PERCHÉ NEI CAMPI SI METTE LO SPAVENTAPASSERI?
Per spaventare i passeri non è strettamente necessario confezionare un fantoccio con tanto di giacca e cappellaccio. È già sufficiente allo scopo collocare tra le colture qualcosa che non s'intoni all'ambiente, come dei ritagli di stagnola o nastri colorati. Basta un nonnulla a mettere in sospetto un passero, specialmente nelle nostre campagne, dove i cacciatori non si fanno scrupolo di abbattere qualsiasi volatile che non sia un animale da cortile (e talvolta non rispettano neanche quest'eccezione). Stando così le cose, bisogna convenire che in effetti, tutto ciò che ha forma umana spaventa i passeri in modo particolare. È per questo che di solito i contadini fanno dei veri e propri pupazzi, curando i dettagli realistici e sfoggiando perfino un certo estro creativo.
L'uso degli spaventapasseri va riallacciato alle più remote tradizioni agresti. Prima del cristianesimo, fra i tanti dei, ve n'erano alcuni preposti alla vigilanza sul lavoro dei campi. Gli antichi romani adoravano Cerere, dea delle messi, intorno alla quale gravitavano svariate divinità minori, tutta una folla di idoli contadini, che non richiedevano culti fastosi, ma erano anzi molto «alla mano», e qualunque agricoltore, anche se rozzo e inabile come artefice, era in grado di dedicar loro un simulacro sufficiente ad ingraziarseli. Ogni campo aveva così il suo nume protettore, a volte malamente sbozzato in un masso sospinto in margine al seminato, poco adatto a ispirare il timor di Dio agli uomini, ma indovinato per incutere il timore dell'uomo ai passeri.
PERCHÉ IL PAPA' E LA MAMMA PORTANO LA FEDE?
L'anello nuziale viene detto «fede». Gli antichi romani avevano addirittura una divinità che, per l'appunto, veniva detta Fides (fede), e che era la personificazione della parola data. Alla Dea Fides, ogni Primo ottobre, veniva dedicata una festa.
Come si fa un'alleanza tra due popoli, mediante un patto solenne, così avviene tra due persone, com'è il caso di una coppia di sposi.
Un uomo e una donna si scambiano una promessa d'amore reciproco, prima mediante il fidanzamento, ossia una dichiarazione di fiducia (fidanza) dell'uno e dell'altra, e poi, se vanno d'accordo e decidono di divenire marito e moglie, passano dalla fiducia alla «fede». Fede: è una parola grossa. Ma è altrettanto grande il compito che attende marito e moglie, cioè quello di allevare la loro prole congiuntamente e armonicamente, e quindi in un clima di serenità.
Le nostre concezioni morali fanno sì che noi oggi troviamo tutto ciò abbastanza naturale. Purtroppo, non accade spesso che, nella pratica, ci si comporti di conseguenza.
Non presso tutti i popoli e non in tutti i tempi si è data importanza al rapporto di reciproca fiducia tra marito e moglie.
Gli antichi popoli germanici, ad esempio, prima di venire a contatto con i Romani, avevano ben altre usanze. Prima prendevano una donna in prova, poi, se restavano soddisfatti, le facevano un dono. Non le davano nessun anello, né altro simbolo di fede, e si riservavano di ripudiarla non appena venisse loro a noia.
Vediamo ora perché proprio un anello debba venir preso come simbolo di fede. La cosa non è molto chiara e bisogna ricercarne l'origine in antiche credenze popolari.
Un tempo si dava più credito che non oggi alle forze soprannaturali ed a coloro che ne conoscevano il segreto, cioè i maghi. Ed i maghi usavano tracciare intorno a sé un cerchio, detto «cerchio magico», in modo da tagliar fuori gli influssi perturbatori e mettere in atto le loro arti.
In base a queste credenze popolari, l'anello è, sostanzialmente, un cerchio magico, atto quindi a simboleggiare un mondo resistente ai rovesci della fortuna. Ed il matrimonio è, o almeno dovrebbe essere, senz'altro, un centro di affetti racchiuso in un cerchio magico: un'alleanza per meglio affrontare la vita.
PERCHÉ NELLE CHIESE CI SONO LE CAMPANE?
Oggi le campane hanno smesso di dominare con il loro suono la vita quotidiana delle parrocchie, dato che i rumori molesti hanno finito col sopraffare i suoni gradevoli.
Ma pensiamo un po' a cosa doveva rappresentare una campana fino al secolo scorso: ritmava il trascorrere del tempo e l'alternarsi delle occupazioni con sonori rintocchi, assumendo nella vita di ognuno un'importanza ben maggiore di quanta possa averne, oggi, il ripetersi puntuale dei «caroselli» televisivi.
Naturalmente, la funzione principale di una campana era, e resta, quella di chiamare a raccolta i parrocchiani e di sottolineare le fasi salienti del rito.
Ma non è facile enumerare tutti gli svariati compiti un tempo affidati alle campane, e tutte le favole, le leggende e le credenze legate alla eminente posizione della campana come cuore della comunità.
Le prime campane furono di ferro battuto. Si pensa che siano state fabbricate in Campania, donde il nome. Dal secolo VIII invalse l'uso di fonderle in bronzo, con circa il 75% di rame e il 25% di stagno. L'aggiunta di un po' di antimonio ne aumentava la sonorità.
Roma è la città che ha il maggior numero di campane; ma particolarmente famose sono le campane del Duomo di Milano col campanone di S. Ambrogio di quindicimila chilogrammi.
Secondo il codice di diritto canonico le campane delle chiese sono «res sacrae» (oggetti sacri); pertanto non debbono essere adibite a scopi profani, salvo i casi di necessità quali una inondazione, un incendio etc.
Ma quando la Chiesa si occupava di moltissimi settori della vita civile, era arduo distinguere tra il sacro e il profano. Infatti il codice di diritto canonico riconosce come legittimo l'uso delle campane in occasione di fiere e mercati, solo per il fatto che tali eventi profani avvengono spesso in concomitanza con ricorrenze religiose.
Si credeva (e c'è qualche simpatica vecchietta che ancora non s'è ricreduta) che la consacrazione desse alle campane il potere di scacciare le streghe.
Da quelle idee è sorta la credenza che il loro suono eviti la grandine (e a volte l'evitano davvero perché le onde sonore infrangono le nubi) o la «nuvola triste» su cui è seduto il diavolo.
In tali casi, si suona «a tempesta, a scongiuro, a malacqua» o anche, per augurio, «ad acqua bona». Va citata anche la credenza che la campana purifichi l'aria in caso di pestilenze.
Campanile e torre della cattedrale di Teruel (Spagna)
PERCHÉ LA PASQUA NON CADE MAI NELLO STESSO GIORNO?
A differenza di altre ricorrenze religiose, che hanno un giorno fissato nel calendario
(ad es. Natale 25 dic., Immacolata Concezione 8 dic.), la Pasqua non cade in una data precisa, ma,
così come la Pentecoste, è regolata col calendario lunare.
Agli albori dei Cristianesimo, la risurrezione era ricordata ogni domenica.
Successivamente, la Chiesa cristiana decise di celebrarla soltanto una volta l'anno,
ma parecchie correnti religiose dibatterono tra di loro per stabilire la data dell'evento.
Le controversie ebbero termine con il Concilio di Nicea (325 d.C.), che decise
che la Pasqua doveva cadere la domenica seguente la prima luna piena di primavera.
Oggi la data si calcola scientificamente,
sulla base dell'equinozio di primavera e della luna piena, utilizzando per il computo
il meridiano di Gerusalemme, luogo della morte e risurrezione di Cristo.
E' da notare come la data della Pasqua ortodossa non coincida con quella cattolica,
perché la Chiesa ortodossa utilizza per il calcolo il calendario giuliano,
anziché quello gregoriano. Pertanto, la Pasqua ortodossa cade circa una settimana dopo
quella cattolica.
PERCHÉ C'È IL CARNEVALE?
Il Carnevale, come sappiamo, è quel simpatico periodo dell'anno, compreso tra il Natale e la Quaresima, in cui gli uomini cercano di bandire ogni tristezza ed ogni affanno per aprire la porta di casa alla gioia e alla festa.
Oscura è l'origine del termine. C'è chi lo traduce «addio alla carne» (dal latino «carnem vale!»), riferendosi all'ultimo giorno, il più «grasso» di tutti, che precede la Quaresima che, come tutti sanno, è tempo di digiuno e di penitenza. C'è chi lo traduce «sollievo della carne», riferendosi all'antico nome del Carnevale, e cioè Carnasciale, termine che appare chiaramente formato da «carne» e da «scialo».
Se oscura appare l'origine del temine, più oscura ed antica è l'usanza, che sembra essere la continuazione diretta dei Saturnali, le feste popolari dedicate dai Romani a Saturno, che venivano fatte press'a poco nel medesimo periodo ed avevano con il nostro Carnevale molti aspetti in comune.
Qual è la causa del secolare protrarsi di questa usanza? La risposta occorre cercarla nelle condizioni sociali in cui versava l'umanità in passato. La miseria, la povertà e la schiavitù costringevano la maggior parte degli uomini a lottare per sopravvivere, a lavorare faticosamente tutto l'anno: solo grazie al Carnevale, era possibile dimenticare per qualche ora gli affanni d'una vita miseranda gettare nelle feste, nei balli e nei banchetti sofferenze ed angoscia. Le maschere che alle origini venivano utilizzate per rappresentazioni farsesche, legate generalmente ad un culto religioso, divennero a poco a poco il simbolo stesso del Carnevale, l'unico mezzo per nascondere e rendere lecite azioni ch'era impensabile compiere in tempi normali.
Questo aspetto è forse la causa principale del lungo protrarsi dell'usanza: nei secoli passati, in cui il concetto di libertà era esclusivo possesso dei potenti, il Carnevale ha rappresentato il solo momento dell'anno in cui l'individuo, dietro lo schermo di una maschera, ha potuto esprimere se stesso in piena libertà; e non c'è da meravigliarsi se questa libertà si è realizzata sovente non nei limiti della decenza ma ha assunto toni licenziosi, esageratamente festosi.
Oggi il Carnevale va morendo, tenuto in vita solo come attrazione turistica in centri come Nizza e Viareggio. Perché mai? Perché sono mutate le condizioni di vita. Oggi in Europa gli uomini vivono più largamente che in passato, usufruiscono d'una libertà maggiore, prendono le ferie d'estate si divertono ogni fine-settimana per tutto l'arco dell'anno.
In una parola, non hanno più bisogno del Carnevale per lasciar correre a briglia sciolta il loro desiderio di libertà, di divertimento, di licenziosità. In questo senso, potremmo dire che per la maggior parte di essi è Carnevale tutto l'anno!
In paesi e città oggi il Carnevale è una festa per i bambini, il curioso periodo dell'anno in cui i genitori permettono loro di indossare il vestito e la maschera dei loro favolosi eroi.
PERCHÉ SI RACCONTANO FAVOLE, FIABE E NOVELLE?
Da che mondo è mondo i bambini hanno udito narrar storie di giovani eroi, di orchi e di streghe, di geni, di folletti e di fate, di animali parlanti ora buoni ora cattivi, ora furbi ora sciocchi, di personaggi leggendari che hanno compiuto meravigliose imprese. Ogni paese ha le sue storie, anche se queste, in fondo, si assomigliano tutte. In ogni casa, fiabe, favole e novelle sono sempre state il cibo desiderato d'ogni fervida fantasia. Le origini di questi racconti sono antiche. I motivi per cui sono nati vanno cercati nelle condizioni di disagio e d'estrema precarietà proprie dell'umanità primitiva. Alle scarse possibilità di sopravvivenza, ai pericoli ed all'inclemenza degli elementi, a tutto quel vario insieme di forme a cui gli antichi davano il nome di «male», si dovevano opporre altrettanti mezzi di difesa.
Uno di questi sono, appunto, le favole, le fiabe e le novelle.
In esse scorgiamo, infatti, impersonate dagli orchi e dalle streghe, le cieche forze della natura con le quali l'uomo, da sempre, è costretto a combattere, e, rappresentate da fate e geni buoni, le più antiche credenze magiche nelle quali l'uomo ha trovato aiuto e conforto nella impari lotta.
Che differenza passa, tra favola, fiaba e novella? La favola è un racconto, spesso molto breve, che ha come protagonisti, di solito, degli animali.
Essi, però, non si comportano come animali comuni, ma interpretano sempre un tipo umano facilmente riconoscibile.
La volpe impersona il furbacchione matricolato, il corvo il tonto credulone, la cicala il fannullone, la formica l'operoso e il previdente, il lupo il violento e il prepotente... e così via.
La favola contiene sempre un messaggio morale, vuol offrire, cioè, un ammaestramento di vita.
La fiaba è, invece, una storia che si sviluppa grazie all'intervento di molti personaggi, ora reali ora del tutto fantastici.
Nella fiaba l'importante è lo svolgersi stesso della storia, gli stupefacenti colpi di scena, gli orrori e le peripezie che l'eroe buono deve subire prima di veder trionfare la propria bontà e la giustizia.
La novella è un racconto di fatti notevoli che sono o potrebbero essere avvenuti.
Spesso le vicende narrate hanno un fondamento di realtà storica che, nel tempo, la fantasia dei narratori ha arricchito d'invenzioni fantastiche e di trovate inverosimili.
PERCHÉ SI PAGANO LE TASSE?
Sotto il nome di tasse viene indicato tutto l'insieme dei tributi che un cittadino versa ad enti pubblici o allo stato per dei servizi ricevuti.
La «tassa» vera e propria, però, è il compenso pagato dal privato ad un ente pubblico per un servizio a lui reso dall'ente dietro sua richiesta, mentre i tributi che ogni cittadino versa all'ente pubblico o allo stato obbligatoriamente per la produzione di servizi che non rendono benefici a lui come singolo ma un vantaggio alla comunità, vengono indicati più propriamente con il termine «imposte».
In ogni modo tutte queste sfumature, queste precisazioni, queste definizioni giuridiche, pur accrescendo la nostra sapienza non diminuiscono l'entità e il numero dei tributi.
Per il cittadino, dazi, gabelle, tributi vari sono «tasse», un termine ampiamente esecrato, oggetto di vituperio e di amara ironia, soprattutto perché spesso la loro esistenza, il loro ammontare la loro natura non gli sono abbastanza chiari. Come può pagare volentieri, infatti, ciò che non capisce, ciò che è spiegabile solo a condizione di entrare nell'aggrovigliato labirinto delle leggi amministrative?
Perché, dunque, è nostro dovere pagare le tasse? Un individuo che appartiene ad una comunità, una volta che ha accettato il modo in cui essa è organizzata, deve sorreggerla nelle sue istituzioni, deve contribuire affinché gli enti d'interesse pubblico, creati per fornire a tutti i cittadini servizi necessari, possano non solo sopravvivere ma anche essere resi sempre più efficienti.
Se lo stato costruisce strade, ponti, acquedotti, scuole, ospedali e così via, è giusto che chi trae vantaggi da tutto ciò contribuisca alla spesa, secondo le proprie possibilità.
Data per scontata la legittimità della richiesta da parte dello stato di tali contributi, perché il cittadino cerca sovente di sottrarsi a tale obbligo? Perché è tanto diffusa la cosiddetta «evasione fiscale»?
Le cause di tale comportamento sono varie, alcune delle quali facilmente intuibili. A pochi piace versare denaro per il bene della comunità: si è più portati a giustificare una spesa per ottenere un vantaggio personale ed immediato che non contribuire genericamente alla produzione di servizi di cui, presuntivamente, si crede di poter fare a meno. Per la maggior parte dei cittadini, inoltre, l'ammontare delle tasse appare sempre troppo alto: si spende volentieri più del necessario per costruire, arredare ed abbellire la propria casa poiché la si considera un bene personale, mentre non si è portati a fare altrettanto per la nostra «grande casa», per il Paese in cui viviamo. Questo comportamento è in molti casi motivato dal cattivo uso fatto dal governo di uno stato dei contributi pubblici. Ma se il malgoverno si può ovviare attraverso le elezioni (di cui parleremo) il contributo dei cittadini è pur sempre necessario: un governo può essere cambiato ma le tasse restano.
PERCHÉ CI SONO LE BANDIERE?
La bandiera, drappo generalmente di lana leggera di uno o più colori e di varia forma, è un simbolo che convenzionalmente rappresenta una nazione, un partito, un'associazione di cui spesso porta ricamato lo stemma.
Essa viene di solito attaccata ad un'asta affinché il vento la faccia sventolare e la renda visibile a tutti.
Quello di rappresentare un gruppo di individui raccolti a svolgere un'azione concorde non è il solo modo di impiegare la bandiera, benché tra tutti sia il più diffuso ed importante.
Alle origini la bandiera fu un simbolo esclusivamente religioso e l'emblema ch'essa recava aveva generalmente un valore sacrale e magico.
Diventò insegna militare solo all'epoca dei Comuni, nella quale assunse forme e denominazioni diverse. In un Comune, infatti, una bandiera era il simbolo del Podestà, un vessillo rappresentava il Comune nel suo insieme e un gonfalone il Capitano del popolo.
Col passare dei secoli l'uso della bandiera si generalizzò e a poco a poco venne impiegata anche per altri usi, come mezzo di comunicazione a distanza, soprattutto in marina, come mezzo di informazione utilizzando forme e colori convenzionalmente ed universalmente prefissati.
Così quando vediamo una bandiera a mezz'asta o abbrunata (con una striscia di panno nero svolazzante) sappiamo che il gruppo da essa rappresentato è in lutto. In guerra la bandiera bianca, come senz'altro saprete, è il segno della resa; una bandiera gialla che sventola su una nave significa che a bordo vi sono malati di malattie contagiose; la bandiera rossa, usata in passato come simbolo di legge marziale e di lotta sociale, viene anche impiegata per avvertire i cittadini di un pericolo (sui camion carichi di esplosivo, nelle stazioni balneari, quando il mare è agitato etc.).
PERCHÉ BISOGNA VOTARE?
