In questo
importante anno elettorale e dopo l’ammissione delle difficoltà in Iraq
e in Medio Oriente gli Stati Uniti stanno spostando nuovamente la loro
attenzione internazionale verso il Centro e il Sudamerica, preoccupati per
l’ondata progressista che potrebbe creare problemi all’attuale ordine politico
internazionale e alla loro egemonia. Gli Usa si stanno riorganizzando per
intensificare nuovamente la loro influenza, a difesa dei privilegi esistenti e a
favore dei loro mercati. Si va dunque verso una polarizzazione politica,
favorita dal loro desiderio di recuperare il terreno perduto: sicuramente contro
Chávez e Morales; ma anche a svantaggio di Lula o di Correa in Ecuador e
con le recenti vane intromissioni per scongiurare il ritorno dei sandinisti al
governo del Nicaragua, come si è visto nelle elezioni tenutesi nel 2006;
cercando di ammorbidire i governi di Uruguay e Argentina; con
massicci aiuti a favore del fedele Uribe in Colombia. Lo scenario è
inoltre aggravato dalla situazione relativa al futuro delle risorse energetiche
del pianeta: petrolio, gas, acqua e minerali. L’avvicinarsi della fase che vedrà
l’esaurimento degli idrocarburi preoccupa notevolmente i vertici statunitensi e
le difficoltà incontrate nell’operazione Iraq e Medio Oriente peggiorano il
quadro. Di qui la necessità per gli Usa di assicurarsi le risorse vicine, che
fino ad oggi sembravano sicure. Tra i temi che l’America dovrà necessariamente
affrontare il prossimo anno, l’antiamericanismo occupa un posto
importante, che va al di là della critica alla guerra in Iraq e alla politica
estera dell’amministrazione di George W. Bush. Tutti i sondaggi dell’opinione
pubblica mondiale, infatti, segnalano un peggioramento dell’immagine degli Usa
nel mondo sempre più percepiti, al di fuori dei loro confini, come arroganti,
avidi e unilateralisti. Al di là delle tensioni politiche, i rapporti con
Venezuela ed Ecuador si reggono sull’intenso scambio commerciale –
petrolio ma non solo –, che spinge gli Stati Uniti e i suoi vicini a non
tagliare tutti i legami. Ancora oggi, il 60% delle esportazioni di petrolio
venezuelano viene assorbito dagli Usa per i quali le importazioni dal Venezuela
rappresentano l’11% del totale. Nei primi tre mesi del 2006, le esportazioni di
prodotti non petroliferi venezuelani verso gli Stati Uniti sono aumentate del
116%, mentre ldel Nord ha fornito a Caracas le automobili e i prodotti
elettronici destinati alla classe media. Ugualmente Bush non ha potuto far altro
che complimentarsi con il neoeletto presidente dell’Ecuador Rafael Correa
visti gli interessi statunitensi nel piccolo Paese sudamericano. Non c’è solo la
base militare, ma anche i contratti per lo sfruttamento del petrolio. Nel giugno
scorso, Quito ha cancellato il contratto della statunitense Occidental Petroleum
(che operava nella regione nord-orientale amazzonica, producendo circa un quinto
della produzione annuale ecuadoregna), accusata di una vendita irregolare. Lo
scontro tra Stato e società petrolifere si è inasprito ulteriormente quando il
Parlamento ecuadoregno ha deciso di alzare le imposte per le compagnie dal 20%
al 50%. La compagnia di Stato Petroecuador, sostenuta dai movimenti popolari
ecuadoregni, ha spiegato la misura con l’aumento del prezzo del petrolio e con
l’obiettivo di investire nel Paese i profitti del greggio. Tuttavia per
l’Ecuador diversamente dal Venezuela è più difficile giungere al braccio di
ferro con gli Usa perché Quito deve fare i conti con il pesante debito estero,
vicino agli 11 miliardi di dollari, che tutti i candidati alle ultime elezioni
hanno affermato di voler rinegoziare per effettuare investimenti in salute,
istruzione e tecnologia. Per tutti questi motivi, è difficile immaginare una
guerra commerciale netta tra Quito e Wa-shington. Gli Usa infine sono il primo
partner commerciale dell’Ecuador, che vi esporta circa metà della sua produzione
totale. Dal canto loro gli Usa non possono trascurare un mercato energetico che
potrebbe crescere in modo esponenziale nei prossimi anni, facendo concorrenza ai
Paesi del Medio Oriente. Infine l’esperienza del Venezuela, che esporta oltre la
metà del suo petrolio negli Usa, dimostra che i contrasti politici non bloccano
i rapporti economici. Esaminiamo ora gli avvenimenti principali nei singoli
Stati.
Le elezioni politiche anticipate in Canada (23 gennaio) sono terminate
con la vittoria di stretta misura dei conservatori di Stephen Harper che
con il 36% dei voti hanno battuto i liberali del premier uscente Paul Martin,
la cui immagine è stata screditata da corruzione e scandali. Il governo sarà
dunque un monocolore di minoranza, com’era quello di Martin (tenuto in piedi dal
sostegno esterno della sinistra di Jack Layton), perché i conservatori non sono
riusciti a conquistare la maggioranza assoluta dei 308 seggi della Camera
federale, aggiudicandosi solo 124 seggi (il già debole governo Martin ne aveva
135). Il nuovo esecutivo, composto interamente da conservatori, andrà di volta
in volta in Parlamento a cercare i voti necessari ad approvare le proprie leggi.
I conservatori hanno incentrato la campagna elettorale sul taglio delle tasse e
sul rigore; sono l’unica forza politica canadese ad aver appoggiato la guerra
contro l’Iraq; si oppongono al rispetto del Protocollo di Kyoto sulle emissioni
di gas inquinanti in atmosfera e appoggiano il progetto di scudo spaziale del
Pentagono. Mentre i governi di Chrétien e Martin sono stati più vicini
all’Europa che agli Stati Uniti, Harper ha promesso di ricucire lo strappo con
Washington, anche se è probabile che i conservatori avranno difficoltà a trovare
i voti necessari per far passare l’adesione allo scudo spaziale di Bush o
l’invio delle truppe in Iraq, così come a promuovere una sanità di stampo
statunitense dal momento che gli altri partiti sono su posizioni diverse. Un
altro dato importante che è emerso dalle urne è la sconfitta del Bloc Québecois,
il partito della minoranza francofona guidato da Gilles Duceppe che ha
perso quattro seggi, passando da 55 a 51. Considerato che le elezioni anticipate
sono state causate dall’emergere dello scandalo per corruzione dei liberali in
Québec, i vertici del partito francofono contavano in un’affermazione elettorale
importante che consentisse di puntare verso un nuovo referendum per il
separatismo. Con questo risultato lo slancio separatista diminuisce perché i
voti persi dai liberali nella provincia sono andati in parte ai conservatori.
Tuttavia in febbraio ha visto la luce un nuovo partito indipendentista di
sinistra, Québec Solidaire, guidato da Françoise David e Amir Khadir.
Soddisfatto l’Ndp (Nuovo partito democratico) di Jack Layton, anche se
l’aumento di seggi è stato più contenuto di quello che il leader si aspettava. I
conservatori, tradizionalmente forti nell’Ovest del Paese, dalle Grandi pianure
alla costa del Pacifico, hanno fatto breccia, questa volta, nella provincia più
popolosa, quella dell’Ontario, per tradizione roccaforte liberale, e,
parzialmente, nel Québec. La svolta a destra del Canada preoccupa chi teme lo
smantellamento dello stato sociale, all’insegna del “meno tasse” e “meno spesa
pubblica”, in un Paese finora meno liberista degli Stati Uniti e più simile a un
Paese europeo. Come promesso il primo atto importante del nuovo governo è stata
la presentazione di un progetto di legge (11 aprile) sull’imputabilità che ha
come obiettivo il risanamento dei costumi politici a Ottawa. Il progetto prevede
una serie di misure sul finanziamento dei partiti, il controllo dei processi
amministrativi e di bilancio, e il miglioramento della legge sull’accesso alle
informazioni. In linea con le sue promesse elettorali il governo ha poi
presentato la sua prima legge di bilancio che prevede un alleggerimento fiscale
grazie a una riduzione della tassa su prodotti e servizi dell’1%; aiuti ai
genitori con figli piccoli; l’annullamento delle liste d’attesa nei servizi
sanitari e la correzione dello squilibrio fiscale tra governo federale e
province.
Elezioni anche in Costa Rica dove il 5 febbraio si è votato per eleggere
il presidente, i due vicepresidenti, i 57 deputati che compongono l’Assemblea
legislativa e i sindaci di 81 città. Dei 14 candidati solo due avevano qualche
possibilità di vincere: il premio Nobel per la pace Oscar Arias, già capo
dello Stato tra il 1986 e il 1990, del Partito socialdemocratico di Liberazione
nazionale (Pln), e un dissidente dello stesso partito, il centrista Otton
Solis, ministro della Pianificazione durante la presidenza Arias, che si è
presentato con la lista Partito azione cittadina (Pac). Sostenitore senza
riserve dell’accordo del Trattato per il libero commercio con gli Usa (Tlc),
Arias si è presentato con gli obiettivi di raggiungere una crescita annua del
6%, di sconfiggere la piaga dell’abbandono scolastico e di creare migliaia di
posti di lavoro e ha fatto di tutto pur di essere candidato, riuscendo anche a
cambiare la Costituzione, che ne impediva la rielezione alla presidenza. La
proposta politica di Solis va in senso opposto e la sua campagna elettorale ha
fatto perno sul rifiuto del Tlc, sulla protezione delle imprese statali e sugli
investimenti nel sociale. La legge elettorale costaricana permette la vittoria
al primo turno del candidato che superi la soglia del 40% più uno dei voti.
Trascorso un mese dal voto, il Tribunale supremo delle elezioni costaricano,
terminato il riconteggio manuale delle schede deciso dopo che, dallo scrutinio
elettronico dell’87,3% delle schede, i due principali candidati erano in parità,
ha dichiarato presidente eletto Arias con il 40,5% dei voti contro il 40,3 % di
Solis. Molto alto l’astensionismo (34,7%) a causa degli scandali che hanno
coinvolto gli ultimi tre presidenti della Repubblica, accusati di corruzione:
Rafael Ángel Calderón, Miguel Ángel Rodríguez e José María
Figueres si sono trovati invischiati in vari scandali che hanno portato i
primi due in carcere e costretto il terzo all’esilio in Svizzera. Dal canto suo
il presidente uscente, lo psichiatra Abel Pacheco, non è stato in grado
di guidare il Paese in questi difficili momenti, limitandosi a raggiungere
stancamente la fine del mandato, preoccupato soprattutto di evitare conflitti
sociali. Sarà dunque il suo successore a dover fare i conti con le proteste
popolari suscitate dalla riforma fiscale e dall’adesione al Tlc e con le
richieste di maggiori investimenti nella sanità e nell’istruzione e un generale
rilancio dell’economia (nonostante infatti il Costa Rica sia il Paese più
benestante del Centroamerica, almeno il 20% della popolazione vive in condizioni
di estrema povertà). I sindaci temono che Arias, intenzionato a portare il Costa
Rica verso un’economia neoliberale aprendo il mercato interno ai settori che
ancora sono protetti dallo Stato (in primo luogo sanità e telecomunicazioni),
conduca allo sfacelo lo stato sociale.
In agosto a Cuba il presidente Fidel Castro è uscito dalla scena
politica, costretto a farsi da parte dalla malattia – è stato operato d’urgenza
all’intestino –, mentre a Miami gli esuli anticastristi facevano festa, sfilando
per le strade della città statunitense. Secondo la Costituzione cubana dovrebbe
essere il vicepresidente a svolgere le funzioni del presidente in caso di morte
o grave malattia e infatti Fidel stesso, che il 13 agosto ha compiuto 80 anni,
ha lasciato il comando al fratello Raúl, ministro della Difesa e vicepresidente.
A sorpresa, prima di ritirarsi, il líder máximo ha presenziato al XXX Vertice
dei capi di Stato del Mercosur, l’unione commerciale di cui fanno parte
Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay e dal 5 luglio anche il Venezuela,
firmando un accordo economico in base al quale viene raddoppiata la quantità di
prodotti che possono entrare nell’isola senza dazi doganali o con tariffe
ridotte (21 luglio). Intanto il Parlamento europeo ha approvato a larga
maggioranza (560 voti a favore, 33 contrari e 19 astenuti), e con l’appoggio
anche dei partiti socialisti, una risoluzione (3 febbraio) nella quale si fa
capire che, visto il comportamento del regime castrista in materia di
repressione dei diritti, sarà molto difficile che migliorino le relazioni tra
Unione europea e Cuba. La nuova risoluzione è la conseguenza dell’atteggiamento
del governo cubano che ha continuato a dare segnali di netta intransigenza nei
confronti dei dissidenti, tanto che nel corso del 2005 non solo non sono stati
scarcerati prigionieri politici ma il loro numero è aumentato. E questo
nonostante, nel gennaio 2005, l’Ue avesse eliminato alcune delle sanzioni
introdotte dopo i 75 arresti del marzo 2003.
Nel Salvador le elezioni legislative (12 marzo) sono terminate con la
vittoria di strettissima misura dell’Alleanza repubblicana nazionalista (Arena,
al potere dal 1989), che ha ottenuto il 39,42% dei consensi contro il 39,10% del
Frente Farabundo Martí di liberazione nazionale (Fmln, ex guerriglia di
sinistra). L’Arena, il partito del presidente Antonio Saca, ha ottenuto
34 seggi contro i 32 dell’Fmln. Nelle contemporanee elezioni amministrative,
l’Arena ha ottenuto 147 sindaci su 262, contro i 52 dell’Fmln che però ha
conquistato la capitale San Salvador.
In Giamaica Portia Simpson, del Partito nazionale del popolo (Pnp,
People’s National Party di stampo laburista), ha preso il posto (30 marzo) di
Percival J. Patterson, da 14 anni alla guida del Paese, che ha deciso di
ritirarsi dalla vita politica. La Simpson, avendo vinto le primarie interne al
partito di governo (26 febbraio), aveva automaticamente guadagnato il diritto a
succedere al primo ministro in carica. Prima donna premier della Giamaica, la
Simpson dovrà fare i conti con il problema della violenza diffusa e mantenere la
promessa da lei fatta di difendere i ceti emarginati.
