L'Età dell'Assolutismo.
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ITINERARI - L'OCCIDENTE - L'ETÀ DELL' ASSOLUTISMOLE MONARCHIE ASSOLUTEIl Sei e il Settecento costituiscono assieme la cosiddetta «età dell' assolutismo», quell'età cioè in cui il fatto politicamente più importante in Europa fu, appunto, l'affermazione dello Stato dell'assoluto. Forme assolutistiche di governo esistevano anche prima e sarebbero esistite anche dopo; ma è in questi due secoli che lo Stato assoluto ha precisato (nell'azione degli uomini politici e nel pensiero dei teorici della politica) le sue caratteristiche, si è imposto come modello di governo e, alla fine, ha messo in luce tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni (si potrebbe dire: la sua incapacità ad esistere). Sino alla fine del Settecento, quando è stato rovesciato dalla Rivoluzione francese (che in realtà fu una rivoluzione europea), l'assolutismo ha dominato in molti Paesi d'Europa. C'era la cosa, ma non c'era la parola: «assolutismo» è un termine ottocentesco. I rivoluzionari francesi pensavano all'età dell'assolutismo come all'ancien régime (l'antico regime, ossia il regime vigente prima della rivoluzione) e l'espressione è rimasta tuttora in uso. È utile perché, mentre «assolutismo» fa riferimento soprattutto a un certo modello di organizzazione dello Stato, «ancien régime» sottolinea come quel modello si radicasse in un più complesso regime giuridico fondato sulla diseguaglianza, che garantiva il predominio della nobiltà sulle altre classi sociali. Quali fossero i principali caratteri dello Stato assoluto lo abbiamo anticipato parlando delle monarchie nazionali emerse alla fine del Medio Evo: una volontà sovrana (che di solito, ma non sempre, era proprio la volontà del sovrano) libera da vincoli e da condizionamenti e un potere centralizzato che aveva i suoi fondamentali strumenti di governo nell'esercito permanente, per lo più composto di mercenari, e in una burocrazia di ufficiali e funzionari dipendenti direttamente dal sovrano, incaricati di specifici compiti amministrativi e revocabili in qualsiasi momento a insindacabile giudizio del sovrano stesso. Un potere libero da vincoli e da condizionamenti non voleva dire però un potere illimitato. I sovrani assoluti hanno sempre riconosciuto almeno teoricamente due limiti alla propria azione: da un lato la legge di natura, che li impegnava a rispettare i diritti naturali dei propri sudditi e cioè il diritto alla vita, alla libertà e al giusto possesso dei propri beni; dall'altra la legge divina, interpretata secondo i principi di questa o quella confessione cristiana. Il potere dei sovrani, dunque, era (o aspirava a essere) libero da vincoli solo limitatamente allo spazio compreso tra queste due leggi, che è lo spazio della legge «positiva», di quella legge cioè che promana dalla volontà dello Stato e che lo Stato fa valere coercitivamente, con la forza, nei confronti dei suoi soggetti (l'ipotesi dell'esistenza di una legge di natura positiva non può alterare è la sostanza della dottrina detta «giusnaturalismo»). Anche in questo spazio che le era teoricamente riservato, non si poteva dire che la volontà sovrana fosse pienamente libera. Occorre distinguere infatti tra le leggi ordinarie di uno Stato e le sue leggi «fondamentali», ossia quelle che ne definiscono la costituzione. Se è ammissibile che la volontà di un sovrano assoluto faccia (e disfaccia) le leggi ordinarie, non è altrettanto facile ammettere ch'essa faccia (e disfaccia) le leggi fondamentali, quelle leggi, cioè, che stabiliscono se e quando una volontà è sovrana. Ne sono un esempio le norme che regolano la successione al trono (come la legge salica, vigente in Francia e in altri Paesi, che escludeva dalla successione al trono le donne): un re che arrivasse al trono alterando l'ordine stabilito per la successione non sarebbe un re legittimo. I sovrani assoluti ci tenevano ad essere considerati legittimi, creati, cioè, nel rispetto delle leggi fondamentali del regno. Esistevano poi una quantità di altri limiti di fatto all'azione dei sovrani assoluti.Era molto contestato, per esempio, il diritto dei re di modificare le buone e antiche tradizioni del Paese su cui regnavano: potevano provarci, ma a proprio rischio e pericolo, perché sul loro cammino avrebbero incontrato molte (e legittime) resistenze. Ogni nuovo re ereditava dai suoi predecessori gli impegni che questi avevano preso con i loro sudditi: privilegi, benefici, immunità concessi a privati o a enti particolari (singole città o corporazioni) non potevano essere revocati ad arbitrio. Particolarmente vincolanti erano i patti o contratti (sul genere della Magna Charta) stipulati dai re con le assemblee rappresentative della Nazione (il Parlamento in Inghilterra, gli Stati generali in Francia, le Cortes in Spagna, ecc.). Tutto questo insieme di legami e di impacci dimostra quanto poco assoluto (in latino absolutus vuol dire appunto «privo di vincoli») fosse in concreto il potere dei monarchi che si dicevano «assoluti». L'assolutismo era un modello teorico, ed è rimasto (per fortuna) un'aspirazione mai compiutamente realizzata. In ogni modo, se lo Stato assoluto non era del tutto libero da vincoli, i suoi reggitori erano per lo più totalmente privi di scrupoli. Quello che i sovrani assoluti sono in effetti riusciti a realizzare è stata un'interminabile sequela di atti di forza mediante i quali si imponevano