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Mimo.

(dal latino mimus, der. del greco mîmos: imitatore, mimo). Rappresentazione teatrale fondata sulla mimica e sulla danza, affidata a un attore che si esprime avvalendosi solo del linguaggio gestuale. ║ Per estens. - Attore che interpreta azioni sceniche mimate. • Encicl. - Presso gli antichi Greci, si chiamavano m. (o anche mimiambi se scritti in metro giambico) brevi componimenti dialogati, nei quali venivano imitati - e spesso contraffatti ricorrendo alla caricatura - particolari tipi di personaggio e scene di vita quotidiana. Il m. prosastico (o realistico) si distingueva dal m. lirico dove gli attori, cantando, imitavano i citaredi o flautisti e i cantori di ditirambi. Il primo che elevò il m. a dignità artistica e letteraria fu Sofrone di Siracusa (sec. V a.C.) che rielaborò in prosa ritmica la forma popolare del m. dei Dori di Sicilia. I suoi m., che trattavano argomenti piuttosto audaci, si dividevano in maschili e femminili, a seconda che ne fossero protagonisti gli uomini o le donne. Il m. fu ancora coltivato durante il periodo attico dal figlio di Sofrone, Senarco, ma bisogna arrivare fino al periodo alessandrino per trovare in Eronda e Teocrito i più importanti scrittori di m. Il genere, concepito come riproduzione o parodia di gesti e situazioni unita a musica e danza, dominò le scene romane dell'età di Cesare. Rappresentati annualmente fin dal II sec. a.C., in occasione dei ludi dedicati alla dea Flora, questi spettacoli furono poi allestiti anche nei ludi Romani e in altre manifestazioni ufficiali come intermezzo e come farsa finale, sostituendosi in questa funzione all'atellana. Nei m. latini gli attori, obbligati a un'intensa mimica facciale, non portavano la maschera e indossavano calzature basse e piatte (per questo si chiamavano anche planipedes). Le parti femminili venivano affidate direttamente alle donne e l'azione, spesso improvvisata, costituiva un pretesto per dare vita a lazzi scurrili e scene giocose, rese più comiche dall'accentuata gesticolazione. I due maggiori autori di m. letterari furono Decimo Laberio (del quale si conservano poco più di 150 versi) e Publilio Siro, dai cui m. furono estratte sentenze di un verso ciascuna, disposte alfabeticamente nella silloge originale. Attraverso i codici medioevali ci sono pervenute più di 700 sentenze, non tutte autentiche. Il m., decaduto in età cristiana per la licenziosità e l'immoralità dei suoi argomenti, riuscì comunque a sopravvivere, come dimostra l'esistenza di molti componimenti medioevali scritti in latino e in tutti i volgari, dove viene espressa una forma di comicità realistica e semplice, molto vicina a quella del m. classico. Nonostante si conoscano, verso la fine del Seicento, varie forme di spettacolo senza parole, di vero e proprio m. moderno è possibile parlare solo a partire dagli anni Venti e Trenta del XX sec., in seguito agli insegnamenti di Etienne Decroux, fautore dell'assoluta autonomia espressiva della gestualità nei confronti della forma verbale, in quanto parola e gesto rappresentano due mezzi espressivi irriducibili l'uno all'altro. Da queste premesse nacquero le esperienze di Jean-Louis Barrault, principale allievo di Decroux, che concepì una sorta di teatro totale in cui il m. veniva visto come componente del discorso teatrale e non più come elemento unico e indipendente. Agli spettacoli di m. di Marcel Marceau, uno fra i più celebrati interpreti contemporanei, caratterizzati da un profondo lirismo e da una sottile vena umoristica, si contrapposero, a partire dagli anni Settanta, le performance più coreografiche di Yves Lebreton e della troupe europea dei Mummenschantz e i raffinati allestimenti musicali di Lindsey Kemp. Considerevole è l'apporto che la tecnica mimica ha fornito al cinema fin dai tempi del muto attraverso le magistrali interpretazioni di attori come C. Chaplin, B. Keaton e J. Tati.