In Guatemala, a tre anni dall’elezione di Oscar Berger l’economia
ristagna, le violenze continuano mentre agli ex membri delle organizzazioni
paramilitari il presidente ha concesso sussidi in denaro. Ex sindaco della
capitale, Berger era stato eletto presidente al secondo turno con il 54,13% dei
voti contro il 45,87% del candidato del centrosinistra Alvaro Colom.
L’elezione rappresentò una netta rottura con il governo Portillo, che aveva dato
voce agli interessi particolari legati alla destra e quindi all’esercito.
Intanto, per la prima volta nella storia del Guatemala, tre persone saranno
giudicate per genocidio, terrorismo di Stato e torture per i fatti accaduti
durante la cosiddetta “guerra sucia” (cioè “guerra sporca”, un regime di
violenza indiscriminata, persecuzioni e repressione illegale durato 36 anni, dal
1960 al 1996): il generale ángel Guevara, ministro della Difesa durante
il regime di Romero Lucas García (1978-82) quando fu assaltata
l’ambasciata spagnola; German Chupina, direttore generale della polizia
durante lo stesso periodo, e Pedro Garcia Arredando, capo del terribile
Comando 5 della polizia, incaricato di reprimere gli oppositori politici. A
giudicarli sarà la Audiencia Nacional di Spagna che in novembre ha emesso gli
ordini internazionali di cattura. A questo organismo il premio Nobel per la pace
Rigoberta Menchú aveva sporto denuncia di genocidio (1999) dopo
l’omicidio di quattro missionari spagnoli, la sparizione di un quinto e
l’assalto all’ambasciata spagnola condotto dalla polizia, nel quale morirono 37
persone fra cui il padre della Menchú (31 gennaio 1980). La vicenda ha
evidenziato le spaccature della società guatemalteca. Da una parte le
organizzazioni umanitarie e le famiglie dei desaparecidos hanno salutato questo
processo spagnolo come l’inizio della fine dell’impunità; dall’altra i settori
reazionari e legati al potere hanno definito la misura un’“inaccettabile”
ingerenza di un Paese straniero negli affari interni di uno Stato sovrano.
L’ordine di cattura riguarda anche Oscar Humberto Mejia e Rios Montt
(che tuttavia per ora, grazie a cavilli burocratici, sono rimasti fuori dal
procedimento): secondo lo studio eseguito dal vescovo assassinato Juan Gerardi
“Guatemala, nunca mas” e la documentazione raccolta dall’Onu “Guatemala, memoria
del silenzio”, quando Montt fu al potere (1982-83) si registrarono il 69% delle
esecuzioni, il 41% degli stupri e il 45% delle torture perpetrate nel corso dei
36 anni della “guerra sucia”.
In vista delle elezioni presidenziali e legislative del 7 febbraio, le prime
dopo la caduta, il 29 febbraio 2004, del regime dell’ex presidente Jean Bertrand
Aristide, l’ondata di violenze che a partire da novembre 2005 ha investito
Haiti è andata aumentando. Il Paese si trova sotto il controllo delle
Nazioni Unite, intervenute nel 2002 quando si erano moltiplicate le
manifestazioni contro il governo di Aristide, accusato di essere stato rieletto
nel 2000 grazie a brogli. Il 26 settembre 2005, il Consiglio elettorale
provvisorio di Haiti aveva pubblicato una lista di 32 candidati autorizzati a
partecipare alle presidenziali, fissate inizialmente per il 20 novembre, termine
che, dopo ulteriori slittamenti, era stato spostato a febbraio 2006. Il 2
febbraio sono dunque giunti sull’isola gli osservatori delle Nazioni Unite per
controllare il regolare andamento del voto. Le consultazioni, che hanno visto
una partecipazione molto elevata (tra il 75 e l’80%), sono terminate con la
vittoria al primo turno di René Préval, ex primo ministro e fedele
sostenitore di Aristide, che ha ottenuto il 51,15% dei voti. Nei giorni
precedenti la proclamazione della vittoria si è temuto il peggio dopo il
ritrovamento di migliaia di schede elettorali, tutte a favore di Préval,
bruciate e buttate in una discarica pubblica. Le denunce su possibili brogli
hanno costretto il presidente ad interim Alexandre Boniface ad aprire
un’inchiesta per fugare ogni possibile dubbio. Inoltre il ritrovamento delle
schede elettorali ha generato nuova tensione sociale, facendo ripiombare Haiti
nel clima di violenza e dando il via a nuovi scontri con gli uomini della
Minustah, la Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite, scontri alimentati
dalla popolazione delle bidonville che non ne voleva sapere di eventuali
ballottaggi. Préval ha ereditato un Paese nel caos, senza strade né elettricità
e con l’economia in ginocchio. Il neopresidente aveva già guidato l’isola dal
1996 al 2001, ma senza grandi risultati: i pochi successi ottenuti erano stati
offuscati da denunce di violazioni di diritti umani e accuse di brogli nelle
parlamentari del 2000. Durante la campagna elettorale Préval ha dichiarato di
avere due obiettivi: la crescita economica e il rafforzamento delle istituzioni.
Infine Préval dovrà fare i conti con le pressioni del partito Lavalas, il
partito di Aristide, che chiede il ritorno dell’ex presidente. Quest’ultimo ha
negato di essersi dimesso, accusando i governi di Wa-shington e Parigi di averlo
sequestrato e costretto ad abbandonare il Paese. Il 3 dicembre infine si sono
tenute anche le elezioni per sindaci, giudici di pace, delegati regionali,
seconda tappa del programma di decentralizzazione del potere iniziato il 7
febbraio. La tensione e la violenza sono cresciute – nella capitale si sono
registrati molti incidenti e addirittura 4 morti – mentre la partecipazione al
voto non è arrivata al 10%.
Elezioni presidenziali anche in Messico (2 luglio) dove si sfidavano
cinque candidati: Roberto Mandrazo, candidato del Pri (Partido
Revolucionario Istitucional) e dei Verdi, Patricia Marcado, candidata
socialdemocratica, Roberto Campa, fuoriuscito dal Pri e ora candidato
della Nueva Alianza, Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo, candidato
del Prd (Partido Revolucionario Demócrata che guida un’alleanza tripartita), e
Felipe Calderón, candidato del Pan (Partido Acción Nacional,
centrodestra) del presidente uscente Vícente Fox. Solo due di loro, però,
avevano concrete possibilità di essere eletti: Obrador e Calderón, protagonisti
di uno scontro senza esclusione di colpi. Calderón ha definito Obrador un
pericoloso populista la cui vittoria avrebbe provocato una fuga di capitali e
una crisi economica, lo ha accusato di non aver mantenuto gli impegni presi
durante il suo mandato come sindaco di Città del Messico, indebitando
pesantemente il Distretto federale, e di mantenere amicizie “pericolose” con il
subcomandante Marcos e con gli aderenti alla Otra Campaña (“l’altra
campagna”). Quest’ultima è stata lanciata il 1° gennaio da Marcos: per sei mesi
l’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) ha attraversato il Paese
per promuovere un progetto politico alternativo. Marcos ha attaccato duramente
tutti i candidati alla presidenza, compreso Obrador, invitando i messicani a non
andare a votare e a unirsi al suo movimento con l’obiettivo di dar vita a un
nuovo modo di far politica, partendo dal basso e coinvolgendo tutte le
componenti della società. A infiammare ulteriormente il dibattito pubblico è
stata la minaccia fatta dalla moglie di un imprenditore, condannato per truffa,
di diffondere un video con immagini che testimonierebbero la corruzione di
Obrador. Dal canto suo quest’ultimo ha accusato l’avversario di aver abusato del
suo potere quando era ministro dell’Energia, firmando importanti contratti a
favore del cognato, consentendogli anche l’evasione fiscale. Obrador ha poi
dimostrato che, durante il suo mandato come sindaco di Città del Messico, sono
calati in modo sensibile i reati minori (ad esempio furti e spaccio) e ha fatto
sapere che, in caso di vittoria, avrebbe convocato i rappresentanti delle
chiese, le associazioni di imprenditori e quelle della società civile per
costruire insieme un nuovo “patto sociale” e far avanzare l’economia messicana.
Calderón invece, ha illustrato il suo progetto per colpire duramente la
delinquenza e, sostenuto dal candidato del Pri Mandrazo, ha proposto il carcere
a vita per le persone che si macchino del reato di sequestro di persona. Il
maggiore punto di scontro tra i due candidati favoriti è stato sicuramente come
e quanto debba contare la presenza dello Stato nell’economia nazionale e nella
gestione delle risorse. Obrador ritiene che il surplus del bilancio dello Stato
derivante dai prezzi molto alti del greggio sul mercato internazionale debba
essere reinvestito in patria, per la creazione di posti di lavoro in raffinerie
e impianti petrolchimici, oltre che essere utilizzato per dare sussidi
sull’acquisto dei carburanti a favore delle fasce più deboli della popolazione;
inoltre Amlo ne vorrebbe ridurre le esportazioni per favorire il consumo interno
anche su scala industriale oltre che per uso privato. Per Calderón invece, i
guadagni petroliferi andrebbero reinvestiti per cercare, insieme alle
multinazionali, nuovi giacimenti in modo da produrre di più per incrementare le
esportazioni e, di conseguenza, gli introiti per lo Stato. Anche la questione
del rapporto con gli Stati Uniti soprattutto per quanto riguarda la questione
dell’immigrazione clandestina è stato un tema di discussione in campagna
elettorale. Sono migliaia, infatti, i messicani che ogni anno attraversano
clandestinamente la frontiera settentrionale in cerca di fortuna negli Stati
Uniti e secondo la Bbc dei 10 milioni di messicani residenti negli Usa, quattro
sono illegali. Le elezioni del 2 luglio hanno rappresentato dunque una contesa
tra due progetti politico-economici diversi specchio di un conflitto tra classi.
Settori molto importanti di lavoratori ed emarginati hanno visto nella
candidatura di Obrador una speranza per migliorare le proprie condizioni di
vita; al contrario una parte molto significativa degli imprenditori era convinta
che il candidato del centrosinistra fosse una minaccia al modello di Paese che
vogliono vedere affermato. Le consultazioni sono terminate, dopo un estenuante
conteggio delle schede, con la vittoria di misura di Calderón che con il 35,89%
dei consensi ha battuto Obrador fermo al 35,31% (gli osservatori internazionali
avevano pronosticato la vittoria di Obrador forse influenzati dalla svolta
dell’America latina, che ha spinto molti a vedere nell’ex sindaco di Città del
Messico un probabile nuovo presidente di sinistra). Patricia Mercado del
Partido de alternativa socialdemocratica e campesina (Pasc) e Roberto Campa
di Nueva Alianza, si sono attestati rispettivamente in terza (2,71%) e quarta
posizione (0,94%). A questo punto, Obrador, considerato nel corso della campagna
elettorale l’uomo giusto per dare il via a una nuova era politica in Messico,
dove la sinistra non ha mai vinto le elezioni, ha chiesto il riconteggio manuale
delle schede elettorali, per supposte anomalie riscontrate durante lo scrutinio
dei voti. Nel frattempo migliaia di persone si sono riuniti a Città del Messico
per manifestare a sostegno di Obrador (8 luglio) e al termine di una
manifestazione sempre nella capitale, sono stati allestiti 47 presidi permanenti
(30 luglio). Dopo una serie infinita di ricorsi, scambi di accuse, denunce di
brogli, con un dettagliato documento di oltre 300 pagine, il Tribunale
elettorale ha posto fine alla contesa assegnando definitivamente la vittoria a
Calderón (5 settembre). Per quanto riguarda invece le legislative il Pan ha
conquistato per la prima volta la maggioranza relativa davanti al Prd in
entrambe le camere. Il Prd ha trionfato nel Sud povero e il Pan nel Nord più
ricco. Washington ha accolto con sollievo la decisione del Tribunale dal momento
che la politica neoliberista del Pan, che segue i dettami di Banca mondiale (Bm)
e Fondo monetario internazionale (Fmi), è vista con favore in un’America latina
che va sempre più a sinistra. Nonostante il verdetto del Tribunale elettorale,
il 16 settembre, giorno dell’indipendenza del Messico, migliaia di manifestanti
hanno proclamato Obrador “presidente legittimo”. Amlo ha ricevuto la fascia
tricolore della presidenza dalla senatrice del Partido de la revoluciòn
democràtica Rosario Ibarra de Pietra, attivista per i diritti umani
contro i crimini perpetrati dall’esercito e dalle forze di polizia durante la
guerra contro-rivoluzionaria degli anni Settanta. Il discorso di Obrador ha
toccato diversi punti, assumendo in parte le richieste più radicali della Appo
(Assemblea popolare dei popoli di Oaxaca), e di altri movimenti sociali: difesa
e incremento dei salari minimi, rifiuto della privatizzazione delle risorse
petrolifere, elettriche e della biodiversità, educazione laica e gratuita,
sostegno ai migranti e rifiuto del muro tra Stati Uniti e Messico. Infine
Obrador ha convocato la piazza per il 1° dicembre per guidare un corteo verso il
palazzo legislativo dove, secondo il protocollo, il presidente entrante Calderón
avrebbe ricevuto la fascia tricolore dalle mani del presidente uscente. Il 1°
dicembre come stabilito, i militanti del Partido de la revoluciòn democràtica (Prd),
la società civile organizzata nella Convenzione nazionale democratica e
organizzazioni della sinistra marxista si sono date appuntamento nel centro di
Città del Messico per sostenere l’ostruzionismo dei deputati e senatori del
partito contro la cerimonia di investitura del contestato neopresidente. Ma
diversamente dalle aspettative Felipe Calderón è stato nominato presidente del
Messico la notte precedente con una cerimonia a porte chiuse, accompagnato
solamente dai vertici delle Forze armate e dai membri del gabinetto uscente e di
quello entrante. Il nuovo presidente ha tenuto un lungo discorso, accompagnato
dal nuovo gabinetto tra i cui membri spicca il vicedirettore del Fondo monetario
internazionale Agustín Carstens all’Economia e Francisco Ramirez Acuña
all’Interno. Il primo provvedimento preso da Calderón (3 dicembre) è stato una
riduzione del 10% del suo stipendio e di quello dei suoi ministri. Ha poi
annunciato un piano di austerità che prevede la riduzione degli stipendi dei più
alti funzionari pubblici, in modo da far risparmiare allo Stato 2,5 miliardi di
dollari nel 2007. Al movimento di protesta post-elettorale si sono intrecciati i
conflitti sociali a Oaxaca e in Chiapas. A Oaxaca, città del Messico meridionale
e capitale dello Stato omonimo, una semplice protesta locale si è trasformata in
un caso nazionale, che ha rischiato di mettere a rischio la stabilità del Paese.