ai propri nemici o tentavano di farlo. In queste prove di forza, naturalmente, non c'era legge naturale o divina che tenesse, né patti giurati che valessero: quello che oggi chiameremmo il «realismo» politico e che allora si chiamava la «ragion di Stato» giustificava ogni efferatezza, ogni crudeltà, ogni tradimento utile allo scopo. Ma per quanti nemici eliminassero, i governi assoluti non sono mai riusciti ad eliminare tutti i loro nemici, né (tanto meno) a cancellare dalla mente degli Europei l'idea che resistere alla violenza è possibile e giusto. Si dice spesso che lo Stato assoluto (in tutta la sua imperfezione) ha rappresentato la prima forma di Stato moderno; il che vuol dire in sostanza che gli Stati in cui oggi viviamo sono più o meno direttamente gli eredi dello Stato assoluto. Ciò è vero sotto diversi profili: lo Stato assoluto ha combattuto la dispersione del potere tipica dell'organizzazione politica feudale, cercando di rendere uniformi le leggi e di centralizzare le funzioni di governo; così facendo ha combattuto privilegi e immunità, e, anche se non si è mai proposto di realizzare l'uguaglianza dei propri sudditi di fronte alla legge, ne ha però, se non altro, fatto nascere il bisogno. Questo sforzo di uniformità e di centralizzazione, poi, ha sicuramente prodotto una certa razionalizzazione delle funzioni pubbliche (la statistica e la scienza dell'amministrazione sono nate in questi secoli), che è una delle caratteristiche dell'attuale Stato burocratico. C'è da osservare però che le monarchie assolute non hanno mai tentato davvero di rovesciare i privilegi, il prestigio e il potere delle classi feudali; hanno puntato semmai a inglobarli nel proprio sistema di governo, o a trasformarli per renderli compatibili con lo sviluppo della società: l'obiettivo non era di eliminarli, ma di farli sopravvivere in forme nuove. Legate come erano al potere ed alla cultura delle classi feudali le monarchie assolute erano intrinsecamente impossibilitate a condurre a termine l'opera di razionalizzazione dello Stato che avevano intrapreso. Solo il rovesciamento dell'assolutismo monarchico ha consentito di procedere oltre su questa strada (nel bene, ma talvolta, bisogna pur dirlo, anche nel male). ASSOLUTISMO, TIRANNIDE, DISPOTISMO, DITTATURAAssolutismo, tirannide e dispotismo sono spesso usati come sinonimi, ma non lo sono o per lo meno non lo sono sempre. In origine «tiranno» (che è una parola greca) significava qualcuno che aveva un potere assoluto su una città. Non era necessariamente un re (di solito, anzi, era un privato o un capopartito) e non necessariamente la sua presenza costituiva una sciagura per i suoi soggetti: la storia greca è piena di buoni tiranni. La parola, però, ha assunto abbastanza presto un significato nettamente negativo: «tiranno» è chi si impadronisce illegittimamente (contro le regole costituzionali) di un potere assoluto oppure chi, essendo arrivato legittimamente al potere, lo gestisce poi ingiustamente. (La definizione dei due modi di essere tiranno, già formulata da Aristotele è stata ripresa nel Medio Evo da San Tommaso). È chiaro allora dove stia la differenza tra il sovrano assoluto e il tiranno: il primo è un re legittimo e, almeno nelle intenzioni, giusto. Mentre però era facile distinguere un re legittimo da un usurpatore, era assai difficile stabilire se e quando un potere legittimo diventasse ingiusto. La questione aveva un grande rilievo, perché una gestione tirannica del potere rendeva legittima nella coscienza degli Europei la resistenza individuale o collettiva, ossia il tirannicidio e la rivoluzione. Enrico III e di Enrico IV di Francia erano stati uccisi perché considerati tiranni dai loro assassini (un re di Francia ha il dovere di difendere la vera fede, mentre quei due sembravano curarsi assai poco della causa cattolica); Carlo I d'Inghilterra e Luigi XVI di Francia hanno lasciato la testa sul patibolo perché giudicati da un tribunale rivoluzionario tiranni e traditori del loro popolo. Il termine «dispotismo» (dal greco despòses = «padrone») si usa in due significati. In uno di questi significati ha esattamente il valore di assolutismo (si parla ad esempio di «dispotismo illuminato» a proposito dei sovrani assoluti che, nel Settecento, ispiravano la loro azione ai principi dell'Illuminismo). Nell'altro significato, che è il più antico, sta a indicare invece un governo arbitrario e illimitato, che, come annotava Aristotele, ricorda l'autorità del padrone sullo schiavo. La differenza tra dispotismo e tirannia è che il primo è un potere arbitrario ma legittimo (allo stesso modo in cui può essere legittima la schiavitù), in quanto rientra nelle consuetudini di un popolo ed è da questo accettato passivamente; la tirannide, invece, è sempre illegittima (e il popolo vi si ribella). Caratteristico degli antichi potentati orientali, il dispotismo è sempre stato considerato estraneo, da Aristotele ai giorni nostri, alla tradizione politica occidentale (che conosce invece infiniti tipi di tirannide). Simile per diversi aspetti alla tirannide greca è la dittatura moderna, caratterizzata dalla concentrazione del potere nelle mani di una sola persona (di solito un capopartito) o di un gruppo di persone (la dirigenza di un partito), che lo ha conquistato con la violenza (o comunque con mezzi o in situazioni straordinarie) e lo esercita senza farsi condizionare dal rispetto dovuto, almeno in linea di principio, ai