il loro annullamento. Esiste dunque una gerarchia delle m.: da quelle inferiori con percezioni prive di coscienza si passa gradualmente alle m. superiori. Non esistono due m. perfettamente identiche, anche se ognuna è specchio vivente dell'universo, con maggiore o minore ampiezza di orizzonte e coscienza di sé. Corporeità, tempo, spazio, non appartengono alle m., ma solo al loro ambito rappresentativo. Ogni m. trova il suo limite nella materia, fatta eccezione per la m. suprema, ovvero Dio, che è autocoscienza piena (V. anche MONADOLOGIA, LA). Il termine, dopo Leibniz, rientrò sporadicamente nelle opere di altri filosofi, in particolare: nella Monadologia physica di Kant, che cercava di conciliare la metafisica di Leibniz con la fisica di Newton; negli scritti di Renouvier, che definì m. la sostanza semplice costituiva di quelle complesse; in Lotze, che la riteneva l'unità di coscienza; in Husserl, che chiama m. l'Io concreto e ridotto nei suoi rapporti intersoggettivi (correlazione intermonadica).