Il 22 maggio infatti migliaia di insegnanti sono scesi in piazza per chiedere un
aumento di salari e aiuti per i propri studenti, privi dei minimi strumenti di
apprendimento. Al rifiuto di lasciare la piazza, il governatore dello Stato
Ulises Ruiz ha inviato un migliaio di agenti, che sono intervenuti con
violenza contro gli insegnanti. A questo punto la protesta è cresciuta e,
organizzatasi sotto il nome di Appo (ne fanno parte più di 350 organizzazioni
civili, tra cui sindacati e movimenti indigeni), ha cominciato a chiedere le
dimissioni di Ruiz, accusato di aver falsificato le ultime elezioni e di
reprimere il dissenso. In tre mesi la protesta è degenerata in guerriglia urbana
(decine di migliaia di persone in piazza, blocchi stradali ecc.) finché alla
fine di agosto l’occupazione di stazioni radio e televisive locali da parte
della Appo è finita in tragedia con un misterioso incendio che ha provocato
alcune vittime. Il 29 ottobre le forze di polizia, su ordine del presidente Fox
ancora in carica – Calderón si insedierà nei mesi successivi –, hanno lanciato
una vasta operazione per cercare di porre fine alle proteste, riprendendo il
controllo della piazza principale mentre anche il Parlamento federale chiedeva
le dimissioni di Ruiz. Intanto gli Stati Uniti hanno deciso di costruire una
barriera di 1.000 km al confine con il Messico per impedire l’ingresso degli
immigrati clandestini: ogni anno sono almeno trecento i clandestini che perdono
la vita nel tentativo di raggiungere gli Usa. Secondo l’opposizione, la
migrazione di massa verso il Nord è un chiaro segnale dell’insuccesso delle
politiche di Fox. Ricorrendo all’uso della forza militare invece di puntare
sulla cooperazione con il Messico, gli Stati Uniti hanno fatto capire che non
considerano più il Paese un partner affidabile in materia di sicurezza. Le
misure annunciate da Washington – invio della guardia nazionale alla frontiera
con il Messico, costruzione di un muro lungo 535 km, uso di sensori che rilevano
i movimenti, di telecamere a infrarossi e di aerei da ricognizione senza pilota
– vengono criticate da più parti sia perché non in grado di combattere
efficacemente il problema dell’immigrazione illegale sia perché nasconderebbero
disegni politici di altra natura.
Anche in Nicaragua si sono tenute le elezioni presidenziali (5 novembre),
in un clima di generale disinteresse in un Paese dove su 5 milioni e mezzo di
abitanti, oltre 4 milioni vivono sono sotto la soglia di povertà. Per tutta
l’estate, nei sondaggi sulle intenzioni di voto, aveva la meglio Daniel
Ortega, leader storico del Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln)
e presidente del Paese dal 1979 al 1990, ma alla vigilia del voto l’incertezza
regnava sovrana. In ogni caso i candidati più accreditati erano Ortega e
l’imprenditore Eduardo Montealegre, ex esponente del Plc (Partito
liberale costituzionalista), ex ministro delle Finanze e ora leader
dell’Alleanza liberale nicaraguense (Aln), gruppo antisandinista, espressione
del presidente uscente Enrique Bolaños, che ha dichiarato guerra al
“patto” fra Fsln e Plc, promosso dell’ex presidente Arnoldo Alemán. Se
sulla carta il Plc è una coalizione di destra, infatti, in realtà dagli anni
Ottanta, e più precisamente dal 1988 quando ancora Ortega era al comando, ha
dato vita con l’Fsnl a una manovra di controllo dei poteri, a cominciare da
quello giudiziario, che sta tenendo in scacco il Nicaragua. Ortega ha puntato
tutto su un nuovo Fronte, privo di ogni aspirazione rivoluzionaria, facendo
appello a concetti quali unità, amore e riconciliazione. In quest’ottica si pone
il patto con il Plc che ha mantenuto così divisi i due partiti liberali, i
quali, se uniti, avrebbero vinto. Inutile anche il tentativo statunitense di
unire il Plc con l’Aln di Montealegre, in nome del “voto utile”, quello contro
Ortega: il governo di Washington non vedeva di buon occhio la vittoria del
candidato del Fronte che non nasconde il rapporto di amicizia con il venezuelano
Chávez. Le possibilità di vittoria di Ortega sono cresciute dopo l’improvvisa
scomparsa di Herty Lewites, leader carismatico del Movimento rinnovatore
sandinista (Mrs). Ex sindaco di Managua, ministro e dirigente di primo piano
dell’Fsnl, Lewites fondò l’Mrs, a cui hanno aderito figure di primo piano del
sandinismo, dopo essere stato espulso dal partito proprio per aver proposto la
sua candidatura in alternativa ad Ortega. La scissione era inevitabile perché
sotto la guida di Ortega l’Fsnl ha accentuato il suo carattere settario e si è
trovato al centro di pesanti accuse di corruzione mentre la politica concreta
del partito ha perso la sua ispirazione originaria. A testimoniarlo è stata
anche la scelta del candidato vice presidente: Ortega ha scelto Jaime Morales
Carazo, uno dei principali capi politici della controrivoluzione. Carazo
iniziò la carriera politica sotto la dittatura di Somoza, di cui sposò
l’ideologia facendosene strenuo difensore; fu il negoziatore della Contra, la
guerriglia antisandinista appoggiata dalla Cia e uomo vicino ad Arnoldo Alemán,
divenuto presidente nel 1996 proprio sconfiggendo Ortega. Quest’ultimo ha
cercato di giustificare la scelta come un passo del processo di riconciliazione
nazionale anche se essa è parsa più come il risultato di una politica ambigua
che ha portato l’Fsnl a stringere il patto con il Plc, patto grazie al quale i
due partiti controllano il 90% del Parlamento (già nel 2005 votarono insieme una
legge che esautorava il presidente in carica, Enrique Bolaños). Quando si trattò
di approvare il Trattato di libero commercio (Tlc) con gli Usa, fortemente
osteggiato dalla base, i deputati sandinisti non votarono perché bastavano i
voti della destra, ma poi votarono le leggi di attuazione. Anche il Plc,
principale partito della destra, è oggetto di critiche. Nelle mani di Alemán, è
diventato uno strumento di potere per il suo leader e i suoi amici. Durante la
sua presidenza (1996-2001) Alemàn si è arricchito a dismisura e nel 2003 è stato
condannato a 20 anni di prigione per riciclaggio e malversazione, ma è riuscito
ad ottenere gli arresti domiciliari, con la possibilità di girare liberamente
nella capitale e di continuare la sua attività politica (per intercessione,
pare, dello stesso Ortega). Di fronte a questo stato di cose, la stessa
ambasciata americana, ha faticato a trovare un candidato, ostentando una certa
neutralità. Sconfessato il Plc, tradizionale alleato degli Usa, Washington,
aveva fatto un’apertura di credito verso Montealegre, della nuova formazione Aln.
Le consultazioni sono terminate con la vittoria di Ortega con un vantaggio di 7
punti su Montealegre. A riprova del fatto che la sua presidenza non implicherà
un ritorno al potere degli ideali rivoluzionari, lo stesso Ortega, nel suo primo
discorso pubblico dopo le elezioni ha detto che “non ci saranno cambi radicali
nella base dell’economia”. Le prime riunioni del neopresidente sono state con i
rappresentanti del Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca
interamericana di sviluppo (Bid), a cui è stata confermata la validità degli
accordi sottoscritti dai presidenti di destra che lo avevano sconfitto nelle tre
precedenti elezioni. Per quanto riguarda la politica estera, al di là del saluto
agli “amici” Fidel Castro, Hugo Chávez, Michelle Bachelet, Iñacio Lula da Silva
e Néstor Kirchner, è stato chiesto agli Usa di avviare un dialogo basato su
“relazioni rispettose” e Washington, benché avesse minacciato ritorsioni in caso
di vittoria di Ortega, ha risposto in modo sostanzialmente positivo. Ortega,
infine, ha chiesto a Montealegre di “lavorare assieme per il bene del Paese”.
Ancora non è chiaro quale sia il suo progetto politico, dal momento che dopo la
sconfitta elettorale del 1991, Ortega è radicalmente cambiato. Come molti altri
ex guerriglieri si è arricchito in modo notevole e poco trasparente e
soprattutto ha trasformato l’Fsln in un partito poco democratico, più strumento
di potere che espressione degli interessi popolari, da cui tutti gli oppositori
o i critici sono stati epurati. Ortega è stato anche definito “il miglior
garante del neoliberismo” per aver accettato la ratifica dell’accordo di libero
scambio con gli Usa rifiutato da tutti gli altri Paesi latinoamericani di
orientamento progressista perché accusato di essere deleterio per l’economia,
l’ambiente e i diritti dei lavoratori. La campagna elettorale di Ortega,
organizzata dalla moglie Rosario Murillo, ha fatto leva su un tono volto
a compiacere la destra clericale e il suo principale esponente, il cardinale
Miguel Obando y Bravo. Pochi giorni prima delle elezioni, accogliendo una
petizione presentata da cattolici ed evangelici integralisti, i deputati
sandinisti hanno votato, insieme alla destra, per abolire una legge in vigore
dal 1848 che permetteva l’aborto terapeutico in caso di pericolo per la vita
della madre, malformazione grave del feto e violenza carnale. Ora anche in
questi casi estremi l’aborto sarà punito con il carcere e il Nicaragua è
diventato il Paese con la legislazione più restrittiva del continente.
Nel tradizionale discorso sullo stato dell’Unione (31 gennaio), il presidente
degli Stati Uniti George W. Bush ha indicato una serie di priorità
per il 2006: guerra al terrorismo, a Iraq, Iran e Hamas, competitività
dell’economia e tasse, riforma della sanità e nuove tecnologie energetiche per
porre fine alla dipendenza americana dal petrolio mediorientale. Per Bush il
discorso sullo stato dell’Unione doveva rappresentare un nuovo inizio, dopo un
anno di polemiche politiche e di sondaggi deludenti, un ritorno ai programmi
ambiziosi di politica interna bruscamente interrotti dagli attentati dell’11
settembre del 2001. Politicamente il 2005 è stato l’anno peggiore per Bush.
L’indice di gradimento è crollato a causa della crescente disaffezione americana
alla guerra in Iraq, il Ciagate (il programma segreto di intercettazioni
telefoniche), l’inefficienza mostrata nei confronti dell’uragano Katrina e il
sospetto di corruzione della leadership repubblicana. Bush comunque continua ad
essere ritenuto affidabile come comandante in capo e la maggioranza degli
americani è disposta a rinunciare a un po’ di libertà pur di sentirsi sicura. Il
presidente ha affrontato anche i temi dell’energia e della sanità: per quanto
riguarda il primo punto, ha annunciato l’avvio di un vasto programma federale
per la ricerca e lo sviluppo di fonti energetiche alternative (Advanced Energy
Iniziative), spiegando che entro il 2025 l’America dovrà ridurre del 75% le
importazioni di petrolio, altrimenti il sistema economico americano rischia di
implodere. Il cambio di strategia annunciato potrebbe, secondo alcuni analisti,
avere dei risvolti di politica interna e rappresentare un modo per rilanciare la
popolarità presidenziale in vista delle elezioni di medio termine. L’instabilità
delle regioni mediorientali, da cui gli Usa importano petrolio, e soprattutto la
guerra in Iraq hanno provocato un forte rialzo dei prezzi del greggio, facendo
temere la crisi petrolifera degli anni Settanta e incrinando parzialmente i
rapporti tra Stati Uniti e Paesi dell’area mediorientale. Inoltre se sotto la
presidenza di Mohammad Khatami le divergenze erano rimaste sopite, con
l’elezione di Mahmoud Ahmadinejad la tensione è salita. Anche con il
Venezuela di Hugo Chávez l’amministrazione Bush ha inaugurato una politica
diplomatica piuttosto fredda, benché Washington continui ad acquistare petrolio
da Caracas. È dunque probabile che il ragionamento di Bush sia stato fortemente
influenzato dal fatto che in futuro sarà preferibile sviluppare energie
alternative, piuttosto che trattare con i “nemici”. Nonostante il fallimento
della riforma della previdenza sociale annunciata nel discorso sullo stato
dell’Unione del 2005, Bush ha accennato anche quest’anno alla riforma sanitaria
perché esiste la consapevolezza che il sistema potrebbe non reggere più. I
problemi sono due: i 46 milioni di non assicurati e l’alto costo dei servizi e
delle polizze. L’idea di Bush è quella di trasferire i benefici fiscali su nuovi
conti sanitari personali affidati a tutti i cittadini, i quali gestirebbero da
soli e senza sprechi la propria spesa sanitaria. In politica estera è stato
l’andamento del dopoguerra iracheno al centro delle preoccupazioni di
Washington. Il senato dominato dai repubblicani ha respinto tutte e due le
proposte che i democratici avevano avanzato durante il dibattito sul ritiro
delle truppe americane dall’Iraq (22 giugno). La prima, presentata da John
Kerry e Russ Feingold chiedeva il ritiro delle truppe entro luglio
del 2007, previo consenso del governo iracheno, ed è stata bocciata con 13 voti
contro 86; la seconda, che si limitava a chiedere a Bush di cominciare a
ritirare i soldati quest’anno, ma senza stabilire date, ha ricevuto 39 voti a
favore e 60 contro. Se anche tra le fila del partito repubblicano serpeggiava lo
scoraggiamento per l’andamento della guerra, prendere le distanze dalla
presidenza in piena guerra avrebbe potuto significare un disastro elettorale per
i candidati repubblicani. È parso meglio quindi rispondere alle critiche dei
democratici accusandoli di voler fuggire di fronte a una sfida difficile. Molti
repubblicani hanno comunque fatto capire di considerare la strategia rischiosa,
nonostante i piccoli successi come la formazione del nuovo governo iracheno e
l’uccisione di Abu Mussab Al Zarqawi. Le elezioni di mid-term hanno
costituito come sempre un referendum sull’operato del presidente e sul partito
al potere che quest’anno era ancora più tale dal momento che i repubblicani
controllavano sia la presidenza, sia i due rami del Congresso. Tutti i sondaggi
indicavano i repubblicani in netto calo e per diversi motivi. Prima di tutto ha
pesato negativamente la guerra in Iraq dove le prospettive di successo si sono
fatte sempre più incerte mentre le perdite di soldati americani sono aumentate
di giorno in giorno (104 i morti nel solo mese di ottobre). Durante la campagna
elettorale i democratici hanno dunque puntato il dito contro questa scelta
benché non abbiano presentato alcuna reale politica alternativa. Oltre al
disastro iracheno in politica estera hanno inciso anche le paure degli americani
per una ricaduta dell’Afghanistan in mano ai nemici, la strisciante presenza del
terrorismo islamico e la minaccia nucleare iraniana e nordcoreana. Anche sotto
il profilo economico si registrava un certo malcontento. Nonostante infatti gli
indicatori segnalino un buono stato dell’economia (forte crescita del Pil, bassa
inflazione, bassa disoccupazione e un forte calo dei prezzi della benzina), a
livello individuale c’è la percezione di non partecipare al benessere generale.
