(dal francese
monologue, der. del greco
mónos: solo e
lógos: parola). Discorso tenuto da una persona, generalmente orale
ma anche scritto, che parla a se stessa, o ad altri con i quali non intende
stabilire un colloquio. Soliloquio. • Teat. - Parte del dramma in cui un
personaggio parla da solo sulla scena. Nella tragedia greca, il
m. si
trova sia nella versione lirica sia in quella drammatica e costituisce quasi
sempre il prologo, al di fuori del quale l'intervento del coro rende impossibile
il
m. Nella commedia romana, invece, la mancanza del coro rende
necessario l'utilizzo del
m., che si mantiene anche nel teatro
medioevale, sotto la particolare forma della preghiera e dell'invocazione.
È in auge nel Rinascimento, nel teatro spagnolo ed elisabettiano, in
quello francese del Secolo d'Oro, nel Settecento e nel Romanticismo
ottocentesco: attraverso il
m. è possibile penetrare più a
fondo nella psicologia del personaggio. Con la fine del XIX sec., il Positivismo
porta all'abolizione del
m., costringendo i personaggi a evitare ogni
confessione e soggettività e a scegliere il dialogo. L'Espressionismo
riadatta completamente il
m. che nel XX sec. si riafferma. Gli autori
contemporanei lo usano comunemente nelle più svariate accezioni. ║
Breve composizione scenica compiuta in se stessa e affidata a un solo attore;
non è più, quindi, parte di un dramma o di una commedia. •
Psicol. -
M. interiore: definizione formulata da V.E. Egger e da altri
psicologi per indicare il linguaggio che ha sede nell'inconscio e che affiora
alla coscienza in modo confuso ed emotivo. La stessa espressione è
passata in letteratura per indicare quel tipo di tecnica narrativa ampiamente
utilizzata nel romanzo del Novecento (James Joyce, Virginia Woolf, Italo Svevo)
per far conoscere al lettore pensieri e impressioni dei personaggi senza il
filtro dell'autore. Il cosiddetto
flusso di coscienza, usato da Joyce e
dalla Woolf, con il fluire dei pensieri attraverso libere associazioni
sintatticamente slegate, porta il
m. alle estreme conseguenze.