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MORTALITÀ NEI PAESI DEL TERZO MONDO, DECLINO DELLA
Mentre la riduzione di mortalità che si verificò in Europa tra il XIX-XX secolo fu una conseguenza delle migliorate condizioni socioeconomiche, culturali e nutrizionali, quella avvenuta nei paesi meno sviluppati nella seconda metà del XX secolo fu essenzialmente legata ai moderni programmi igienico-sanitari pubblici. Alla fine della Seconda guerra mondiale la speranza di vita alla nascita nei paesi del Terzo mondo era compresa fra i 36 anni del continente africano e i 50 anni dell'America latina, con i paesi asiatici che si collocavano su valori intermedi, oscillanti intorno ai 45 anni. Secondo le stime Onu del 1985 soltanto l'area subsahariana presentava valori così bassi (Etiopia, Nigeria, Sierra Leone). In generale i paesi del Terzo mondo sperimentarono, a partire dai primi anni cinquanta, una forte diminuzione della mortalità e questo processo fu frutto essenzialmente dell'importazione dai paesi industrializzati delle conoscenze medico-sanitarie, inserite nei programmi dei governi locali. A ciò non corrispose un contemporaneo miglioramento nelle condizioni generali di vita delle popolazioni, permanendo pesanti carenze nel campo dell'alimentazione, dell'igiene, delle strutture sociali. Questi gravi problemi sociali ed economici impedirono il mantenimento dei ritmi di decremento della mortalità verificatisi nel dopoguerra e il raggiungimento di valori della speranza di vita simili a quelli del mondo sviluppato. Soltanto la rimozione degli ostacoli che si frappongono alla modernizzazione, alla diffusione dell'istruzione (particolarmente nelle zone rurali, nei sobborghi delle odierne megalopoli e presso gli strati sociali meno favoriti) potranno condurre a un ulteriore miglioramento delle condizioni della sopravvivenza. Nel continente latinoamericano si ritrovavano negli anni ottanta situazioni estremamente diversificate. Alcuni paesi erano ormai caratterizzati da condizioni sanitarie prossime a quelle dei paesi ricchi, con valori della speranza di vita già elevati, talvolta superiori ai 70 anni (Argentina, Cile) mentre in altri imperava l'alta mortalità, particolarmente quella infantile, con una speranza di vita intorno ai 60 anni o anche inferiore, come in Perù e in Bolivia. In questi paesi l'importazione di cure e conoscenze dal mondo industrializzato, la propaganda e la diffusione dei vaccini per l'infanzia e delle strutture sanitarie di base, non avevano ancora sconfitto il degrado culturale portato dal malessere sociale e quindi non avevano portato a termine la transizione della mortalità in assenza di piani di sviluppo sociale e di istruzione primaria. Le stesse considerazioni valgono per alcuni paesi islamici dell'area mediterranea, che presentavano valori della speranza di vita alla nascita intorno ai 60 anni (Egitto, Turchia ecc.). Malgrado l'obiettivo della diminuzione della mortalità infantile fosse ai primi posti nei piani di sviluppo nazionali e si fossero compiuti enormi sforzi per la diffusione sul territorio dei servizi sanitari di base per maternità e infanzia (vaccinazione, prevenzione delle malattie legate alla gravidanza e al parto, terapie di reidratazione ecc.), in questi paesi nel periodo 1980-1985 si registravano ancora tassi di mortalità infantile e giovanile molto alti. In Turchia oltre il 10% dei nati moriva prima del compimento del quinto anno e in Egitto questa proporzione saliva al 15%. Livelli così elevati di mortalità infantile non erano rari neanche nel continente asiatico. In India la quota di ogni generazione che muore prima del primo anno raggiungeva il 12% e un ulteriore 5% dei sopravviventi non raggiungeva i cinque anni. Il mondo sviluppato intensificò le iniziative al fine di diminuire questa perdita di vite umane, ma solo gli sforzi degli organismi sovranazionali (Onu, Unicef, Fao), di concerto con quelli dei governi nazionali per favorire lo sviluppo socioeconomico, potrebbero vincere i fattori, diretti e indiretti, di questa elevata mortalità, infantile e adulta. Inchieste compiute nell'ambito di progetti a livello mondiale (e quindi condotte in modo omogeneo per una quarantina di paesi meno sviluppati), quali il progetto del World Fertility Surveys (Wfs) degli anni settanta e le indagini, iniziate nel 1986, del Demographic Health Surveys (Dhs), portarono al riconoscimento dell'incidenza di molteplici cause di ordine demografico e sociale sui livelli della mortalità infantile, tra le quali riveste una particolare importanza il modello di fecondità. Un'età troppo avanzata o troppo giovane e nascite troppo ravvicinate rappresentano fattori di rischio di una certa importanza. Decisivo è il passaggio da una fecondità naturale a una fecondità controllata: l'accettazione degli strumenti di pianificazione familiare e l'accelerazione della transizione demografica per i paesi del Terzo mondo sono causa e allo stesso tempo effetto dell'evoluzione della mortalità infantile. La situazione dell'Africa subsahariana si presenta a questo proposito come un regime demografico pretransizionale. Anche l'apertura alla cultura di tipo occidentale, favorita dalla diffusione delle confessioni cristiane, poco poté contro condizioni ambientali, socioeconomiche e culturali così negative soprattutto nei confronti della mortalità infantile. Pur essendo molto diminuita tra la fine della Seconda guerra mondiale (quando il 30-40% dei nati moriva prima dei cinque anni) e gli anni ottanta (quando per la maggior parte dei paesi africani la proporzione era inferiore al 20%), restava elevatissima. Qui, come del resto nelle altre aree (il subcontinente indiano, per esempio) dove alta fecondità e alta mortalità infantile provocano il disagio socioeconomico e ne sono condizionate, le differenze fra le classi sociali e secondo l'ambiente sono enormi, e strettamente legate alle caratteristiche educative e professionali dei genitori.

S. Salvini


W.H. Mosley, L.C. Chen (a c. di), Child Survival Strategies for Research, supplemento di "Population and Development Review", vol. 10, 1984; J. Ross, M. Rich, J. Molzan, M. Pensak, Family Planning and Child Survival. 100 Developing Countries, Center for Population and Family Health, Columbia University, New York 1988; G. Pison, E. van de Walle, M. Sala-Diakanda (a c. di), Mortalité et société en Afrique, in "Travaux et Documents", Cahier n. 124, Ined, Uiesp, Iford, Mnhn, 1989.
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