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Catarsi.

(dal greco katharsis: purificazione). Nella religione greca, rito della purificazione. Attualmente si parla di c. con riferimento sia alla purificazione effettuata dalla tragedia mediante la pietà e il terrore, sia all'effetto terapeutico della scarica di emozioni (abreazione) nella psicoterapia. Per quanto il passaggio della c. dall'ambito strettamente religioso (riti della purificazione) a quello filosofico sia avvenuto attraverso il pitagorismo, la concezione etica della c. è legata all'estetica aristotelica e, più in particolare, alla trattazione aristotelica della tragedia. Aristotele, come Platone, considera l'arte imitazione della natura (mimesi), ma, a differenza di Platone, che condanna la tragedia in quanto esaltazione di dannose passioni, sostiene che questa mimesi induce negli spettatori una purificazione (c.) dalle passioni, poiché ciò che viene rappresentato dalla tragedia non è una realtà data o storica, ma una realtà verosimile o possibile. Ossia, nella tragedia ciò che conta sono le passioni in quanto tali e non, come nella realtà, gli oggetti delle passioni, per cui la passione per tali oggetti viene superata dall'espressione estetica. Rappresentando le passioni in tutto il loro sviluppo, la tragedia le presenta agli uomini non più come legate agli oggetti che le hanno provocate, ma autonome a autosufficienti. Infatti, nella vita, l'uomo odia o ama un dato oggetto (persona) mentre sulla scena si ha la rappresentazione dell'odio o dell'amore, per cui la passione non è più vissuta, ma contemplata. E mentre nella vita l'uomo non è soddisfatto se non raggiunge l'oggetto della sua passione, nella tragedia l'uomo vive la passione, senza possedere l'oggetto, ossia la vive senza le possibili conseguenze pericolose che possono derivare dall'esaudimento della passione stessa. L'interpretazione aristotelica della c. si unisce al problema del dolore presente nell'arte: psicologicamente l'uomo avverte con piacere il dolore quando può viverlo mimeticamente e esteticamente, in stato di pura contemplazione. Il concetto di c. occupa un posto di primo piano nella storia dell'estetica. In genere esso indica che l'arte è collegata con il mondo oscuro del sentimento e con uno slancio irrazionale indipendente da ogni regola e da ogni disciplina estetica. Schopenhauer indica questo momento oscuro come il punto di contatto che l'arte ha con l'inconscia volontà di vivere. Nietzsche come la presenza nell'arte di un impulso sotterraneo rispetto alla chiarezza della forma, come il momento dionisiaco dell'arte, momento che rappresenta la sfera delle passioni incontrollate. Il momento dionisiaco dell'arte rappresenta solo uno dei poli, essendo l'altro il momento apollineo, in cui il caos delle passioni dionisiache acquista un ordine e un'armonia. Ed è appunto il momento apollineo quello che prevale nella rappresentazione estetica in cui il caos delle passioni viene ordinato dando luogo a un processo di purificazione delle passioni, ossia alla c. Kierkegaard ha sottolineato che la passione tende a chiudersi in se stessa ed è legata per vie sotterranee agli stati d'animo dell'angoscia e della disperazione. La passione cioè, risulta tanto più forte e tanto più pericolosa quanto più si chiude entro se stessa, rifiutandosi alla comunicazione verbale, alla confessione. Infatti, quando l'uomo confessa ed esprime, ricorrendo alla comunicazione verbale, ciò che lo agita e lo turba, le passioni stesse, proprio per il fatto di essere espresse, vengono collocate in un ordine intersoggettivo, posto cioè in una zona extraindividuale, ossia nella zona in cui avviene la comunicazione tra gli uomini, che è già di per se stessa un superamento delle passioni o, quanto meno, dell'ermetismo che le contraddistingue, acquistando dimensioni universali. Analogo al significato catartico dell'espressione estetica è quello della confessione e ciò si accorda con le indicazioni della psicologia analitica che ha sottolineato il momento passionale-dionisiaco dominato dalle forze originarie dell'inconscio, indicate da Freud come libido (V.). • Psicol. - Il primo a parlare di terapia catartica fu il medico viennese J. Breuer, che ebbe una notevole influenza sul giovane Freud. Breuer infatti, curando una ragazza affetta da una grave forma di paralisi isterica e che presentava innumerevoli altri sintomi di natura isterica, constatò che il fatto di parlare dei propri sintomi produceva di per sé stesso effetti terapeutici, tanto da provocare la scomparsa dei sintomi stessi. Pertanto, per quel senso di liberazione o di purificazione che l'ammalato ricava dalle confessione e con un evidente richiamo alla dottrina aristotelica della c., Breuer chiamò il proprio metodo psicoterapeutico metodo catartico. Egli lo applicò per diversi anni ottenendo brillanti successi su vari ammalati. Nei primi tempi della psicoterapia si continuò a credere che la scarica emozionale, catartica, fosse di per se stessa terapeutica, prescindendo dal fatto che il paziente capisse o meno il significato dell'esperienza rimossa. Più tardi, però, Freud poté constatare che il ritorno di un ricordo non produceva effetti terapeutici se non era accompagnato dalle stesse forti e frustranti emozioni del momento dell'esperienza originaria. Egli chiamò questo fenomeno abreazione affettiva e lo spiegò affermando che le idee di cui era costituito il ricordo possedevano una carica elettrica che poteva essere scaricata solo quando esse fossero allo stato cosciente. Freud affermò anche che quando tale energia è impedita nel suo sfogo normale, a causa della repressione delle idee nell'inconscio, è costretta a trovare sfoghi anormali e può così prendere la forma di sintomi isterici. Come già Aristotele, anche Freud riteneva che il dramma giovasse agli spettatori in quanto operava una purificazione suscitando pietà e terrore. Al pari della tragedia greca, anche la tecnica analitica purifica il paziente dalle emozioni che erano bloccate insieme alle idee inconsce. Potere catartico hanno anche varie tecniche terapeutiche post-freudiane come, per esempio, la terapia di gruppo e lo psicodramma.