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Antipsichiatrìa.

Movimento di contestazione della psichiatria di tipo classico, che considera la malattia mentale una reazione a stimoli ambientali negativi. In disaccordo con le tendenze tradizionali di classificazione delle psicosi, accusate di escludere l'individuo che non accetta l'adattamento a una determinata funzione sociale, l'a. non identifica il disturbo mentale come problema individuale diagnosticabile e risolvibile farmacologicamente, ma pone grande attenzione alle relazioni interpersonali (dalla famiglia all'intera società), a partire dalle quali sono svolte le diagnosi e studiate le possibili terapie. Ne consegue la critica radicale rivolta alle istituzioni manicomiali, considerate in genere strutture repressive, luogo di violenza e segregazione, piuttosto che strumenti di riabilitazione del malato. Gli antipsichiatri propongono, come alternativa alla soppressione di tali istituzioni, la loro apertura verso l'esterno e ritengono essenziale il coinvolgimento della comunità intera per la comprensione delle dinamiche sociali che sono all'origine della malattia. Con particolare vigore tali critiche vengono mosse dagli antipsichiatri italiani, impegnati nel tentativo di reinserimento del malato nella società e nella realizzazione di strutture adeguate; in tal senso, un ruolo fondamentale ha avuto l'associazione Psichiatria democratica. Il movimento dell'a., nato negli anni Sessanta negli Stati Uniti (Scheff, Goffmann, Szasz) e in Inghilterra (Laing e Cooper), si è sviluppato in tutto il mondo occidentale. In Italia vi hanno aderito, fra gli altri, Basaglia, Pirella, Slavich, che si sono dedicati soprattutto alla riformulazione della tematica dell'assistenza psichiatrica pubblica (esperimento di manicomio aperto di Trieste).