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Monismo.

(dal greco monós: unico). Termine introdotto nel 1734 dal filosofo Christian Wolff come definizione di una concezione filosofica che riconduce la pluralità del reale ad un unico principio, sia esso materiale o spirituale, definito come sostanza o come Essere supremo o ancora come legge. Il termine si poteva dunque adattare a dottrine sia materialiste sia idealistiche in quanto accomunate dalla negazione del dualismo o del pluralismo del reale, escludenti cioè la dualità spirito-materia, mondo-Dio e le ipotesi secondo cui le apparenze empiriche del reale derivano da due o più sostanze originarie. Veniva indicata come esempio di filosofia monista quella di Spinoza, per il quale pensiero ed estensione erano caratteri di un unico principio, o quella di Leibniz che riduceva a sostanza spirituale anche la sostanza corporea. Ogni concezione monistica, dunque, afferma la derivazione dell'universo da un unico principio e, conseguentemente, l'infondatezza di concetti negativi quali: non-essere, male, falso. Pertanto, ogni m. adotta un ottimismo razionalistico che legge il cosmo come una costruzione sistematica e ordinata: esso postula l'intelligibilità del tutto e la possibilità di spiegare ogni cosa mediante il riferimento a quell'unico principio considerato, abbia esso carattere materiale o spirituale. Sulla definizione della natura dell'unica sostanza, si distinguono perciò nell'ambito del m. due possibili filoni speculativi: uno spiritualistico, secondo cui ogni realtà sarebbe di natura spirituale (Hegel, Schelling, Berkeley, Schopenhauer, ecc.), l'altro materialistico, secondo cui lo spirito altro non sarebbe che uno stato o proprietà della materia (L. Büchner, J. Maleschott, C. Voght, E. Haeckel). Nel passaggio tra XIX e XX sec., il m. guadagnò una propria rilevanza storica soprattutto grazie alla rivista The Monist (V. MONIST, THE) che sostenne la sostanziale unità del sapere. Si qualificarono inoltre come moniste concezioni, sviluppatesi da altre teorie, tra cui il m. vitalistico ed energetico di W. Ostwald o la concezione del cosiddetto parallelismo psicofisico, secondo cui anima e corpo, pur nella diversità delle loro funzioni e attribuzioni, presuppongono una fondamentale identità: tale m. trovò una formulazione in termini di psicologia empirica negli "assiomi psicofisici" enunciati da G.E. Müller nel 1896.