tradizionali diritti dei cittadini. Completamente diversa dalla dittatura moderna era invece la dittatura romana, un potere straordinario di cui poteva essere investito un magistrato in situazioni di emergenza (per esempio, nel corso di una guerra) e secondo procedure e condizioni stabilite dalla legge. A questo genere di poteri straordinari, che essendo temporanei e limitati non alterano (o almeno non dovrebbero alterare) la costituzione di uno Stato, si fa talvolta ricorso, in particolari situazioni di pericolo, anche nei moderni Stati democratici: è sempre meglio, però, farne a meno, giacché, mentre è fin troppo facile dichiarare aperta una situazione di emergenza è sempre molto difficile chiuderla (senza contare che, di solito, chi dispone di poteri straordinari ha anche il potere di non cederli quando la sua funzione è finita).LA GUERRA DEI TRENT'ANNIIl 14 maggio 1610 Enrico IV, mentre attraversava Parigi in carrozza, fu ucciso con due pugnalate alla schiena da un fervente cattolico, François Ravaillac. Forse Ravaillac agì da solo o forse dietro di lui c'era un complotto. Sta di fatto che l'assassinio politico tornava a giocare un ruolo decisivo nella storia di Francia, come già era successo con Enrico di Guisa e con Enrico III: era destino che i tre Enrico non morissero nel loro letto. Ma le conseguenze dell'uccisione di Enrico IV non furono gravi solo per la Francia. Quando fu ucciso, Enrico IV si stava apprestando alla guerra. È difficile dire con sicurezza quali fossero i suoi obiettivi, ma certo la sua azione andava a contrastare una vasta operazione che si era delineata in Germania e che minacciava di alterare gli equilibri in questa regione: la ricattolicizzazione, voluta dal papa e dagli Asburgo (d'Austria ma anche di Spagna), dei territori già riformati. La scomparsa di Enrico e le difficoltà ch'essa provocò all'interno del Paese convinsero la regina Maria de' Medici, reggente per il figlio minorenne, Luigi XIII, ad abbandonare tutti i propositi di guerra e a trovare un accordo con gli Asburgo, che ebbero così mano libera in Germania. Tra gli Asburgo d'Austria il più acceso campione della restaurazione cattolica era Ferdinando duca di Stiria, cugino dell'imperatore Mattia e suo erede designato. Come re di Boemia Mattia si era impegnato solennemente a rispettare quella libertà di religione che i Boemi fin dal tempo di Hus erano abituati a identificare con la causa dell'indipendenza nazionale e che già altre volte avevano difeso con le armi. Negli ultimi anni del suo regno Mattia prese a favorire i cattolici, che erano una piccola minoranza, a danno dei protestanti, che erano la grande maggioranza. Un momento drammatico fu quando due cattolici, rappresentanti di Mattia a Praga, furono buttati giù da un finestra del palazzo di governo da una folla di dimostranti. La «defenestrazione di Praga» è tradizionalmente indicata come l'inizio di una delle più devastanti guerre dell'età moderna, la guerra dei Trent'anni. In realtà alla guerra vera e propria si giunse solo l'anno dopo, quando, morto Mattia, salì al trono Ferdinando. Contro di lui, che aveva già dato preoccupanti prove di intolleranza nelle sue terre, si unirono la Boemia, la Slesia e la Moravia protestanti e l'Austria, che era protestante in gran parte. Sembrava la replica della rivolta delle Province Unite contro Filippo II. I Boemi e i loro alleati contrapposero a Ferdinando II uno dei più brillanti principi riformati della Germania, Federico V, elettore del Palatinato e genero del re d'Inghilterra. La guerra fra i due si risolse con una sola grande battaglia, quella della Montagna Bianca, nei pressi di Praga, combattuta e persa dai Boemi l'8 novembre 1620. Il Palatinato fu devastato dalle truppe spagnole e da quelle del duca di Baviera, che per zelo cattolico gareggiava con Ferdinando II. La Boemia, la Moravia, l'Austria furono ricattolicizzate. Si capì allora che cosa volesse dire restaurazione cattolica. Quasi tutta la nobiltà di fede riformata fu eliminata in Boemia (sterminata o espulsa dal Paese) e sostituita con una nobiltà raccogliticcia, proveniente dai più diversi Paesi d'Europa, ma di sicura fede cattolica e asburgica. Una quantità di missionari cattolici, gesuiti in primo luogo, invase quelle regioni. A tutti i sudditi venne richiesto come gesto di lealtà verso il sovrano di rientrare nella Chiesa cattolica, o almeno di sottoporsi alle varie forme di rieducazione religiosa organizzate dai missionari cattolici. Alla fine tutti i renitenti, ossia tutti coloro che vollero rimanere nella propria fede, furono espulsi dal loro Paese. I contadini, però, non potevano essere espulsi, perché il loro esodo avrebbe prodotto il collasso economico: si decise perciò che la libertà di scegliere «tra l'eresia e la patria», come allora si diceva, per loro non valeva. Per loro c'era solo la conversione forzata. Il trionfo asburgico preoccupò tutte le potenze protestanti d'Europa e un po' anche la Francia. Nel 1625 il re di Danimarca, d'accordo con l'Olanda e con l'Inghilterra, venne in aiuto dei protestanti tedeschi. Fu però rapidamente battuto e ricacciato nel suo Paese. L'eroe di questo secondo trionfo asburgico fu Alberto di Waldstein o Wallenstein (1583-1634), un piccolo nobile boemo di confessione protestante, che, per far carriera con gli Asburgo, si era convertito fin dal 1606 al cattolicesimo. Dopo la battaglia della Montagna Bianca aveva fatto fortuna mettendo le