Durante i molti secoli dello loro storia, le nazioni sono passate attraverso varie forme di governo. Il potere, che in passato era per lo più in mano a pochi privilegiati, è stato conquistato nella maggior parte dei Paesi del mondo dall'intera cittadinanza.
Di contro a forme di governo totalitarie, dunque, che accordavano a pochi il diritto di governare e di regnare sulla moltitudine, si è giunti a forme di governo in cui è la moltitudine che governa se stessa: questo autogoverno, che si realizza in forme diverse, si chiama democrazia.
Naturalmente riesce difficile immaginare una moltitudine di milioni di individui capaci di autogovernarsi (ciò significherebbe raggiungere un grado di civiltà e di maturità, per ogni singolo individuo componente la comunità, impensabile ai giorni nostri) e, in effetti, non esiste uno stato di notevoli dimensioni la cui forma di governo si realizzi nella cosiddetta «democrazia diretta». Come fa allora un popolo ad autogovernarsi?
I cittadini, attraverso il voto, eleggono dei rappresentanti i quali entrano a far parte di un Parlamento e garantiscono con la loro azione politica gli interessi di chi li ha eletti.
In Parlamento, infatti, vi sono vari schieramenti politici che rispecchiano le opinioni (e gli interessi) delle varie categorie o classi sociali; i cittadini appartenenti a queste classi votano, di solito, per il partito che li rappresenta in Parlamento. Più voti un partito avrà, maggiore sarà il numero dei suoi rappresentanti in Parlamento e tanto più grande sarà il peso della loro azione politica nell'affermare gli interessi e la volontà del gruppo che esso rappresenta.
Per ogni cittadino che ha accettato di far parte di una comunità governata democraticamente, eleggere un rappresentante di suo gusto, votare per il partito politico che meglio difenda i suoi interessi, è un diritto e in alcuni Paesi è perfino un dovere, un obbligo sociale. Che cosa accadrebbe, infatti, se una parte del popolo non votasse? Il risultato delle elezioni non rispecchierebbe la volontà dell'intera popolazione, ma solo quella di una sua parte e, di conseguenza, la successiva azione politica del governo, in campo nazionale ed internazionale, non risulterebbe dettata dai desideri e dalle esigenze di tutto il popolo.
PERCHÉ BISOGNA ANDARE A SCUOLA?
Fino dall'inizio della sua storia, l'uomo ha sentito la necessità di tramandare alle generazioni successive la somma delle proprie conoscenze.
Questa, come abbiamo accennato altrove, è la caratteristica tipica che lo contraddistingue, che lo separa definitivamente dagli altri animali e lo pone su di un piano di assoluta eccellenza.
Se, infatti, per gli animali non esiste un progresso sensibile e il loro comportamento è sempre uguale nel tempo o viene tutt'al più modificato solo dal periodico mutare delle condizioni ambientali, per gli uomini, grazie al loro comportamento intelligente, al tramandarsi di generazione in generazione delle conoscenze acquisite e costantemente arricchite, il progresso è chiaramente visibile, rapido ed oltremodo efficiente.
Prima della scoperta della scrittura l'esperienza dei vecchi veniva tramandata ai giovani oralmente ma, col passare del tempo, divenendo l'insieme delle notizie da trasmettere sempre più rilevante, si correva il rischio di dimenticare qualcosa, di tralasciare notizie, informazioni, conoscenze tecniche e formule rituali. La scrittura risolse il problema, fissando una volta per tutte l'insieme delle conoscenze, affinché tutti vi potessero attingere a volontà. Erano nati i libri, prima di pietra, poi di pelle, quindi di papiro ed infine di carta.
Il libro, comunque, non fa scomparire il maestro che, in ogni tempo, è non solo l'interprete del libro e del passato ma è colui che, grazie all'esperienza ed a particolari doti di saggezza, insegna ai giovani la vita ed il presente.
Grande, dunque, è sempre stato l'ufficio della scuola, fondamentale ed insostituibile il suo compito per interpretare il passato, discutere il presente e preparare l'avvenire.
La scuola è, infatti, l'unico valido mezzo che consenta alla società di progredire.
Questa sua caratteristica e stata in passato assai meno evidente che oggi, in quanto la cultura e la sapienza erano quasi esclusiva proprietà di pochi privilegiati (aristocratici, borghesi, ecclesiastici), gli stessi poi che avrebbero esercitato il potere.
Oggi, invece, in cui ad ognuno è dato di contribuire con la forza del proprio ingegno e della propria personalità al progresso sociale della comunità, il poter apprendere la somma delle conoscenze acquisite in millenni di storia è un inalienabile diritto per tutti.
Lo stato lo riconosce, approvando l'istruzione obbligatoria fino ai quattordici anni.
Ciò che per i ragazzi costituisce un fastidioso dovere è, dunque, un privilegio, una preziosa conquista dell'umanità.
Se consideriamo quale fine ultimo dell'uomo il raggiungimento della felicità, cosa può renderci felici se non la scuola, l'istruzione, la sapienza? Appare infatti chiaro che non vi può essere felicità nell'errore e che la verità può essere conquistata solo attraverso la conoscenza.
Imparare significa affrontare la vita a viso aperto, agguerriti e in piena capacità di giudizio.
Vi è una lapidaria definizione del concetto che anima la scuola e la necessità degli uomini di apprendere, che riportiamo a conclusione del nostro discorso: è stata espressa, nell'Inferno dantesco, da Ulisse, rivolto ai suoi compagni di viaggio... e agli uomini tutti, d'ogni tempo e condizione: «Considerate la vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza».
PERCHÉ SI AFFRANCA LA CORRISPONDENZA?
Parlando delle tasse, le abbiamo definite un tributo da parte dei cittadini agli enti pubblici e allo stato per dei servizi resi. Il francobollo che noi apponiamo alla nostra corrispondenza è un classico esempio di tassa: un ente pubblico, le Poste, raccoglie la corrispondenza e la invia a destinazione consentendoci di comunicare con persone lontane; noi paghiamo, acquistando ed apponendo il francobollo sulla lettera, per il servizio resoci. In passato, dovendo inviare un messaggio, ogni cittadino era costretto a farlo recapitare con i propri mezzi, incaricando un uomo e pagandolo profumatamente affinché, a cavallo o in carrozza, portasse il plico al destinatario.
Col passare del tempo ed il progredire della civiltà, furono istituiti dei servizi postali, espletati da «corrieri» e quindi si giunse (Inghilterra, 6 maggio 1840) all'introduzione del francobollo, che si diffuse a poco a poco in tutto il resto del mondo.
L'affrancatura del plico postale è un sistema assai semplice e funzionale che consente all'amministrazione delle Poste di raccogliere i fondi sufficienti per mantenere efficiente il servizio nel tempo. Il francobollo, prodotto da un'officina grafica in stampa «calcografica», è fatto con carta speciale per difenderlo dalle imitazioni, porta da una parte la riproduzione di un ritratto o di un altro disegno e la leggenda relativa al valore, è ingommato sul retro è può essere utilizzato solo una volta: l'amministrazione postale, infatti, si premunisce, annullandolo con un timbro.
Il francobollo è l'unico mezzo normalmente prescritto per il pagamento della tassa di trasporto e di consegna della corrispondenza, quando non sia autorizzato l'uso di speciali macchine affrancatrici e di «conti correnti postali», mezzi funzionali ed economici per il grande invio di stampati. Dopo la diffusione del francobollo, questo quadratino di carta è divenuto oggetto di collezione e di studio.
PERCHÉ OCCORRE AVERE I DOCUMENTI DI RICONOSCIMENTO?
La carta d'identità o il passaporto sono documenti che attestano, in modo preciso e senza possibilità di equivoco, la vera identità di un individuo. Essi sono molto importanti sia per chi li possiede, sia per chi li emette, cioè per il Comune in cui l'individuo risulta residente e quindi per lo Stato a cui egli appartiene.
Per l'individuo sono importanti poiché in ogni momento può dimostrare a chiunque glielo richieda, chi è veramente, quanti anni ha, dov'è nato, quale sia la sua nazionalità.
Oltre a tutti i dati che riguardano la sua persona (cognome, nome, data e luogo di nascita, nazionalità, luogo di residenza, indirizzo, stato civile, professione, statura, colore degli occhi e dei capelli ed eventuali segni particolari) il documento porta in più una fotografia che mostra chiaramente il suo volto, opportunamente vidimata dalle autorità, così come tutto il resto del documento, allo scopo di confermare la validità.
Per il Comune o per lo Stato che li emette sono altrettanto importanti, oltre che per fini statistici, soprattutto per garantire uno svolgimento regolare del lavoro di polizia la quale, controllando i documenti di individui sospetti, può con maggior sicurezza evitare che un innocente sia ritenuto colpevole o che sotto un volto innocente si nasconda un colpevole.
PERCHÉ SI DEVE DARE LA PRECEDENZA ALLE SIGNORE?
In quelle antiche società che erano basate soprattutto su rapporti di forza, le donne non avevano molte possibilità di affermarsi. Gli uomini potevano agevolmente assoggettarle, ricorrendo alla maniera forte; però, anche allora, le donne riuscivano spesso a rivalersi, vincendoli di cortesia.
Man mano che, per effetto del progresso civile, gli uomini divennero meno brutali, le donne cominciarono a instillar loro l'idea che non fosse onorevole usare modi rozzi e violenti. Così, nella società medievale, avvenne che alcuni poeti e menestrelli, vagando di corte in corte, diffusero, con le loro composizioni, una nuova concezione della donna e dell'amore.
Nacque l'idea della donna-angelo, che induce a pensieri e sentimenti elevati, e di fronte alla quale ogni uomo d'onore deve inchinarsi reverente. Si fecero paladini di questo nuovo ideale i cosiddetti «cavalieri erranti».
Due parole su questi cavalieri... Siccome i signorotti feudali lasciavano tutti i loro possedimenti ai primogeniti, in modo da mantenere intera l'eredità, e quindi la potenza del casato, ai figli cadetti toccavano soltanto le briciole del patrimonio.
Non avendo beni materiali da difendere, costoro si dedicavano alla difesa dei deboli e delle inermi fanciulle: divenivano quindi i cavalieri dell'ideale; adottavano un codice di comportamento basato sulla gentilezza d'animo, anziché sulla forza bruta.
Il primo esempio che ci viene in mente è quello dei leggendari cavalieri della Tavola Rotonda. Essi avevano un tale atteggiamento di deferenza verso le donne, da difenderle a costo della vita contro ogni sorta di avversità. Inutile aggiungere che davano loro, sempre e comunque, la precedenza.
Ed anche noi, oggi, quando attraversiamo una porta insieme ad una signora, le diamo la precedenza.
Ma lo facciamo sempre?... Anche quando si tratta di salire su un mezzo pubblico?... Anche quando si tratta di occupare l'ultimo posto libero?...
Ad ogni modo, oggi le donne sono, come suol dirsi, «emancipate». Anche a non dar loro la precedenza, se la prendono da sé.
PERCHÉ CI SI TENDE LA MANO DESTRA?
Due mani destre riunite erano il simbolo, presso i Romani, della amicizia. Forse per il fatto che la maggior parte degli uomini tendono istintivamente ad usare la destra, piuttosto che la sinistra, in ogni tempo e presso tutti i popoli della Terra questa mano che potrebbe presentarsi armata e manifestare intenzioni violente, tesa ed aperta ha sempre simboleggiato un offerta di pace, il desiderio di stabilire un rapporto basato sulla fiducia.
Ma perché molti sono portati istintivamente ad usare la destra non solo quando la tendono in segno di amicizia ma anche quando compiono un lavoro?
La parte sinistra del cervello contiene i centri nervosi responsabili della maggior parte delle attività motrici dell'uomo; e dal momento che l'emisfero cerebrale sinistro comanda l'emicorpo destro, l'attività motrice risulta naturalmente più sviluppata nella parte destra del corpo.
A questo punto voi vi chiederete: perché esistono i mancini?
Vi sono molte teorie che cercano di spiegare il «mancinismo» (così come il destrismo) e una delle più diffuse è quella che abbiamo sopra esposto, la quale indica nella lateralità dei centri cerebrali la causa della umana predisposizione ad impiegare un arto piuttosto che un altro. Il mancino, perciò, è istintivamente portato ad usare la sinistra poiché l'emisfero cerebrale dominante risulta il destro.
PERCHÉ LE SPOSE PORTANO IL VELO?
Nelle favole in genere e particolarmente in quelle filmate da Walt Disney, le varie Cenerentola o Biancaneve, quando convolano a nozze col loro principe azzurro, lo fanno secondo tutte le regole, con un fasto ed una solennità tali da ripagarle di tutte le avversità che hanno dovuto affrontare prima di giungere al lieto fine. Non manca mai, naturalmente, un magnifico velo fluttuante per qualche decina di metri dietro di loro, magari sorretto da una festevole schiera di passeri cinguettanti.
Certo, quel gran velo non ha uno scopo pratico: al contrario, può provocare seri intralci; può tuttavia giustificarlo il fatto che «l'occhio vuole la sua parte». Così si vedono ancora delle spose che, pur non credendo nelle favole, ci tengono ad avere un velo che le faccia «ben figurare» e che magari susciti l'invidia delle amiche.
Ma l'uso del velo nuziale non va semplicemente riconnesso alle favole ed alle frivolezze femminili. La sua origine ha carattere religioso.
Nell'antica Grecia le donne portavano il velo per le ventiquattr'ore precedenti le nozze, poiché si temeva che gli dèi potessero invaghirsi della promessa sposa e, mossi da gelosia, potessero addirittura impedire le nozze. Anche quando tale superstizione decadde, rimase l'usanza di coprire con un velo la testa e le spalle della sposa.
Non importa che il velo nasconda in realtà le fattezze della sposa: basta che ciò avvenga simbolicamente. Presso i Romani, infatti, il velo non nascondeva un bel nulla, ma si librava liberamente sul corpo della sposa senza avvilupparlo. E già allora c'erano veli di tale foggia e raffinatezza, da contraddire alla loro primitiva funzione: si correva cioè, e tutt'oggi si corre, il rischio di attirare, anziché stornare, le inopportune attenzioni degli dèi.
PERCHÉ CI VESTIAMO?
Se osserviamo il mondo degli animali noteremo che la natura li ha forniti, nella maggior parte dei casi, di folte pellicce o di piume. Questi rivestimenti, a volte spessi ed impenetrabili, sono stati forniti dalla natura agli animali come una calda barriera isolante atta a proteggere il corpo dagli attacchi del freddo o dell'umidità, per far sì che la naturale temperatura corporea non si disperda.
Solo l'uomo non presenta né pelliccia né piume, ma un corpo nudo e assai vulnerabile.
A questa manchevolezza, fin dai tempi più remoti, egli ha ovviato aguzzando l'ingegno.
Si può immaginare come, vedendo un orso aggirarsi bel bello tra i ghiacci mentre lui batte i denti dal freddo, abbia fatto il possibile per uccidere l'orso e per procurarsi, oltre che una buona scorta di carne, una calda pelliccia per difendersi dal freddo.
Ancor oggi sono molti gli animali che vengono sacrificati per questo scopo e per le mutevoli esigenze della moda e dell'eleganza delle signore che pagano assai cara una pelliccia di visone, di cincillà o di leopardo.
Ringraziando il Cielo gli uomini hanno trovato altri sistemi per procurarsi un vestito, altrimenti il regno animale conterebbe oggi ben pochi capi! Non è certo recente la scoperta che, per utilizzare la pelliccia delle pecore, non occorre ucciderle ma è sufficiente tosarle.
Buone per tessere abiti sono anche le fibre vegetali del cotone o del lino, mentre oggi si va sempre più affermando l'uso di fibre tessili sintetiche.
PERCHÉ GLI SCOZZESI PORTANO IL GONNELLINO?
Nessuno di noi si sognerebbe di andare in giro con un gonnellino scozzese, se non in periodo di Carnevale. È un modo di vestire che, per quanto le mode odierne tendano alla stravaganza, sembra destinato a non diffondersi oltre la terra d'origine. Ma lo strano è che, mentre il gonnellino viene recisamente trascurato, il tessuto di cui è fatto ha invece conosciuto la più ampia diffusione e popolarità. Ne apprezziamo infatti i caratteristici colori disposti in vivace contrasto.
I disegni quadrettati scozzesi sono stati applicati a tutti i tessuti di lana, seta, cotone, raion e misti e, pur con alti e bassi, non sono mai stati abbandonati dalla moda.
Antichissima è l'origine dei tessuti scozzesi e del loro disegno. Essi servivano a distinguere tra loro, secondo le varietà di tinte, le diverse tribù (clan) in cui erano divise le popolazioni dei Highlands scozzesi. Il costume è una combinazione le cui parti più importanti sono il gonnellino (kilt), accuratamente disposto a pieghe e fermato attorno alla vita da una cintura, e uno scialle (plaid) di spesso tessuto di lana.
Come si spiega l'adozione del gonnellino? Questione di gusti, si potrebbe dire. Si tratta, certo, di gusti piuttosto singolari. Ma ciò è dovuto a due semplici ragioni. La prima è che il gonnellino consente una maggior libertà di movimenti, necessaria per camminare in montagna (ciò è dimostrato dal fatto che anche altri popoli montanari usano indumenti simili, anche se non altrettanto pittoreschi). L'altra ragione è che l'uniformità nel vestire dipende dalla frequenza dei contatti che legano una popolazione. Se una comunità resta isolata per lunghi periodi, come può appunto avvenire nelle regioni montane, si sviluppano usanze e gusti ristretti a quella zona particolare. Ed è questo il caso dei Highlands scozzesi. Si consideri che un tempo i mezzi di comunicazione ed i contatti tra gli abitanti di regioni diverse non erano così sviluppati come oggi. Così, nell'isolamento delle montagne scozzesi, hanno avuto origine quei tessuti smaglianti, fortemente caratterizzati, in cui si esprimono le particolarità di una popolazione fiera del proprio inimitabile senso dell'eleganza.
