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Marginalismo.

Teoria economica sorta nell'ultimo trentennio del XIX sec., incentrata sul concetto di utilità marginale come base delle analisi dei fenomeni economici. La teoria è legata soprattutto all'austriaco C. Menger, all'inglese W.S. Jevons, allo svizzero L. Walras, che ebbero come precursori, fra gli altri, Dupuit, Gossen, Von Thünen, autori che operarono isolati e che per lungo tempo furono ignorati. La scuola fu poi continuata dalla cosiddetta seconda generazione di marginalisti (Marshall in Inghilterra, Pareto in Svizzera, von Wieser in Austria). Pur non divergendo sostanzialmente dalle teorie economiche classiche, i marginalisti utilizzarono sistematicamente il concetto di utilità marginale per spiegare i fenomeni economici, in particolare quelli di valore, di prezzo, di scambio, sottolineando le interdipendenze delle singole quantità economiche. Il metodo di analisi adottato dal m. consisteva nell'individuazione delle scelte ottime del soggetto economico, come risultava dal confronto tra costo e beneficio marginali in relazione ad un dato atto: tale scelta si definisce ottima solo nel caso in cui le due grandezze (costo e beneficio) siano uguali. L'utilità marginale era considerata la base del valore di un bene, in sostituzione del concetto di valore-lavoro. Considerando l'individuo spinto dalla ricerca della massima soddisfazione, i marginalisti svilupparono quindi una teoria soggettiva (la scuola marginalista venne infatti chiamata anche psicologica o soggettivistica) fondata sull'analisi e sul valore della domanda anziché su quello dell'offerta, del consumo anziché della produzione. Allo scopo di formulare leggi universalmente valide, essi considerarono l'individuo astratto da qualsiasi contesto sociale, istituzionale, politico o ambientale, giungendo per primi alla spiegazione del funzionamento complessivo di un'economia di mercato.