mani sui possedimenti dei suoi connazionali costretti ad espatriare: si era costruito in questo modo un grosso dominio, che l'imperatore eresse a ducato di Friedland. Con i redditi del ducato e con l'aiuto di un finanziere fiammingo (e calvinista: gli affari non conoscono né religione né patria) mise in piedi la più efficiente macchina da guerra che si fosse mai vista: un esercito di centomila uomini, perfettamente armati, insolitamente disciplinati e soprattutto puntualmente riforniti di tutto quanto avevano bisogno mediante un sistema logistico perfettamente organizzato. Il tutto era gestito come una grande azienda. E si trattava di un'azienda in attivo: la guerra, aveva scoperto Wallenstein, era soprattutto un gran giro di quattrini, che, opportunamente razionalizzato, poteva produrre utili elevatissimi. Con le vittorie di Wallenstein gli Asburgo e la restaurazione cattolica sembravano non avere più avversari. L'enormità stessa del loro successo (tutta la Germania protestante stava seguendo la sorte della Boemia) doveva però innescare reazioni adeguate. In Francia il governo era nelle mani di un cardinale, Armand-Jean du Plessis de Richelieu (1585-1642), tutto preso dall'idea di liberarsi (non per ragioni religiose, ma politiche) dell'organizzazione armata degli ugonotti francesi. Raggiunto lo scopo con l'espugnazione di La Rochelle, che era la principale piazzaforte ugonotta, Richelieu non pensò neppure di revocare le libertà di cui godevano e si dedicò invece all'organizzazione di un'efficiente coalizione antiasburgica e alla preparazione del futuro ingresso della Francia stessa nel conflitto. La principale carta nelle mani di Richelieu, che doveva rivelarsi vincente oltre le stesse speranze del cardinale (e cioè sino al punto di creargli delle preoccupazioni), era la Svezia di Gustavo Adolfo. Della Svezia, gli Europei sapevano poco o nulla (a parte gli Olandesi, che, per i loro commerci, erano di casa nel Baltico e avevano anche investito un po' di soldi in quel Paese). La Svezia a suo tempo aveva aderito alla riforma luterana e la corona aveva colto l'occasione per impadronirsi delle terre della Chiesa. Il re di Svezia era diventato il maggiore proprietario del suo Paese e, a differenza di altri suoi colleghi (Enrico VIII, per esempio), non aveva disperso questo patrimonio con vendite o donazioni alla nobiltà, ma l'aveva conservato alla Corona; il che consentì per un bel po' di tempo ai re svedesi, di vivere delle proprie rendite senza gravare eccessivamente con le tasse (come invece accadeva in quasi tutta Europa) i propri sudditi. La cosa era riuscita anche perché la nobiltà svedese era relativamente debole, fatta di una manciata di grandi famiglie, i magnati, e da una folla di nobilastri, che riuscivano a sopravvivere decorosamente solo mettendosi al servizio del re come burocrati o come soldati. La Svezia, poi, presentava una vera e propria anomalia: i contadini non solo erano in grande maggioranza liberi (o servi della Corona, che equivaleva in sostanza ad essere liberi), ma in buon numero erano anche proprietari delle terre che coltivavano e, fatto più unico che raro, erano perfino rappresentati con un proprio Stato nell'Assemblea nazionale. Quando a turbare questo felice stato di cose era capitato sul trono di Svezia uno zelante cattolico, l'intruso era stato cacciato e il trono era finito a un parente, usurpatore ma buon luterano. Gustavo Adolfo (1594-1632) era appunto il figlio dell'usurpatore. Era un genio militare: mentre Wallenstein scopriva i segreti della logistica e impostava la guerra come un'impresa commerciale, Gustavo Adolfo metteva a punto l'efficiente impiego delle armi da fuoco, artiglieria campale e armi individuali, nelle battaglie, non più affidate ormai alle quadrate falangi dei fanti armati di picche. All'inizio degli anni Trenta, ingaggiato da Richelieu, e con i soldi della Francia (anche per gli Svedesi la guerra era soprattutto un affare), Gustavo Adolfo si gettò sulla Germania devastandola da un capo all'altro e apparendo ai protestanti, umiliati da dodici anni di sconfitte, come un angelo vendicatore. Nel novembre del 1632 gli eserciti di Gustavo Adolfo e di Wallenstein si scontrarono a Lutzen: Wallenstein perse la battaglia, ma Gustavo Adolfo perse la vita. Poco più di un anno dopo anche Wallenstein scompariva dalla scena, massacrato dai sicari dell'imperatore, che, con qualche ragione, aveva deciso di non fidarsi più di lui. A rinfocolare la guerra, che rischiava di languire, venne nel 1635 l'intervento francese. La guerra era ormai generale: Svezia, Francia e Olanda contro Spagna e Impero. Spagnoli e imperiali avevano battuto gli Svedesi a Nordlingen (1634), gli Svedesi ebbero la meglio sugli imperiali a Breisach (1638), i Francesi riuscirono a sconfiggere gli Spagnoli a Rocroi (1643). E la guerra si combatté un po' dappertutto, sui mari e nelle colonie di tutto il mondo. Nel 1643 si aprirono in Westfalia i negoziati di pace che si conclusero solo nel 1648 con una serie di trattati: quello tra Spagna e Olanda riconosceva ufficialmente l'indipendenza della Repubblica delle Province Unite; quello tra Francia, Svezia e Impero segnava il fallimento della restaurazione cattolica in Germania e un ridimensionamento sostanziale dell'autorità degli Asburgo in Germania; in compenso gli Asburgo ottenevano mano libera nei loro domini di famiglia, Austria, Boemia e Ungheria. Spagna e Francia non arrivarono ad