Nel resto del mondo i tessuti scozzesi vengono sì imitati; ma non si ha il coraggio di andare fino in fondo. Si apprezzano e si adottano le tinte accese, e i disegni quadrettati, si disdegnano invece i gonnellini!
Un suonatore scozzese di cornamusa, in costume tipico
PERCHÉ I PELLIROSSA SI CHIAMANO «INDIANI»?
Prestando fede alla carta tracciata dal fiorentino Toscanelli, nel 1492 Cristoforo Colombo intraprese un viaggio che dovette apparire, agli occhi dei suoi contemporanei, come un madornale controsenso.
Ma come! Volendo raggiungere le Indie, che sono ad Oriente, prendeva invece la via dell'Occidente: «buscando - come dicevano gli Spagnoli - el poniente por el levante»!
Ma Colombo sapeva il fatto suo: è naturale, come oggi tutti noi ben sappiamo, che si possa arrivare in India sia prendendo verso oriente, sia circumnavigando il globo, attraverso l'Oceano Atlantico, il Pacifico e, finalmente, l'Indiano. Ma quest'ultimo itinerario non è certo il più breve. Colombo non aveva una precisa cognizione delle reali proporzioni del globo, come non l'aveva il Toscanelli.
Secondo loro, facendo rotta verso occidente, si sarebbe potuti arrivare in India in breve tempo, senza imbattersi, strada facendo, nel continente America.
Ed è comprensibile che la pensassero così, dal momento che l'America doveva ancora essere scoperta. E fu in America, infatti, che Colombo andò ad approdare, una volta attraversato l'Atlantico, ma non se ne rese conto; restò convinto d'essere giunto in India e designò quindi col nome di «indiani» gli indigeni che, pacificamente, lo accolsero con curiosità e rispetto.
I nuovi venuti furono a loro volta incuriositi dagli «indiani», ma non usarono loro altrettanto rispetto. Ne presero subito qualcuno per portarlo in Europa e mostrarlo in giro come uno strano animale anziché come un essere umano con una propria forma di civiltà e, soprattutto, una propria dignità.
L'avidità dei bianchi ha ridotto gli indiani a vivere in territori sempre più ristretti; ha provocato la loro decimazione, anzi, ha addirittura ridotto il loro numero a pochissimi esemplari relegati nelle cosiddette riserve. Oggi costituiscono un'attrazione turistica, come gli orsi dei parchi nazionali o le rocce del Grand-Canyon.
Presi da un tardivo senso di colpa, i bianchi cercano oggi di rendere giustizia agli indiani esaltando la fierezza dei loro costumi. Finalmente vediamo film-western in cui gli indiani non sono feroci selvaggi, ma uomini coraggiosi che non si piegano ai soprusi dei «visi pallidi».
Addirittura, si è ultimamente affermato nel cinema un regista di razza indiana, Sam Peckinpah, che fa dei magnifici «western» in cui si può ritrovare quel soffio epico e poetico, quel genuino senso dell'avventura che così raramente ci viene offerto dalle odierne pellicole.
Il senso della dignità proprio degli indiani è divenuto proverbiale. Essi l'hanno mantenuto di fronte agli equipaggi di Cristoforo Colombo, di fronte ai loro persecutori bianchi e perfino di fronte alla superficiale curiosità dei turisti che vanno a fotografarli nelle riserve.
C'è un'espressione, «fare l'indiano», che può appunto richiamare questo fatto: il superiore distacco, il disdegno e la noncuranza dell'indiano per l'affarismo e la sete di potere dell'uomo bianco.
PERCHÉ I MUSULMANI PREGANO PROSTRATI A TERRA?
I musulmani si prostrano a terra cinque volte al giorno, secondo un orario rigidamente stabilito.
Anche nel mondo cattolico ci sono le cosiddette «ore canoniche», come il «Mattutino» all'alba e il «Vespro» alla sera: ma solo i sacerdoti sono tenuti a recitare, in questi determinati momenti del giorno, i relativi passi del breviario, mentre i laici generalmente se ne astengono.
Tutti i musulmani invece dicono ogni giorno le loro cinque preghiere canoniche. Quando i «muezzin» danno il segnale gridando dall'alto dei minareti, i fedeli interrompono le loro occupazioni e si dispongono tutti secondo una medesima direzione, cioè con il viso rivolto alla Mecca, capitale morale del mondo arabo, città natale di Maometto e sede della Kaaba (edificio a forma di cubo che racchiude la pietra nera che i musulmani venerano come simbolo della divinità). Ciò accade anche senza il segnale dei muezzin, quando i musulmani si trovano in qualche lontana parte del mondo.
Una delle ragioni fondamentali per cui gli oranti musulmani, nella preghiera canonica, devono assumere la loro caratteristica posizione prona, è appunto per indicare chiaramente, con tutto il corpo, la direzione della Mecca.
Perché i musulmani, a differenza dei cattolici, sono così rispettosi delle ore canoniche?
Perché Allah, secondo la predicazione di Maometto, è un dio pignolo, le cui prescrizioni vanno seguite alla lettera. E sono tali e tante, le prescrizioni di Allah, da estendersi ad ogni campo della attività umana, fino a regolarne i più diversi aspetti, incidendo profondamente sulla vita politica e sociale.
La dottrina di Maometto indusse i musulmani addirittura, a proclamare la «guerra santa», in nome di Allah, e ad estendere il loro dominio su tanta parte di mondo.
Oggi i musulmani hanno rinunciato alle «guerre sante», ma i loro costumi religiosi non sono troppo mutati.
Per tornare alla preghiera canonica, essa, secondo la tradizione musulmana, non consiste in un semplice pensiero rivolto a Dio nel profondo dell'animo, ma dev'essere, invece, un atto pubblico, da compiersi con uniformità di atteggiamenti: tutti debbono prosternarsi e recitare certe formule. Va considerato infine che la religione musulmana non prevede un clero, con speciali prerogative di culto; ci sono solo degli addetti alle moschee, privi di carattere sacro che esplicano mansioni alle quali può attendere qualsiasi credente idoneo. Così tutti i credenti si sentono sacerdoti, ed è perciò che mettono tanto impegno nelle pratiche religiose. Ed è invero un pittoresco spettacolo, per i non credenti, vedere folti gruppi di musulmani che all'improvviso, unanimemente, si gettano tutti a terra modulando nenie sospirose. È una di quelle scene che fanno la gioia dei turisti occidentali.
Moschea musulmana
PERCHÉ I POPOLI DELLE REGIONI FREDDE MANGIANO MOLTI GRASSI?
Parlando dell'alimentazione in generale abbiamo detto che il dispendio giornaliero di forza viva da parte del nostro organismo dipende dall'energia che ci deriva dal processo di combustione operato nei confronti delle sostanze contenute negli alimenti che ingeriamo.
Il cibo di cui ci nutriamo contiene tre grandi gruppi di sostanze, necessarie al nostro organismo: zuccheri, grassi e sostanze proteiche. Queste sostanze, infatti, debbono essere presenti, se pur in quantità minima, nell'alimentazione di ogni individuo, allo scopo di assicurare la sua buona salute.
Il fabbisogno alimentare, la quantità, cioè, di sostanze di cui il nostro corpo abbisogna, varia in relazione all'età, al sesso, al peso e soprattutto al tipo di lavoro svolto: ogni attività umana, lavorativa o sportiva, comporta un particolare dispendio di energia e prevede, perciò, un'alimentazione adeguata. La dieta alimentare, inoltre, può basarsi nel consumo di carne e di grassi dall'alto valore energetico, oppure può essere «vegetariana», in relazione alle condizioni ambientali. Ciò è dovuto sia alla diversità di cultura e di civiltà dei diversi popoli, sia al fatto che l'uomo pratica da sempre un regime di alimentazione «misto», ch'egli ottiene dal mondo vegetale o animale che lo circonda e che quindi risulta diverso in rapporto all'ambiente naturale in cui vive, sia infine alla posizione geografica ed al clima.
Presso i popoli che abitano i paesi caldi la dieta ha prevalentemente carattere vegetariano, mentre i popoli che abitano le regioni fredde del globo, a causa della rigidità del clima, hanno adottato una alimentazione più abbondante, a base di carne e soprattutto di grassi animali. Il loro altissimo coefficiente termico (il fatto cioè che sviluppano più d'ogni altro alimento le cosiddette «calorie») permette all'organismo di contrastare efficacemente il freddo.
PERCHÉ I SELVAGGI SI DIPINGONO IL CORPO?
Ci si veste soprattutto per riparare il corpo dai rigori del clima; ma non vanno trascurate le esigenze di altra natura.
Si è soliti adottare un certo tipo di vestiario a seconda delle circostanze: distinguiamo, in genere, gli «abiti della festa» dagli abiti comuni; ci sono inoltre i cosiddetti «abiti da cerimonia», che si indossano in occasioni particolarmente solenni.
Nel caso di una popolazione che viva allo stato di natura, in una regione favorita dal clima, dove l'uso del vestiario per difendersi dal freddo non abbia senso alcuno e sia perciò considerato superfluo, ci sono dei sistemi assai semplici ed efficaci per sopperire alle esigenze di solennità e di eleganza.
In occasione di cerimonie o di ricorrenze, sia funebri che festose, questi popoli si dipingono il corpo di vari colori e decorazioni. A volte vengono eseguiti motivi ornamentali che rappresentano convenzionalmente la fauna terrestre e marina del luogo. Pitture particolarmente laboriose vengono eseguite in occasione di cerimonie religiose e raggiungono a volte un effetto non meno suggestivo dei paramenti sacri usati nel mondo civile.
C'è un tipo di pittura per le cerimonie rituali, un altro per le danze, un altro per i funerali, e così via.
A volte può anche trattarsi di semplice civetteria. Dobbiamo comunque andar cauti nell'individuare le ragioni che muovono certi popoli così lontani da noi geograficamente e spiritualmente.
Certi indigeni dell'Oceania amano colorarsi i capelli con succhi vegetali rossi e bruciarseli con calce fino a dar loro una tinta biondo-rossiccia. Ma forse le loro ragioni sono migliori di quelle delle donne civili che usano ossigenarsi.
In Oceania si fa anche largo uso del tatuaggio; anzi la parola stessa «tatuaggio» è di derivazione polinesiana. Mentre la pittura corporale viene impiegata estemporaneamente, secondo le ricorrenze, il tatuaggio viene soprattutto praticato nei riti di iniziazione e resta stabilmente sulla pelle. Gli indigeni australiani sono tra quelli che fanno più largo uso della pittura corporale. Usano ocre rosse e gialle, il bianco dell'argilla e il nero della polvere di carbone. Nonostante il diffondersi della civiltà bianca, non se la sentono di rinunciare alle loro nobili tradizioni e sono estremamente riluttanti ad accogliere l'uso del vestiario.
Un'altra ragione per cui i popoli primitivi si dipingono il corpo, è dovuta alle necessità della caccia. A causa del limitato raggio d'azione delle armi da getto, i cacciatori sono costretti ad avvicinarsi fortemente alla selvaggina.
Perciò, su terreno scoperto, devono ricorrere alla mimetizzazione, mediante la pittura corporale. Gli indigeni della Patagonia, quando praticano la caccia allo struzzo, completano il mascheramento pittorico coprendosi la testa e la schiena con penne di struzzo.
Anche in occasione di imprese guerresche, si ricorre spesso alla pittura corporale. Tutti abbiamo visto, al cinema, che gli indiani, al momento di dissotterrare l'ascia di guerra, si dipingono il volto di vividi colori. Questo accadeva prima che i pionieri bianchi invadessero le terre degli indiani, confinandoli nelle riserve.
Ancor oggi esistono popoli che praticano la pittura corporale e in occasione di vere e proprie guerre fra tribù, soprattutto nell'Amazzonia e nel Chaco. I guerrieri si coprono di colori così come nel mondo civile si fa uso delle uniformi. Un fregio rosso od un cerchietto giallo corrispondono ai galloni ed alle stellette dei nostri soldati. Le pitture particolarmente complicate dei capi guerrieri corrispondono alle greche dei nostri generali.
Tra gli indigeni dell'Amazzonia e del Chaco, la pittura corporale raggiunge la sua più alta espressione artistica. La faccia, il tronco, le gambe vengono coperti da elegantissimi motivi geometrici: meandri e spirali (motivi magico-religiosi comuni a moltissimi popoli primitivi) si intrecciano a formare un tutto armonioso.
Le donne sono spesso più abili disegnatrici degli uomini. A volte vengono usati appositi stampini detti «pintadores».
Anche in Europa un tempo si usava la pittura corporale: sono stati infatti ritrovati numerosi «pintadores» del periodo eneolitico (risalenti cioè al tempo in cui andavano diffondendosi i metalli come il rame e l'oro). C'era nei nostri progenitori, e deve esserci quindi anche in noi, qualcosa che strettamente ci apparenta ai popoli cosiddetti «selvaggi».
PERCHÉ SI DA' LA CERA ALLE SCARPE?
La cera che usiamo per pulire le scarpe costituisce il loro nutrimento.
Il lucido da scarpe è fatto a base di «cera montana», una sostanza biancastra che si può estrarre dalle ligniti dell'America e della Germania e che presenta, come tutte le altre cere, una caratteristica d'importanza fondamentale: l'insolubilità in acqua.
Questa proprietà, infatti, ci torna assai utile dovendo impermeabilizzare la pelle delle nostre scarpe per difenderla dalla pioggia.
La pelle che è servita per la fabbricazione delle nostre scarpe è stata opportunamente conciata. La concia, operazione artigiana d'origine assai antica, nel trattare la pelle per renderla soffice, morbida ed atta ad essere lavorata, prevede una completa disidratazione. L'acqua piovana dunque, filtrando nella pelle, potrebbe rovinarla e distruggerla. Ecco perché è opportuno stendere la cera sulle scarpe: un velo di cera impermeabile fa in modo che l'acqua vi scorra sopra senza intaccarne la pelle.
Ma c'è anche un altro motivo per dare la cera alle scarpe, ed è che noi desideriamo avere ai piedi scarpe lucide e splendenti. Ciò si ottiene sempre grazie alla cera, spalmandola cioè sulla pelle e strofinandola bene.
Perché occorre strofinare? È presto detto: le molecole della cera, non appena posta sulla pelle, sono in gran confusione; strofinando le costringiamo a disporsi tutte sul medesimo piano, a formare cioè una fine pellicola lucida e brillante.
PERCHÉ NEI PORTI CI SONO I FARI?
Il faro è un dispositivo di segnalazione luminosa che fin dai tempi antichi si usa porre nelle località più salienti per visibilità, quali scogli, promontori o moli di porti, che serve ai naviganti, soprattutto di notte, come punto di riferimento. Per analogia si chiamano fari anche quelli utilizzati per favorire la navigazione aerea e i fanali degli autoveicoli. È interessante sapere che la parola «faro» deriva dal nome dell'isolotto di Faro sulla costa egiziana, dove sorgeva il faro del porto di Alessandria, uno dei più famosi dell'antichità, costruito da Sostrato di Cnido e inaugurato sotto il regno di Tolomeo Filadelfo nel 280 a.C. Era considerato una delle sette meraviglie: alto 120 metri, aveva un alto basamento a piani rientranti e sulla sommità un fuoco prodotto da legna resinosa e da oli minerali forniva la luce necessaria, riflessa peraltro e convogliata da specchi concavi di metallo, inventati da Archimede.
Il materiale usato per la produzione di energia luminosa restò lo stesso per molti secoli. Nel '700 il legno fu sostituito da candele di sego, poi da lampade ad olio (vegetale od animale) con lucignoli speciali. Nel nostro secolo è stato introdotto il sistema di illuminazione ad acetilene o addirittura a luce elettrica, a patto che sia sempre ed assolutamente garantita. È facilmente intuibile infatti, come la sicurezza della continuità del funzionamento sia la condizione fondamentale e imprescindibile di un faro: non si può ammettere la possibilità che un faro si spenga, proprio nel bel mezzo di una tempesta!
Importante in un faro è anche la sua «portata ottica» (che ha determinato i progressivi perfezionamenti nel tempo) che dipende dal sistema di illuminazione e, naturalmente, dalle condizioni dell'atmosfera.
Per distinguere i vari fari, ognuno di essi ha una speciale caratteristica luminosa, una diversa colorazione (verde e rossa) e una diversa durata e sequenza di luci.
Per raggiungere il massimo effetto luminoso, la concentrazione, cioè, di tutta la luce del faro in una determinata direzione, si impiegano speciali apparecchiature ottiche. Gli specchi di Archimede sono stati sostituiti da una lente posta davanti alla sorgente luminosa che concentra il cono luminoso in un fascio di raggi paralleli; ai lati della lente da una serie di prismi a riflessione totale che concentrano i raggi periferici paralleli al fascio principale e, a volte, da specchi sferici che riflettono sempre nella stessa direzione del fascio principale, i fasci diretti posteriormente. Le speciali caratteristiche luminose, infine, si ottengono facendo ruotare il sistema ottico intorno alla sorgente luminosa o determinando l'intermittenza della luce.
PERCHÉ I FAZZOLETTI SONO QUADRATI?
Tutti sanno che cos'è un fazzoletto: è una pezza di tessuto, di cotone, di seta o di altra fibra che tutti portano con sé ed impiegano nelle occasioni più svariate.
L'uso più comune a cui è destinato il fazzoletto, almeno in molti paesi del mondo occidentale, è quello di soffiarsi il naso in caso di raffreddore È questa una consuetudine tanto radicata quanto discutibile, poiché sarebbe ragionevole supporre che nessuno ami portare in tasca diverse colture di virus, ben avvolte e protette in una pezza, magari profumata. Ma tant'è: liberarci delle abitudini è una impresa spesso assai ardua e nonostante l'errore evidente continuiamo a portarci addosso l'orribile focolaio. Comunque in questa sede non è in discussione la validità del fazzoletto, quanto invece la sua forma.
Perché mai un fazzoletto è quadrato? La risposta ci riporta addirittura al Re Sole, a Luigi XIV re di Francia che, per porre fine alle mode stravaganti del suo tempo, secondo le quali i fazzoletti avevano assunto le forme più strane, nel giugno 1687 emise un proclama in cui formalmente stabilì che «la lunghezza dei fazzoletti fosse pari alla loro larghezza».
