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DEMOCRAZIA
Regime politico in cui i governi sono espressione
dei governati, o meglio della maggioranza di essi.
DEMOCRAZIA DIRETTA E OLIGARCHIE. In epoca storica la democrazia
sorse presso alcune polis greche, segnatamente le colonie ioniche
dell'Asia minore (VII-VI secolo a.C.) e soprattutto Atene
dal V secolo. In queste comunità ristrette le responsabilità
politiche venivano delegate a singoli o a magistrature collegiali dall'assemblea
di tutti i cittadini (maschi e liberi) o per sorteggio e per periodi in
genere non superiori all'anno. La formulazione teorica venne da Aristotele
(IV secolo a.C.), che contrappose la democrazia alla "monarchia" (governo
di uno solo) e all'"aristocrazia" (governo di uno strato sociale superiore).
Anche a Roma, caduti nell'VIII secolo a.C. i re, il populus aveva
base ristretta: le massime magistrature erano elette dagli uomini in grado
di portare le armi. Le magistrature, tutte collegiali, non esercitavano
però poteri totali. La direzione politica fu per secoli (VIII-I
a.C.) saldamente in mano al Senato, rigorosamente riservato ereditariamente
(quindi non elettivo) a un ristretto gruppo di famiglie "nobili" (poi
gradualmente ampliato). Magistrati e Senato avevano dal 494 a.C. un limite
nell'invalicabile potere di veto del tribuno
della plebe, elettivo. Gli stranieri assoggettati ottennero il diritto
di partecipare alla democrazia romana attraverso la cittadinanza
man mano che si ampliavano i domini di Roma (finché nel 212 d.C.,
quando aveva ormai perduto ogni influenza sul potere reale, essa fu estesa
a tutti i sudditi liberi dell'impero), ma donne e schiavi continuarono
a esserne esclusi. Il declino e il crollo delle democrazie antiche non
consistette nella distruzione delle loro istituzioni (piuttosto snaturate
e svuotate che abolite). Esse erano fatte per pochi (oligarchia), che
ne persero il controllo, mentre se ne avvantaggiarono molti altri che
erano stati ammessi a parteciparvi, ma che non trovarono in quegli istituti
strumenti adeguati di rappresentanza. Da qui il sorgere di poteri personali
di mediazione (cesarismo, principatus).
L'elezione del re, sia pure a vita, da parte dei guerrieri presso le popolazioni
germaniche che penetrarono nei territori dell'impero romano (III-VIII
secolo) conferma l'origine oligarchica della democrazia prevista per comunità
limitate. Il meccanismo feudale, dai Carolingi (IX secolo) in poi, adattò
l'esigenza di controlli incrociati e di limiti ai privilegi personali
a una società etnicamente, religiosamente e socialmente mutata
nel profondo in seguito all'avvento del cristianesimo, al declino dello
schiavismo e alla fissazione della forza lavoro alla condizione sociale
di nascita. Il messaggio evangelico fomentò tuttavia per tutto
il Medioevo una ricorrente predicazione egualitarista che sfociò
spesso nella creazione di comunità, ancora una volta ristrette,
rette a democrazia diretta, non di rado estese anche alle donne, ma sempre
perseguitate spietatamente come eretiche dal potere politico-religioso,
che se ne sentiva minacciato. Anche nei comuni, nelle repubbliche cittadine,
nelle città libere dell'impero, dopo il Mille il potere venne parzialmente
delegato da un'oligarchia, spesso con strumenti elettivi sofisticati misti
al sorteggio (come nel caso di Venezia), ad apposite magistrature (talvolta
assegnate, per maggior cautela, a forestieri, come nel caso dei podestà),
che non furono mai espressione di tutti gli strati della società.
Qui però il "popolo", pur escludendo sempre le donne, assunse contorni
e consistenza più precisi man mano che all'aristocrazia feudale
ed ecclesiastica si contrappose la borghesia,
particolarmente gelosa delle proprie immunità corporative e appellantesi
a un potere superiore contro la prepotenza aristocratica. Proprio allora
la sovranità popolare venne teorizzata da giuristi regalisti,
per i quali cioè il "popolo", astratto insieme di soggetti sociali
non precisati, delegava una volta per tutte il proprio potere al sovrano,
re o imperatore che fosse. D'altronde, in ambito germanico, la monarchia
rimase fino alla caduta del Sacro romano impero (1806) formalmente elettiva,
ma ovviamente il corpo elettorale era ridotto a un ristrettissimo novero
di grandi signori e prevaleva la consuetudine di ratificare elettivamente,
salvo eccezioni, una successione ereditaria. Perfino l'elezione del pontefice
non si sottrasse mai, eccettuata l'ereditarietà, a questa regola.