alcun accordo e continuarono a farsi la guerra fino al 1659. Il papa era arrabbiatissimo: avrebbe voluto che le potenze cattoliche facessero la pace fra di loro per poi fare la guerra ai protestanti e invece a Westfalia avevano fatto la pace con i protestanti e avevano continuato a farsi la guerra fra di loro.MARIA DÈ MEDICI E RICHELIEUNel 1610 a Enrico IV era successo un bambino di nove anni, Luigi XIII (1601-1643), sotto la reggenza della madre, Maria de' Medici. In Francia l'autorità della monarchia era direttamente proporzionale all'autorevolezza del re e nei periodi di minorità del sovrano era minima. Con Enrico IV era stata grandissima. Con i suoi predecessori, i figli di Caterina de' Medici, era stata sempre assai traballante. Con la reggenza di Maria i principi del sangue tornarono a cospirare e le consorterie nobiliari a combattersi; gli ugonotti avevano paura dei cattolici e i cattolici degli ugonotti. Tornò la guerra civile, anche se non con la stessa virulenza di venti o trent'anni prima. Per di più le finanze dello Stato francese erano di nuovo dissestate. Sully aveva alleggerito il carico fiscale e realizzato sensibili economie a comune beneficio del Paese e della Corona. Ma gli avanzi della sua gestione erano stati in breve consumati dalla reggente nel tentativo di comprare con pensioni o emolumenti i personaggi più pericolosi della sua corte. Nel 1614 fu il grande momento degli Stati Generali. Convocati per mettere ordine nel Paese e avviare le riforme più urgenti, avrebbero potuto prendere la direzione dello Stato e imprimere all'evoluzione costituzionale della Francia una decisa sterzata verso un regime di tipo parlamentare. Non combinarono nulla per i consueti contrasti tra clero, nobiltà e terzo Stato, aggravati dal fatto che, per affrontare le difficoltà finanziarie qualcuno avrebbe dovuto fare dei sacrifici. In linea di principio erano tutti disposti; in pratica non riuscirono ad accordarsi su chi avrebbe dovuto dare il buon esempio agli altri. Così, le loro discussioni servirono solo a screditare gli Stati Generali, che infatti non sarebbero stati più convocati sino al 1789. A pezzi ne uscì anche il prestigio dei principali avversari di Maria, e cioè l'alta aristocrazia e i principi del sangue, che si erano autoproclamati difensori della monarchia, ma che avevano mostrato di essere soltanto avidi sollecitatori di rendite e inconcludenti promotori di disordini. Era esattamente quello che voleva Maria, che, anche se Luigi XIII fu ufficialmente proclamato maggiorenne, continuò di fatto a governare per qualche anno, e poi, dopo un sanguinoso tentativo del figlio di emanciparsi dalla sua tutela (aveva fatto uccidere dal suo «favorito», Charles d'Albert duca di Luynes, il favorito della madre, l'italiano Concino Concini), continuò a esercitare un'influenza determinante sul governo. Chi la scalzò definitivamente fu, alla fine del terzo decennio del secolo, il cardinale di Richelieu (considerato il più grande dei politici francesi dell'età dell'assolutismo), che era stato scoperto proprio da Maria e aveva fatto con lei (e col Concini) i primi passi della sua carriera. In Francia, tra i cattolici, c'erano in quel periodo due partiti: quello dei devoti, filopapista e filoasburgico, favorevole a mantenere la pace in Europa e a fare la guerra in Francia agli ugonotti, e quello dei patrioti, favorevole a far la pace con gli ugonotti francesi e a contrastare in qualche modo, magari con la guerra, gli strepitosi successi delle potenze asburgiche in Germania. Maria de' Medici era con i devoti. Richelieu, che si era messo in luce come zelante vescovo «riformatore» (ossia controriformista) ed era una creatura di Maria, era sulle prime assai ben visto dai devoti, ma non appena ebbe nelle mani il potere, attuò un programma tutto suo. Fece, sì, la guerra agli ugonotti, ma non per convertirli al cattolicesimo (di cui, pur essendo cardinale di Santa Romana Chiesa, non gli importava gran che), bensì per togliere di mezzo quella loro organizzazione politico-militare autonoma (una sorta di Stato entro lo Stato) che, col consenso di Enrico IV, avevano messo in piedi a temporanea garanzia delle libertà concesse dall'editto di Nantes, e che poi non avevano più smantellato. Al tempo stesso, Richelieu aveva speso tutte le risorse disponibili per aizzare contro gli Asburgo ogni possibile nemico e per mettere quanta più zizzania poteva tra i cattolici in Germania. Quando Maria capì di essere stata tradita dal suo beniamino cercò di eliminarlo dalla scena politica, forte dell'influenza che ancora esercitava sul re il malinconico ed esitante Luigi XIII. Nel 1630, durante una memorabile giornata di litigi, inganni e colpi di scena il cardinale e la regina madre si affrontarono davanti a Luigi XIII sempre più frastornato e sempre più incerto sulla persona a cui affidarsi (e cioè sulla politica da adottare). Alla fine scelse, chissà per quali ragioni, Richelieu (e la guerra). La regina madre se ne andò in esilio e il partito dei devoti ne uscì con le ossa rotte.SIMPLICISSIMUSLa guerra dei Trent'anni fu una guerra spaventosamente devastatrice: direttamente per i danni e le perdite umane che provocava; e indirettamente per l'esorbitante costo degli eserciti, che costringeva i governi ad aumentare il carico fiscale oltre ogni limite sopportabile, il che finiva col mandare in rovina le classi produttrici. Alla guerra, poi, non mancò la compagnia delle sue