I Francesi, sudditi fedeli, si uniformarono alla volontà del sovrano e l'usanza, diffusasi ben presto negli altri Paesi, è giunta fino ai nostri giorni.
PERCHÉ LE BAMBINE GIOCANO CON LE BAMBOLE?
Una consuetudine antica, comune a tutte le bambine d'ogni tempo, è quella di giocare con la bambola. Il gioco, per i bambini, è una cosa molto seria e quello della bambola è uno dei giochi più seri.
È nota l'abitudine dei bambini di imitare gli adulti (sebbene gli adulti spesso se ne dimentichino e forniscano più cattivi esempi di quanto non dovrebbero): i ragazzi giocano ai soldati ed a fare la guerra (questo poi è il peggiore degli esempi forniti loro dai «grandi»!) e le bambine giocano a fare le madri.
Riteniamo legittimo pensare che il comportamento delle bambine vada al di là di un semplice atto imitativo: esse amano le loro pupe di stoffa, di plastica e di cartapesta come se veramente fossero le loro figlie e l'atteggiamento tenuto nei confronti è il più naturale del mondo: una bambina parla alla sua bambola, la accarezza e la culla, concedendogli, senza alcuno sforzo apparente e senza nascosta finzione, un'anima.
È un gioco serio, dunque, il gioco con la bambola: attraverso di esso la piccola donna si prepara inconsapevolmente, a svolgere il proprio ruolo di madre.
PERCHÉ SI FA L'ALBERO DI NATALE?
Il Natale, la festa più cara ai cristiani, ha origini oscure ed assai discusse. Si è comunque d' accordo nel ritenere ch'essa sia nata a Roma verso la metà del IV secolo.
Nella scelta del giorno (25 dicembre) influì certo il calendario romano che celebrava in quel giorno il natale del cosiddetto «sole invitto». I cristiani sovrapposero alla festa pagana la festa che celebrava la nascita del loro vero sole, del «sole della giustizia», Gesù Cristo.
Il Natale cristiano si diffuse ben presto in tutto il mondo allora conosciuto e, da allora, la tradizione si è mantenuta ed ha raggiunto i nostri giorni.
Tra le celebrazioni natalizie domestiche e popolari, alcune sono d'origine prettamente cristiana (presepio), altre invece sono sopravvivenze di culti pagani, anteriori alla nascita ed alla diffusione del Cristianesimo. Tra queste, l'albero di Natale, usanza originaria dell'Europa centrosettentrionale, sopravvivenza di antichi riti agresti. L'albero, infatti, è un abete, pianta caratteristica delle regioni nordiche, a cui si appendono palle e ninnoli colorati e lucenti che riproducono i naturali riflessi della neve e del ghiaccio e che le piccole luci animano come tanti vivificanti spiriti della foresta
All'albero così addobbato si appendono anche i regali per i bambini.
Soprattutto negli ultimi anni, usanze nordiche e usanze mediterranee si sono mescolate creando un po' di confusione. Nel Sud la celebrazione tradizionale è il presepio ed i regali ai bambini si fanno di solito il 6 Gennaio, giorno dell'Epifania, portati, come tutti sanno, da una simpatica vecchietta, la Befana, che, a cavallo d'una scopa, vola di camino in camino a riempir calze di dolci, giocattoli o carbone, secondo i meriti Nel Nord, invece, ad appendere i regali all'albero è «Babbo Natale», un vecchio dalla lunga barba bianca che indossa un costume rosso fiammante. Diffondendosi l'usanza nordica dell'albero, è comparso anche nel Sud Babbo Natale, con grande gioia dei bambini che hanno finito per ricevere regali sia il giorno di Natale, sia il giorno dell'Epifania.
È interessante accennare ad una consuetudine che si è recentemente diffusa nei paesi scandinavi Per impersonare Babbo Natale vengono ingaggiati emigranti meridionali, i quali hanno il compito di girare di casa in casa per la consegna dei doni. La scelta non potrebbe essere più felice: da una parte perché l'accento esotico crea nei bambini l'idea che Babbo Natale sia un personaggio favoloso proveniente da lontani paesi dall'altra perché il vecchietto che noi chiamiamo Babbo Natale in realtà si chiama Santa Claus corruzione di Sanctus Nicholaus, S. Nicola di Bari, la cui festa, fin dal Medioevo, si celebrava il 6 dicembre ed era dedicata ai bambini. Chi, dunque, meglio di un Italiano del sud potrebbe interpretare la parte del santo pugliese?
PERCHÉ SI FA IL PRESEPIO?
Il presepio, come abbiamo detto, ha origini mediterranee e deriva dalle rappresentazioni liturgiche che, fin dal Medioevo, si facevano nella notte di Natale. Da esse S. Francesco trasse l'idea del suo presepio di Greccio, paese del Lazio presso cui il santo trascorse 12 notte di Natale del 1223. La sua diffusione fu opera dei francescani, dei domenicani e in seguito dei gesuiti, che vedevano nel presepio un mezzo di ammaestramento religioso.
Il più antico presepio conservato è il presepio di S. Maria Maggiore a Roma, opera di Arnolfo di Cambio. Nella seconda metà del '400 il presepio si diffuse soprattutto in Toscana: spesso le grandi figure in legno o in terracotta che ricostruivano l'evento della nascita di Gesù ed erano poste davanti ad un fondo dipinto, uscivano dalle mani di artisti famosi (ad es. Andrea della Robbia). Dalla Toscana il presepio si diffuse nel reame di Napoli, dove si sviluppò, moltiplicando le figure. La semplice stalla con i personaggi principali della sacra rappresentazione, fu sostituita da un monte e da una grotta con intorno il paesaggio e i personaggi più vari. Le figure si ridussero in dimensioni e le scene si moltiplicarono, accentuando il contrasto tra l'indifferenza del mondo circostante (pastori e pecore ai bivacchi, gente intenta alle proprie occupazioni etc.) e la nascita di Gesù, la cavalcata dei Magi, la cometa, i pastori che portano doni. Oggi il presepe, pur essendo spesso sostituito dall'albero di Natale, ha ancora una buona diffusione, soprattutto nel meridione. Ma forse presto scomparirà dalle case, completamente soppiantato dall'albero, e finirà per adornare un angolo delle chiese durante il Natale.
Con le sue luci, i colori, i regali appesi ai rami, l'albero di Natale esercita sui bambini una maggiore suggestione, accentuando i caratteri di festosità della celebrazione religiosa. Ai genitori, poi, fare l'albero costa minor fatica: tutto l'occorrente si può acquistare senza eccessiva spesa e, in definitiva, anche ad essi l'albero piace per la gioiosità e decorativa luminosità.
La progressiva scomparsa del presepio si compie, dunque, nello spirito dei tempi, in cui la fretta e le apparenze contano assai più della tradizione e dei contenuti.
Cosa occorre, infatti, per costruire un presepio? Appena qualche anno fa i ragazzi, iniziate le vacanze di Natale, prendevano d'assalto i boschi alla ricerca del muschio, costruivano impalcature e forme, plasmavano nella carta monti e vallate, modellavano con la latta fiumi e laghi, rispolveravano le statuine di legno o di terracotta, creavano scene di vita, bivacchi, fuochi, con la sabbia riproducevano le dune del deserto... Giorno dopo giorno penetravano nel mondo che le loro piccole mani stavano faticosamente costruendo, finché l'opera era compiuta. Ogni personaggio era al suo posto, pronto ad animare la scena, in attesa del grande momento: allo scoccare della mezzanotte tra il 24 e il 25 dicembre, ognuno assisteva alla nascita di Gesù. Ogni anno Gesù nasceva dalle mani dei bambini che deponevano il piccolo e roseo bambolotto di terracotta nella paglia dorata della mangiatoia.
In quel preciso istante il presepio si animava: si accendevano le luci della grotta o della capanna, i fuochi dei bivacchi nel deserto, la lampadina della cometa, nei laghi e nei fiumi cominciava a scorrere l'acqua, la neve prendeva a scendere dal cielo...
Fare il presepio, dunque, comportava una lunga serie di operazioni manuali che gli uomini di oggi (e di conseguenza i bambini) non vogliono più compiere. Come si ricorre, oggi, con tutta naturalezza ai prodotti fabbricati in serie, avendo dimenticato e perduto il gusto dell'oggetto fabbricato con le proprie mani e perciò irripetibile e del tutto personale, così si preferisce acquistare un piccolo abete (spesso fatto di carta, così si mantiene indefinitamente eliminando la spesa negli anni successivi) delle palle colorate e delle candeline elettriche e costruire un albero di Natale, piuttosto che condurre i nostri bambini nei boschi a coglier muschio e spingerli a mettere in azione la loro fantasia e la loro abilità manuale affinché fabbrichino, secondo i loro mezzi e le loro risorse, un presepio.
PERCHÉ SUI CROCEFISSI C'È LA SCRITTA INRI?
Secondo i Vangeli la scritta INRI, iniziali della frase latina «Jesus Nazarenus Rex Judaeorum», e cioè «Gesù Nazareno Re dei Gililei», fu fatta mettere da Pilato sulla croce di Cristo in tre lingue, ebraico, greco e latino, per dispregio e per scherno, volendo egli in questo modo dimostrare alle genti la follia del crocefisso nel dichiararsi «re», non tenendo in nessun conto l'autorità politica di Roma che allora dominava in Giudea. Le riproduzioni del Cristo crocefisso, che cominciarono a diffondersi, come oggetti d'arte e di culto, intorno al V secolo, presentavano la scritta che, se originariamente era stata un segno di dispregio, s'era mutata in un titolo di gloria. La consuetudine non è mai stata abbandonata ed ha raggiunto i nostri giorni.
PERCHÉ IL PAPA HA LE «GUARDIE SVIZZERE»?
Come si fa a prendere sul serio, all'epoca dei missili intercontinentali, un corpo militare di soldati armati d'alabarda? Si è portati a dar loro la stessa importanza che alle comparse di un film o ad una luccicante schiera di soldatini di piombo. Ci riesce difficile credere che si tratti di soldati veri, seriamente impegnati nello svolgimento delle loro funzioni. Si pensa che le guardie svizzere poste a presidiare la Città del Vaticano, con le loro sgargianti uniformi, non rappresentino altro che una «nota di colore», un diversivo all'austerità del luogo.
Un diversivo specialmente per i bambini, stanchi della solennità dei monumenti.
Ma si pensi un momento all'antica tradizione di questo corpo militare, alla sua originaria funzione la quale fu, a suo tempo, tutt'altro che decorativa. In più occasioni, infatti, le guardie svizzere hanno dato prova del loro valore: basti ricordare il sacco di Roma del 1527.
Uno tempo lo Stato della Chiesa non era limitato ad un fazzoletto di terra com'è oggi la Città del Vaticano. Specialmente nel corso del Medioevo, i Pontefici non disponevano soltanto dell'autorità spirituale, ma anche di una rilevante forza militare; potevano quindi compiere conquiste territoriali ed affermare la potenza anche terrena della Chiesa.
Il Pontefice che ha istituito il corpo delle guardie svizzere, Giulio II, è stato appunto uno dei più accesi fautori del potere temporale dei Papi, mostrando così di credere più nella forza delle armi che nella forza di persuasione della testimonianza evangelica.
Giulio II promosse la «lega santa» contro la Francia, che contrastava le mire espansionistiche della Chiesa. Ma questa lega antifrancese favorì il sorgere della potenza spagnola in Italia. Giulio II si trovò così a dover combattere contro gli Spagnoli, che pure avevano partecipato alla «lega santa». Ma prima di poter creare serie difficoltà agli ex-alleati, nel 1512 Giulio II morì.
Nell'Europa dei secoli XIV e XV i Pontefici, allo stesso modo dei sovrani laici, si servivano, per condurre le loro guerre, di truppe mercenarie, che combattevano in cambio di un congruo compenso. Intorno alla metà del XV secolo si erano ormai largamente diffuse le armi da fuoco, compresi i cannoni. Con l'introduzione delle nuove armi, i vecchi sistemi di combattimento avevano ormai perduta la loro efficacia; si dovettero così elaborare delle nuove tattiche, in cui si distinsero i Tedeschi, gli Spagnoli e specialmente gli Svizzeri, che fornivano un'ottima fanteria. La cavalleria era ormai decaduta in seguito all'impiego delle nuove armi. La fanteria acquistò così tutta l'importanza che ha poi costantemente conservato fino all'avvento dell'era atomica. Non a caso dunque Giulio II, che di cose militari se ne intendeva, rafforzò le sue truppe assoldando i fanti svizzeri.
Nel 1506, pensò bene di creare un corpo particolare di guardie addette alla sua difesa, tutti elementi di prim'ordine, su cui poter fare pieno affidamento. Pare che per fornir loro una uniforme che non ammettesse paragoni di sorta, Giulio II abbia scomodato addirittura Michelangelo. Per la verità, il modello tuttora in uso non è indegno di quel sommo artista.
Nonostante le alterne vicende attraversate dalla Chiesa, a nessun Papa sono mai toccati dei dispiaceri per colpa delle guardie svizzere.
Già da un pezzo la Chiesa ha rinunciato alla sua politica di potenza e non ha più nessun esercito: anche se l'avesse, non avrebbe lo spazio dove alloggiarlo, data l'esiguità del territorio a sua disposizione. Le guardie svizzere non sono molte: 136, per l'esattezza, compresi gli ufficiali e i sottufficiali. Potrebbero anche essere meno è vero, od essere abolite del tutto, senza nessuna grave conseguenza.
Ma tant'è: la Chiesa è un'istituzione gelosa delle proprie tradizioni; prima di rinunciarvi ci ripensa non due, ma venti volte. In fondo, quella delle guardie svizzere non è una tradizione che dia noia a qualcuno. Anzi, a molti fa piacere vedere al vivo, in piazza S. Pietro, dei personaggi che altrimenti, relegati nei libri di storia, subirebbero una secca perdita di fascino.
PERCHÉ SI FANNO LE OLIMPIADI?
Le Olimpiadi, le gare sportive che ogni quattro anni vedono scendere in lizza gli atleti di tutto il mondo, derivano il loro nome dal santuario di Olimpia nell'Elide, luogo in cui i Greci, ogni quattro anni celebravano la feste olimpiche. Si fa risalire la prima Olimpiade al 776 a.C., anno col quale ha inizio la lista dei vincitori delle gare, redatta da Ippia di Elide nel V secolo a.C.; le feste olimpiche continuarono a celebrarsi fino al 393 d.C., quando furono proibite dall'imperatore Teodosio.
La festa olimpica è comunque la più antica ed importante delle quattro feste nazionali celebrate nell'antica Grecia (le altre erano le feste istmie, quelle nemee e quelle pitiche).
Poiché la zona del santuario di Olimpia era considerata dai greci sacra e quindi chiusa agli eserciti, nel mese in cui si svolgevano i giochi i messaggeri sacri bandivano la tregua d'armi ed invitavano tutte le genti greche a partecipare alla festa ed alle gare.
Queste si svolgevano in cinque giorni. Il primo giorno era riservato ai riti religiosi ed all'esame dei fanciulli e dei puledri che avevano gare a loro riservate, gare che si svolgevano poi il secondo giorno. Il terzo giorno era riservato alle gare degli adulti: corsa, lotta, pugilato e pancrazio (insieme di lotta e di pugilato). Il quarto alle gare dei cavalli e dei carri, al pentatlon ed all'oplitodromia, alla corsa degli opliti, cioè, degli uomini che, in pieno assetto di guerra, dovevano compiere di corsa quattro giri di stadio. Il quinto, infine, era il giorno dedicato alla proclamazione dei vincitori.
Le Olimpiadi nell'antichità avevano lo scopo di riunire, ogni quattro anni, le genti greche che, sia per la vastità dei territori occupati (Peloponneso, Grecia continentale, Colonie orientali ed occidentali), sia per la particolare organizzazione politica che d'ogni città faceva un piccolo stato autonomo, non avrebbero avuto altrimenti che scarse possibilità di incontrarsi.
Sugli aspetti religiosi ha prevalso, nella concezione moderna, il contenuto sociale delle manifestazioni olimpiche, la considerazione, cioè, che esse costituissero un potente mezzo d'unione tra le popolazioni elleniche.
Questo spirito animò, nel secolo scorso, molti romantici che tentarono più volte di ripristinare le manifestazioni, allargando la possibilità di partecipazione a tutte le nazioni del mondo.
I primi tentativi risalgono addirittura al 1859 e, considerando obiettivamente le condizioni storiche del mondo in quei tempi, non ci stupiamo se fallirono: imperialismo e colonialismo, infatti, non potevano costituirne le giuste premesse.
Spetta al francese Pierre de Coubertin il merito di aver ripristinato la tradizione dei Giochi Olimpici; nel 1894 in un congresso internazionale di organizzazioni sportive riuscì a far approvare all'unanimità il ristabilimento delle Olimpiadi e la costituzione del primo Comitato Internazionale Olimpico.
Due anni dopo, il 25 Marzo 1896, ad Atene, ebbe luogo la prima delle Olimpiadi moderne, il cui ciclo prevedeva l'avvicendamento, ogni quattro anni, della sede.
La tradizione dei giochi olimpici sembra essersi affermata decisamente, anche se spesso si manifestano perplessità ed incertezze, legate alle condizioni storiche dei tempi.
Il vessillo delle olimpiadi è costituito da cinque cerchi intrecciati tra loro e vuole esprimere l'unione e l'abbraccio fraterno dei cinque continenti. Lo spirito della manifestazione non potrebbe essere più lodevole e più giusto!
Purtroppo è inevitabile che le condizioni storiche, politiche e sociali, intervengano nella manifestazione e rendano a volte precarie le premesse di fraternità.
Accade così che la gara tra atleti appartenenti a nazioni in competizione tra loro sul piano politico, finisce per esacerbare la rivalità tra le rispettive fazioni, anche se non necessariamente quella fra gli atleti, e conduce parte della massa a rispolverare antiquati principi nazionalistici, in netta contraddizione con lo spirito delle Olimpiadi.
