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EMIGRAZIONE
EUROPEA
Nel corso dell'età moderna e contemporanea
la modernizzazione dei mezzi di comunicazione, la scoperta di nuovi paesi
e le trasformazioni della mentalità collettiva favorirono il fenomeno
dell'emigrazione, principalmente a scopo economico. Vaste categorie di
cittadini, esclusi dal mutare dei processi produttivi in patria o espulsi
violentemente in seguito alle guerre di religione europee del XVII secolo,
diedero vita a grandi flussi migratori internazionali, proseguiti quasi
senza interruzione fino al XX secolo. Esistono, da un punto di vista formale,
almeno tre tipi di emigrazione: quella internazionale, da un paese
all'altro; quella interna, da una regione all'altra di una stessa
nazione; infine quella stagionale, causata dallo stato di depressione
temporanea del mercato locale.
EMIGRAZIONE INTERNAZIONALE. La prima e maggiore corrente di emigrazione
internazionale fu generata, a partire dalla fine del XVIII secolo, dalla
rivoluzione agraria che cambiò il volto della Gran Bretagna. La
meccanizzazione del lavoro nei campi, unita a una crisi del settore primario
e alla nascita del sistema industriale, liberò enormi risorse umane,
soprattutto in Irlanda, assorbite in larga misura dagli Stati Uniti. I
passengers (emigranti del Regno unito) salirono dai circa 2.000
annui del 1815 ai 57.000 del 1830. La carestia del 1846-1847 provocò
poi l'emigrazione di due milioni e mezzo di irlandesi verso gli Stati Uniti. La carestia e il fallimento dei moti del 1848 indussero anche molti
tedeschi ad abbandonare gli stati d'origine, come dimostrano le statistiche
relative alla metà del secolo: se in tutto il decennio 1820-1830
gli emigranti avevano complessivamente toccato le 10.000 unità,
nel 1847 essi erano divenuti 100.000, e nel 1854 già più
di 200.000. Oltre agli Usa furono destinazioni privilegiate il Canada,
l'Australia, l'Africa del Sud; verso l'America latina, invece, andarono
orientandosi italiani, francesi e spagnoli, attratti pure, specie dopo
il 1830, dalle coste nordafricane. Nella seconda metà del XIX secolo,
pur permanendo incontestabili cause interne (rivoluzioni, guerre, persecuzioni),
il fascino esercitato dal mito d'oltreoceano soppiantò l'impellente
spinta economica nella gerarchia degli impulsi che inducevano l'europeo
a emigrare. La scoperta dell'oro in California (1850), la colonizzazione
del West, l'avvio di una precoce industrializzazione attrassero negli
Stati Uniti, fra il 1850 e il 1890, circa 13 milioni di stranieri, di
cui quasi il 90% provenienti dal vecchio continente. Incoraggiato dalla
modernizzazione dei trasporti, che rendeva i viaggi meno rischiosi, il
flusso annuo di emigranti triplicò fra il 1850 e il 1890. Alla
fine del secolo, inoltre, si verificò una significativa diversificazione
dei bacini geografici di provenienza: per tutto l'Ottocento erano stati
i paesi nordoccidentali ad alimentare l'emigrazione, da allora in poi
invece furono le nazioni agricole dell'Europa centrorientale e mediterranea
come la Russia, l'Austria-Ungheria e l'Italia. Nel 1861-1870 solo lo 0,1%
degli stranieri giunti negli Stati Uniti proveniva dall'Europa centrale
e meridionale; nel 1901-1910 la percentuale era salita al 65%. In concomitanza
con sfavorevoli congiunture economiche nei paesi d'arrivo, molti emigranti,
soprattutto a partire dall'ultimo quarto del XIX secolo, rimpatriarono,
dando origine per la prima volta a un consistente movimento in senso contrario.