La disputa interna ai regalisti (e, per la chiesa, tra conciliaristi e
non conciliaristi) consisteva semmai sulla revocabilità o meno
del potere da parte del corpo elettorale. La democrazia funzionava cioè
a quegli alti livelli come funzionava all'interno di ciascun corpo in
cui era suddivisa la società di ordini, ciascuno dei quali sovrano
nel proprio ambito e al di sopra dei quali faticò a imporsi lo
stato come cosa di tutti. Questo pensava invece N. Machiavelli (1469-1527)
quando contrapponeva al principato (regime monocratico) la repubblica
(regime, anche monarchico, ma articolato e con pluralismo di poteri).
La Riforma protestante riprese il concetto di democrazia estendibile a
tutti i fedeli come comunità di credenti, ma ben presto prevalsero
o il modello gerarchico cattolico o quello settario-teocratico delle singole
confessioni. Anche la rivoluzione inglese della metà del XVIII
secolo, per tanta parte alimentata dal calvinismo, represse con ferocia
le sue frange più accanitamente egualitariste e democraticiste
(levellers) e sfociò in una dittatura (O. Cromwell) che volle addirittura
farsi ereditaria, ma che non poté resistere all'organismo di rappresentanza
di ordini tipicamente medievale, il parlamento.
In seguito (1688) quest'ultimo ottenne una monarchia costituzionale limitata
da un sistema di contrappesi istituzionali. In questo senso già
J. Althusius (1557-1638) aveva corretto l'indicazione machiavelliana,
parlando di poliarchia invece che di repubblica (1603).
VOLONTÁ POPOLARE, CONTRATTUALISMO E DEMOCRAZIA RAPRESENTATIVA.
L'assolutismo fece coincidere l'astratta "volontà popolare" con
la volontà divina, base del proprio diritto a regnare senza limiti
codificati (ma con molti limiti reali), mentre premevano le teorizzazioni
giuridico-filosofiche: U. Grozio (1583-1645) e J. Locke (1632-1704), in
forme e con intenti diversi, richiesero la restituzione della sovranità
alla comunità popolare (sempre più o meno esplicitamente
limitata alla parte aristocratico-borghese), che delegava per contratto
revocabile (riconosciuto anche dal teorico dell'assolutismo T. Hobbes,
1588-1679) il potere al sovrano. Furono le riflessioni degli illuministi
ad avere l'incidenza più profonda sullo sviluppo concreto della
democrazia. J.J. Rousseau (1712-1778) riprese un concetto "puro" di democrazia
diretta ed egualitaria. C. de Montesquieu (1689-1755), sull'esempio poliarchico
inglese, teorizzò la distinzione dei poteri legislativo, esecutivo
e giudiziario. Voltaire (1694-1778) e altri formularono un'ampia base
concettuale per la codificazione della parità di diritti fra tutti
gli uomini. La democrazia di modello greco-romano, con caratteristiche
analoghe e gli stessi limiti, rivisse soltanto con la nascita degli Stati
uniti d'America e quindi, tra infiniti contrasti, nella fase monarchico-costituzionale
(1789-1792) e repubblicana (1792-1804) della Rivoluzione francese. Rispetto
al modello però prevalsero, con l'allargamento della comunità
sino ai confini della nazione, le istituzioni della democrazia rappresentativa
(o parlamentare), in cui la sovranità viene delegata dal
"popolo" a un organo rappresentativo e in parte a un corpo elettorale
intermedio (come quello che negli Stati uniti elegge il presidente). Ciò
rendeva per la prima volta operante di fatto il principio di maggioranza,
in quanto da allora quella parte del popolo che non si sentiva rappresentata
dall'operato dei magistrati eletti dalla maggioranza del parlamento, era
tenuta, fino al rinnovo periodico di quest'ultimo, a rispettarlo ugualmente.