Non è stato facile, in passato, e diventa sempre più difficile scindere la manifestazione olimpica dalle condizioni storiche del mondo. Come è possibile unire gli uomini e affratellarli tramite lo sport quando realmente non sono uniti sul piano delle concezioni di vita, delle condizioni sociali e, soprattutto, sono divisi dalla diversità di razza?
Nella antica Grecia, le Olimpiadi costituivano, come abbiamo detto, l'affermazione del Pan-ellenismo. Oggi invece sembra purtroppo ben più difficile trovare altri motivi d'intesa, oltre allo sport puro e semplice.
La prova di ciò sta nello sforzo, tanto lodevole quanto spesso inefficace, compiuto dagli organizzatori per far convivere, solo per la durata dei giochi, amici e nemici.
Lo stesso comitato olimpico riconosce, codificandole, certe premesse: sulla base dell'articolo n. 1 della carta olimpica, ad esempio, si vieta la partecipazione ai Giochi alle nazioni che legalizzano la discriminazione razziale.
Fin dalle Olimpiadi di Tokio, questo articolo ha colpito il Sud Africa, ma non ha potuto evitare che atleti negri (in particolare i velocisti americani Carlos e Smith) esprimessero la loro protesta verso il proprio paese che, pur non legalizzandola, pratica la discriminazione razziale. E così non si è potuto evitare, nonostante lo spirito olimpico, che alcuni atleti cecoslovacchi, per protesta contro l'invasione, abbiano girato la testa dall'altra parte nell'udire le note dell'inno nazionale russo.
Benché non si possa evitare, dunque, che le vicende storiche interferiscano e spesso rendano inefficace il principio che anima le Olimpiadi, queste restano la più grande ed entusiasmante manifestazione del mondo.
Inaugurazione dei Giochi Olimpici di Barcellona '92
PERCHÉ CI SONO I CARTELLI STRADALI?
I cartelli stradali sono un esempio di informazione codificata mediante rappresentazioni La «teoria dell'informazione», nata in tempi relativamente recenti, studia non solo il rendimento dei vari sistemi di comunicazione ma anche le modalità di trasmissione di un determinato messaggio in relazione alla sua efficacia.
I segnali stradali, che agevolano e regolano la circolazione, sono dunque delle informazioni espresse mediante simboli, figure stilizzate che costituiscono un sistema di comunicazione efficace e immediato.
Soprattutto l'immediata acquisizione dell'informazione da parte degli utenti della strada è d'importanza fondamentale: chi guida dev'essere messo in condizione di apprendere un'informazione, un obbligo, un divieto e così via, nel più breve tempo possibile, sia perché una lettura troppo lunga lo distrarrebbe dalla guida, sia perché l'operazione indicata dal cartello possa essere effettuata per tempo.
Facciamo un esempio. Un automobilista è in procinto di svoltare a destra e la sua auto procede ad una certa velocità. È vietato svoltare a destra, e se l'informazione fosse trasmessa mediante il sistema più ovvio, cioè con la scrittura, l'automobilista supererebbe il cartello prima di aver letto l'intera frase: «divieto di svolta a destra». Ed ecco che le cinque parole vengono sostituite da un disco bianco bordato in rosso con una freccia ad angolo nera, sbarrata da una striscia rossa. L'automobilista, a cui basta un semplice colpo d'occhio per scorgere il cartello, assume l'informazione immediatamente e si comporta di conseguenza.
Il cartello stradale è, dunque, una splendida trovata; ma il principio seguito nella trasmissione dell'informazione non è certo un'invenzione recente. È lo stesso principio seguito migliaia di anni fa nelle primitive forme di scrittura. La scrittura ideografica, infatti, non utilizza lettere ma ideogrammi, simboli che esprimono un intero concetto. Se la parola «casa» per noi è composta da quattro lettere, nella scrittura ideografica essa veniva rappresentata da un disegno schematico che raffigurava una casa.
La scrittura ideografica fu sostituita dalla scrittura alfabetica poiché mal si prestava ad interpretare idee e concetti complessi. La prova di ciò sta nel fatto che la scrittura cinese, una delle pochissime scritture ideografiche sopravvissute, contempla ben 50.000 ideogrammi, contro le 21 lettere del nostro alfabeto.
La validità del sistema ideografico, comunque, resta, per quanto riguarda la trasmissione di un messaggio semplice, in virtù della rapidità di acquisizione da parte di chi riceve il messaggio. Una prova di ciò sta, infatti, nell'efficacia dei segnali stradali, i quali utilizzando semplici simboli e addirittura forme e colori particolari, punteggiano i bordi della strada, indicando il complesso di regole poste a garanzia d'una fluida e scorrevole circolazione.
Segnali di pericolo
Segnali di divieto
Modello tridimensionale di segnale stradale di limite di velocità
Modello tridimensionale di segnale stradale di stop
PERCHÉ CI SONO LE BANCHE?
Non si usa più mettere i soldi sotto un mattone o cucirli in un materasso. Ci si è da tempo accorti che la ricchezza non consiste nella semplice accumulazione di monete: a che vale custodire un tesoro, se poi si conduce una vita grama? A nessuno fa gola una forma di ricchezza come quella del Re Mida, il quale giunse a tramutare in oro tutto quello con cui veniva a contatto e quindi anche gli alimenti: finì così per essere un ricchissimo... «morto di fame»!
Non è che il culto della ricchezza oggi non esista (anzi!), ma le forme sono cambiate.
Ci appaiono sempre più lontani i tempi in cui la ricchezza di una nazione veniva identificata con le monete in suo possesso.
Tale errata convinzione comportava la tendenza ad esportare senza importare. Ovviamente, alla lunga, ne derivavano effetti quanto mai controproducenti.
Oggi si è per lo più abbandonato il principio che si debba mirare all'accumulo di monete anziché al godimento delle ricchezze naturali. Si è capito, in definitiva, che non basta raggranellare il gruzzolo: bisogna anche impiegarlo convenientemente. È ormai ampiamente accettato il concetto che un Paese debba essere ritenuto ricco quando la produzione è alta e la circolazione dei prodotti è intensa.
Analogamente, il privato cittadino non risparmia certo per poter rimirare un mare di monete luccicanti, alla maniera dello Zio Paperone. Preferisce affidare i suoi risparmi ad una banca, dove la moneta non resta ad ammuffire in fondo ai forzieri, ma viene reinvestita nella produzione. Difatti le banche raccolgono il risparmio monetario e lo concedono in prestito a chi è in grado di reinvestirlo proficuamente. La banca paga al depositante un interesse in proporzione alla somma depositata. Le società, le ditte o i singoli individui che poi usufruiscono di un prestito da parte della banca, devono a loro volta pagare gli interessi a quest'ultima.
Si dicono «operazioni di banca» quelle per cui le banche raccolgono i risparmi (provvedendosi così dei fondi da reinvestire) e quelle mercé le quali reinvestono o impiegano i risparmi raccolti. Le banche hanno dunque, tra l'altro, una funzione mediatrice del credito.
Fondamentale è poi anche un'altra funzione, cioè l'emissione di biglietti. A ciò provvedono delle banche particolari, che a volte non sono più di una per ciascun Paese; vengono dette «banche centrali» o banche delle banche.
A garantire il valore della carta-moneta, vi sono apposite riserve in oro o in monete pregiate, come il dollaro, la cui consistenza è assicurata dal forte potere produttivo degli U.S.A.
Sempre più si tende a dare un'importanza secondaria alle riserve auree, basando il reale valore dei biglietti di banca sul più o meno elevato livello produttivo del Paese che li ha emessi. L'attività bancaria, dopo aver conosciuto una notevole fioritura nell'antichità classica, si arrestò durante il Medioevo, in seguito al ristagno degli scambi commerciali ed anche, quindi, della circolazione monetaria.
Alla fine del Medioevo, in seguito alle grandi scoperte geografiche ed all'ampliamento degli scambi e dei mercati, si diffusero in tutta l'Europa occidentale i prestatori di denaro di professione, tra cui primeggiavano gli Ebrei, i Caorsini (che prendevano il nome dalla città francese di Cahors) e gli Italiani.
In un primo tempo lo Chiesa cattolica condannò gli usurai (così venivano allora chiamati coloro che pretendevano un interesse in corrispettivo del denaro prestato). Sembrava contro natura il principio che «i soldi fan soldi». Ma in seguito alla Riforma protestante, tale principio venne sempre più diffondendosi ed infine fu accettato in tutta Europa. Addirittura, per i Protestanti, la ricchezza, anche se ottenuta con l'«usura», era da considerarsi un segno del favore divino: principio pericoloso perché spesso veniva male interpretato, fino al punto di conferire al denaro una sorta d'alone religioso.
Tali errate interpretazioni si sono purtroppo generalizzate e se ne conservano ancor oggi le tracce nella mentalità di chi vede nel denaro un valore assoluto.
È diffusa l'idea che il successo debba per forza coincidere con un alto reddito. Si confondono a volte le risorse spirituali di una persona con le sue risorse economiche, considerando le prime assai meno desiderabili delle seconde.
È abbastanza logico che, nella stessa proporzione in cui si diffondono simili criteri, aumentino anche i tentativi di far soldi senza andare troppo per il sottile.
Perché le rapine alle banche diminuiscano, non basta intensificare la vigilanza e confidare nell'azione repressiva d'una polizia sempre più agguerrita: sarà meglio, anzitutto, che la società adotti una scala dei valori in cui l'onestà venga prima della ricchezza (ma non solo a parole, come avviene adesso!).
PERCHÉ CI SONO LEGGI E TRIBUNALI?
Si può ben dire che lo uomo, fin dal giorno in cui ha popolato la Terra, ha sentito la necessità di darsi una legge. Fin da quei tempi remoti i germi di quello che sarà il futuro Diritto si esprimono attraverso l'insieme di regole magico-religiose, di tabù e di pratiche cultuali che informano quotidianamente la vita dello uomo primitivo. Questo insieme di norme disciplina dapprima l'esistenza e le azioni dei singoli, quindi quelle dei clan, delle tribù, dei popoli. A questo livello la legge è un'espressione «divina», insita nella natura stessa delle cose, nell'imprescindibilità dei fenomeni naturali: essa è il volto stesso della divinità e, nello stesso tempo, una spiegazione, la spiegazione trascendente dell'esistenza dell'uomo.
L'uomo primitivo si sottomette spontaneamente alla legge ch'egli stesso ha tratto dall'universo e la tramanda in forma di proverbio, di massima, di pratica magica e cultuale.
A poco a poco, pervenendo ad una sempre più complessa organizzazione sociale, l'insieme delle leggi antiche, legate ai rapporti dell'uomo con il mondo e la divinità, diventa patrimonio della classe sacerdotale, mentre nasce un nuovo tipo di legge, redatta, imposta ed applicata dalla classe al potere. Per molto tempo leggi religiose e leggi sociali si confondono ed attingono l'autorità necessaria sempre dalle stesse premesse religiose. Poi gli organi detentori del potere prendono il sopravvento e contrappongono a queste forme antiche di diritto popolare, un nuovo sistema normativo che a volte integra o tollera il diritto popolare, a volte lo esclude.
Superata dunque la fase primordiale, a mano a mano che nelle comunità umane si vanno delineando organi produttori di regole di condotta e i soggetti destinatari di queste, s'inizia la fase storica del Diritto. Se la norma era un tempo tramandata oralmente, ora è scritta (legislazione); dagli organi produttori di norme si vanno distinguendo gli organi preposti all'applicazione della legge e nasce così prima la coscienza poi la scienza del diritto.
Da una parte, dunque, la legge come espressione della classe al potere, dall'altra una moltitudine che vi si assoggetta spontaneamente: questo rapporto di dipendenza sta alla base dell'organizzazione sociale che l'uomo ha scelto per sé e che la storia ha poi pensato di imporgli nel tempo, in un processo irreversibile. Gli uomini, cioè, hanno dapprima creato la legge per dare un senso alla propria esistenza, per delimitare i confini della propria realtà, per stabilire normativamente i rapporti tra individuo e mondo circostante, e superare così la primordiale condizione di caos. Quindi, dopo averla creata, vi si sono assoggettati, e la legge ha finito per sfuggire al controllo del singolo per diventare una leva di potere, il mezzo per mantenere determinate strutture sociali e politiche, per garantire stabilmente il funzionamento della società. Il Diritto diviene così oggetto di speculazione filosofica, nel tentativo di tradurlo in concetto, per conoscerlo nei suoi aspetti universali e costanti: le varie concezioni che i filosofi elaborano finiscono per rafforzare la legge e per definirla come l'unica garanzia di libertà per gli individui. Quest'idea che la legge, cioè, sia l'espressione della limitazione della libertà individuale per l'affermazione della volontà generale è giunta ai nostri giorni, rafforzata dalle concezioni idealistiche secondo cui ad un diritto concepito nella sua essenza immutabile si contrappone il diritto che si fa e diviene nella storia.
Questo processo perfettivo della legge, che ha ormai sanzionato definitivamente l'abbandono da parte del singolo della cosiddetta «legge naturale», tende ad infittire il numero delle norme ed a creare un'impalcatura sociale sempre più perfetta. L'uomo, di conseguenza, vede limitare sempre più il campo in cui possa esercitare la sua libertà, vede l'orizzonte che delimita la propria realtà umana stringersi fino a soffocarlo, vede scemare paurosamente il numero delle proprie possibilità di scelta. Alla ragione, nei rapporti sociali, si è ormai sostituito il diritto. Più passa il tempo, dunque, più l'uomo si troverà in condizione d'infrangere la legge, poiché ogni sua azione finirà per essere minuziosamente codificata. Tutto lavoro in più per i tribunali! Che cosa sono i tribunali? Sono i luoghi dove viene amministrata la giustizia, dove i giudici esercitano il loro ufficio, applicando la legge nei confronti degli uomini che l'hanno infranta. Il giudice appartiene alla Magistratura, l'insieme degli organi che esercitano la funzione giurisdizionale e che in parecchi casi gode di una particolare indipendenza, svolgendo le proprie funzioni autonomamente, senza l'intervento di altri poteri.
Questa indipendenza di esprime nella proposizione: il giudice è soggetto soltanto alla legge. Egli deve applicare la legge al caso concreto (applicando secondo i casi il Codice Civile, il Codice Penale e i rispettivi Codici di procedura) ed è assolutamente libero nella ricerca del senso della norma e nell'applicazione di questo significato al caso in esame: nessuno può ordinargli di decidere una controversia in senso diverso da quello che gli è imposto dalla Legge e dalla sua coscienza.
PERCHÉ CI SONO LE CARCERI?
Un uomo che infrange la legge viene processato in tribunale e, se riconosciuto colpevole, condannato a scontare una determinata pena. Oggi, per le colpe più gravi il condannato viene privato della libertà e recluso in opportuni «stabilimenti» o «bagni» penali, da cui potrà uscire solo dopo aver scontato la pena prevista dalla sentenza emessa dal giudice; potrà uscire prima solo se «graziato» o «amnistiato», con provvedimento da parte del presidente della Repubblica, del Capo del Governo, del Governatore di uno Stato e così via, a seconda dei Paesi e della loro organizzazione politica.
Solo in tempi relativamente recenti la privazione della libertà è considerata una pena. Nelle legislazioni antiche è raro incontrare il carcere nel significato moderno del termine. Il carcere era solo il luogo in cui veniva posto il condannato in attesa dell'esecuzione della sentenza, la quale aveva sancito pene pecuniarie, corporali o capitali. I condannati, non appena subita la pena, erano liberi, in questo mondo o nell'altro. Rare nell'antichità furono dunque le pene detentive, meno rare le condanne ai lavori forzati, previste od applicate soprattutto verso coloro che, accusati per non aver pagato i debiti, venivano processati e condannati ad assolvere i loro impegni, spesso assunti verso lo Stato, lavorando forzatamente. Questa particolare procedura giudiziaria cominciò ad affermarsi nell'antica Roma, in una società, cioè, in cui la ricchezza aveva assunto ormai il significato di potere. Il lavoro forzato, comunque, si può considerare la prima forma di privazione della libertà anche se chi l'applicava allora non lo vedeva sotto questa luce ma, piuttosto, dal punto di vista dell'utilità. Il motivo di questo atteggiamento degli antichi di fronte alla privazione della libertà era dettato più dallo scarso interesse, dal fatto, cioè, che non era neppur lontanamente considerata la possibile efficacia di una pena siffatta, che non dal rispetto per la dignità umana. Infatti, se era normale privare un uomo della libertà per renderlo schiavo, era del tutto inconcepibile rinchiuderlo in un carcere. Nel primo caso sarebbe servito a qualcosa, nel secondo sarebbe stata una bocca inutile da sfamare. Perciò si preferiva punire i rei, colpendoli in tutto ciò che poteva procurare dolore, pensando al dolore come mezzo di pentimento, di redenzione. Li si costringeva perciò ad aprire i cordoni della borsa o s'infliggevano pene corporali dure a sopportare e spesso assai crudeli, come la mutilazione o l'accecamento.
Fino agli inizi del XVI secolo si ebbero pochi esempi di condannati ai lavori forzati: pochi uomini liberi furono costretti a lavorare nelle miniere di Sicilia e di Spagna o a vogare sulle triremi romane. Anche dopo il Mille, quando comparve nelle acque del Mediterraneo la galea, questa magnifica regina delle navi, la ciurma era composta di uomini liberi (a parte qualche prigioniero saraceno), reclutati nel paese di provenienza della flotta, che combattevano per un sentimento d'onore e per una giusta causa, regolarmente pagati dalla Repubblica, dal Principe o dal privato padrone della nave. È interessante, tra l'altro, ricordate un fatto, inconcepibile per la mente moderna: spesso una flotta era licenziata, anche se le condizioni politiche lo sconsigliavano, solo perché era necessaria la presenza in terra dei marinai e dei rematori per il raccolto.
