Pensiero, in quanto concepito dalla mente; idea, nozione
esprimente i caratteri essenziali e costanti di una data realtà, che la
mente si forma afferrando i vari aspetti di un determinato oggetto.
• Lett. - Nel Seicento, combinazione di immagini
dissimili, l'avvicinare cose tra loro lontane, nelle quali tuttavia l'intelletto
sottile e raffinato del poeta scopre stupefacenti somiglianze e analogie, spesso
stravaganti. ║ Il restituire a un traslato il suo significato letterale.
• Filos. - Socrate per primo ebbe consapevolezza
che il pensiero ruota attorno alla definizione, ma egli usò il
c.
solo per formulare problemi morali. Attraverso il metodo induttivo, Socrate
cercò di dimostrare l'impossibilità di pervenire a una definizione
concettuale dei
c. etici, aprendo così la strada alla ricerca
platonica. Secondo Platone, il
c. nasce dalla diretta intuizione
intellettuale di un oggetto ideale che contiene già in sè il
carattere di universalità. In contrapposizione all'idea platonica, si
colloca l'atteggiamento nominalistico-empiristico dei filosofi cinici, poi
sviluppato dallo stoicismo, secondo cui i
c. altro non sono che termini
generali (
notiones communes), non " rappresentazioni". Sulla stessa linea
si pone l'epicureismo, secondo cui il
c. è il risultato mentale o
mnemonico di sensazioni già provate, ed esso ci consente di sapere quali
saranno le esperienze relative all'oggetto di cui abbiamo la nozione. Ne
consegue che l'ambito reale della nostra conoscenza concettuale, fissata nelle
parole, non va oltre i limiti delle nostre esperienze sensoriali. Secondo
Aristotele, non vi è
c. se non di una sostanza, di cui esprime
l'essenza. La concezione aristotelica si distingue però da quella
empirica e razionalistica, dato che pur rifiutando la concezione di Platone
c. - rappresentazione, lo considera come il soggetto razionale di un
certo numero di giudizi, rifiutando la concezione che tende a risolvere il
c. in rapporti logici. Inoltre Aristotele distingue il
c. forma
dal
c. materia: il primo esprime la sostanza come valore e dà al
c. un significato non razionalistico; il secondo esprime la sostanza in
quanto materia. Intorno alla concezione platonico-aristotelica si sono
sviluppate le dispute della filosofia posteriore e la nozione di
c. ha
ottenuto un'ampia sistemazione soprattutto con Kant. Prima di Kant, Spinoza
aveva distinto tre forme di conoscenza: 1)
conoscenza per immagini, che
ci dà solo una conoscenza inadeguata, estranea al
c.; 2)
conoscenza razionale che forma i
c. senza ricercare gli oggetti,
per pura deduzione delle cause e che ci dà conoscenze adeguate; 3)
conoscenza intuitiva, mediante la quale si perviene alla conoscenza della
Sostanza prima, ossia di Dio. Partendo da una concezione
razionalistico-realistica del
c., Kant considera il
c. come il
prodotto della sintesi trascendentale fra intuizione e attività
unificatrice della coscienza. Pertanto, con Kant il
c. diviene un
valore. Nel neocriticismo il
c. perde il significato di valore e
nell'empiriocriticismo si ritorna a un'interpretazione di tipo razionalistico
empiristica, per cui il
c. viene considerato nient'altro che una somma di
elementi derivati dalla sensazione: nell'impossibilità di ricordare le
singole sensazioni, il pensiero crea i
c., quali nuclei rappresentativi
di una somma di sensazioni che consentono una più facile rievocazione. Il
neocriticista H. Vaihinger, partendo dalla critica della conoscenza arriva alla
conclusione che tutte le nostre rappresentazioni e i nostri
c. altro non
sono che
finzioni valide in quanto utili: i
c. fondamentali della
matematica e delle altre scienze sono finzioni e per di più sono anche
contraddittori, essi tuttavia hanno ragion d'essere e noi operiamo "come se"
fossero veri, dato che ci consentono di dominare la massa delle
rappresentazioni. B. Croce considera il
c. come un qualcosa di diverso
sia dalla rappresentazione, sia dai nuclei rappresentativi a fini pratici. Esso
sorge dalle rappresentazioni come qualcosa che è implicito in esse e deve
farsi esplicito. Come già Kant, anche Croce distingue il
c. puro
(a priori) dal
c. empirico e poi dal
c. altri termini da lui
definiti
finzioni concettuali o
pseudo-concetti. Essi sono o
definizioni di oggetti o schemi convenzionali della scienza. J. Dewey considera
i
c. strumenti per l'azione che hanno il loro significato come regole
pratiche sulle quali si basa la fiducia dell'azione stessa. Ogni riduzione
concettuale viene negata dall'esistenzialismo che rifiuta ogni astratto
razionalismo che riduca la realtà a
c., esaltata la
singolarità e irripetibilità dell'esperienza umana, non
assoggettabile a nessun sistema compiuto e non riducibile a nessuna
c.
• Psicol. - La teoria psicoanalitica si avvale
di tutta una serie di
c. usati per organizzare i fatti in formulazioni
teoretiche. Questi "tipi" di
c. urtano contro l'esperienza umana reale,
in quanto sono formulati secondo modelli
standard e tendono a spiegare i
dati reali soggettivi come risultato dell'attività di forze impersonali
oggettivabili. Tali
c. sono tuttavia necessari per la formulazione di
teorie relative agli effetti che le esperienze passate hanno sul presente. I
principali concetti psicoanalitici sono: 1)
c. di principio, secondo cui
la vita psichica si svolge mediante conflitti tra forze opposte
(
eros-thanatos, istinto di vita-istinto di morte; principio del
piacere-principio di realtà); 2)
c. strutturali, derivati dalla
supposizione che i processi mentali siano funzioni di un apparato costituito da
parti in relazione tra loro (es.: "apparato psichico", costituito da Es, Io,
Super-Io). Si distinguono ancora
c. topografici (localizzazione dei
processi psichici, in una stratificazione costituita da ricordi, impulsi,
fantasie, ecc.);
c. economici (legati alle forze energetiche: libido,
aggressività, ecc.);
c. dinamici, di cui fanno parte
c.
come quello di istinto, impulso, sublimazione, ecc.