Infine la lunga permanenza dei repubblicani al potere ha portato a un
logoramento che si è tradotto nei numerosi scandali di corruzione che hanno
visto implicati membri repubblicani del Congresso e che hanno intaccato
l’immagine del partito repubblicano. Per soddisfare l’elettorato più
conservatore in vista delle elezioni (elettorato convinto che i latinos “rubino”
il posto di lavoro agli americani), Bush ha inserito nelle previsioni di spesa
del 2007 per la sicurezza nazionale la costruzione di un primo tratto del muro
tra Usa e Messico, che si propone di impedire l’ingresso degli immigrati
irregolari (4 ottobre). Il finanziamento, pari a 1,2 miliardi di dollari, copre
solo in parte il preventivo complessivo, stimato tra i 2 e i 9 miliardi. Le
elezioni si sono dunque concluse con una disfatta per i repubblicani, arrivati
al voto con 30 seggi di vantaggio. Il voto ha ribaltato la situazione alla
Camera, dando ai democratici la maggioranza con una trentina di seggi di
vantaggio. La vittoria dei democratici alla Camera ha rappresentato il trionfo
di Nancy Pelosi, la deputata italo-americana che ha guidato la minoranza
negli anni dell’indiscussa leadership repubblicana ed ora è destinata a
diventare la prima donna speaker della Camera. In quanto tale, la prima e
principale sfida della Pelosi sarà quella di mantenere la faticosa unità del
partito raggiunta per ottenere la vittoria. Una vittoria dovuta anche e
soprattutto ai democratici di destra, i cosiddetti “blue dogs”, che in molti
distretti hanno sconfitto i repubblicani sul loro stesso terreno, appellandosi a
valori quali la famiglia, una politica anti-tasse o il patriottismo. Un’ala
conservatrice con cui la Pelosi, pro aborto e progressista, dovrà
necessariamente dialogare. La scommessa della Pelosi sarà quella di far
convergere tutti sulla “new direction”, come ha denominato il suo programma
ristretto a pochi punti: aumento a 7,25 dollari del salario minimo sindacale
(fermo a 5,15 dal 1996), prezzi più bassi per le medicine nel programma di
assistenza sanitaria per i pensionati e un nuovo piano per l’Iraq. Anche al
Senato i democratici hanno ottenuto la maggioranza seppure di un solo seggio. I
seggi degli Stati di Virginia e Montana sono rimasti in bilico fino alla fine ma
poi in Montana il democratico John Tester ha battuto il senatore
repubblicano uscente Conrad Burns e in Virginia il democratico Jim
Webb ha superato di una manciata di voti il repubblicano George Allen.
In uno Stato-chiave per il Senato, il Missouri, i democratici hanno strappato un
seggio ai repubblicani con la cattolica Claire McCaskill, che ha superato
di 42 mila voti il rivale Jim Talent (senatore uscente e presbiteriano),
in una campagna caratterizzata anche dal successo di un referendum (“sì” 51%,
“no” 49%) per consentire la ricerca e le terapie con cellule staminali, in
accordo con le leggi federali e mettendo però al bando la clonazione umana. I
democratici hanno avuto la meglio anche nelle elezioni per i governatori che ora
sono democratici 28 su 50. Nei 36 Stati in cui si votava, i democratici hanno
strappato ai repubblicani sei governatori e questo potrebbe avere ripercussioni
anche sulle elezioni presidenziali del 2008 dal momento che il controllo di uno
Stato garantisce generalmente più contributi per la campagna elettorale, e un
governatore popolare può portare al suo partito molti voti in più. Grande è
stata l’affermazione di Hillary Clinton nello Stato di New York, dove la
moglie dell’ex presidente ha ottenuto l’84% dei voti. Tra i governatori è stato
rieletto in California Arnold Schwarzenegger e per la prima volta dopo 12
anni un democratico è tornato governatore di New York, Elliot Spitzer. Il
Massachusetts ha invece eletto il suo primo governatore nero, Deval Patrick.
In molti Stati, in concomitanza con le elezioni della Camera, del Senato e dei
governatori, si è votato per una serie di referendum. Oltre a quello del
Missouri, sulle cellule staminali, in otto Stati si è votato se mettere al bando
i matrimoni tra omosessuali. Colorado, Sud Dakota, Sud Carolina, Tennessee,
Virginia, Wisconsin e Idaho hanno approvato la proposta in cui si definisce
nella Costituzione dei rispettivi Stati che il matrimonio è l’unione fra un uomo
e una donna. Solo in Arizona l’emendamento non è passato. Con l’approvazione del
55% dei votanti, in California è passato un referendum che tassa le perforazioni
petrolifere per creare un fondo di 4 miliardi di dollari da destinare alle
energie alternative e ridurre il consumo di petrolio del 25%. In Colorado, Sud
Dakota e Nevada è stata bocciata la legalizzazione della marijuana. Sconfitti,
in Sud Dakota, gli antiabortisti. In Arizona, Colorado, Nevada, Montana, Ohio e
Missouri sono stati approvati referendum per l’aumento dei salari minimi. In
conseguenza del deludente risultato delle elezioni si è dimesso il segretario
alla Difesa Donald Rumsfeld, figura simbolo dell’amministrazione Bush, al
centro delle critiche popolari per via della gestione fallimentare del conflitto
in Iraq. Bush ha annunciato che alla Difesa sarà nominato Robert Gates,
ex direttore della Cia (1991-93) e membro della commissione bipartisan che,
sotto la presidenza di James Baker, sta esaminando la possibilità di un
cambio di strategia per l’Iraq (l’insediamento ufficiale di Gates è rinviato al
2007 perché soggetto all’approvazione del nuovo Senato). In ogni caso Bush ha
escluso il ritiro anticipato e l’avvio di negoziati diretti con Iran e Siria. La
stessa vittoria democratica non implica un imminente ritiro americano da Baghdad
o un cambio radicale della politica di Washington in Medio Oriente dal momento
che Bush rimane, nonostante la perdita della maggioranza in entrambi i rami del
Parlamento, il solo responsabile della politica estera, e l’unico mezzo che ha
il Congresso per fargli cambiare idea sarebbe un taglio dei fondi per la guerra.
In ogni caso i democratici, che pure hanno fatto dell’opposizione alla
conduzione del conflitto una delle loro più efficaci armi propagandistiche, non
hanno alcuna intenzione di abbandonare il campo e accettare la sconfitta.
Neppure Nancy Pelosi, una dei pochi deputati che a suo tempo votarono contro
l’attacco all’Iraq, ha intenzione di seguire questa linea. Inoltre le posizioni
all’interno del partito democratico vanno dai sostenitori di un ritiro immediato
(pochissimi) ai falchi che rimproverano a Rumsfeld di non avere inviato in Iraq
truppe sufficienti per sconfiggere la guerriglia (posizione condivisa da una
parte dei vertici militari). Resta il fatto che la vittoria dei democratici
offre l’occasione per mettere fine a una politica di rigido unilateralismo che
ha ignorato ogni critica all’amministrazione statunitense e apre la strada alla
creazione di una commissione d’inchiesta sulle vere ragioni della guerra in Iraq
e sulla gestione del dopoguerra. A gennaio dunque, quando inizieranno gli ultimi
due anni del mandato di Bush, il partito repubblicano non avrà la maggioranza né
alla Camera dei rappresentanti e nemmeno al Senato: non si pone comunque il
problema delle dimissioni del presidente, poiché negli Usa l’amministrazione in
carica non è legata alle maggioranze del potere legislativo e il Congresso non
può far cadere l’esecutivo. Dopo il voto gli Usa sono tornati dunque al
cosiddetto “governo diviso”, con il presidente e gli organi direttivi del
Congresso appartenenti a due partiti diversi. Non è ancora possibile capire
quale sarà l’indirizzo politico della nuova maggioranza del Congresso. Difficile
dire cosa comporterà concretamente questo cambiamento per la politica interna e
per quella internazionale dal momento che i democratici, nella loro campagna
elettorale, non solo non hanno fatto vedere un programma coerente ma non hanno
indicato una chiara strategia alternativa nemmeno su temi cruciali quali la
guerra in Iraq, la lotta al terrorismo, la corruzione o la riduzione del carico
fiscale. Anche per quanto riguarda le tematiche sociali (aborto, matrimoni gay,
salario minimo, immigrati) le idee in campo democratico rimangono piuttosto
confuse. Subito dopo le elezioni di metà mandato è cominciata la corsa per le
candidature alle presidenziali del 2008 sia tra i democratici che tra i
repubblicani. Così per i democratici si stanno preparando Hillary Clinton e
Barack Obama, mentre per i conservatori l’ex sindaco di New York Rudolph
Giuliani e il senatore John McCain. Quando il 6 dicembre la
Commissione presieduta da James Baker ha presentato al presidente e al Congresso
le 79 raccomandazioni per uscire dalla crisi irachena, ha sancito in qualche
modo la fine dell’era Bush. Il rapporto infatti ha demolito punto per punto
tutta la linea ispirata per sei anni dalla coppia Cheney-Rumsfeld e che Bush
aveva fatto propria. Secondo lo studio presentato da Baker se la situazione in
Iraq, già grave, dovesse continuare a deteriorarsi “uno scivolamento verso il
caos potrebbe causare il collasso del governo iracheno e una catastrofe
umanitaria. I Paesi vicini potrebbero intervenire, gli scontri tra sciiti e
sunniti potrebbero diffondersi mentre Al Qaeda vincerebbe una vittoria
propagandistica e potrebbe espandere le sue basi di operazione. La posizione
globale degli Stati Uniti potrebbe sminuirsi e gli americani potrebbero
diventare più divisi”. Le accuse più pesanti all’amministrazione riguardano il
mancato coinvolgimento dei Paesi della regione nella ricerca di una soluzione e
la drammatica frattura che la guerra ha prodotto nell’opinione pubblica e nel
mondo politico americani. Solo una soluzione adeguata del conflitto palestinese
consentirebbe l’inizio della distensione in tutta la regione. Le 79 proposte
sottolineano dunque la necessità di agire in almeno tre sfere: cambiare la
missione delle forze militari americane da responsabilità di sicurezza a
funzioni di sostegno; accentuare il tono di riconciliazione nazionale del
governo iracheno; lanciare uno sforzo diplomatico attraverso una conferenza
internazionale che esamini la questione in un’ottica più ampia, regionale. Non è
possibile che gli Usa e l’Iraq, da soli, possano tirarsi fuori da una situazione
così complessa. Pertanto ciò che occorre è “una nuova offensiva diplomatica”,
capace di condurre ad un “Gruppo di sostegno dell’Iraq” composto da tutti i
Paesi vicini, dall’Egitto, dagli stati del Golfo, dai cinque membri permanenti
del Consiglio di sicurezza dell’Onu e da altri Paesi ancora come Germania,
Giappone e Corea del Sud, che intendano aderire all’iniziativa.
America del Sud
L’anno elettorale in America latina si è aperto sotto il segno della sinistra,
così come si era chiuso il 2005, dopo la storica vittoria in Bolivia del leader
cocalero Evo Morales. La candidata di centrosinistra Michelle Bachelet ha
infatti trionfato nel ballottaggio cileno battendo il rivale conservatore, il
ricco imprenditore Sebastián Piñera. Lo spostamento a sinistra dell’asse
politico latinoamericano, che prese il via nel 2002 con l’elezione alla
presidenza del Brasile di Lula da Silva, seguita dalla vittoria in Uruguay,
nell’ottobre 2004, di Tabaré Vazquez del Frente Amplio, è stato dunque
confermato dalle elezioni in Cile, Bolivia, Ecuador e dalla riconferma di Lula e
di Chávez in Venezuela. Ci sono però pochi tratti in comune tra i candidati
denominati “progressisti”, che sono tali soprattutto in contrapposizione ai
programmi dei loro avversari. In realtà in Cile vi è una continuità con il
presidente Lagos, già socialista e anch’esso espresso dalla Concertación,
coalizione di quattro partiti di centrosinistra (Partito cristiano democratico,
Pdc; Partito socialista, Ps; Partito per la democrazia, Ppd e il Partito
radicale sociale democratico, Prsd).
