(
Maestro Meng; latinizzato
Mencius da cui l'italiano
Mencio).
Filosofo cinese. Il suo vero nome era
Meng K'o e quello pubblico
Yü. Orfano di padre, fu allevato dalla madre che lo affidò
per essere istruito a un discepolo del nipote di Confucio.
M.,
conquistato al Confucianesimo, ebbe presto a sua volta numerosi discepoli che
gli restarono fedeli durante i suoi viaggi e soggiorni presso le corti di vari
sovrani. Era infatti caratteristica dell'epoca dei cosiddetti "Regni
Combattenti" (secc. VI-III a.C.) la figura del filosofo-pensatore che prestava
la sua opera di consigliere politico presso la corte di un sovrano.
M.,
tuttavia, sembrò non trovare un re disposto a realizzare le sue norme di
vita politica ed etica e perciò, dopo alcuni tentativi, rientrò a
Lu e vi rimase fino alla morte. A
M. è attribuita un'opera,
omonima, che ci è giunta integra dal momento che, quando il primo sovrano
della dinastia
Ch'in nel 213 a.C. ordinò la distruzione dei libri
dei classici, essa era tanto poco conosciuta da non essere inclusa nella
damnatio memoriae. Nel XIV sec. d.C., invece, il libro di
M. fu
accolto, con i
Dialoghi di Confucio, il
Grande insegnamento e la
Dottrina del punto medio, nei
Ssu shu: i quattro libri, testi
fondamentali del Confucianesimo. Pur considerandosi un semplice chiosatore delle
dottrine di Confucio, in realtà
M. ne operò una certa
evoluzione, concentrandosi sul piano etico e politico e tralasciando quello
metafisico. La sua teoria fondamentale era quella bontà della natura
umana, problema intorno al quale si erano già misurati numerosi pensatori
del tempo. Secondo
M. ad ogni uomo sono connaturati quattro principi o
virtù che lo costituiscono come buono: compassione (
jen),
rettitudine (
yi), convenienza (
li) e prudenza (
chih).
Tuttavia esistono altri elementi che, pur non malvagi in sé, se non
controllati possono degenerare verso il male: si tratta di istinti comuni a
tutti gli esseri viventi che l'uomo condivide con gli altri animali. Le quattro
virtù costanti, però, si dispiegano solo all'interno di
rapporti sociali, in quanto l'uomo è un essere politico la cui esistenza
può svolgersi compiutamente solo all'interno di una società. Per
questo motivo lo Stato è per
M. un'istituzione morale e, dunque,
chi ne sia a capo deve esercitare al sommo grado le virtù proprie della
sua umanità. Nel caso in cui il sovrano, cui è affidato il governo
del popolo per "mandato del cielo", dimostri di essere privo di virtù
etiche, il popolo ha diritto a ribellarsi e a sostituirlo con un altro sovrano.
Tale concezione viene indicata come la teoria della "revoca del mandato
celeste", che ha di fatto giustificato tutti i cambiamenti dinastici
verificatisi nella storia cinese fino alla rivoluzione del 1911. Su tale
questione
M. si discostò radicalmente da Confucio che non ammise
mai la legittimità di una ribellione contro il proprio principe.
M. formulò anche una propria teoria economica, propugnando la
restaurazione dell'antico sistema
ching (quadrato). Il Paese doveva
essere ripartito in appezzamenti di forma quadrata di uguale estensione, a loro
volta suddivisi in nove campi congruenti, otto dei quali coltivati da singole
famiglie, mentre il nono lotto doveva essere curato in comune da tutte e otto le
famiglie allo scopo di devolverne il raccolto, come tassa, al Governo centrale.
Tale forma di moderato collettivismo aveva per
M. lo scopo di assicurare
ad ognuno il necessario alla vita, ottenendo in cambio una condotta virtuosa da
parte di tutti i cittadini, condotta impossibile da mantenere quando ci si trovi
in una condizione di indigenza. Dal punto di vista letterario, infine, l'opera
di
M. rifugge dal genere dell'aforisma tipico dei
Dialoghi di
Confucio e preferisce una misura più ampia, in cui gli argomenti possano
svilupparsi compiutamente, anche grazie ad aneddoti e racconti edificanti (Tsou,
od. Kiu-fu, Shantung 372 a.C. - 288 a.C.).