tradizionali sorelle: peste e carestia. (Come ciò avvenisse e che cosa significasse per le popolazioni colpite si può utilmente e perfino piacevolmente richiamare alla mente leggendosi o rileggendosi, fuori dai consueti doveri scolastici, quel bel romanzo e grandissima opera di storia che sono I promessi sposi di Alessandro Manzoni). Il grosso dei danni fu sicuramente sopportato dalle popolazioni rurali, massacrate, saccheggiate, terrorizzate da tutti gli eserciti e poi di nuovo taglieggiate dagli esattori delle tasse e poi ancora massacrate dagli sbirri quando per la disperazione, si rifiutavano di pagare o si ribellavano. I contadini non avevano amici, ma esattori, sbirri e soldati erano i loro più feroci nemici. Eppure era proprio tra i contadini che, con le buone (di rado) o con le cattive (di norma), i soldati venivano reclutati. Ma le affinità sociali e le solidarietà di classe contano poco quando scannare e depredare il prossimo diventa l'unica ragione di vita o l'unica possibilità di sopravvivenza. La più alta concentrazione di distruzioni e di morti si ebbe in Germania, che fu il teatro principale della guerra. Alla fine di quei maledetti trent'anni la Germania aveva perso pressappoco un terzo dei suoi abitanti. La Germania aveva visto di tutto e forse la fame era stata peggio di qualsiasi altra cosa; durante queste terribili carestie si raccontava che fossero accaduti numerosi e raccapriccianti episodi di cannibalismo. Forse questi episodi non erano sempre o non erano del tutto veri: in ogni caso già il fatto che potessero essere immaginati e creduti è indicativo dello stadio estremo di imbestiamento a cui era arrivata la popolazione tedesca. Una straordinaria testimonianza dell'atroce prova sopportata dalla Germania durante la guerra dei Trent'anni è il romanzo, in gran parte autobiografico, L'avventuroso Simplicissimus di Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen. Grimmelshausen (1621-1676) era nato in una famiglia nobile ma decaduta dell'Assia e dopo la morte del padre era stato allevato dai nonni. Aveva appena 13 anni quando la cittadina in cui viveva fu invasa e saccheggiata dalle truppe imperiali: i Grimmelshausen si rifugiarono nella vicina fortezza di Hanau, ma l'anno seguente il ragazzo fu rapito da una banda di razziatori e arruolato a forza nell'esercito dell'imperatore, dove fu costretto a prestare servizio fino alla fine della guerra. Dopo la pace di Westfalia Grimmelshausen si sposò e si stabilì a Gaisbach (presso il Reno, di fronte a Strasburgo) come amministratore delle terre di una famiglia nobile; fu poi segretario di un medico, oste e infine ottenne la carica di sindaco nella cittadina di Renchen. Grimmelshausen, che era autodidatta, scrisse e lesse moltissimo: compendiò le sue conoscenze astrologiche ed astronomiche in due almanacchi, compose alcuni romanzi di argomento cortese o biblico, un opuscolo satirico e uno politico-morale; ma la sua grandezza, fama e originalità sta tutta nella serie di scritti detti «simpliciani». L'avventuroso Simplicissimus, pubblicato nel 1669, è il primo e maggiore di questi scritti. Protagonista ne è il figlio (adottivo) di un contadino, un ragazzo ingenuo e incolto che non conosce il mondo, essendo sempre vissuto in un'isolata fattoria e chiamato perciò Simplicio, cioè semplice. Quando la fattoria viene saccheggiata da soldati sbandati, Simplicio scappa e inizia così la sua scoperta del mondo. Si rifugia dapprima presso un eremita, diventa poi paggio del governatore di Hanau, finto folle, soldato e predone, passa attraverso innumerevoli ambienti e avventure, in un continuo alternarsi di buona e cattiva sorte: ruba ed è derubato, imbroglia ed è imbrogliato, aiuta ed è aiutato, apprende e disimpara, pecca, si pente e ricade nel peccato...Autobiografico e a tratti crudamente realistico, L'avventuroso Simplicissimus era insieme carico di messaggi simbolici e di insegnamenti morali: l'apparenza inganna, la fortuna è capricciosa, ecc.; il romanzo sembra poi suggerire che la tragica esperienza vissuta dalla Germania non fosse stata altro che una manifestazione particolare di un mondo tutto pervertito, dominato ovunque dalla violenza, dall'inganno, dal sopruso. Questo mondo, diceva in sostanza Grimmelshausen, è il regno del male e luogo di perdizione: l'unica scelta atta a salvare l'anima è il rifiuto del mondo. Il Simplicissimus ebbe subito grandissimo successo e numerose imitazioni. Grimmelshausen ne continuò il filone con altri romanzi, i cui protagonisti sono in qualche modo collegati a Simplicio: La vita dell'arcitruffatrice e vagabonda Coraggio (1670) la cui protagonista è, come fa capire già il titolo, l'«anti-Simplicio»: anche lei vittima della guerra e del mondo, diventa poi però ladra e meretrice senza rimpianti e senza pentimenti. Springinsfeld (1670), racconta di un vecchio compagno d'armi di Simplicio, che incarna il tragico destino di tanti reduci e mutilati di guerra che diventano vagabondi, mendicanti e ladri. Il Nido meraviglioso (1672-1675) è un oggetto fatato che assicura l'invisibilità e permette a chi lo porta di smascherare la corruzione morale della società del dopoguerra. UNA CRISI GENERALELa guerra dei Trent'anni, prodotto del fanatismo religioso e dell'assolutismo politico, finì con l'infliggere al primo una salutare frustrazione (i cattolici avevano perso, ma i protestanti non avevano vinto e così entrambi furono costretti a convivere) e col