(dal latino
absolutus, der. di
absolvere:
sciogliere, liberare). Completo, totale in se stesso; libero da qualsiasi
limitazione, restrizione o condizione e perciò contrario di relativo.
• Fil. e Teol. - Ciò che è
compiuto in sé e per sé, perfetto, incondizionato e che
perciò non dipende da altri per l'affermazione della propria
realtà. La ricerca filosofica sul problema dell'
a., ovvero di
ciò che esiste incondizionatamente, si identifica per gran parte, nel
corso della storia del pensiero, con la ricerca dell'Essere, inteso come valore
a. Nella filosofia presocratica essa consistette nella ricerca intorno al
supremo principio della natura e nella concezione di un essere supremo, tale che
da esso potesse dedursi il mondo e il suo funzionamento. Nell'ambito della
teologia cristiana, l'
a. corrisponde a Dio, quale Essere supremo, al di
fuori del mondo, personale, che esiste per se stesso ed è perciò
necessario, eterno, infinitamente perfetto, nonché signore, creatore,
legislatore, giudice, rimuneratore. Nella filosofia moderna il problema
dell'Essere e dell'
a. assume valore gnoseologico ed è esaminato
non più come predicato della realtà, ma come attività della
coscienza, e con Kant la filosofia rinuncia a costituirsi in scienza suprema. Il
problema dell'identità del soggetto e oggetto nell'
a. costituisce
il centro del pensiero di Schelling derivato da Spinoza e da Fichte. Entrambi
questi pensatori venivano considerati da Schelling due eccezionali esempi di
slancio della speculazione verso l'
a., l'incondizionato. Nella fase
giovanile del suo pensiero, Schelling riconobbe a Spinoza il merito di aver
concepito, col massimo rigore, il carattere
a. dell'infinito, in una
perfetta oggettività che però finì col staticizzarsi nella
identificazione con la
Sostanza. In senso opposto, cioè di
perfetta soggettività, si sviluppa l'
a. nel pensiero di Fichte che
lo identifica con l'attività di un soggetto puro. Differenziandosi da
entrambi, Schelling giunge all'affermazione del carattere indivisibile di
soggetto-oggetto dell'
a.: "atto di conoscenza eterna, che è la
propria sostanza e materia e la propria forma". È imprimendo alla propria
essenza una
forma che l'
a. da soggettività
a.
diventa oggettività
a. Non vi è alcuna priorità
cronologica tra i due aspetti di essenza e forma, poiché "l'
a. non
crea mai altro che se stesso". Da questa fase, detta dell'
idealismo
trascendentale, Schelling andò orientandosi verso una interpretazione
dell'
a. sempre più marcatamente religiosa che lo portò ad
affermare che le cose "non possono giustificarsi come un prolungamento
dell'
a., ma solo come un
distacco dall'
a.". Il problema
dell'
a. si trova anche al centro della dialettica hegeliana che intende
migliorare, in atto, l'immanenza dell'infinito nel finito, dell'
a. nel
divenire. Con Hegel risorge il concetto di spirito come
logos universale,
unità di soggetto e oggetto, per cui la realtà non è che
manifestazione dello spirito e questo è natura (oggetto) che acquista
coscienza di sé (soggetto); natura che si concepisce come libertà
e si nega come esteriorità e passività. Lo spirito è
l'
a. e trovare il significato e il valore di questa definizione è
compito di ogni filosofia e di ogni scienza. La religione cristiana ce ne
dà il nome: Dio. Alla filosofia spetta il compito di definirne il
contenuto. In senso più propriamente religioso, il concetto di
a.
si presenta nell'ambito della corrente filosofica dello spiritualismo,
sviluppatosi in Francia nel corso del XIX sec. C. Secrétan, definita la
filosofia come "intelligenza dell'universo", afferma che essa porta al
riconoscimento dell'
a., cioè di Dio che, per essere infinito,
increato e incondizionato, è
a. libertà. Pertanto, a Dio
solo si addice la formula "io sono ciò che voglio", poiché egli
solo è puro spirito e determina da se stesso la propria attività.
L'uomo non potrebbe comprendere tale
a. se non trovasse
nell'intimità della propria coscienza l'intuizione che il suo spirito
è attività, volontà, libertà. Si tratta ovviamente
di una libertà condizionata e che perciò rimanda all'
a.
libertà che è propria di Dio. •
Mus. -
Musica a.: musica che, attraverso l'intero gioco formale delle
proprie strutture, esprime soltanto se stessa; quindi non ha alcun riferimento a
temi esterni come invece succede per la musica descrittiva, la musica a
programma e, in genere, la musica rivestita di parole la quale tende, appunto, a
riprodurre quei sentimenti che sono, più o meno velatamente, espressi nel
testo. Hegel fu il primo filosofo che riuscì a dare una sistemazione
filosofica della musica
a. definendola capace di superare il proprio
eventuale oggetto esterno - ovvero l'intento descrittivo, il testo o il
programma - raggiungendo l'autonomia e una compiutezza propria entro una
struttura esclusivamente musicale, nella quale la musica è unicamente una
espressione soggettivistica. Anticamente Pitagora aveva intravisto la
possibilità dell'esistenza di una musica
metafisica (e quindi
a.) e anche Sant'Agostino si avvicinò a tale concetto che egli,
però, associò a un modello divino della musica stessa. Proprio dal
pensiero agostiniano sorse la distinzione fra
musica coelestis e
musica humana o
musica mundana: mentre la prima si avvicinava
all'idea di musica
a., le altre due forme erano legate alle espressioni
degli umani sentimenti e delle varie passioni cui l'uomo è soggetto.
Anche Schopenhauer riprese le concezioni hegeliane, ma egli volle comprendere
nella musica
a. anche quella rivestita di parole; egli, infatti,
affermava che nella musica con testo la musica, in se stessa, è in grado
di superare il contenuto e quindi può porsi nuovamente sul piano
dell'
a. Tra i compositori che affidarono alla musica
a. molte loro
creazioni primeggia indubbiamente Igor Stravinskij.