La distruzione delle corporazioni e dei ceti intervenuta per queste vicende
e per la rivoluzione industriale mise, nell'Europa ottocentesca, il principio
astratto di democrazia in rapporto diretto con un "popolo" che assumeva
i contorni concreti delle masse di borghesia e di proletariato urbano
in lotta per garantirsi tutela giuridico-sindacale e rappresentanza politica,
anche con dei passi indietro di tipo cesarista (come il bonapartismo).
Questa lotta si intrecciò con quella di indipendenza nazionale
di molti popoli (proseguita ancora per tutto il XX secolo anche dai popoli
coloniali), volta a identificare le singole comunità di popolo
detentrici di potere sovrano entro un determinato ambito territoriale.
Con il socialismo scientifico anche il concetto di democrazia assunse
un significato nuovo. K. Marx (1818-1883) ne denunciò il carattere
astratto e i limiti di classe della sua applicazione (che per lui nascondeva
di fatto una dittatura della borghesia). La battaglia per l'allargamento
dei fruitori del diritto di voto fino al suffragio
universale, anche femminile, costituì uno dei cardini del movimento
operaio e, alla lunga, uno dei suoi più cospicui successi. Ciò
attenuava i difetti denunciati da Marx, rendendo le élite più
direttamente sensibili al consenso delle masse. Questo processo costrinse
anche coloro che non si riconoscevano nel programma dei partiti socialisti
a organizzarsi in partiti per partecipare alla competizione democratica
per la formazione delle maggioranze. Da allora il partito divenne strumento
indispensabile della democrazia. La rivoluzione d'ottobre in Russia (1917)
pretese di sostituire alla democrazia formale "borghese" la democrazia
sostanziale della "dittatura del proletariato", presto tramutatasi in
dittatura del Partito comunista e in dittatura personale (Stalin). Altri
paesi furono assoggettati tra gli anni Venti e Trenta a regimi totalitari,
che perseguirono la nazionalizzazione delle masse (fascismo) ma non poterono
eludere mai il problema del consenso. Processi analoghi si verificarono
dopo la seconda guerra mondiale nelle democrazie popolari e nei paesi
affrancatisi dal colonialismo. La disuguaglianza socioeconomica continuava
a non trovare soluzione e, anche nei paesi a democrazia rappresentativa,
si trasformava in problema economico per le necessità di crescita
del mercato insite nel capitalismo. Vi si fece fronte in modi diversi,
ma quello che meglio si attagliò alla democrazia rappresentativa
(vigente dopo la sconfitta del nazifascismo nel 1945 in Europa occidentale,
in gran parte dell'America e in vari paesi asiatici) fu il welfare state,
che, fornendo garanzie minime di base all'esistenza dei lavoratori, li
associava, anche in forme conflittuali, alla gestione dello stato "di
tutti", democraticamente fondato, benché permanesse la limitazione
della gestione reale del potere a quella che G. Mosca (1848-1941) definì
la classe politica (perpetuantesi di fatto perfino per via ereditaria).
Il crollo dei regimi comunisti e la dissoluzione dell'Urss (1989-1991)
costrinsero nuovi popoli a cimentarsi per la prima volta con gli infiniti
problemi della democrazia, ma crearono sotto molti aspetti, anche economici,
una situazione nuova in tutto il mondo. Esaurito il welfare state
per limiti economici invalicabili, nei paesi avanzati, divenuti meta di
migrazioni internazionali sempre più pressanti, vacillarono le
certezze "nazionali" su cui ciascuno aveva fondato in concreto la propria
prassi democratica e sempre di più si mise a nudo la coincidenza
tra democrazia rappresentativa e mercato capitalistico, insufficiente
a dare volto, rappresentanza e potere alla miriade di realtà etniche,
religiose, filosofiche, oltre che economiche e sociali (senza contare
le persistenti discriminazioni di genere), da cui sono formati i popoli.
R. Balzani, G. Petrillo

G. Sartori, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna 1957; W.
Schlangen, Democrazia e società borghese, Il Mulino, Bologna
1979; H. Kelsen, La democrazia, Il Mulino, Bologna 1981; Dizionario
di politica, a c. di N. Bobbio e N. Matteucci, Utet, Torino 1990.
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