La candidatura della Bachelet non era scontata: vi era infatti una richiesta
democristiana di avvicendamento, ma la popolarità della candidata socialista e
il risultato delle primarie, tra la stessa Bachelet e la democristiana Soledad
Alvear, hanno fugato ogni possibile dubbio. Nell’America latina l’elezione di
una donna (i precedenti sono pochi da Violeta Chamorro e Isabel Peron) ha
rappresentato una rottura di forte significato, che la Bachelet ha sottolineato
formando un governo con dieci donne su venti, alle quali ha affidato ministeri
importanti quali la Difesa, la Sanità e l’Ambiente. Con l’elezione della
Bachelet, figlia di un generale lealista dell’aviazione, morto d’infarto dopo
esser stato torturato nelle carceri di Augusto Pinochet, e con la morte dello
stesso generale si è chiuso il processo di ristabilimento della democrazia in
Cile. Altrettanto simbolica la vittoria di Evo Morales (54%) e del suo Mas
(Movimento al Socialismo) in Bolivia: per la prima volta è stato eletto un
rappresentante degli indios (che pure costituiscono la maggioranza della
popolazione) in un Paese in cui tutto il potere era nelle mani della
aristocrazia creola di discendenza ispanica. I suoi punti di riferimento
continentali sono Chávez, Lula, Kirchner e Castro e lo stesso programma di
nazionalizzazione delle risorse minerarie ed energetiche non è una novità. Lula,
simbolo di una sinistra ampia, che comprende settori della sinistra radicale e
di quella istituzionale, è stato rieletto in ottobre anche se le difficoltà di
mantenere contemporaneamente le promesse elettorali e di non scatenare le
reazioni dei mercati finanziari, ma soprattutto gli episodi di corruzione in cui
sono stati coinvolti dirigenti del suo partito ne hanno parzialmente compromesso
l’immagine. Insomma la maggioranza dei Paesi latinoamericani ha cambiato
orientamento nei confronti degli Stati Uniti. Ugualmente il fatto che
l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) incontri continui ostacoli nei
negoziati, che il Fondo monetario internazionale (Fmi) conti molto meno rispetto
a una decina di anni fa e che Washington non riesca a far accettare l’Area di
libero scambio delle Americhe (Alca), dipende dall’opposizione dei governi di
sinistra e di centrosinistra. Ciononostante da sinistra si rimproverano a questi
governi gli scarsi risultati raggiunti negli obiettivi di politica interna, in
particolare riguardo ai diritti delle popolazioni indigene, alla riforma agraria
e al controllo delle risorse naturali. Tramontato il piano statunitense di un
unico mega-accordo (Alca), soprattutto per l’opposizione di Brasile, Argentina e
Venezuela, Washington sta proseguendo la politica di accordi bilaterali e il 27
febbraio, al termine di un negoziato durato 22 mesi, il governo colombiano ha
siglato il Trattato di libero commercio (Tlc) con gli Usa analogamente a quanto
già fatto dal Cile. Vediamo ora più dettagliatamente quali sono stati gli
avvenimenti principali dell’anno.
L’Argentina di Néstor Kirchner sta per uscire dalla spaventosa
crisi in cui si sono volatilizzate le ricchezze del Paese e la stessa esistenza
di una classe media è stata compromessa. Il risanamento finanziario è stato
spettacolare tanto che anche l’Argentina, come il Brasile, si è liberata dai
prestiti del Fondo monetario internazionale (Fmi): il 3 gennaio il governo ha
estinto il suo debito con l’Fmi, pagando in anticipo l’ultima rata di 9.530
miliardi di dollari. Il sistema politico resta, peraltro, molto distante da
quello europeo, che ha attecchito soltanto in Cile. A sinistra e a destra domina
il peronismo: Kirchner è peronista, come lo erano i suoi predecessori Duhalde e
Menem, oggi suoi avversari. A distanza di decenni è ancora il peronismo in tutte
le sue tendenze, da quelle moderate a quelle estremiste dalle progressiste alle
nazionaliste, che detta i ritmi del cambio politico e la dialettica interna al
peronismo sostituisce la dialettica tradizionale tra destra e sinistra.
In Bolivia il 22 gennaio Evo Morales, l’indigeno aymara leader dei
cocaleros del Chapare, ha assunto ufficialmente l’incarico di presidente dopo la
vittoria del suo Movimento al socialismo (Mas) alle elezioni del dicembre 2005.
Morales, primo indio della storia ad arrivare alla presidenza di uno Stato
attraverso libere elezioni, ha partecipato a tre cerimonie di investitura: la
prima secondo il rito aymara, la seconda in Parlamento, dove ha ricevuto la
banda presidenziale e infine di fronte al popolo boliviano e ai rappresentanti
di più di 200 movimenti sociali di tutto il continente (piqueteros argentini,
sem terra brasiliani, zapatisti del Chiapas, circoli bolivariani venezuelani e
Consiglio degli indigeni dell’Ecuador) oltre che di 14 capi di Stato e di
governo, 52 delegazioni ufficiali e oltre un migliaio di giornalisti dei media
di tutto il mondo. Gli Stati Uniti erano presenti con un sottosegretario.
L’insediamento è stato preceduto da un tour internazionale che ha portato il
neopresidente a Cuba, in Venezuela, Spagna, Francia, Olanda, Belgio e poi Cina,
Sudafrica e Brasile. Morales si è lanciato in attacchi contro gli Stati Uniti
insieme a Fidel Castro e a Hugo Chávez, ma ha parlato di affari e
rapporti bilaterali con Madrid, Parigi, Bruxelles, L’Aja, Pechino e Pretoria.
Questi due aspetti di Morales dovranno convivere perché se il discorso radicale
prendesse il sopravvento l’oligarchia conservatrice, che da sempre controlla la
vita politica ed economica della Bolivia, potrebbe insorgere. Nello stesso modo
Morales non può scontentare la sua base elettorale altrimenti i movimenti
sociali che hanno già cacciato due presidenti (Gonzalo Sanchez de Lozada,
nel 2003, e Carlos Mesa nel 2005) tornerebbero a farsi sentire; quanto
all’appoggio di Chávez e di Castro, servono a Morales per accreditare l’immagine
di leader antiliberista vicino alle esigenze della maggioranza della
popolazione. Ma ancora più importante è l’appoggio europeo, brasiliano e cinese,
da usare come contrappeso all’influenza che gli Stati Uniti ancora esercitano
sul Paese. Le risorse naturali della Bolivia, soprattutto il gas, sono ancora
potenziali e l’industria nazionale non è in grado di sfruttarle. Gli ultimi
governi hanno lasciato che l’intero settore energetico fosse comprato da alcune
multinazionali straniere (l’ispano-argentina Repsol-Ypf, la francese Total, la
brasiliana Petrobras ecc.): i giacimenti boliviani, concentrati nella regione di
Tarija rappresentano la sola possibilità che il governo ha per mantenere le
promesse di redistribuzione della ricchezza attraverso una “nazionalizzazione”
che però il Mas spiega come una rinegoziazione degli accordi con le
multinazionali straniere, piuttosto che come un’espropriazione (sul modello di
quello che Chávez ha fatto per i giacimenti di greggio). Alla vicepresidenza è
salito Álvaro García Linares, un bianco, marxista, ex guerrigliero.
Linares pensa che la riduzione delle enormi disuguaglianze del Paese si possa
ottenere solo attraverso il rafforzamento del ruolo economico e sociale dello
Stato. Un’idea che piace poco fuori dalla Bolivia se ciò dovesse comportare la
riduzione del peso economico e degli interessi delle multinazionali; ma è un
progetto che non trova consensi unanimi nemmeno all’interno del Paese, dove
negli ultimi anni, di fronte al disfacimento dello Stato, sono nate molte
esperienze di “autogestione” popolare: servizi idrici a Cochabamba e a Oruro,
raccolta di rifiuti a Oruro e a Santa Cruz, fino alle Giunte di quartiere di El
Alto. Questi movimenti, riunitisi in un Fronte popolare in difesa della natura e
della vita, hanno chiesto al Mas (oltre alla nazionalizzazione delle risorse)
un’Assemblea costituente per riorganizzare tutto lo Stato. All’inizio di marzo
il Parlamento ha dunque approvato la convocazione dell’Assemblea costituente
che, nelle parole del presidente, servirà a “seppellire il modello neoliberista”
e a fare in modo che le risorse naturali tornino nelle mani del popolo
boliviano. L’accordo sulla costituente è stato possibile grazie all’opera di
mediazione del vicepresidente Linares, anche se poi il governo ha dovuto fare
qualche concessione. Così la ricca regione di Santa Cruz ha ottenuto che si
tenesse un referendum per dare più autonomia alle regioni (referendum il cui
risultato l’Assemblea avrebbe dovuto rispettare). Successivamente il Mas ha
ottenuto il 51% dei seggi nelle elezioni per la Costituente; il referendum
sull’autonomia regionale è stato invece respinto (2 luglio). Intanto con il
decreto 28.701 Morales ha nazionalizzato le risorse naturali del Paese (1°
maggio), dichiarando illegali i contratti firmati dallo Stato con le imprese
straniere: non saranno più le multinazionali straniere a detenere il controllo
delle riserve boliviane (gas e petrolio), ma lo Stato, più precisamente il
Yacimientos Petroliferos Fiscales Bolivianos (Ypfb). Secondo il presidente
questo è solo il primo passo verso una sorta di nazionalizzazione di tutte le
risorse presenti in Bolivia: toccherà poi alle miniere, alle foreste e alle
terre. Se prima del decreto lo Stato incassava solo il 18% dalle multinazionali,
adesso la Bolivia percepirà l’82% degli utili e le aziende straniere si dovranno
accontentare del rimanente 18%. Le multinazionali potranno accettare la
negoziazione di nuovi contratti entro un termine di 180 giorni, oppure lasciare
la Bolivia (secondo Paese dell’America latina per riserve di gas naturali dopo
il Venezuela). Immediate le reazioni di alcune multinazionali (in particolare la
brasiliana Petrobras e la ispano-argentina Repsol-Ypf,) e anche del presidente
brasiliano Lula che ha definito la decisione di Morales come un “gesto non
amichevole nei confronti di Petrobras”. Già negli anni Trenta furono
nazionalizzate le proprietà della Standard Oil e alla fine degli anni Sessanta
quelle della Gulf, entrambe statunitensi. Ma queste misure non produssero alcun
beneficio per il Paese né alleviarono le misere condizioni di vita della
popolazione boliviana. Dopo aver annunciato la nazionalizzazione degli
idrocarburi, Morales ha messo in agenda una profonda rivisitazione della riforma
agraria e della distribuzione della terra (3 giugno). Saranno circa 2,5 milioni
le persone che beneficeranno di questa nuova legge, proposta all’interno di una
riforma agraria annunciata in campagna elettorale. I proprietari terrieri si
sono subito messi in allarme anche se non si è parlato di espropri. Lo Stato si
“terrà tutte le terre che non hanno una funzione sociale o i cui titoli di
proprietà sono stati ottenuti in passato in modo fraudolento” e le consegnerà
“agli indigeni, ai campesinos e a tutte le persone che vorranno lavorare la
terra”. La notte del 29 novembre la Camera alta boliviana, grazie all’appoggio
di tre senatori dell’opposizione, ha dunque ratificato la Ley de Tierras,
promessa da Morales all’inizio del suo mandato. Il presidente ha impegnato tutte
le risorse a sua disposizione per fare approvare la norma, minacciando di
imporla come decreto presidenziale, nel caso il Congresso, dove l’opposizione ha
la maggioranza, avesse fatto ostruzionismo. Il cambiamento di voto dei tre
senatori ha evitato la decisione unilaterale dell’esecutivo, ma è diventato il
bersaglio dell’attacco del Podemos (Potere democratico sociale, conservatore
all’opposizione), che ha accusato il presidente di avere “comprato” i voti
indispensabili al raggiungimento del quorum per varare le leggi. Oltre alla
riforma agraria infatti, nella stessa notte sono stati ratificati il controverso
accordo di difesa con il Venezuela e le nuove disposizioni contrattuali con le
12 multinazionali che estraggono idrocarburi dal territorio nazionale. Ispirata
alla riforma compiuta nel 1953 dal presidente Víctor Paz Estenssoro, la
Ley de Tierras mira a riportare nelle mani del governo, entro la fine della
legislatura, oltre 20 milioni di ettari (2,2 dei quali Morales aveva già
ridistribuito a partire da giugno di quest’anno) per poi suddividerli tra
comunità indigene e contadini senza terra. Secondo l’opposizione si tratta di un
vero e proprio attacco al diritto alla proprietà privata e non è escluso il
ricorso al Tribunale costituzionale. Per quanto riguarda le terre di confine,
Morales ha specificato più volte che le terre che saranno confiscate al confine
saranno solo quelle che riguardano i primi 50 km di territorio boliviano. Non
solo: la terra che sarà confiscata, secondo il governo boliviano, è quella
considerata improduttiva. Il ministro dell’Agricoltura Hugo Salvatierra
ha ribadito che “la riforma non include specifiche misure contro i grandi
proprietari stranieri presenti in Bolivia”. In aprile infine Morales ha
incontrato all’Avana il presidente venezuelano Hugo Chávez e quello cubano Fidel
Castro, accordandosi per l’adesione della Bolivia all’Alba, l’Alternativa
bolivariana per le Americhe, un trattato di libero commercio dei popoli, in
alternativa all’Alca (Area di libero scambio delle Americhe), ovvero l’area di
libero commercio sostenuta dall’amministrazione Bush. Con questo accordo, Cuba e
Venezuela si impegnano ad acquistare, ad esempio, la soia prodotta in Bolivia, e
altri cereali. Il Venezuela ha anche fornito 5.000 borse di studio per giovani
boliviani nel settore della petrolchimica. Cuba invece aiuterà la Bolivia in due
campi: l’istruzione e la medicina (fornendo insegnanti e medici).
