(dal latino
felicitas). Stato di chi è felice, ossia sereno,
soddisfatto e appagato nei propri desideri. ● Filos. - Nell'etica antica
troviamo le prime affermazioni e interpretazioni della
f. umana da parte
delle scuole socratiche cinica e cirenaica. I filosofi cinici erano assertori di
un tipo di
f. tutta interiore, non offuscata dalle passioni che rendono
gli uomini schiavi, una
f. conquistata mediante il rifiuto dei bisogni e
dei beni materiali, considerati artificiali e inutili. I cinici esaltano
perciò la
f. serena, propria dell'uomo che sa bastare a se stesso
e trovare in se stesso le proprie ragioni di vita. Opposta è invece la
concezione dei cirenaici che insistono non tanto sul problema conoscitivo,
quanto su quello etico, interpretato come ricerca della
f. mediante
"sensazioni" piacevoli che costituiscono l'unico fondamento del conoscere e
l'unico criterio di verità. Più tardi gli epicurei, a differenza
dei cirenaici, considerarono un bene imperfetto il piacere provocato da stimoli
esterni e come bene superiore lo stato di equilibrio corrispondente all'assenza
di dolore per il corpo (
aponia) e all'assenza di inquietudini per l'anima
(
atarassia). L'etica epicurea esalta perciò l'individuo che attua
la propria
f. nell'armonioso equilibrio del corpo e dell'intelligenza.
Comunque, l'aspirazione alla
f. caratterizza tutta l'etica classica che
la considerò necessariamente collegata all'atto morale definendola come
eudemonia. Nella filosofia moderna, carattere eudemonistico presenta la
dottrina kantiana, secondo cui, per l'uomo la virtù deve coincidere con
la
f., una
f., però, non individuale, ma conseguita
mediante la perfezione di sé, secondo la legge morale e in rapporto agli
altri per la loro
f., ossia considerando gli altri non come mezzi, ma
come fini. Nella filosofia moderna il problema della
f. è stato
affrontato tra gli altri, dall'utilitarista Bentham per il quale la
f. o
piacere (termini che egli considera identici) è
bene, mentre il
dolore è
male, così che di tutte le condizioni umane
l'ottima è quella in cui si ha il rapporto più favorevole del
piacere sul dolore. ● Psicol. - La
f. non rappresenta uno stato
transitorio e occasionale come il piacere o l'allegria, ma uno stato di
benessere intimo e duraturo, conseguito da chi è riuscito a dare un
significato positivo alla propria esistenza. Essa presenta quindi un carattere
spiritualmente attivo, pur nella diversità delle strutture psichiche dei
singoli individui. Vi sono infatti individui felici quando impongono
vittoriosamente il proprio io nella lotta per l'esistenza, quando riescono ad
esercitare un dominio su persone, cose e situazioni, mentre altri individui
raggiungono la
f. in modo del tutto interiore. L'analisi psicologica
rivela in tutti gli uomini la speranza di non essere infelici, la volontà
di conseguire quello stato di benessere, di serenità, di gioia e di
soddisfazione che è la
f. personale. Astraendo dall'aspirazione a
una
f. sognata, corrispondente alle mitiche età dell'oro e del
paradiso terrestre, ossia da una
f. irraggiungibile in quanto negatrice
della vita umana stessa, la
f. realizzabile entro la condizione umana
consiste nella soddisfazione delle inclinazioni dell'individuo che può
considerarsi felice quando riesce a espandere la propria personalità,
sente di potere essere se stesso e non una pedina di un giuoco altrui, quando
sente di poter svolgere una parte attiva e non si sente schiacciato da forze che
non può in alcun modo controllare. In situazioni favorevoli, e quando
l'individuo ha raggiunto un buon livello di maturità psichica e mentale,
il desiderio di essere felici si traduce nella volontà di opporsi
all'aspetto negativo dell'esistenza, nel lottare per ampliare l'area della
propria libertà, per rendere più umana e razionale la propria vita
e quella degli altri. In situazioni non favorevoli e di insufficiente
maturità questo desiderio può assumere forme evasive, di "fuga"
nel sogno, nella fantasticheria, nel mito, nell'astrazione.