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Aminta.

Dramma pastorale in cinque atti, un prologo e un epilogo, inframmezzati da cori e intermezzi di Torquato Tasso, rappresentato nel 1573, nell'isola del Belvedere, presso Ferrara. È scritto in versi endecasillabi e settenari alternati, i primi prevalenti nelle parti narrative, i secondi in quelle liriche. Nel prologo il dio Amore sfugge al controllo della madre Venere e decide di recarsi tra i pastori per ferire il cuore di una ninfa, Silvia, ancora restia alla sua legge, ossia all'amore di Aminta, giovane pastore innamorato di lei. Il primo atto si apre con un duplice dialogo: Dafne esorta Silvia a cedere al sentimento di Aminta, ma invano; Aminta rivela a Tirsi i suoi tormenti per il comportamento di Silvia e riferisce in che modo l'amore fosse germogliato nel suo animo. Il coro conclusivo esalta l'amore e l'età dell'oro, quando era possibile il libero espandersi dei sensi senza che alcun freno morale si opponesse. Il secondo atto presenta il monologo di un satiro, anch'egli innamorato di Silvia, e successivamente una sorta di schermaglia tra Dafne e Tirsi che, per favorire l'amore dei loro amici, decidono che Aminta debba incontrare la ninfa quando ella si troverà da sola a fare il bagno a una fonte. Il terzo atto si apre con il racconto di Tirsi che riferisce della disperazione di Aminta che, recatosi alla fonte, aveva trovata l'amata legata a un albero dal Satiro; era sì riuscito a liberarla, ma non era stato poi nemmeno degnato di uno sguardo dalla fanciulla subito fuggita. Appena Tirsi finisce il racconto, sopraggiunge Aminta ormai deciso a morire: la sua risoluzione diventa ancora più radicale quando arriva la ninfa Nerina con un pezzo di velo insanguinato e con la notizia che Silvia è morta durante la fuga, sbranata dai lupi. Nel quarto atto Silvia torna in scena e riferisce a Dafne di come sia riuscita a fuggire alla morte. Dafne allora le rivela la tremenda decisione di Aminta. Il cuore di Silvia solo adesso si apre alla pietà e in seguito, quando arriva il pastore Ergasto che racconta del suicidio di Aminta gettatosi da una rupe, all'amore. Il quinto atto si conclude però in maniera serena: il pastore Elpino annuncia che Aminta è salvo, che una siepe ha attutito la sua caduta e che ora il pastore si trova felice tra le braccia dell'amata. Il coro può così elevare un canto all'amore sereno e senza turbamento. Nell'epilogo Venere scende dall'Olimpo per cercare Amore, e rivolgendosi al pubblico chiede se si trovi tra gli spettatori. La scena ritorna così alla corte, alla vita maliziosa e gaudente della reggia. Tasso scrisse l'opera in un momento sereno della sua vita e volle rappresentare il momento idillico e sentimentale accanto a quello tragico. Il mondo pastorale viene a rappresentare una sorta di evasione, di ricerca di un mondo sereno da parte di una società raffinata rivolta al piacere, all'avventura amorosa. Il poeta fa entrare il mondo cortigiano in quello pastorale, facendo anche aperti e precisi riferimenti a personaggi dell'ambiente della corte ferrarese, non risparmiando nemmeno alcune allusioni polemiche (oggetto di satira è ad esempio il Pigna, un letterato cortigiano). Lo stesso poeta è perfettamente riconoscibile sotto le spoglie di Tirsi. Ma in quel mondo al di là della convenzionalità (una certa tendenza all'accademismo si riscontra anche nello stile), il poeta scopre il mondo dell'amore che è sofferenza e ansia trepidante in Aminta e Silvia; è sensualità in Tirsi e Dafne; e infine nel poeta è malinconica consapevolezza della fragilità di ogni incanto. Il poeta infatti ricerca sì l'abbandono al piacere, il vagheggiamento di un libero diffondersi dei sensi, di una sensualità che diventa gioia vitale, senza limiti e peccato, ma anche questo richiamo al piacere si veste di malinconia. Il poeta si lascia trasportare dal sogno ma lo sente subito irraggiungibile, illusorio e vi avverte la sensazione del disinganno.