Le presidenziali di ottobre sono state al centro dello scenario politico in
Brasile dove il “presidente operaio” Luíz Iñacio Lula da Silva ha
tentato di governare cercando un difficile equilibrio tra le enormi aspettative
dei ceti popolari e le pressioni dei mercati internazionali e delle oligarchie
interne. Ha lanciato programmi ambiziosi di lotta alla povertà come “Fame Zero”
e “Bolsa Famiglia”, che hanno ridotto notevolmente i livelli di povertà e gli
sono valsi la “Medaglia agricola” della Fao. Inoltre con i salari minimi passati
da 60 a 160 dollari al mese, il reddito reale dei lavoratori è anch’esso
aumentato e, riconoscono persino gli avversari, non ci si può lamentare del
livello d’inflazione tenuto sotto controllo e della stabilità economica
raggiunta. Tutto questo è stato ottenuto seguendo le linee di Banca mondiale e
Fondo monetario internazionale e pagando 70 miliardi di dollari di debito
estero, contro i 28 destinati a riforma agraria, educazione e salute. Gli
economisti del governo Lula hanno mantenuto l’impostazione di fondo gradita al
Fmi: in primo luogo la priorità data alla lotta all’inflazione e il conseguente
mantenimento di un alto tasso di sconto. D’altro canto quella di Lula è stata
una scelta ragionata poiché al momento della sua elezione l’economia era
sull’orlo del collasso con un’inflazione media che dal 1990 al 2001 era stata
del 168%. L’equilibrio macroeconomico e il contenimento dell’inflazione erano
dunque obiettivi necessari per evitare che il mercato si ribellasse al nuovo
governo, avviando un altro ciclo di recessione, inflazione e aumento della
disoccupazione. Tuttavia Lula non ha affrontato con la necessaria determinazione
il potere dei latifondisti, in un Paese dove cinque milioni di famiglie di
contadini non hanno nessun appezzamento di terra. I programmi assistenziali sono
stati organizzati in modo capillare in tutte le città del Brasile, ma la riforma
agraria è stata realizzata in modo deludente. Per il Foro nazionale per la
riforma agraria, che raggruppa decine di organizzazioni di base, tra cui il
Movimento dei sem terra (Mst), la riforma promessa dal governo “si è ridotta ad
un mero programma di insediamenti che non cambia la concentrazione delle terre e
non rafforza l’agricoltura famigliare”. Lo stesso Mst da principale sostenitore
si sta trasformando in critico sempre più severo di Lula. Se dunque il
presidente si è guadagnato la fiducia dei mercati e delle classi più povere, ha
perso la fiducia di molti tra coloro che lo appoggiavano nel 2002 e in
particolare dei movimenti popolari, a causa delle promesse rimaste tali (riforma
agraria e quella del lavoro). Gli si rimprovera di seguire una politica
economica che segue l’ortodossia dell’Fmi invece di perseguire una maggior
equità sociale in un Paese con uno dei più alti indici di disuguaglianza del
mondo: pur essendo l’ottava potenza industriale al mondo, il Brasile è
all’ottavo posto anche in quanto a disuguaglianza sociale. Ugualmente la classe
media urbana che aveva sperato in un rinnovamento, soprattutto etico, della
politica, non ci crede più. Anche nelle politiche scolastiche e della sanità i
risultati del governo Lula sono deludenti. L’unico progetto sostanziale è un
ampliamento del sistema di perequazione approvato dal governo precedente per
aiutare gli Stati e i comuni più poveri; ma deve ancora superare la barriera del
Congresso. Lo stesso vale per un progetto di riforma delle università pubbliche.
In compenso, è stato varato un sistema di borse di studio per studenti poco
abbienti nelle università private, che in Brasile accolgono i due terzi degli
studenti. In questo scenario di crescenti tensioni tra Lula e la sua base
elettorale è scoppiato lo scandalo della corruzione in Parlamento. Alti
funzionari del Pt (Partido dos trabahadores, il Partito dei lavoratori fondato
dallo stesso Lula), che si era presentato come l’unico in grado di lottare
davvero contro la corruzione, e del governo sono stati scoperti a gestire un
sistema di pagamenti illeciti per comprare voti dell’opposizione e manipolare
gli appalti pubblici. Una cinquantina di funzionari sono stati condannati e
hanno dovuto abbandonare le cariche. Un ulteriore colpo alla popolarità di Lula
è giunta dalla nuova crisi di governo (la seconda in meno di un anno) apertasi a
fine marzo con le dimissioni del ministro dell’Economia, Antonio Palocci,
travolto dalle accuse di corruzione. Al suo posto il presidente ha nominato
Guido Mantega, titolare del Banco nazionale di sviluppo sociale. Alle
mancate riforme e alla corruzione si aggiunge il fatto che resta ancora molto da
fare per quanto riguarda la lotta alla criminalità. Sulla critica situazione
sociale e sulla corruzione hanno fatto leva i suoi oppositori durante la
campagna elettorale: Geraldo Alckmin, candidato del Partido Social
Demócrata Brasileño (Psdb, partito che ha governato il Paese per molti anni) e
governatore uscente dello Stato di San Paolo; Heloísa Helena, candidata
del Partido Socialismo y Libertad (Psol), espulsa due anni fa dal Pt per essere
una delle voci più critiche contro le scelte neoliberali di Lula, sostenuta dal
cosiddetto Frente de la Izquierda; Cristovam Buarque, del Partito
democratico laburista (Pdt), ex ministro dell’Istruzione nel primo anno di
governo Lula; Luciano Bivar, candidato del Partito sociale liberale (Psl)
e José Maria Eymael, candidato del Partito socialdemocratico cristiano
(Psdc). Alckmin, lo sfidante più accreditato, ha cercato di offrire
un’alternativa credibile ai ceti medi che considerano il governo Lula corrotto e
inefficiente. L’ex governatore ha promesso di mantenere il programma
assistenziale e la stabilità macroeconomia, aumentando però il rigore in materia
di spesa pubblica in modo da poter ridurre le imposte e i tassi di interesse. La
popolarità di Lula si è fortemente ridotta, fino a mettere in dubbio non solo la
sua rielezione ma anche la sua candidatura, ufficialmente annunciata solo il 24
giugno. Proprio le alte aspettative generate dallo stesso Lula hanno acuito
nella sua base elettorale il senso di delusione. Ciononostante la sua rielezione
non era da escludere, sia per la mancanza di valide alternative sia per gli
indubbi risultati raggiunti dal presidente sul piano della credibilità
internazionale. Inoltre Lula, che rischiava di essere travolto dalla crisi
economica e dalle accuse di corruzione che hanno investito i suoi più stretti
collaboratori, è stato aiutato dalla ripresa dell’economia, da un programma di
welfare che garantisce un reddito minimo a 36 milioni di persone e dall’assenza
di prove che dimostrassero il suo coinvolgimento diretto negli scandali. Benché
i sondaggi lo dessero vincente già al primo turno, questo si è concluso con il
rinvio al ballottaggio di Lula (con il 48,61% dei suffragi) e del suo diretto
rivale Geraldo Alckmin, sostenuto dall’Opus Dei e appoggiato dal ceto medio, che
ha raggiunto il 41,64% dei consensi. Probabilmente a compromettere la vittoria
già al primo turno è stato anche l’ennesimo scandalo: il 20 settembre Lula ha
destituito Ricardo Benzoini, presidente del Pt e responsabile della
campagna elettorale perché accusato, insieme ad altri dirigenti del partito, dal
Tribunale superiore elettorale di aver comprato documenti per screditare alcuni
candidati dell’opposizione. Lo scandalo non solo è costato le dimissioni di
segretari speciali e amici fraterni, ma ha anche fatto vacillare lo stesso
presidente, che si è dovuto impegnare seriamente per evitare le accuse. Oltre al
presidente, i brasiliani sono stati chiamati alle urne per scegliere 513
deputati federali, 27 senatori (un terzo della Camera, gli altri due terzi
vengono eletti ogni otto anni) e i governatori di 27 Stati del Paese. Se da una
parte il Psdb ha confermato il suo potere in Stati quali San Paolo e Minas, il
Pt non solo si è riconfermato dove già era vincente, ma ha vinto al primo turno
in quattro Stati che prima non aveva, avvicinandosi sensibilmente a ottenere la
maggioranza alla Camera. A Minas è stato rieletto, con una maggioranza
schiacciante del 77%, Aecio Neves, nipote di Tancredo Neves, il primo
presidente ad assumere un governo civile dopo la dittatura militare (1964-85);
San Paolo, lo Stato più grande e quello in cui si concentra la maggior ricchezza
del Paese, ha spostato l’ago della bilancia a favore di Alckmin e ha scelto come
suo governatore l’ex ministro della Salute José Serra, uomo di fiducia di
Fernando Henrique Cardoso, presidente dal 1995 al 2002. Eletto senatore
per lo Stato di Alagoas anche l’ex presidente Fernando Collor de Mello,
costretto ad abbandonare la presidenza del Brasile nel 1992 in seguito ad uno
scandalo di corruzione. In vista del ballottaggio Lula e Alckmin hanno cercato
di guadagnarsi l’appoggio dei governatori degli Stati della federazione e di
conquistare i voti dei candidati usciti al primo turno (6,8% conquistato da
Heloisa Helena e il 2,64% ottenuto da Cristovam Buarque). Rispettando i sondaggi
che lo davano in vantaggio del 20% sull’avversario, Lula infine ha vinto al
ballottaggio le presidenziali con un consenso quasi plebiscitario,
aggiudicandosi il 60,8% dei consensi contro il 39,7 del suo avversario (29
ottobre). Alckmin ha perso il vantaggio che aveva acquisito su Lula nelle
regioni più ricche del Brasile, ovvero San Paolo e il Rio Grande do Sul, mentre
Lula si è rafforzato sempre più nel Nord-Est, la zona del “sertao” e
nell’Amazzonia, regione che sperava nella sua presidenza per poter frenare la
deforestazione rafforzando l’economia sostenibile. Nonostante gli scandali a
catena che hanno colpito il suo governo e il Pt negli ultimi due anni, i
brasiliani hanno dunque dato di nuovo fiducia al presidente uscente, ignorando
il battere costante sull’etica e contro gli scandali di Alckmin. Ora Lula dovrà
far fronte a un difficile compito: l’attuazione del suo programma elettorale,
tutto incentrato sulla politica sociale e quasi una sfida alla comunità
finanziaria internazionale.
L’anno si è aperto in Cile con il ballottaggio (15 gennaio) tra i due
candidati alle presidenziali Michelle Bachelet, di centrosinistra, e
Sebastián Piñeda, di centrodestra. Il Cile è dagli anni Novanta uno dei
fiori all’occhiello del Fondo monetario internazionale (Fmi): i governi
democratici, tutti di centrosinistra, hanno applicato quasi alla lettera le
ricette neoliberali basate su privatizzazioni, contenimento della spesa pubblica
ed equilibrio macroeconomico, ottenendo tassi di sviluppo attorno al 5-6 % per
un decennio ma, secondo la Commissione economica per l’America latina delle
Nazioni unite (Cepal) e la Banca mondiale, il Cile è uno dei Paesi con le
maggiori disuguaglianze sociali al mondo (secondo solo al Brasile in termini di
disuguaglianza sociale e concentrazione della ricchezza): infatti il 15% della
popolazione detiene quasi l’80% della ricchezza nazionale. Entrambi i candidati
si sono presentati quindi promettendo di risolvere questi problemi con una
sostanziale omogeneità di programmi. Non è un caso che ci sia stata una polemica
sui 120 punti del programma di Piñeda, accusato dalla Bachelet di averli copiati
da quello della Concertación (coalizione tra democristiani, socialisti e
socialdemocratici che governa dal 1989). Ed effettivamente, il programma
elettorale di Piñeda coincideva in ben 66 punti con quello della Bachelet. Ma è
anche vero che il sistema elettorale (il sistema binominale prevede che per ogni
circoscrizione, sia per Camera che per Senato, siano eletti solo due candidati:
questo sistema, che costringe i partiti ad allearsi ma determina l’impossibilità
per le formazioni minori di ottenere rappresentanti, fu concepito per escludere
il Partito comunista che pur ottenendo circa il 10% alle comunali, dove si
votava con un sistema proporzionale, non ha mai avuto un rappresentante in
Parlamento) che ha contribuito a mantenere le disuguaglianze sociali ed è stato
ereditato dalla dittatura è stato in buona parte mantenuto dalla Concertación.
Molti analisti concordavano nel ritenere che, chiunque fosse stato il nuovo
presidente, non sarebbe cambiata molto l’azione di governo: il Cile avrebbe
confermato il suo modello liberista, la sua politica di accordi bilaterali e una
politica fiscale che mira sia ad evitare processi inflattivi sia un eccessivo
indebitamento. Il ballottaggio si è concluso come previsto con la vittoria della
Bachelet che si è aggiudicata il 53,5% dei voti contro il 46,5% di Piñera. Prima
donna ad essere eletta presidente nella storia del Cile (e di tutta l’America
latina), la Bachelet, pediatra ed esperta di salute pubblica e questioni
militari, è figlia di un generale rimasto fedele al legittimo presidente
socialista Salvador Allende e per questo torturato a morte dalla dittatura di
Pinochet. Divorziata con due figlie, si professa agnostica e favorevole al
riconoscimento delle unioni di fatto e dei diritti degli omosessuali in un Paese
dove la Chiesa cattolica (e l’Opus Dei) ha un peso enorme. Proprio sulle sue
prese di posizione in tema diritti civili ha cercato di far leva la destra nel
tentativo di sottrarle consensi. Al contrario, sui temi economici ed anche
politici i toni sono stati pacati. Con la vittoria della Bachelet la
Concertación democratica ha ottenuto la sua quarta affermazione elettorale
consecutiva. La neopresidente dovrà proseguire lo sviluppo economico e la
modernizzazione del Cile, ma anche modificare la tendenza all’esclusione sociale
insita nel suo modello. La Bachelet, eletta al ballottaggio anche grazie ai voti
dei partiti minori, il Partito comunista e il Partito umanista, si è impegnata
solennemente a riformare la legge elettorale e a lottare contro le
disuguaglianze, ma per farlo dovrà probabilmente misurarsi con forti resistenze
dell’establishment, anche all’interno della sua stessa coalizione. La vittoria
della Bachelet segna una svolta importante, perché fino alla presidenza di
Rícardo Lagos, l’influenza dei militari sulla vita del Paese era molto forte, a
causa del retaggio della dittatura militare. Dopo la fine della dittatura, i
leader del Paese, espressione della Concertación, non sono riusciti a
ridimensionare il peso dell’esercito. Tra le promesse fatte dalla Bachelet in
campagna elettorale, c’è anche la fine del servizio militare obbligatorio. La
presidente si è impegnata poi a varare misure importanti quali una legge contro
la discriminazione della donna; la sanità gratuita per gli ultrasessantenni;
20.000 nuovi posti per i bambini negli asili nido; l’aumento automatico delle
pensioni minime sulla base dell’inflazione. Sul piano economico, il Cile ha
fatto una scelta neoliberista e ha aderito al Trattato di libero commercio con
gli Usa, rifiutato dalle altre nazioni latinoamericane, mentre prende sempre più
piede il Mercosur, l’accordo di integrazione economica stretto tra Brasile e
Argentina e a cui hanno poi aderito Uruguay, Venezuela e Bolivia. Il primo
problema con cui ha dovuto confrontarsi la neopresidente è stato lo sciopero a
oltranza indetto dagli studenti che a fine maggio sono scesi in piazza per
chiedere una riforma dell’istruzione (è una legge varata da Pinochet a regolare
ancora l’insegnamento in Cile). Oltre alla generica necessità di cambiare
l’educazione del Paese e quindi di rivedere l’intero sistema, gli studenti hanno
chiesto trasporti gratuiti e il test di ingresso all’università esente da tasse,
in modo da facilitare l’istruzione anche ai non abbienti. Con gli studenti delle
scuole superiori, si sono schierati anche gli universitari e il corpo docente;
non sono mancati sassaiole e attacchi contro vetrine di centri commerciali a cui
i poliziotti hanno risposto usando idranti e lacrimogeni: il bilancio è stato di
700 arresti e 28 feriti. La protesta è stata sospesa il 9 giugno quando il
governo ha annunciato test di ingresso all’università gratuiti per l’80% degli
studenti e la creazione di un Comitato presidenziale (Cap) incaricato di
preparare la riforma dell’istruzione. Il Cap sarà formato da 74 membri, di cui
12 rappresentanti degli studenti. Dopo le manifestazioni contro lo stato
dell’istruzione, la presidente ha dovuto fare i conti con l’ennesimo aumento del
prezzo del gas argentino. Per cercare di contrastare il calo di popolarità
dell’esecutivo, la Bachelet ha annunciato un parziale rimpasto di governo (16
luglio), assicurando ai democristiani il ministero dell’Economia, e si è
impegnata a rendere il Paese indipendente dal gas argentino entro due anni.