Solo dopo la Prima guerra mondiale gli Stati Uniti assunsero provvedimenti
restrittivi miranti a regolare l'afflusso di manodopera straniera e a
rendere il più possibile omogenea una società che, fin dalle
origini, era stata multietnica e multirazziale. La crisi del 1929 spinse
a un ulteriore inasprimento del controllo alle frontiere. Si mantenne
viva una corrente migratoria overso l'America latina ma furono i flussi
temporanei all'interno del continente europeo ad assumere, a partire dal
periodo fra le due guerre, una rilevanza via via crescente.
IL CASO ITALIANO. La Francia aveva costituito da sempre uno sbocco
naturale per i lavoratori disoccupati italiani; fra il 1919 e il 1927,
anche a causa dell'instaurazione della dittatura fascista, ve ne affluirono
oltre un milione. È vero che l'offerta d'impiego proveniente dagli
Usa aveva fatto ascendere il numero annuo degli espatriati da 123.000
(anni settanta) a 269.000 (fine del secolo) a circa 800.000 (1913); è
vero che, nel corso di tutta l'età giolittiana, il movimento dei
braccianti meridionali verso le mete d'oltreoceano era stato imponente;
ma non bisogna dimenticare, d'altro canto, il richiamo esercitato da centri
più vicini ai confini italiani, dalla Svizzera all'Austria. Le
barriere elevate dal governo americano e la politica dissuasiva ostentata
da Mussolini portarono a una contrazione notevole dell'emigrazione, ridotta
negli anni trenta a una media annua di 50.000 unità. Terminato
il secondo conflitto mondiale, con l'arrivo in Italia di centinaia di
migliaia di profughi provenienti dall'Africa e dalla Venezia Giulia, il
flusso riprese con una certa intensità. Nonostante non esistano
dati certi è plausibile ritenere che circa un milione di italiani
abbiano alimentato l'emigrazione transoceanica, soprattutto in direzione
dell'America latina. L'esubero di manodopera, caratteristico dell'immediato
dopoguerra, indirizzò inoltre molti lavoratori meridionali verso
i maggiori centri industriali del continente, dalla Francia al Belgio,
alla Svizzera, alla Germania. Questa forma di emigrazione, a carattere
prevalentemente stagionale o temporaneo, assorbiva annualmente, nei primi
anni cinquanta, 133.000 unità, salite a oltre 500.000 all'inizio
del decennio successivo.
Vedi anche emigrazione italiana.
L'EMIGRAZIONE INTERNA ITALIANA. Ma l'Italia subì, in coincidenza
con il "miracolo economico" e la rapida e diffusa industrializzazione
nella valle padana e in alcune zone del centro, un colossale fenomeno
di migrazione interna, concentrato soprattutto fra il 1955 e il 1963 e,
dopo una breve interruzione, fra il 1967 e il 1971. Nell'intero periodo
considerato (1955-1971), oltre 9 milioni di cittadini furono coinvolti
in questa generale alterazione degli equilibri interregionali: intere
aree del Mezzogiorno (in Puglia, Sicilia e Campania) si spopolarono, mentre
le concentrazioni urbane del settentrione si ampliarono rapidamente. Lombardia,
Piemonte e Veneto raccolsero in gran parte l'emigrazione meridionale:
Torino passò da 719.000 (1951) a 1.214.000 abitanti (1967) mentre
i comuni dell'hinterland, tra il 1961 e il 1967, crebbero dell'80%.
Notevoli furono le conseguenze sul piano della trasformazione delle mentalità,
dei consumi e delle condizioni di vita. Per l'Italia il trauma dell'emigrazione
interregionale, che pure contribuì in maniera determinante al reperimento
della manodopera necessaria al pieno decollo industriale, fu assorbito
a fatica, lentamente. Nel volgere di pochi decenni la fisionomia agricola
del paese era stata quasi completamente sconvolta; al suo posto cresceva
una nazione moderna, pur venata da dualismo e da profonde contraddizioni,
che il fenomeno dell'emigrazione aveva contribuito a identificare.
R. Balzani
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