sottoporre il secondo a una durissima prova. Gli ultimi anni di quella guerra sono stati infatti pieni di rivolte e di rivoluzioni. La Catalogna, una delle grandi province della Spagna, che aveva sempre goduto di ampia autonomia, si era ribellata nel 1640 alle requisizioni e ai reclutamenti forzati di una guerra che non sentiva come cosa propria, ma della Castiglia. In quello stesso anno il Portogallo, che dal 1580 era unito alla Spagna, aveva improvvisamente rotto questa unione, a cui doveva se le sue colonie, che la Spagna non riusciva a difendere in modo adeguato, erano diventate il bersaglio preferito degli Olandesi. Nel maggio del 1647, un anno prima della pace, era insorta Palermo; due mesi dopo fu la volta di Napoli, dove Masaniello (Tommaso Aniello, 1620-1647) un semplice pescivendolo analfabeta, capitanò una rivolta contro le tasse e conquistò, sia pure per poco, il potere. Tutto il sistema politico della Spagna sembrava insomma sul punto di crollare. Ma i suoi avversari non stavano meglio: in Francia le rivolte contadine erano all'ordine del giorno e nel 1648 si aprì una gravissima crisi, la Fronda, che paralizzò per anni la monarchia francese. Tutti questi movimenti avevano cause, caratteri e obiettivi diversi. Un elemento era però presente in tutti: l'insofferenza per la guerra, per le tasse di guerra e per le strutture stesse dello Stato assoluto di cui la guerra metteva in evidenza le ingiustizie e le inefficienze. L'apparato statale era cresciuto a dismisura e disordinatamente nel corso dell'ultimo secolo, in ragione del recupero da parte del governo centrale di una serie di funzioni amministrative prima delegate agli organi locali (comuni, corporazioni, signorie feudali, ecc.). Il settore in cui ingiustizie e inefficienze apparivano più gravi era la finanza pubblica, ossia l'insieme dei meccanismi e degli espedienti con cui i governi rastrellavano le risorse necessarie a quella crescita tumultuosa. Le tasse (imposte dirette o imposte di consumo, le prime proporzionali ai patrimoni o ai redditi dei contribuenti, le seconde al valore dei beni da loro consumati) sono sempre difficili da far accettare e ancor più difficili da riscuotere. Tra l'altro, tra imposizione e riscossione passa un lungo lasso di tempo. I modi di cui disponeva lo Stato assoluto per fare quattrini rapidamente e nella misura necessaria, erano praticamente due: la vendita degli uffici e il debito pubblico. La vendita delle cariche era una pratica presente un po' in tutta Europa, ma diffusa particolarmente in Francia, nei domini spagnoli e in quelli pontifici: gli uffici pubblici venivano messi in vendita e l'acquirente, che percepiva un regolare stipendio, godeva degli introiti più o meno legali (compresi quelli delle «bustarelle») e di tutti i benefici e privilegi connessi alla funzione da lui svolta. Cariche o uffici di particolare prestigio conferivano all'acquirente il rango di nobile (che comportava, tra l'altro, l'esenzione dall'obbligo di pagare le tasse). La carica così acquistata, costituiva un importante investimento di capitale e, sia pure a certe condizioni, poteva essere venduta dal titolare o trasmessa in eredità. Era convinzione comune che la pratica della vendita delle cariche fosse all'origine di numerosi abusi. «Vendere gli uffici», si diceva, «è come volere gli ufficiali ladri». In effetti, gli uffici venivano esercitati più nell'interesse dei titolari che in quello del pubblico. Del resto per rendere le cariche più appetitose, e quindi venderle a miglior prezzo, i governi chiudevano non uno, ma tutti e due gli occhi sugli abusi commessi dai loro titolari. Infine i governi erano portati a creare sempre nuovi uffici, magari con funzioni del tutto inutili o fittizie, per incassare il prezzo delle vendite. Così facendo, però, lo Stato si assumeva il carico di sempre nuovi stipendi, che dovevano essere pagati col ricavato delle tasse. Più uffici venivano venduti, più stipendi dovevano essere pagati, più tasse dovevano essere imposte. Il clero e la nobiltà erano di norma esenti dal pagamento delle imposte e anche i borghesi delle città godevano di ampie immunità fiscali; finiva che, a pagare le tasse che servivano a pagare gli stipendi agli ufficiali, erano sempre e soltanto i contadini. Un altro e anche più antico sistema per trovare rapidamente quattrini era prenderli in prestito. I banchieri che prestavano somme a un principe o a un'autorità pubblica volevano naturalmente garanzie e interessi. Di solito ai creditori dello Stato veniva data in pegno l'amministrazione di una o più imposte, il cui ricavato serviva a pagare gli interessi (e qualche volta a rimborsare il capitale imprestato): i crediti erano privati e il debito pubblico. È evidente che ogni nuovo prestito contratto dallo Stato, così come ogni nuovo ufficio venduto dallo Stato, implicava l'imposizione di nuove tasse e che l'intero meccanismo finanziario basato su queste due pratiche finiva per trasferire continuamente quattrini dalle tasche dei poveri (quelli che pagavano le tasse) a quelle dei ricchi (i creditori dello Stato o gli acquirenti di cariche e uffici pubblici).GLI STUART E IL PARLAMENTODal XIII secolo i sovrani inglesi regnavano con l'assistenza del Parlamento, cioè di un'assemblea generale del regno nella quale, accanto ai rappresentanti della nobiltà e del clero (Camera dei Lord) sedevano quelli della borghesia cittadina (Camera dei Comuni). Uno degli elementi che spiegano