Dobbiamo giungere alla battaglia di Capo d'Orso (22 aprile 1528) per trovare i primi colpevoli per reati comuni condannati a vogare forzatamente, in catene, sulle galee di Filippino D'Oria.
Da allora la consuetudine si diffuse e finì per mutare l'aspetto della galea e per disonorarne il nome: galea o galera divenne allora sinonimo di luogo miserando ed avvilente, di miseria morale, di degradazione, di fatica, di dolore e di sofferenze indicibili. E se il termine «galeotto» è quasi del tutto scomparso dalla terminologia popolare, il termine «galera», come tutti sanno, è ancora ampiamente usato.
Al galeotto seguì un'altra triste figura, quella del deportato, dell'uomo che, per reati a volte insignificanti, veniva condannato a salpare per i campi di lavoro nelle colonie, in terre spesso inospitali, selvagge, dal clima micidiale, da cui raramente faceva ritorno: se non moriva, infatti, era, per così dire, costretto a restare, anche dopo aver scontato la pena, per contribuire alla civilizzazione delle colonie. È interessante ricordare che l'attuale popolazione bianca dell'Australia, deriva in gran parte da antichi nuclei di deportati inglesi che, scontata la pena, rimasero, e in quelle terre iniziarono una nuova vita. Per molto tempo, dunque, la condanna e la pena di un uomo che ha infranto la legge, non ha mai perso di vista il fine utilitaristico. Verso la fine del '700 e soprattutto nel secolo scorso le condizioni davvero miserande dei «forzati» hanno richiamato l'attenzione dei benpensanti sul problema delle pene, e a poco a poco si è giunti non solo a rendere più umane e accettabili le loro condizioni ma si è anche provveduto a modificare gli inadeguati ordinamenti giudiziari.
In molti Paesi si giunse addirittura all'abolizione della pena di morte; in Italia, prima dell'unificazione, tutti gli Stati avevano la pena di morte eccetto la Toscana. Nel 1889 la pena di morte fu abolita in tutto il Regno. Ristabilita dal fascismo, è stata di nuovo definitivamente soppressa nel 1944 e sostituita con l'ergastolo, la condanna al carcere a vita.
Oggi, nei paesi socialmente più evoluti, le «pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27 della Costituzione Italiana). Da ciò si deduce che, nonostante l' «umanità» delle condanne, è irriducibile e addirittura scontata la necessità della pena. Sul piano teorico non si pensa neppur lontanamente che il rapporto colpa-pena sia da mettere in dubbio. Nessuno riesce ad affermare che la pena per una colpa commessa non abbia alcuna utilità sociale. La concezione non solo della pena come mezzo di rieducazione ma anche, addirittura, come la necessaria forma di pagamento per un delitto compiuto, è irriducibilmente radicata nella nostra mente, consacrata dalla tradizione imposta dall'organizzazione sociale che gli uomini si sono dati.
Le regole del gioco impongono all'uomo di vivere nella paura: da una parte le leggi, dall'altra il carcere. Nella maggior parte dei casi non si infrange la legge per paura del carcere. Perché, poi, l'uomo si trova spesso, durante la vita, in condizioni di infrangere la legge? Non sarebbe più giusto indirizzare i nostri sforzi, più che al perfezionamento continuo ed incessante dell'ordinamento giuridico, più che alla ricerca del giusto equilibrio tra colpa commessa e pena ricevuta alla realizzazione di uno stato in cui l'uomo non si trovi in condizione di commettere delitti? Utopia, si dirà, ma resta comunque il fatto che la privazione della libertà, più che mezzo di redenzione, ha in sé il germe dell'abbruttimento. Il carcere separa l'individuo dal mondo, lo costringe ad abbandonare interessi ed affetti, lo relega ai margini della vita. Oltre alla libertà, bene assai prezioso che permette di conservare intatta la propria dignità, il carcerato perde anche la possibilità di realizzare se stesso come uomo. Non solo l'anima è frustrata per una limitazione tanto grande, ma anche il corpo soffre per la mancanza di spazio, per la solitudine, spesso per la mancanza d'igiene.
È vero, sì, che un delitto, spesso grave, è stato commesso! Ma è proprio giusto, in fondo, che la società si vendichi? Non esiste proprio nessuna altra possibilità di riscatto per il disgraziato che, spinto da chissà quanti e quali motivi (motivi determinati il più delle volte dalle manchevolezze della stessa società) ha commesso il delitto? Per quanto riguarda il condannato all'ergastolo, poi, com'è possibile parlare di rieducazione? A che scopo, se è costretto a trascorrere in carcere il resto della sua vita?
A tutti questi interrogativi, ed ai problemi ad essi collegati, dovranno rispondere più consapevolmente le future generazioni, mentre, fin d'ora, speriamo che ai tardivi ed inadeguati sistemi di rieducazione si contrapponga una sana educazione umanistica e sociale, che costituisca i presupposti adatti a prevenire il delitto stesso.
PERCHÉ LE DONNE PORTANO GLI ORECCHINI?
Ci sono donne che sono disposte a soffrire, pur di essere più seducenti. Sappiamo che talune si sottopongono a cure di bellezza massacranti, a sacrifici che, rispetto ai risultati, appaiono quasi sempre sproporzionati. Ce ne sono di quelle che, pur di conservare la linea, rischiano di morire di fame!
Tutte queste esagerate preoccupazioni che le donne mostrano per il loro fascino, non sono però necessariamente legate alla particolare vanità della natura femminile. Al contrario, si tratta per lo più di condizionamenti imposti dall'educazione.
Non sono lontani i tempi in cui si riteneva necessario forare i lobi delle orecchie con uno spillo rovente a tutte le bambine, in vista del loro futuro fascino. Avveniva così che delle bambine di pochi mesi, ignare di qualunque forma di vanità, dovessero nondimeno subire una tortura a scopo estetico.
Magari non ci si curava affatto che una bambina venisse allevata e curata secondo criteri aggiornati; era diffusa la tendenza a diffidare della medicina, specialmente in materia di vaccinazioni e di iniezioni: gli aghi delle siringhe suscitavano timore e sospetto. Ma restava fuori discussione l'importanza del foro del lobo dell'orecchio! Non ci si curava che una bambina ricevesse una istruzione. Si pensava che studiare fosse importante soprattutto per i maschi, mentre per una femmina contava soprattutto che imparasse a cucinare e rassettare. Non ci si curava d'indurla a sviluppare le sue attitudini e le sue doti d'intelligenza; la si educava piuttosto alla sottomissione, anziché all'indipendenza di giudizio e di scelta. Lei non doveva scegliere: doveva solo aspettare; aspettare cosa? Un marito, naturalmente. Doveva perciò piacere: piacere innanzitutto. E doveva ben amministrare il suo fascino, in modo da accalappiare un «buon partito», con una solida posizione... e via dicendo.
Non ci si meravigli dunque se, con questi presupposti, le donne finissero poi per affidarsi innanzitutto al loro potere di seduzione, lasciando in secondo piano ogni altro mezzo di affermazione.
Naturalmente ci sono sempre state le eccezioni: non sono mai mancate infatti le donne irrimediabilmente brutte, destinate a rassegnarsi; né le donne con aspirazioni che vanno ben oltre la semplice vanità; né è mancata, infine, una certa evoluzione dei costumi: il mondo cammina sempre più rapidamente!
Un fattore che ha il suo peso è quello della moderna produzione industriale. Gli ornamenti, come ogni altro articolo, vengono immessi sul mercato a getto continuo. Da nuovi, anche gli orecchini più modesti fanno la loro figura.
Nella stragrande maggioranza, si tratta di orecchini da fissarsi all'orecchio con scatto a molla: non c'è quindi bisogno di foro. Perderli, non è una tragedia, dato che non è un problema sostituirli. Li si sostituisce in ogni caso non appena divenuti opachi o fuori moda. È un'epoca di rapido consumo, la nostra.
La pratica di forare i lobi non sopravvive che sporadicamente; gli orecchini ereditati insieme ai gioielli di famiglia non sono che un caro ricordo; anche se sono preziosi ed hanno i pregi di accuratezza propri delle antiche lavorazioni artigianali, non si intonano all'attuale genere di abbigliamento: meglio, dunque, lasciarli nel loro astuccio e ricorrere ai moderni orecchini, che non sono impegnativi e che, del resto, finché luccicano, non sono niente male: così il fascino è salvo!
PERCHÉ SI ADOTTA IL COGNOME DEL PADRE?
Secondo l'ordinamento vigente in gran parte del mondo occidentale, ogni individuo, nascendo, acquista automaticamente lo stesso cognome del padre.
Ma femmine conservano il loro cognome solo fino al momento del matrimonio, dopodichè acquistano quello del marito.
Come il padre esercita sui figli la patria potestà, così il marito esercita sulla moglie la cosiddetta potestà maritale, in base alla quale l'uomo è il capo della famiglia e la donna è obbligata a seguirlo ovunque egli creda opportuno fissare la sua residenza.
C'è da credere che le donne debbano essere soggette alla tutela del padre prima ed a quella del marito poi, come se fossero delle eterne minorenni.
I nostri costumi sociali risentono ancora della loro origine patriarcale. Nell'epoca d'oro del patriarcato, l'attività produttiva si svolgeva all'interno della famiglia ed il patriarca, ossia il capofamiglia, esercitava la sua autorità in tutti i campi della vita quotidiana. La famiglia non costituiva soltanto un nucleo di affetti, ma anche un gruppo lavorativo. In una antica famiglia di contadini, occorrevano molte braccia, per strappare alla terra il maggior numero di frutti. Non erano conosciute le moderne tecniche agricole e non esistevano macchine in grado di sostituire la pura fatica muscolare. Non si trattava certo di un genere di lavoro adatto alle donne, le quali si limitavano a svolgere mansioni secondarie.
Accudivano soprattutto alla casa ed erano impegnate a fare un figlio dopo l'altro, potenziando così la famiglia come gruppo lavorativo.
Dovendo allevare una gran quantità di figli, le donne erano ineluttabilmente legate al focolare domestico. Avevano contatti col mondo esterno e con la comunità solo attraverso i loro uomini.
Neanche gli uomini, d'altronde, si allontanavano molto da casa, dato che la loro attività si svolgeva per lo più nell'ambito domestico.
Si pensi ai tradizionali sistemi produttivi dell'artigianato, che facevano perno sull'azienda familiare. I «segreti del mestiere» venivano trasmessi di padre in figlio: l'autorità paterna non costituiva solo una questione di principio, ma si fondava sulla considerazione dovuta a chi ha dell'esperienza (non un'esperienza genericamente intesa, ma l'esperienza in un determinato mestiere). Era facile, per il capofamiglia, sulla base del rispetto ottenuto grazie alla padronanza del mestiere, allargare la sua autorità anche ad altre sfere dell'esistenza, fino a predisporre secondo i suoi disegni la vita dei figli e, soprattutto, delle figlie.
Le donne, dicevamo, occupate com'erano ad assicurare l'apporto di nuove braccia atte a mandare avanti l'azienda familiare, restavano escluse dalle attività lavorative più importanti. Di conseguenza, venivano relegate in una posizione d'inferiorità. Venivano anche escluse dall'eredità patrimoniale, eccezion fatta per la dote, che, al momento di sposarsi, veniva loro concessa dal padre. Del resto, non potevano godersi neppure quella, perché era il marito a disporne liberamente.
Allo stesso modo in cui la proprietà veniva trasmessa in linea maschile, così veniva trasmesso di maschio in maschio anche il nome di famiglia.
I capifamiglia, nel trasmettere ai loro discendenti sia il nome che il patrimonio, volevano essere ben certi che si trattasse di figli legittimi: non volevano correre il rischio di non essere i veri padri dei figli concepiti dalle loro mogli. Custodivano quindi gelosamente le consorti, ne limitavano la libertà di movimento, vigilando costantemente sulla loro fedeltà.
Le donne non godevano della considerazione di cui godono nella società moderna. Si pensava che fossero creature deboli ed indifese, alla mercé del primo malintenzionato.
Anche chi non aveva nessun patrimonio da trasmettere ai propri figli, vigilava ugualmente sulla propria moglie, in modo da lasciare ai discendenti, se non altro, almeno un «nome onorato»! Oggi si è ormai affermata la tendenza a trasmettere il patrimonio familiare sia alle donne che agli uomini, ma la trasmissione del cognome resta, di massima, prerogativa maschile.
È qui il caso di riferire una singolarissima eccezione, che s'è verificata all'inizio del nostro secolo.
Nel 1902, una ragazza sedicenne, Bertha Krupp, rimase unica erede dell'impero industriale dei Krupp, i famosi fabbricanti d'armi che hanno fornito i cannoni per tutte le guerre condotte dalla Germania nel corso di un secolo.
Quando Bertha divenne proprietaria della Krupp, il Kaiser pensò che per mandare avanti l'industria bellica, occorresse mettere al fianco della ragazza un marito che fosse all'altezza della situazione. Trovò la persona adatta in un diplomatico che si chiamava Gustav von Bohlen und Halbach.
Il Kaiser si recò di persona al matrimonio e consegnò agli sposi un lunghissimo papiro in cui la Corona decretava che, data la speciale posizione della casa Krupp, non era la sposa a prendere il cognome dello sposo, ma lo sposo a prendere quello della sposa. Così l'ex-diplomatico divenne Gustav Krupp.
Nel nostro mondo in rapida trasformazione, molte cose si stanno evolvendo verso forme più aperte, ma non si prevede che i mariti possano un giorno adottare, per legge, il nome della sposa. La tendenza attuale è che le donne conservino il loro cognome, abbinandolo a quello del marito. Non sono più tanto rare le professioniste che hanno due cognomi ed i cui figli, all'atto della nascita, assumono sia il cognome del padre che quello della madre.
I mutamenti intervenuti nelle nostre usanze, sono da mettersi in relazione con l'espansione industriale e con lo spostamento dei centri produttivi dalle aziende familiari ai grandi stabilimenti moderni. Nell'ambito domestico, non esiste più il fervore di attività di un tempo. Sia il capofamiglia che gli altri membri trascorrono gran parte della loro giornata lontano da casa, nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole. Non si può pretendere che una donna resti confinata tra le mura domestiche, a rassettare e a cucinare, in attesa che gli uomini vengano a movimentare la sua giornata: ella ha necessità di allargare il suo orizzonte, così come si è allargato l'orizzonte del mondo moderno nel suo complesso.
PERCHÉ SI PORTA LA CRAVATTA?
Alle donne sono concesse molte civetterie, specialmente in materia di abiti e di ornamenti mentre si ritiene che gli uomini non debbano invece indulgere alla frivolezza e che debbano anzi conformarsi ad una virile sobrietà nell'abbigliamento e nei particolari.
C'è tuttavia un elemento d'eleganza riservato all'uomo ed in cui egli ha maggior agio di sbizzarrirsi: si allude a quella sorta di nastro denominato cravatta. È vero che, quanto ad estensione, tale nastro è ben poca cosa, ma quanto al colore e al disegno, esso offre una vasta gamma di variazioni.
Ma c'è chi, in fatto d'eleganza, ha una fantasia troppo accesa per poter limitare il suo senso del pittoresco ad un nastro colorato. C'è chi preferisce una eccentrica camicia sportiva od una maglia colorata, facendo così a meno di ricorrere alla vivacità delle cravatte. C'è anche chi non è affetto dalla benché minima forma di frivolezza o, se preferite, d'eleganza: nel qual caso, non porta la cravatta semplicemente perché la trova scomoda o superflua. Ma questa è una questione che riprenderemo a conclusione dell'argomento.
Quel nastro adibito ad ornamento del collo maschile, ha una storia di secoli. Cominciamo dal nome: cravatta; si tratta di un adattamento del termine croato «hrvat», col quale si indicava, nel secolo XVII, la sciarpa che i cavalieri croati portavano al collo. Quando questi cavalieri andarono a guerreggiare in Francia, la sciarpa croata fu adottata e perfezionata dai francesi: si ebbero quindi le prime rudimentali forme di cravatta. Ma la cravatta vera e propria doveva ancora tardare a diffondersi. A quel tempo, andava ancora per la maggiore la cosiddetta gorgiera, consistente in un collaretto di lino o di pizzo increspato a fitti cannelli, che circondava il collo salendo fino alla nuca. La gorgiera fu una comune caratteristica dei costumi maschili e femminili; ebbe gran voga nel corso dei secoli XVI e XVII. Durante il regno di Luigi XIV, Parigi divenne il centro della moda, esercitando un dominio incontrastato nel mondo dell'eleganza. Gli uomini adottarono abbigliamenti non meno ricercati ed affettati di quelli femminili. Uomini e dame si incipriavano i capelli e portavano i tacchi. Si erano. ormai diffusi gli orologi, che erano assai raffinati e fornivano agli uomini il pretesto per un vistoso armamentario a base di lucenti catenelle. L'abbigliamento maschile era costituito da una attillata «redingote» di seta a fiorami, un gilet di tessuto sgargiante, le «coulottes» corte di raso e le calze di seta; gli uomini usavano inoltre odornarsi, come ultimo tocco, di un fioccone di trina fissato al collo ed allargantesi sul petto, denominato a jabot».
Ma con la Rivoluzione Francese tutte le frivolezze e gli artifici vennero cancellati. Nella moda, cominciò a delinearsi il costume moderno; in campo maschile, avvenne una generale riforma nel senso della sobrietà sia del taglio che del materiale, sia del colore che degli ornamenti.
Il predominio della moda maschile fu assunto dall'Inghilterra, che stabilì un tipo di eleganza non più basato sull'appariscenza, ma piuttosto sull'austerità della foggia e sulla correttezza del portamento.
In seguito, la moda femminile ha attraversato diversi momenti avventurosi e travagliati, persistendo nella frivolezza e nella ricerca dell'effetto; mentre la moda maschile, nel corso dell'Ottocento, s'è decisamente indirizzata verso abbigliamenti sempre meno vistosi, in cui gli elementi di maggior spicco erano rappresentati da alti cravattoni di seta nera e da un orologio assicurato ad una massiccia catena pendente sul panciotto.