L’anno si è chiuso con la morte del generale Augusto Pinochet, il
dittatore che ha governato col pugno di ferro il Cile dal 1973 al 1990,
reprimendo ogni forma di dissenso e uccidendo chiunque tentasse di opporsi al
suo potere. Pinochet, che aveva 91 anni, è morto dopo essere stato ricoverato
nell’ospedale militare di Santiago per infarto del miocardio (10 dicembre). La
morte lo ha colto proprio mentre la giustizia cilena stava cercando di
inchiodarlo alle sue responsabilità: durante il suo governo 3.000 persone sono
state assassinate, più di mille sono scomparse, decine di migliaia sono state
torturate e centinaia di migliaia mandate in esilio politico (in un Paese che
allora aveva 11 milioni di abitanti). Nei giorni successivi all’infarto il
governo della Bachelet ha fatto sapere che non essendo Pinochet un capo di Stato
non avrebbe avuto diritto a un funerale di Stato, ma unicamente alle esequie da
ex comandante delle Forze armate alla presenza, per il governo, del solo
ministro della Difesa.
In Colombia il 12 marzo si sono tenute le elezioni parlamentari seguite
in maggio dal voto per le presidenziali. Grande favorito il presidente uscente
Álvaro Uribe nonostante rimangano irrisolti i gravi problemi in cui si
dibatte il Paese (dalla guerriglia al narcotraffico). I colombiani erano
chiamati a scegliere 102 senatori e 166 deputati, usando per la prima volta il
voto di preferenza (prima passavano il turno soltanto i capolista scelti dal
partito). Mentre l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) ha dichiarato una
tregua per assicurare il regolare svolgimento del voto, le Forze armate
rivoluzionarie della Colombia (Farc) hanno aumentato le azioni di guerriglia e
nelle settimane precedenti alle elezioni numerose persone sono rimaste uccise.
Nelle giornate preelettorali in molte zone del Paese, specialmente nel Sud, si
sono verificati scontri a fuoco quasi quotidiani fra esercito, polizia e
paramilitari uniti contro i guerriglieri; diversi sono stati gli attentati volti
a colpire i punti strategici dell’economia colombiana e numerose e ripetute sono
state le pressioni, le minacce e le violenze sui cittadini delle zone agricole.
Uribe ha sempre negato ogni possibilità di trattativa con le Farc e sta
temporeggiando nell’applicare l’accordo già raggiunto con l’Eln. Le elezioni
parlamentari a cui hanno partecipato meno del 50% degli aventi diritto, sono
terminate con la vittoria schiacciante della coalizione di sette partiti che
sostiene Uribe, che ha ottenuto più di due terzi dei seggi del Senato e la
maggioranza di quelli della Camera dei rappresentanti. Per quanto riguarda
l’opposizione il Polo democratico alternativo ha conquistato 11 seggi. Il voto
ha dunque rafforzato la posizione di Uribe in vista delle presidenziali del 28
maggio terminate con la vittoria schiacciante al primo turno del presidente
uscente, che ha ottenuto il 62% dei voti contro il 26% dello sfidante
principale, Carlos Gaviria, leader del Polo democratico (29 maggio). Il
trionfo di Uribe si può spiegare in primo luogo con l’esasperazione della
società di fronte alla violenza e all’insicurezza. È uscita quindi legittimata
dal voto la politica della Seguridad Democratica, la scelta di sottoscrivere il
Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti e la lotta armata alla
guerriglia. Mentre dunque nel continente latinoamericano stanno nascendo governi
progressisti in qualche modo impegnati a correggere l’ingiustizia e la
disuguaglianza sociale, in Colombia sembra, al contrario, consolidarsi uno dei
governi più lontani dall’interesse della popolazione. In ogni caso il voto è
servito a far chiarezza nel panorama politico colombiano presentando ai
colombiani un’alternativa chiara tra la destra oligarchica, autoritaria e
neoliberista e una proposta di sinistra. Le priorità del governo di Uribe sono
state la suddetta politica della sicurezza democratica e la sua determinazione a
sconfiggere militarmente le Farc. Buona parte del bilancio del Paese è stata
destinata a questo e ad aumentare gli effettivi di esercito e polizia (+30% dal
luglio 2002 al marzo 2006). Uribe ha presentato come un grande successo del suo
governo il processo di smobilitazione dei paramilitari delle Autodifese unite
della Colombia (Auc: secondo le fonti ufficiali circa trentamila paramilitari
hanno deposto le armi e si stanno reintegrando nella società). Ma il lavoro per
favorire il pieno reinserimento è solo agli inizi e ogni giorno si presentano
nuovi ostacoli che rischiano di far fallire il processo. Migliaia di
paramilitari hanno conti aperti con la giustizia e sono accusati di gravi
violazioni dei diritti umani. Il problema è che il quadro giuridico della
smobilitazione (legge 782, decreto 128 e la cosiddetta “legge di giustizia e
pace”) è molto vago su questioni delicate come il risarcimento delle vittime e
la punizione dei colpevoli. I paramilitari, in un processo di apparente
smobilitazione, proseguono non solo con il controllo territoriale e le
intimidazioni alla popolazione, bensì legittimando la loro economia basata sul
narcotraffico e sugli apparati militari. La stessa amministrazione statunitense
ha criticato la “legge di giustizia e pace” sottolineando come si stia di fatto
rivelando una sorta di indulto per i paramilitari. Per questo Uribe ha deciso di
lanciare un’operazione dimostrativa (16 agosto), arrestando a sorpresa i leader
delle Auc in diverse città del Paese e minacciando di estradare negli Usa quelli
che non si presenteranno davanti ai giudici del processo di pace. Intanto le
fumigazioni di glifosato (erbicida non selettivo) lungo la frontiera con
l’Ecuador da parte del governo Uribe hanno scatenato una pericolosa tensione
diplomatica, accompagnata dal ritiro dell’ambasciatore ecuadoriano, Alejándro
Suárez, a Bogotà e la cancellazione della visita prenatalizia del
neopresidente Correa nella capitale colombiana. Le fumigazioni sono parte della
strategia del Plan Colombia (il finanziamento da parte degli Usa di progetti per
“la lotta alla guerriglia e al narcotraffico”, entrato in vigore nel 2000), in
cui gli Stati Uniti hanno investito quattro miliardi di dollari, soprattutto in
operazioni di fumigazione aerea delle coltivazioni. Molti specialisti
statunitensi e colombiani contestano ora l’efficacia del piano e il suo enorme
costo economico. Il governo colombiano sostiene che per distruggere
completamente tutte le coltivazioni illegali occorrerebbero molti più uomini e
mezzi di quelli impiegati, ma per il momento Washington non sembra disposta ad
aumentare il suo contributo economico. In ogni caso invece di diminuire le
piantagioni si sono spostate verso zone dove in passato non esistevano (Chocò).
Noto è il coinvolgimento delle Farc e dei gruppi paramilitari delle Auc che
cercano di assicurarsi il controllo delle coltivazioni illegali. I profitti del
narcotraffico sono superiori agli investimenti per combatterlo e una guerra
cominciata per ragioni ideologiche si è ormai trasformata in un affare molto
vantaggioso.
A meno di un anno dalla destituzione del presidente Lucio Gutiérrez,
costretto alle dimissioni dalla popolazione con l’accusa di voler consegnare le
risorse naturali ecuadoriane alle multinazionali straniere, in Ecuador
sono scoppiate nuove sollevazioni popolari. L’ex colonnello Gutiérrez era salito
al potere grazie a una piattaforma progressista e popolare, ma dalla quale si
era ben presto distaccato per tornare a seguire le politiche neoliberiste dei
suoi predecessori. Nel 2003 avviò trattative con la Banca mondiale per
rinegoziare il debito estero e giunse a un accordo secondo cui il 70% della
ricchezza proveniente dall’estrazione del petrolio avrebbe dovuto essere
utilizzato per rimborsare il debito, mentre solo il 10% di tali proventi sarebbe
stato destinato alle spese in servizi sociali a favore della popolazione. In
politica estera, Gutiérrez favorì un sostanziale avvicinamento dell’Ecuador agli
Stati Uniti e alla Colombia, impegnata nella applicazione del Plan Colombia.
Sempre nel solco delle politiche neoliberiste, Gutiérrez aveva anche iniziato a
negoziare con gli Stati Uniti il Trattato di libero commercio (Tlc) sul modello
del Nafta (North American Free Trade Agreement, stipulato tra Usa, Canada e
Messico), attirandosi subito le critiche di varie organizzazioni popolari come
la Conaie (Confederazione di nazionalità indigene dell’Ecuador), che temeva che
un simile accordo avrebbe ulteriormente rafforzato la penetrazione nel Paese da
parte delle multinazionali straniere oltre che favorire, con l’abbattimento dei
dazi, i contadini americani sostenuti da cospicui sussidi. Le controverse
decisioni assunte da Gutiérrez determinarono un notevole calo della sua
popolarità, scatenando le proteste popolari che portarono alla sua sostituzione
nell’aprile 2005 con il suo vice Alfredo Palacio. Questi, consapevole
delle conseguenze delle politiche adottate dal suo predecessore sullo Stato e
sulla popolazione, ha subito voluto imporre una strategia diversa. Non ha
rifiutato il Plan Colombia, ma ha preso posizione contro i suoi effetti più
deleteri sulla popolazione (le fumigazioni aeree) chiedendo e ottenendo dal
presidente colombiano Uribe la loro sospensione nel raggio di almeno 10 km dalle
frontiere con l’Ecuador. In febbraio alcuni appartenenti alla Conaie hanno
manifestato per giorni, bloccando le principali arterie stradali contro le
trattative con gli Usa per la firma del Tlc e contro la presenza dell’azienda
petrolifera Oxy nel Paese, arrivando allo scontro con le forze dell’ordine. Dopo
aver decretato lo Stato di emergenza il presidente Palacio ha aperto la porta a
un referendum sul Trattato. La scena politica è stata comunque dominata dalle
elezioni presidenziali del 15 ottobre, che hanno visto in campo quattro
candidati: Cynthia Viteri, esponente di un partito che si ispira a valori
sociali e cristiani; León Roldos, espressione del partito
socialdemocratico Rete etica e Democrazia; Alvaro Noboa, uomo ricchissimo
e potente, candidato del Partito rinnovatore istituzionale azione nazionale;
Rafael Correa, indigeno ex ministro dell’Economia del governo Palacio
candidato di sinistra per il Movimento Alianza País. Le consultazioni sono
terminate con il passaggio al ballottaggio del 26 novembre di Noboa e Correa
aggiudicatisi rispettivamente il 26,24% dei voti contro il 23,03%. Da un lato
dunque, Noboa, l’uomo della Casa Bianca, impresario bananero ricco e potente,
difensore del libero commercio e della globalizzazione, che ha fra i punti
cardine del suo programma il rinnovo del Tlc e la rottura di ogni relazione con
Cuba e Venezuela. Dall’altro Correa, il candidato dal programma più radicale che
si è detto contrario al Tlc e ispirato alle linee politiche inaugurate dal
venezuelano Hugo Chávez e dal boliviano Evo Morales. Almeno sulla carta Correa
ha puntato su un programma radicale che prevede lo scioglimento del Congresso e
la nomina di un’Assemblea costituente, sospensione delle trattative per il Tlc e
richiesta di una moratoria al Fondo monetario internazionale. In ogni caso il
leader di Alianza País ha specificato di essere vicino al leader venezuelano,
ancorché “diverso” da lui. Diversa è anche la formazione dei due: Correa si
definisce della “sinistra cristiana”, ha studiato nell’università cattolica di
Quayaquil e ha ottenuto due master in Economia, negli Stati Uniti e in Belgio,
oltre a un dottorato in Illinois. Il ballottaggio si è concluso con la vittoria
di Correa che ha ottenuto il 57,88% dei voti contro il 42,12% di Noboa (26
novembre). Correa si è imposto nella regione della Sierra, roccaforte dei
settori moderati e professionali, a Quito e nelle aree dei piccoli produttori di
banane, come la provincia dell’Oro, dove forte è stato il di-sagio dimostrato
contro i grandi impresari tipo Noboa. Anti-Noboa anche il voto della classe
media e dei professionisti, schierati contro l’uomo più ricco del Paese. Alla
fine Correa, 43 anni, con il 57,88% dei voti è diventato il nuovo capo del Paese
sudamericano: subito dopo la proclamazione dei risultati, Correa ha voluto
rassicurare gli ambienti economico-finanziari, precisando che manterrà il
dollaro come moneta ufficiale. Quindi, contro ogni aspettativa, ha annunciato
parte della squadra di governo: agli Interni andrà Gustavo Larrea,
responsabile della sua campagna elettorale, esperto in diritti umani e da sempre
uomo di sinistra; al ministero per l’Energia, Alberto Acosta, duro
critico della dollarizzazione, e all’Economia, invece, Ricardo Patiño, ex
sottosegretario del dicastero economico, forte oppositore al pagamento del
debito estero. Ai vertici dell’impresa statale Petroecuador, infine, sarà
Carlos Pareva Yannuzzelli, l’ideatore della strategia che è culminata con la
rottura del contratto con l’impresa Usa Occidental (Oxy). La vittoria di Correa
conferma così la nuova tendenza dell’America latina, condivisa da Argentina,
Brasile, Venezuela, Bolivia, Cile e Uruguay che non vede di buon occhio il Tlc
mentre guarda con favore al rafforzamento del Mercosur (Mercato comune del Cono
Sud: comprende Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela).
