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SCHIAVITÙ, ABOLIZIONE DELLA
(XVIII-XIX secolo). La schiavitù venne
messa apertamente in discussione solo dal Settecento, con la nascita del
pensiero liberale, che intendeva così eliminare anche questo impedimento
al libero sviluppo delle forze umane produttive e che trovò ampia
risonanza soprattutto in ambito protestante in Gran Bretagna, contraddetta
però dagli interessi concreti dei piantatori coloniali. Soppressa
infatti nei territori metropolitani di Gran Bretagna, Portogallo e Francia
già dal 1770, la schiavitù continuò a prosperare nelle
colonie e anche negli stati del sud degli Stati Uniti dopo l'indipendenza.
Soltanto con la rivoluzione francese e dopo la rivolta ad Haiti, essa fu
abolita nelle colonie francesi (1794), ma Napoleone la dovette ripristinare
(1802) per non perdere il seguito della borghesia creola. La speranza che
il divieto della tratta (Francia 1791, Danimarca 1792, Gran Bretagna e Stati Uniti 1807, Olanda 1814 ecc.) facesse scomparire il fenomeno per esaurimento
si rivelò illusoria, anche dopo la solenne condanna del congresso
di Vienna (1815), in quanto proseguì il contrabbando. Quindi si giunse
ai divieti alla schiavitù nelle colonie britanniche (1833), francesi
e olandesi (1848), negli Stati Uniti (1863, durante la guerra civile americana),
a Cuba e Portorico (1870), mentre gli stati latinoamericani adottavano negli
anni cinquanta la politica del "ventre libero", per cui i figli di schiava
nascevano liberi; così la schiavitù si esauriva progressivamente.
L'ultimo stato ad abolirla ufficialmente fu il Brasile (1888).
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