Stando alla tradizione ottocentesca, dev'esserci, tra uomo e donna, una netta e recisa differenza di abbigliamento. Ma è una tradizione che riscuote sempre minor credito. Si è avviato, in tempi recenti, un certo avvicinamento tra la moda maschile e quella femminile.
Si stanno sempre più rafforzando certe tendenze che, pur contraddicendo alla tradizione ottocentesca, hanno tuttavia dei punti di contatto con altre tradizioni, così remote da far credere che non potessero più rispuntare.
Nelle antiche civiltà mediterranee, le differenze di foggia tra uomini e donne erano trascurabili: ed ecco che questo sembra essere appunto l'obiettivo della moda odierna, almeno nelle sue punte più avanzate e spregiudicate.
Taluni si allarmano all'idea che non debba più esserci una netta differenziazione degli abiti a seconda del sesso. Vorrebbero che le donne restassero frivole e che gli uomini restassero austeri. Ma se è vero che l'abito non fa il monaco, a maggior ragione è vero che l'abito non fa il sesso. Niente di male, dunque, se l'abbigliamento maschile e quello femminile avranno un maggior numero di caratteristiche in comune. Se avranno in comune la frivolezza, avranno in comune anche la sobrietà. Può darsi che, alla fine, ne derivi una concezione dell'eleganza più equilibrata che in passato.
È pur vero che intanto stiamo attraversando un periodo di gran confusione, ma tant'è: la tradizione ottocentesca è dura a morire è comprensibile che all'ostinazione dei tradizionalisti corrisponda qualche eccesso da parte degli innovatori.
I benpensanti di antico stampo insistono col dire che «per essere socialmente presentabili occorre un abito decoroso, come vuole la tradizione». Ma secondo questo concetto del decoro, gli abiti e perfino gli uomini dovrebbero restar fermi ad una epoca conchiusa e congelata. Infatti, quando non si tollerano le fogge inedite, si è anche portati a non tollerare le persone inedite. Si pretende, infatti, che non siano persone dabbene coloro che non adottano un abbigliamento-standard, consistente in un abito preferibilmente scuro ed in una cravatta preferibilmente squallida.
Vengono tollerate anche le cravatte vivaci, purché non superino certi limiti. Non viene però tollerata, di norma, la assoluta mancanza della cravatta. A chi non la porta, può infatti accadere di essere giudicato privo di decoro e di eleganza. Può accadere che dei pubblici impiegati rischino di perdere il loro posto di lavoro, solo perché hanno una concezione dell'eleganza in cui non c'è posto per la cravatta. Può accadere che uno studente rischi l'allontanamento dalla scuola, solo perché preferisce un comodo ed elegante maglione colorato.
Viene generalmente riconosciuta, nei paesi civili, la libertà d'espressione. Una libertà che, per quanto riguarda l'abbigliamento, non può ridursi alla scelta tra una cravatta e l'altra; si deve anche poter scegliere di farne a meno, della cravatta, senza che ciò comporti complicazioni a scuola o in ufficio. Non si può seriamente credere che il decoro debba esser legato ad un nastro stretto attorno al collo!
PERCHÉ SI FA IL «PESCE D'APRILE»?
È diffusa, nella maggior parte dei Paesi europei ed anche in America, l'usanza di dedicare un giorno dell'anno ai tiri mancini, alle beffe, alle burle più raffinate. Questo giorno è il primo di Aprile.
Non è un vero e proprio giorno di festa, dato che non segna nessuna particolare ricorrenza, eppure si crea, talvolta, in questo giorno, un'atmosfera allegra e festosa, tale da rivaleggiare con la giornata di martedì grasso. Ciò dipende forse dal fatto che ufficialmente il primo Aprile è un giorno come tanti: non si organizzano balli o festeggiamenti di sorta, non ci si ripromette nessuna speciale forma di divertimento. E siccome il vero divertimento non può essere programmato, ma è affidato al caso, all'estro del momento, ecco che da niente vengon fuori certe situazioni spassose ed esilaranti.
Un po' di sana follia è proprio quel che ci vuole, per rompere la monotonia e rinfrancare lo spirito. In alcuni Paesi, il primo Aprile vien detto, appunto, «giorno dei matti» (all fouls'day).
C'è gente che magari, il primo d'Aprile, non ha guardato il calendario e pensa che si tratti di un giorno come un altro (e proprio qui sta il bello!). Costoro rischiano di non trarre il massimo del divertimento dalle burle che vengono giocate il primo Aprile, poiché è facile che siano proprio loro, da ignari quali sono, le vittime designate di scherzi spesso fantasiosi ed abilmente architettati. Tra gli scherzi più in voga, c'è quello di mandare una persona in un luogo a cercare cose che non troverà. Si usa anche mandare degli sprovveduti a cercare qualcosa di assurdo: si può, ad esempio, chiedere a qualcuno di comprarci del lievito per le salcicce, o una sega quadra, o una squadra tonda! Si possono inoltre fare scherzi d'altro genere, come quello di mettere il sale nelle zuccheriere! Ma perché questi scherzi vengono concentrati proprio nel primo giorno d'Aprile? Tale usanza va ricollegata al vasto gruppo di feste con cui un tempo si salutavano i cambiamenti di stagione.
Quanto poi all'origine del termine «pesce d'Aprile» (che viene usato in italiano e in francese) esso dipende forse dal fatto che il Sole, in quel momento dell'anno, esce dal segno zodiacale dei Pesci.
Ma vi sono anche altre spiegazioni. Una di queste si richiama ad uno scherzo che si usava fare a Firenze, dicendo ai semplicioni di andare a comperare il pesce in una piazza dove, in effetti, il pesce c'era, ma solo in effige, raffigurato in bassorilievo su una cantonata!
PERCHÉ LA NOTTE DI SANTA LUCIA VIENE DETTA «LA PIU' LUNGA CHE CI SIA»?
Il detto è antichissimo e la sua origine è senz'altro da ricercare in un'epoca in cui vigeva il calendario giuliano. Prima della riforma del calendario attuata da papa Gregorio nel 1582, il solstizio cadeva proprio intorno al 13 dicembre e pertanto il detto era giusto. La riforma, che fu necessaria perché il calendario non andava più d'accordo col Sole, stabilì che nel 1582 si sarebbe passati direttamente da giovedì 5 ottobre a venerdì 16 ottobre, perdendo così 10 giorni. Dopo la riforma del calendario il detto di Santa Lucia ha perso il suo tasso di verità, ma la forza della tradizione ha prevalso e oggi tutti continuano ancora credere che nel giorno di Santa Lucia si verifichi la notte più lunga.
Per la notte più lunga, invece occorrerà attendere il 21 dicembre. Da quel giorno il Sole inizierà a salire lentamente sull'orizzonte e conseguentemente i giorni si stireranno sempre più come tante lucertole al Sole.
PERCHÉ SI VA IN FERIE?
Secondo quanto afferma una leggenda medioevale, vi sono certi ricorrenti periodi in cui le pene dell'inferno vengono temporaneamente sospese: i dannati possono in questo caso godere delle cosiddette «ferie infernali». Oggi l'idea dell'inferno è in netta decadenza, ma taluni aspetti della nostra vita richiamano le infernali fantasie del Medioevo. Si pensi alle condizioni di lavoro imposte in una sferragliante bolgia industriale! Il poeta Vittorio Sereni, nella composizione intitolata «Una visita in fabbrica», parla di «asettici inferni». Asettici, ma pur sempre tossici e deprimenti!
Siccome il progresso cammina, i moderni operai, a maggior ragione dei dannati del Medioevo, hanno diritto alle loro «ferie infernali». Ferie che devono avere una durata maggiore, man mano che ci si avvicina a quella che, profeticamente, viene denominata «civiltà del tempo libero».
Fino a pochi decenni fa, la questione del tempo libero rientrava nel campo dei sogni, piuttosto che in quello delle possibilità concrete. Ma sono ormai passati i tempi in cui gli operai facevano giornate lavorative di dodici o tredici ore, senza avere diritto a nessun genere di indennità: né di malattia, né di incidenti; quanto alle ferie, poi, neanche a parlarne!
Solo in seguito ad una serie di lotte e di rivendicazioni, gli operai hanno ottenuto una diminuzione dell'orario di lavoro, fino alla conquista della giornata di otto ore. E non è stato facile arrivarci: è dovuto scorrere parecchio sangue! Ricordiamo le agitazioni promosse a Chicago, nel 1886, dal movimento per la giornata di otto ore, di ispirazione anarchica; agitazioni che si conclusero con alcune decine di morti.
Ancor oggi, i conflitti di lavoro si concludono talvolta in bagni di sangue. Ma pare che stia finalmente per affermarsi la tendenza a comporre i conflitti senza ricorrere a repressioni violente.
Pian piano, il progresso sociale tiene dietro al progresso tecnico. Quest'ultimo procede al galoppo.
Le scoperte scientifiche e le loro applicazioni in campo industriale, consentono di diminuire la durata delle prestazioni di lavoro, senza che la produzione venga rallentata: anzi, essa tende comunque ad aumentare. E potrebbe espandersi in maniera favolosa, se tutti gli sforzi attualmente dedicati alla fabbricazione di armi apocalittiche venissero invece rivolti a più degni scopi. Le facoltà umane potrebbero così svilupparsi, finalmente, nella giusta direzione. Potremmo finalmente rivolgere la nostra attenzione a problemi più alti e complessi che non quelli del sostentamento quotidiano.
In vista della civiltà del tempo libero, dobbiamo riscoprire i grandi temi estetici dell'umanità: bellezza, spiritualità, contemplazione. È una prospettiva irrinunciabile, anche se, allo stato attuale delle cose, può apparire un po' troppo rosea.
Otto ore di lavoro sono troppe: dato il carattere meccanico dei moderni processi produttivi, un operaio non può lavorare così a lungo senza che le sue facoltà umane restino menomate. I moderni strumenti di lavoro impongono una ferrea disciplina, concedendo un margine quanto mai esiguo all'estro, all'abilità ed all'umore individuali. Lo operaio non è che l'elemento accessorio di un macchinario troppo più grande di lui.
Un artigiano, anche lavorando a lungo, può sempre seguire il proprio ritmo, improntando di sé l'opera a cui attende. Ma l'operaio delle grandi fabbriche è schiavo del tirannico automatismo delle macchine: egli, come dice il poeta Vittorio Sereni, è «straniero al grande moto e da questo agganciato». Sono le macchine ad imprimere il ritmo, regolando le mosse dell'operaio, imponendogli una cadenza ossessiva. Egli deve addirittura rinunciare alla libertà dei movimenti del proprio corpo!
Si pensi al funzionamento di una «catena di montaggio»: essa consiste in un nastro trasportatore, mediante il quale i pezzi di un oggetto passano da un operaio al seguente; ciascun operaio compie l'operazione assegnatagli, sempre la stessa nel tempo prefissato; soltanto alla fine del nastro si ha l'oggetto completamente montato. Ed è un oggetto anonimo, fatto più dalle macchine che dagli uomini: il contributo dell'operaio, infatti, così frammentario, da non dare affatto il senso di un lavoro creativo.
Ma d'altronde la catena di montaggio consente una netta diminuzione dei tempi di lavoro, nonché dei costi: oltre ad offrire la possibilità di un aumento del tempo libero, offre anche un maggior numero di prodotti a prezzi convenienti.
Essa fu usata per la prima volta, in modo sistematico, dall'americano Henry Ford, il quale, nei primi tempi del nostro secolo, conseguì l'intento di costruire un tipo di automobile alla portata di tutti, semplice, leggera, di facile manutenzione. Oggi si fabbricano un'infinità di utilitarie, accessibili alla stragrande maggioranza degli operai, almeno nei Paesi tecnologicamente più avanzati. In questi Paesi, le automobili, insieme al frigorifero ed alle altre moderne comodità, forniscono un parziale compenso alle dure condizioni di lavoro: sono piccole conquiste che non devono far dimenticare le conquiste che più contano.
L'automobile è un ottimo mezzo per raggiungere, nei momenti di libertà, un posto più ameno della fabbrica o dell'ufficio; ma solo fino ad un certo punto: sappiamo, infatti, cosa succede quando si va in ferie: traffico infernale, ingorghi, scatti di nervi, incidenti a catena.
Il lavoratore in ferie si lascia alle spalle la città, ma viene seguito dalla cittadinanza. Anche adesso è circondato dalla stessa moltitudine che ogni giorno si reca con lui al lavoro.
Una volta l'anno, infatti, non solo lui, ma anche gli altri lavoratori prendono le ferie e si ritrovano tutti insieme incolonnati lungo gli stessi percorsi, intralciandosi e irritandosi a vicenda. È comprensibile come non si possa fare a meno di battere le stesse strade per recarsi nelle fabbriche o negli uffici; ma perché incolonnarsi anche per andare in vacanza?
Il fatto è che anche le ferie sono organizzate, allo stesso modo dell'attività lavorativa. Siccome abbiamo solo pochi giorni all'anno da dedicare interamente allo svago, non vogliamo correre rischi: vogliamo stabilire in dettaglio l'itinerario e il luogo di soggiorno, prenotando la pensione, programmando ogni cosa a seconda delle nostre disponibilità. E così finiamo per dirigerci tutti quanti verso la solita montagna o la solita spiaggia reclamizzata dai «depliant» turistici.
Anche durante le ferie, restiamo attaccati al gusto corrente ed alle ordinarie preoccupazioni, rifiutando l'occasione che finalmente ci si offre, di vagabondare a piacimento, di scoprire angoli sconosciuti ai più, di vivere una volta tanto, alla giornata!
Finiamo per imporre ai nostri giorni di libertà lo stesso ritmo monotono dei giorni di lavoro. Non sappiamo goderci il tempo libero, forse perché non ci siamo abituati: via via che esso aumenterà, dovremo imparare ad impiegarlo senza dissipazione.
PERCHÉ QUANDO CI SI SALUTA SI DICE «CIAO»?
Si fanno sempre più intense le relazioni tra gli uomini e vi sono perciò alcune espressioni che varcano le frontiere e vengono adottate in campo internazionale.
Le formule di saluto, ad esempio, sono ormai largamente conosciute. Il saluto «good-bye», ad esempio, viene talvolta usato, tanto è universalmente familiare, anche da chi non è inglese.
Si sta ampiamente diffondendo anche il termine italiano «ciao», che ha un suono esotico, accattivante, e che, nella sua concisione, è assai comodo da usare. Comodo anche perché si tratta di una formula che può essere impiegata sia nell'incontrarsi che nel lasciarsi.
Ma qual'è l'origine della parola «ciao»?
Curiosamente, questo confidenziale modo di salutarsi deriva da una vecchia espressione tutt'altro che confidenziale. Deriva cioè dal saluto deferente «schiavo», a cui era sottinteso «suo»: chi incontrava qualche «alto papavero», insomma, si proclamava suo servo!
In seguito, specialmente nell'Italia settentrionale, la parola, filtrata attraverso il dialetto veneto (sciao), cominciò ad essere abbreviata ed alterata fino a suonare come il «ciao» attuale.
Per un certo tempo si è pronunciato questo saluto in tono d'ossequio: ma, in seguito, l'ironia ha prevalso e si è incominciato a pronunciarlo in tono sempre più derisorio. Infine ci si è addirittura dimenticati della sua origine servile: quando lo pronunciamo, certo non pensiamo, oggi a dichiararci «schiavi» del prossimo!
PERCHÉ SI VARA UNA NAVE CON UNA BOTTIGLIA DI CHAMPAGNE?
Nel mettere un nome ad un cane o ad un cavallo, che sono tra gli animali più amati dall'uomo, non si impiega tanta varietà e fantasia quanto nel battezzare una nave.
Le imbarcazioni, fin dalla loro nascita, che può essere datata risalendo all'incirca all'uomo delle caverne, sono sempre state care al cuore deLl'uomo: si pensi solo ai mondi nuovi che l'uomo ha scoperto servendosi di tale mezzo di trasporto, alle civiltà con le quali è venuto in contatto, alle enormi ricchezze che gli sono derivate dalla scoperta dell'America, ad esempio, alle scoperte scientifiche, senza poi contare le lotte di conquista che si sono valse per lungo tempo delle navi. Se si corre col pensiero agli enormi pericoli superati dalle caravelle usate da Colombo nel viaggio verso le Americhe, fragili ed indifese in confronto con le grandi navi transoceaniche d'oggi, si può ben immaginare quanta cura, quanto rispetto e quanta venerazione i nostri antichi attribuissero loro. La discesa in acqua di un natante è quindi un avvenimento che ha sapore di magico. Per poter affrontare gli oceani, i navigatori hanno bisogno della sua mediazione; la loro vita è tutt'uno con quella dello scafo che li trasporta. È grazie aLla nave che l'uomo entra in contatto con il mare, instaurando il suo dominio anche su un elemento così instabile e terribile. Dunque è giusto che l'uomo imponga dei nomi amorevoli alle sue navi, quasi ad ingraziarsele. È giusto che, al momento del varo, un nuovo scafo riceva un battesimo adeguato. Non con un semplice spruzzo d'acqua, ma con un'intera bottiglia di spumante o addirittura di champagne francese. È giusto che la nave assapori un po' di alcool, prima di essere condannata al perpetuo contatto con l'acqua.
Spesso al battesimo di una nave si aggiunge la benedizione. La solennità della cerimonia è tale da conferire alla nave un prestigio che la mette al di sopra d'ogni altro mezzo di trasporto.
Solo le campane ricevono un trattamento analogo, allorché, prima di collocarle sul campanile, vengono battezzate e consacrate.
Ma il battesimo di una nave fa parte d'uno spettacolo unico, qual'è il varo: uno spettacolo a cui vale la pena assistere.
Prima di lasciare lo scalo, la nave poggia sulle «taccate». Queste sono costituite da sostegni formati da pezzi di legno squadrati, sovrapposti e uniti con chiodi e traverse di ferro. Quando giunge il momento del varo, le taccate vengono gradualmente smontate. Quelle verso il mare (dette «taccate morte») vengono demolite per ultime: debbono essere particolarmente robuste, poiché debbono sopportare la spinta esercitata dallo scafo, allorché questo viene liberato da ogni altro legame. La demolizione delle «tacche morte» non presenta più ormai, tutti i rischi che presentava in passato, dato che sono state elaborate tecniche sempre più sicure. Anticamente, invece, gli incidenti erano così frequenti, che non sempre si trovava gente disposta a compiere l'operazione.