Il 9 aprile si sono tenute in Perù le elezioni generali. Benché
Alejandro Toledo sia stato il primo ad aprire la svolta a sinistra
dell’America latina, forte è la delusione tra i suoi elettori. L’ultimo,
contestato atto della sua presidenza è stata la firma del Trattato di libero
commercio con gli Stati Uniti. Messa sotto controllo nell’ultimo anno
l’inflazione, Toledo non è riuscito a fare molto di più: la disoccupazione è
aumentata, non ci sono state le riforme promesse e i casi di corruzione nel
governo non si contano. Nonostante la crescita economica – nel 2005, il Pil è
aumentato del 6,6% –, la redistribuzione della ricchezza in Perù è ancora un
miraggio: le stime ufficiali collocano oltre il 48% della popolazione sotto la
soglia della povertà. Nel 2001 anche Toledo aveva fatto ricorso all’indigenismo
per essere eletto, ma nei cinque anni che sono seguiti ha portato avanti una
politica di segno contrario, giungendo fino all’invio di carri armati ad
Arequipa per reprimere una protesta cittadina. La popolarità del presidente
uscente era crollata ai minimi storici lo scorso anno dopo lo scandalo delle
firme false al suo partito, il Perú Posible (Pp), scandalo dal quale non è
uscito completamente scagionato. Preso atto del crollo del consenso sotto il
10%, Perú Posible ha addirittura rinunciato a correre per la presidenza. Nella
corsa alla presidenza è sceso in campo l’ex colonnello Ollanta Humala,
nazionalista, nemico della globalizzazione e anticileno, che con il passare dei
giorni ha visto aumentare la sua percentuale nei sondaggi, soprattutto nei
settori popolari che lo hanno paragonato a Hugo Chávez e a Evo Morales, anche se
nei suoi comizi i diritti delle popolazioni andine o le pari opportunità sono
rimasti marginali, sopraffatti dalle rivendicazioni per un Perù chiamato a
svolgere un ruolo di primo piano in America latina. Stranamente, per un Paese
con oltre metà della popolazione sotto la soglia di povertà, al centro della
campagna elettorale nelle settimane prima del voto non è stata tanto la politica
interna, quanto le relazioni con il vicino Venezuela e più in generale la
posizione del Perù nel Continente latinoamericano. L’ideologia di Humala, figlio
di un avvocato comunista, è un misto di populismo e socialismo che gli ha
procurato le simpatie del presidente Chávez. Eroe della guerra con l’Ecuador,
Humala punta a nazionalizzare le risorse naturali del Paese e a creare una
nazione dove l’etnia indigena occupi i posti chiave nell’amministrazione dello
Stato. Ollanta si richiama all’etnocacerismo, movimento che mescola
l’indigenismo a un forte sentimento nazionalista e che deve il suo nome al
generale Andrés Cáceres, un militare che alla fine del XIX secolo aveva
combattuto l’esercito cileno. Non è un caso che tra le pretese degli
etnocaceristi ci sia la restituzione della grossa fetta di territorio che il
Cile ha tolto al Perù durante quel conflitto. Humala ha fondato il Partido
nacionalista peruviano e nel 2000 ha guidato un’insurrezione militare contro
Alberto Fujimori e Vladimiro Montesinos. Fallita l’insurrezione, è stato espulso
dall’esercito, per esservi riammesso poco dopo. Implicato nella guerra sporca
contro i guerriglieri di Sendero Luminoso, ha sfidato l’esercito a rendere
pubblici tutti i documenti segreti relativi a quel periodo della storia recente
del Perù. Chávez ha apertamente dichiarato il suo appoggio a Humala:
un’intromissione indebita, secondo il presidente uscente Toledo, che ha ritirato
l’ambasciatore dal Venezuela. Il centro si è presentato diviso tra Lourdes
Flores Nano, militante del Partido popular cristiano, che aveva perso contro
Toledo nelle elezioni precedenti, e Valentín Paniagua che, come
presidente di transizione, aveva traghettato il Perù del dopo Fujimori alla
democrazia. Infine come candidato dell’Alleanza popolare rivoluzionaria
americana (Apra) è sceso in campo l’ex presidente Alan García Pérez, sul
quale pesava però il ricordo di una presidenza disastrosa che, venti anni fa,
aveva portato il Paese sull’orlo della rovina. Dagli anni Novanta è stato
introdotto in Perù un modello economico di stampo neoliberale, che ha portato
stabilità e crescita dell’economia, ma senza modificare gli indici di povertà.
Ollanta si è sforzato di moderare le sue dichiarazioni e di presentarsi davanti
all’elettorato più come un riformista che come un rivoluzionario. Ha attaccato
la Nano accusandola di essere conservatrice e di difendere le imprese,
salvaguardando i privilegi di pochi. Di García, invece, ha ricordato il disastro
che significò per il Perù il suo governo, durante il quale l’inflazione era
arrivata a livelli record (fino al milione per mille) generando quel crollo
economico che aveva aperto la strada all’autoritarismo di Fujimori. La Nano,
invece, si è proposta più radicale nelle sue riforme, pur facendo attenzione a
non venire interpretata come una garanzia di inversione, e ha promesso di
lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, accusando Ollanta di non avere
un partito, né un’organizzazione che lo sostenga al governo, e di aver dunque
l’intenzione di trovare l’appoggio nell’esercito, configurando così una nuova
dittatura civico-militare e quindi la fine della democrazia. Infine García si è
presentato come candidato del centro e come l’unica scelta veramente
democratica, contro la possibile dittatura militare di Humala e contro la Nano,
candidata, a suo giudizio, dei ricchi e dei potenti del Paese. Come previsto
Humala si è aggiudicato il primo turno con il 30,62% dei voti davanti a García e
a Lourdes Flores. Dopo una serie di rinvii dovuti al conteggio dei voti tra i
due candidati piazzatisi al secondo posto (divisi da una manciata di voti), il
ballottaggio è stato fissato per il 4 giugno con l’ex presidente Alan García
(24,32%). Nonostante il suo governo negli anni Ottanta fosse finito in un
disastro economico, tra rivolte e accuse di abusi sui diritti umani, il
ballottaggio è terminato con la sua vittoria. Con il 53,5% dei consensi, il
leader dell’Apra è tornato alla guida del Paese – era stato presidente dal 1985
al 1990 – battendo Humala fermo al 46,7%. Molti peruviani hanno votato per
García considerandolo il male minore e il meno ostile al mondo degli affari.
Chiedendo perdono ai peruviani, García ha promesso che non mancherà questa
“seconda opportunità”. Poi ha aggiunto di aver vinto perché i peruviani hanno
respinto “in modo schiacciante” il tentativo di “penetrazione e dominazione”
messo in atto dal venezuelano Chávez, appoggiando Humala. Aspri sono stati gli
scambi di accuse fra García e Chávez, il quale si era apertamente schierato
contro il presidente appena rieletto, sottolineando la catastrofica prova
durante il quinquennio in cui governò il Paese. Humala si è comunque detto
soddisfatto del risultato dal momento che in 15 dei 24 dipartimenti ha battuto
il suo antagonista, pur perdendo nel conteggio finale poiché i dipartimenti più
popolosi erano quelli a favore di García. Ricordiamo infine che il 13 aprile,
nonostante l’opposizione di Humala e García, l’allora capo di Stato Alejandro
Toledo ha firmato il Trattato di libero commercio con gli Usa.
In Venezuela prosegue l’esperienza di riforme sociali avviata nel 1998
con la prima elezione di Hugo Chávez. Tra le riforme più importanti,
realizzate con la collaborazione di Cuba in cambio di aiuti, la campagna di
istruzione, che ha contribuito ad abbattere sensibilmente l’analfabetismo nel
Paese, e la campagna della sanità, la quale ha permesso a moltissimi poveri di
accedere a cure mediche e chirurgiche gratuite. Con la riforma agraria lo Stato
venezuelano è rientrato in possesso di terre poi redistribuite ai meno abbienti.
Infine con la rinazionalizzazione del petrolio e di parte dell’economia lo Stato
è rientrato in possesso delle leve economiche, in precedenza controllate da una
ristretta oligarchia, necessarie per supportare un vasto programma di
redistribuzione della ricchezza. No-nostante una certa retorica populista e
no-nostante il fatto che otto anni di Revoluciòn abbiano concentrato sempre di
più il potere nelle mani di Chávez, il Venezuela è un Paese dove finora la
proprietà privata non è stata toccata e la libertà di espressione è garantita.
Sul piano internazionale, Chávez ha stabilito relazioni strategiche con i Paesi
latinoamericani puntando a un processo di integrazione regionale che trova
espressione in iniziative come l’Alternativa bolivariana per le Americhe (Alba)
che si contrappone all’Alca (Area di libero scambio delle Americhe), promossa da
Washington. Per quanto riguarda Russia e Cina le loro relazioni con il Venezuela
ruotano intorno a una strategia legata al mercato del petrolio e ugualmente
fanno gli Usa dal momento che a tutti serve un fornitore ricco di materie prime.
Gli accordi con Siria, Corea del Nord e Iran sono invece strettamente politici e
servono al Venezuela per rompere l’isolamento internazionale attuato anche dalla
sinistra democratica, che guarda con preoccupazione al chavismo. Di qui
l’irrigidimento del regime, ma i buoni rapporti con questi Stati non
rappresentano il sentimento comune alla popolazione venezuelana. Dopo il vertice
dei Paesi non allineati tenutosi a Cuba, il presidente Chávez ha incontrato a
Caracas il suo omologo dell’Iran, Mahmoud Ahmadinejad, sottoscrivendo una
serie di accordi (sul petrolio e la sua lavorazione, sull’acciaio e la
lavorazione dei metalli, sulla produzione comune di infrastrutture industriali e
civili), confermando così l’alleanza strategica bilaterale che esiste fra le due
nazioni (19 settembre). I due presidenti hanno creato un fondo da utilizzare per
finanziare gli accordi di cooperazione. Parte del fondo (circa 2 miliardi di
dollari) sarà utilizzata per la nascita di un’azienda petrolifera mista con lo
scopo di gestire l’estrazione del greggio e l’eventuale ricerca nella regione
dell’Ayacucho. Venezuela e Iran insieme producono 7 milioni di barili di
petrolio al giorno e se si dovessero sommare le riserve dei due Paesi
arriverebbero ad avere le maggiori riserve petrolifere della terra. Fra gli
accordi firmati ci sono anche quelli che prevedono la collaborazione in campo
medico, agroindustriale e l’apertura di una rotta aerea diretta da Teheran a
Caracas a scopo esclusivamente commerciale. Infine Chávez ha dichiarato, in
aperta polemica con gli Stati Uniti, che il Venezuela è pronto a schierarsi a
fianco dell’Iran nel caso in cui questo venisse attaccato e invaso. In aprile
Chávez ha lanciato in aprile la cosiddetta Misión Disarmo che prevede la
consegna di denaro alla popolazione in cambio di armi, in modo da far diminuire
le violenze e i morti causati dalle armi da fuoco (ogni anno muoiono in scontri
a fuoco circa 10.000 persone). Il progetto, che vuole anche cercare di annullare
la vendita illegale delle armi e, una volta recuperate quelle in circolazione,
distruggerle, dovrebbe prendere il via nella capitale Caracas, città molto
violenta. Infine il 3 dicembre si sono tenute le elezioni presidenziali che
hanno visto Manuel Rosales, governatore dello Stato di Zulia (dove sono
concentrati i pozzi petroliferi), socialdemocratico e leader di Unità nazionale,
per la prima volta candidato unico dell’opposizione, sfidare il presidente
Chávez. Alle legislative dello scorso anno l’opposizione si era ritirata dalla
competizione elettorale per cercare di delegittimare il governo dando così a
Chávez il controllo totale dell’Assemblea nazionale (l’astensione aveva
raggiunto il 75%). La campagna elettorale ha avuto al centro le risorse del
Paese, innanzitutto il petrolio. Riferendosi al petrolio destinato a Cuba, Haiti
e ad altre nazioni amiche di Chávez, Rosales ha detto che “non si possono
regalare le nostre ricchezze agli altri Paesi”. Il programma di governo di
Rosales ha puntato molto sulla ridistribuzione delle ricchezze derivate dalla
vendita del petrolio, sulla creazione di un salario minimo garantito per i
di-soccupati, sul miglioramento dei programmi sociali, sulla guerra alle
discriminazioni politiche e religiose e sull’istruzione. A questo proposito
Rosales ha proposto un modello educativo che permetta una formazione scolastica
di alto livello dal primo anno di scuola all’ultimo. Per quanto riguarda la
sanità invece verrà realizzata una rete di nuovi ospedali e saranno adottati
programmi per assistere le donne in gravidanza, i neonati e gli anziani. Infine
in caso di vittoria Rosales ha promesso come primo atto l’introduzione per
decreto della carta di credito “Mi Negra”, con cui i poveri potranno ricevere
parte dei proventi della vendita del petrolio. Dal canto suo Chávez chiudendo a
Caracas la sua campagna elettorale davanti a centinaia di migliaia di persone,
ha indicato Rosales come candidato dell’impero sostenuto dagli Usa. Come
previsto dai sondaggi, le consultazioni sono terminate con la vittoria di Chávez
che ha ottenuto il 62,9% dei consensi, contro il 37,1% del suo avversario, e che
potrà così governare fino al 2012, proseguendo l’attuazione del suo programma
politico stilato in base alle scelte da seguire per completare la rivoluzione
bolivariana. Si allontana così anche la possibilità di un avvicinamento politico
fra il Venezuela e gli Stati Uniti e l’instaurazione della democrazia sociale,
due dei principali punti del programma di Rosales. Secondo gli osservatori
internazionali dell’Ue, del Mercosur e dell’Organizzazione degli Stati americani
le votazioni si sono svolte in modo corretto, ma Rosales ha denunciato il
cattivo funzionamento di alcune macchine elettroniche utilizzate per il voto. In
occasione del discorso per la sua rielezione, Chávez ha ribadito la volontà di
approfondire la rivoluzione socialista ed eliminare i privilegi di classe. Il
programma si articolerà in alcuni punti chiave, partendo dalla nazionalizzazione
delle società di telecomunicazioni, dell’elettricità, e, soprattutto, delle
imprese per l’estrazione del petrolio.
La politica. 2006