La demolizione delle «tacche morte» era pertanto riservata ai condannati.
La buona riuscita del varo esige un'accurata preparazione: occorre, anzitutto, predisporre un solido scalo. Esso consiste di due parti: una è generalmente costruita in muratura; l'altra è un prolungamento della prima, chiamato «avantiscalo», il quale si immerge nell'acqua.
L'inclinazione dello scalo deve essere tale da assicurare la spontanea discesa della nave per solo effetto del proprio peso, tranne, se è il caso, una spinta iniziale atta a vincere l'attrito.
La fase conclusiva del varo è particolarmente emozionante: la spinta supera il peso e la nave, distaccandosi completamente dallo scalo, prosegue, per la velocità acquistata, la sua corsa in mare, rendendosi liberamente galleggiante (sempreché tutto si svolga regolarmente).
Finché la nave non è entrata in acqua, non si può essere del tutto sicuri che galleggi. Il varo suscita quindi grande apprensione. È un evento di brevissima durata, da cui tuttavia dipende il coronamento o il fallimento del poderoso e lungo lavoro compiuto dai costruttori.
Dunque il varo è l'atto più delicato ed importante della costruzione di una nave. Per antica tradizione, esso riveste anche un significato simbolico, che viene sottolineato mediante una consacrazione in grande stile.
PERCHÉ CI SONO LE MASCHERE?
L'uso delle maschere risale a tempi antichissimi, ed è documentato sin dal Paleolitico superiore. In origine la maschera svolgeva un compito rituale importantissimo e, ancor oggi, presso una gran parte dei popoli cosiddetti primitivi, essa rappresenta un accessorio cultuale indispensabile. Anche se presso alcune civiltà, quali ad esempio quelle australiane, è sconosciuta l'arte di fabbricare maschere, queste vengono sostituite, come già abbiamo avuto occasione di accennare, dalla pittura corporale.
La funzione ed il significato delle maschere variano naturalmente in rapporto alle varie civiltà ed alle concezioni religiose dei vari popoli e, se risulta arbitrario fare delle generalizzazioni, è anche impossibile enumerare, per ovvie ragioni di spazio, i singoli significati. Si può al massimo fissare genericamente i significati più frequenti che, in definitiva, risultano essere anche quelli più comprensibili ed interessanti.
Perché, dunque, si usano le maschere? Alla base sta il desiderio di cancellare o nascondere temporaneamente l'individualità, sostituendovi un personaggio diverso. Abbiamo già accennato all'uso del mascheramento (pelle di animale o pittura corporale) nella caccia, per propiziarsi la preda o più semplicemente per ingannarla e colpirla.
Nel rito religioso i personaggi raffigurati dalle maschere sono generalmente esseri immaginari e mitologici: dei o demoni, antenati mitici o addirittura animali, nel caso di religioni totemistiche. Chi porta la maschera, rappresenta l'essere raffigurato e, specialmente in ambienti culturali arcaici, sovente vi si identifica.
Le maschere, in molti casi, sono mostruose e risultano atte a suscitare spavento, sia nei riti di esorcismo, compiuti per scacciare demoni, sia in guerra, per incutere terrore ai nemici. Tali maschere, inoltre, vengono utilizzate sovente nei riti di iniziazione, e rappresentano gli dei o i demoni che scacciano dal giovane iniziato la persona infantile per dar vita all'uomo nuovo.
La maschera come simbolo della divinità è usata generalmente dallo sciamano o dal sacerdote, i quali, nella loro funzione mediatrice fra divinità e popolo, annullano la loro individualità identificandosi, agli occhi dei fedeli, con la divinità stessa.
L'uso della maschera è anche diffuso nei riti funerarî. Le maschere modellate direttamente sul viso del defunto hanno, tra l'altro, sia la funzione di preservare il suo aspetto fisico dalla dissoluzione, sia quella di divinizzare il defunto e farne un antenato mitico.
Dal culto degli eroi concepiti come morti divinizzati e dal culto dionisiaco, derivano le maschere teatrali dell'antichità classica, evocatrici delle gesta eroiche di personaggi mitici, di dei e di demoni.
Nel teatro greco la maschera copriva il capo dell'attore e presentava generalmente una grande apertura boccale a forma d'imbuto, che fungeva da amplificatore. Le maschere, tragiche o comiche, erano bianche per i personaggi femminili (impersonati comunque da uomini) e scure per personaggi maschili. Ogni maschera era poi sufficientemente caratteristica, in modo da essere facilmente riconosciuta dagli spettatori. Essa, rappresentando convenzionalmente un personaggio, facilitava così la comprensione del dramma.
Il teatro romano continuò la tradizione greca, pur attingendo alle arcaiche tradizioni indigene. Alle «atellane», antiche rappresentazioni italiche, è legato forse un significato particolare della maschera, che ritroveremo nella Commedia dell'Arte: la maschera, cioè, come tipo fisso che ritorna uguale a se stesso, in rappresentazioni diverse. È in questo senso che la maschera raggiunge i giorni nostri. Le maschere più antiche a noi più note sono Macco, ghiottone e sciocco, Bucco, sciocco e chiacchierone, Pappo, il vecchio rimbambito, Dosseno, il gobbo, scaltro scroccone ed altre.
Il Rinascimento, che segnò una netta ripresa del teatro, riscoprì Plauto e Terenzio, i due grandi commediografi latini, ancor oggi ampiamente rappresentati. Ma il vero trionfo della maschera è costituito dalla Commedia dell'Arte, in cui l'attore, in ogni rappresentazione, impersona sempre lo stesso personaggio, Pantalone, Brighella, Arlecchino, Colombina e così via. Spesso capita che l'attore, creatore di una maschera, confonda il proprio nome con quello della propria creatura. Ricordiamo il caso dell'attrice Andreini, che dette il nome alla maschera Isabella. Più spesso, però, è la maschera che rende anonimo l'attore.
Sarebbe impossibile enumerare tutte le maschere della Commedia dell'Arte. Ci limitiamo a ricordarvene alcune, soprattutto in relazione alla parte che esse solitamente rappresentano: Pantalone e il Dottor Graziano, i vecchi; Brighella, Arlecchino, Stoppino, Frittellino e molti altri, gli «zanni» (da Giovanni), i servi; Corallina, Colombina, Smeraldina ed altre, le servette.
Sia le servette che gli innamorati (Cinzio, Fabrizio, Lelio; Angelica, Ardelia, Lucinda, Isabella ecc.) parlano il toscano.
Distinte, anche se appartenenti allo stesso filone del teatro popolare, sono da considerare le maschere regionali delle commedie dialettali e burattinesche. Oltre ai già citati Arlecchino e Brighella (Bergamo), Colombina e Pantalone (Venezia), ricordiamo nomi certo a voi noti: Pulcinella (Napoli), Peppe Nappa (Sicilia), Gianduia (Piemonte-Liguria), Rugantino (Roma), Capitan Spaventa e il dottor Balanzone (Bologna), Meneghino (Milano), Stenterello (Firenze).
Non si può dire che le maschere siano scomparse ai nostri giorni. È certo, però, che non hanno più la diffusione che avevano un tempo.
Oggi il teatro cerca di svincolarsi dalle antiche forme di rappresentazione in cui agivano tipi a costume e a psicologia fissi. Potremmo dire che, come il nome latino di maschera, cioè «persona» (che per i latini significava «parte, personaggio») significa per noi moderni individuo singolo, nella sua forma particolare, così il personaggio un tempo fisso nel costume, nella psicologia e nella maschera, si è mutato in personaggio spesso imprevedibile, che offre al pubblico problemi da risolvere, pone quesiti, propone soluzioni, enuncia ideologie. Le maschere buffe, istrionesche, delle antiche recite a soggetto hanno lasciato il posto a testi rigorosi, in cui nulla viene lasciato allo estro e alla fantasia degli attori.
Un attore, nel teatro moderno, pone il proprio temperamento al servizio dell'autore; la sua «maschera» non è più fissa, poiché il personaggio che rappresenta non è più, come un tempo, un tipo comune e facilmente riconoscibile. La maschera è oggi il suo volto; una maschera, quindi, mobile, intensa, viva e tormentata, più adatta a rappresentare i travagli del mondo moderno. Ad esempio, ad un personaggio come Amleto, non si addice certamente la maschera della tragedia classica!
Vi sono comunque, nel teatro moderno, forme di rappresentazione che, per certi aspetti, si ricollegano all'antica Commedia dell'Arte. Alludiamo agli «happenings», in cui l'azione teatrale è affidata agli umori e all'inventiva dei singoli attori, i quali manifestano liberamente la loro identità più profonda. Si ricerca, in questo genere di rappresentazione, di esprimere la diversità dei singoli. In tale ricerca, gli attori sono rigorosi come può esserlo l'autore di un testo accuratamente elaborato.
C'è una diversità che armonizza: ed è questa che si cerca, nelle moderne manifestazioni artistiche; mentre in passato l'armonia veniva ricercata attraverso l'uniformità dei riti e dei miti.
PERCHÉ SI FA LA PUBBLICITA'?
Non sono mai stati gettati sul mercato tanti prodotti come ai giorni nostri. Gli imperativi che udiamo risuonare con maggiore insistenza sono: vendere e comperare. Il pubblico dei consumatori non è più ridotto ad una categoria ristretta, ma è formato da larghi strati di popolazione.
Siccome la capacità produttiva delle industrie, in seguito ai rapidi progressi tecnici, è grandemente aumentata, s'è reso indispensabile, di conseguenza, l'allargamento del mercato ben oltre l'ambito tradizionale: è stata universalmente riconosciuta la necessità di mettere le masse lavoratrici in grado di comperare anche i prodotti non strettamente necessari.
Si è contemporaneamente intensificata la pubblicità commerciale, che ha preso ad esercitare una suggestione sempre più potente sulle masse. Tanto potente da fare apparire come supremo ideale di vita l'acquisto di articoli sempre più numerosi e prestigiosi.
Ma anche se solo oggi ha raggiunto le sue massime vette, la pubblicità esiste tuttavia da un bel pezzo!
Nel mondo antico, tra le espressioni pubblicitarie che più chiaramente preannunziano le forme attualmente in uso, vi sono gli annunci scritti, tra cui particolarmente notevoli quelli, giunti a noi in gran numero, di Pompei e di Ostia. Ma la forma più comune di pubblicità fu in passato quella verbale, a cui provvedevano i banditori e gli araldi, i quali ebbero, nel Medioevo, corporazioni e statuti propri.
A poco a poco la pubblicità verbale fu sostituita da quella dipinta su muri e quindi da quella stampata. Ma prima di giungere al manifesto, ci si servì soltanto dei giornali e delle insegne.
Il primo annuncio a pagamento, inserito da un medico, apparve nel 1651 sul sesto numero della «Gazette», divenuta poi «Gazette de France» Un secolo dopo apparve in Francia quello che doveva diventare il più celebre giornale di pubblicità commerciale: «La petite affiche» dell'abate J.-L. Aubert.
Le origini del cartellone illustrato risalgono appena al 1830. I primi cartelli murali furono piccoli in bianco e nero, piuttosto elementari. Verso il 1836, con l'apparire della cromolitografia, il manifesto divenne più vivace; dapprima fu di due colori: rosso e azzurro; poi vennero usati anche tutti gli altri colori e fu inoltre perfezionato il sistema di tiratura.
Gli artisti sul principio disdegnarono il manifesto e si ebbero solo isolati esempi di manifesti esteticamente riusciti; ma in seguito anche gli artisti maggiori si dedicarono a questa nuova e singolare forma espressiva. Tra questi, Toulouse-Lautrec (1864-1901), che eseguì cartelloni pubblicitari di gran pregio.
Il cartellone costituisce la prima fase della moderna pubblicità commerciale, che adesso si vale di tutti i mezzi offerti dai progressi della tecnica stampa, cinema, radio, televisione. Negli ultimi tempi si sono imboccate nuove vie: concorsi a premio, distribuzione di campioni gratuiti, offerta gratuita di spettacoli e concerti, dimostrazioni a domicilio, e tutta la sconfinata gamma di trovate che di giorno in giorno vanno ad ingrossare l'elenco dei vari tipi di richiami pubblicitari.
Il lancio di richiami pubblicitari viene effettuato da tecnici e specialisti, e può estendersi fino a quella che si chiama «campagna pubblicitaria», la cui durata può protrarsi per mesi ed i cui interessi possono coinvolgere anche più settori dell'industria e del commercio di una nazione. Qualunque azione pubblicitaria è impostata in base alle indicazioni fornite dalle ricerche di mercato. Per «ricerca di mercato» s'intende lo studio e la valutazione continua e sistematica di tutti i fattori concernenti lo smercio dei prodotti. Prima ancora di iniziare la produzione, viene svolta una indagine tesa ad accertare quali e dove sono gli eventuali consumatori, che cosa effettivamente desiderano e come sia possibile influire sui loro desideri.
Va tenuto presente che la pubblicità non mira unicamente a richiamare l'attenzione sui prodotti di cui si ha effettivamente bisogno, ma tenta anche di stimolare nuovi bisogni, indirizzando i gusti del pubblico verso gli articoli che le industrie hanno maggior interesse a smerciare. A tale scopo, è necessaria un'approfondita conoscenza della psicologia del pubblico. Gli specialisti in materia provvedono ad una particolare forma di ricerca di mercato, cioè alla cosiddetta «ricerca motivazionale», che consiste nell'indagare le inclinazioni delle persone, in modo da coglierne i meccanismi essenziali e potervi poi interferire mediante una appropriata tecnica pubblicitaria. La ricerca motivazionale è divenuta istituzione in America, allorché gli industriali compresero che il pubblico poteva essere indotto all'acquisto di un prodotto anche senza averne un bisogno effettivo.
Siccome vi sono, negli uomini, esigenze inespresse e non ben definite, si può illuderli che queste possano venir finalmente appagate mediante l'acquisto di un certo prodotto. Basando la fabbricazione di un articolo ed il relativo messaggio reclamistico sui motivi profondi che determinano il comportamento umano, è possibile condizionare le scelte del pubblico.
Ad esempio, per fare pubblicità ad un rossetto, si può ricorrere alle sollecitazioni più stravaganti, tali da non avere che una remotissima parentela con l'articolo in questione. Poniamo che venga usato uno slogan di questo tipo: «Con il rossetto "X", gli uomini penderanno dalle vostre labbra». Cos'ha a che fare, col rossetto, una simile frase di richiamo? Il fatto che una donna venga trascurata, oppure che abbia uno stuolo di ammiratori che «pendono dalle sue labbra», non dipende certo dall'usare o meno il rossetto «X». Ma lo slogan può insinuarsi nelle menti e determinare, per l'appunto, l'acquisto di quel particolare rossetto. Non perché sia meglio di un altro, ma solo perché è collegato ad un richiamo suggestivo.
Analogamente, si possono reclamizzare delle scarpe per uomo mediante lo slogan: «Le donne saranno ai vostri piedi».
Pur di adescare i compratori, si fa largo uso di richiami inverecondi: il buon costume passa in seconda linea, di fronte ai supremi interessi della industria e del commercio.
È di prammatica far reclame ad un sapone da barba, suggerendo l'idea che, usandolo, ci si renda più graditi al gentil sesso. La suggestione in tal senso è in gran parte determinata dall'immagine che accompagna lo slogan: una bella ragazza che, con fare conturbante, accarezza la guancia di un uomo ben rasato. Può così accaderci di comprare il sapone da barba «Y» mossi da motivi che non riguardano affatto la speciale qualità di quel determinato prodotto.
Accade pure di essere spinti ad acquistare un dato oggetto dalla pressione dell'ambiente sociale a cui si appartiene o in cui ci si vuole inserire.
Gli Americani usano un'espressione, «status-symbol», che indica l'importanza sociale di possedere un certo tipo di macchina o un certo oggetto d'arredamento.
Anche in questo campo, i sistemi di pubblicità fanno leva, spesse volte, su motivi profondi ed oscuri, come un senso di frustrazione o un complesso d'inferiorità sociale.
È raro che sopravvivano ancora i vecchi sistemi pubblicitari, che si basavano sulla semplice esibizione dell'articolo e sulle indicazioni riguardanti il suo impiego. Nel caso di una matita per le labbra, ad esempio, non si usava nessuna particolare forma di suggestione: se veniva impiegata una illustrazione, era solo allo scopo di mostrare gli effetti del rossetto sulle labbra. Il prodotto era vantato con argomenti pertinenti, senza far leva su eventuali carenze affettive.
Non appare imminente il ritorno ad un tipo di pubblicità puramente informativa. I prodotti si moltiplicano in maniera impressionante, più in vista del profitto che non in vista dei reali bisogni da soddisfare. I complessi industriali sfornano prodotti che si differenziano tra loro più per l'etichetta che per la qualità. Per battere la concorrenza, è necessario intensificare ancor più la pubblicità, in modo da richiamare l'attenzione su articoli che, per l'appunto, anche la concorrenza si accanisce a voler smerciare.
La pubblicità è divenuta il più forte capitolo delle spese generali delle imprese e la loro più formidabile arma di lotta. Certe industrie cercano di differenziare i loro prodotti da quelli delle industrie concorrenti, in modo da presentarli come unici; basta che differiscano di poco, basta che abbiano un qualche tratto distintivo, anche labile, anche futile, che colpisca in qualche modo l'occhio e la fantasia, anche a costo di ripercuotersi negativamente sulla qualità!
Quando tra i vari prodotti gettati sul mercato da industrie concorrenti, non è possibile cogliere obiettivamente differenza alcuna, allora spetta alla pubblicità il compito di far ritenere differenti beni e servizi identici, anche ricorrendo alla pura farneticazione.
Campagna pubblicitaria per la Coca-Cola