il successo della riforma promossa da Enrico VIII è il fatto che essa non si presentò come un gesto arbitrario del re, ma come una decisione lungamente meditata dal Parlamento e una conferma delle antiche libertà inglesi. In verità Enrico VIII aveva regnato come un sovrano assoluto, ricorrendo ben di rado al Parlamento; ma nell'intraprendere la separazione della Chiesa inglese da Roma pensò di sfruttare il prestigio dell'antica assemblea rappresentativa, dalla quale non aveva da aspettarsi alcuna seria opposizione. Aveva convocato pertanto il Parlamento e lo aveva tenuto impegnato nell'elaborazione di quell'insieme di leggi che dovevano assicurare l'indipendenza della Chiesa nazionale dal papa e la sua sottomissione al re. Così la riforma diventò un sorta di simbolo della collaborazione tra la Corona e la legittima rappresentanza del popolo inglese. Anche la regina Elisabetta ricercò fermamente questa collaborazione. Anche lei esercitò un potere praticamente incontrastato giacché assai di rado il Parlamento osò opporsi alla sua volontà; ma quando ciò accadde Elisabetta seppe mostrarsi arrendevole. Questo prudente spirito di conciliazione mancò ai suoi successori o, per dire meglio, non fu loro concesso di darne prova con altrettanta facilità e in parte proprio per colpa di Elisabetta. In realtà la grande Elisabetta fu brava soprattutto ad evitare un chiarimento circa le competenze rispettive della Corona e del Parlamento. Così facendo si era guadagnata la venerazione dei sudditi, ma aveva lasciato ai suoi eredi tutte le grane che da quel chiarimento prima o poi sarebbero nate. Elisabetta morì nel 1603 e con lei si estinse la dinastia Tudor. Ad essa successe la dinastia degli Stuart, nella persona di Giacomo I, che già regnava in Scozia (dove era settimo tra i re di questo nome). Giacomo era un teorico dell'assolutismo, convinto che i re regnassero per espressa volontà di Dio, e che nessuno potesse opporsi alla volontà dei re senza opporsi con ciò stesso a quella di Dio. Ma Giacomo I sapeva anche assai bene (aveva scritto dei trattati in proposito) che cosa distingueva un buon re da un tiranno: «l'uno si riconosce istituito per il suo popolo», aveva scritto, «l'altro stima il suo popolo istituito per lui». Il potere di un re, diceva ancora, è come quello di un padre sui suoi figli, o di un marito sulla moglie; è un'autorità impastata con l'amore. Aveva anche scritto che il primo dovere di un re era di rispettare le consuetudini e le istituzioni del Paese su cui gli accadeva di regnare. In Inghilterra l'istituzione chiave era il Parlamento e Giacomo era fermamente e sinceramente intenzionato a governare con la sua assistenza. Ma, a parte il diritto di approvare o respingere le richieste del re relative a nuove tasse, i poteri del Parlamento inglese non erano affatto definiti con chiarezza. A differenza dei Parlamenti moderni, il Parlamento inglese non era il depositario riconosciuto della sovranità nazionale, né l'organo supremo del potere legislativo: era un'assemblea rappresentativa di tipo medievale, che rifletteva le mille diverse realtà locali di cui era fatta l'Inghilterra, e nella quale i deputati dei borghi, delle contee e delle corporazioni venivano a presentare i propri problemi di campanile e a negoziare con i loro colleghi e con la Corona le possibili soluzioni. Ma a chi spettava l'esercizio della sovranità? Al re, come sostenevano i teorici dell'assolutismo (e Giacomo in primo luogo) o al Parlamento, come avrebbero finito per sostenere i suoi avversari? Il contrasto tra le due tesi emerse nei primi quarant'anni del Seicento manifestandosi nei più diversi campi dell'attività governativa, dall'amministrazione delle finanze a quella della giustizia, dalla politica estera a quella ecclesiastica. Nessuno contestava l'antico diritto del Parlamento di approvare l'imposizione di nuove tasse. Ma questo diritto poteva entrare in conflitto con le legittime prerogative della Corona. La politica estera, ad esempio, e quindi le decisioni relative alla pace, alla guerra, alle alleanze e ai commerci con altri Paesi, erano di competenza esclusiva del re: a chi toccava, dunque, decidere in merito ai dazi di importazione e di esportazione che erano sicuramente delle imposizioni fiscali, ma che erano altrettanto sicuramente uno strumento di politica estera? E a chi sarebbe toccato decidere sull'esistenza di un reale pericolo di guerra, e quindi sull'opportunità di esigere le prestazioni e i contributi previsti per queste circostanze? Molti di questi problemi avrebbero potuto trovare soluzione in un compromesso che, razionalizzando l'intera materia fiscale, lasciasse al Parlamento un largo potere di controllo sulla finanza pubblica, ma garantisse insieme alla Corona entrate sufficienti ai bisogni dell'amministrazione. Il governo di Giacomo I propose al Parlamento un compromesso del genere, basato sull'eliminazione di una serie di fastidiosi diritti e di gravosi balzelli ereditati dall'antica monarchia feudale, in cambio di un'imposta generale e ordinaria sulla proprietà terriera. Ma il Parlamento, che era fatto di proprietari terrieri, non ne fece nulla. Con il successore di Giacomo, Carlo I, il Parlamento si dimostrò in più occasioni pieno di entusiasmi guerreschi, salvo poi non approvare i fondi necessari a far la guerra. Il risultato fu che la Corona continuò a racimolare i soldi di cui aveva bisogno ricorrendo a tutti gli espedienti possibili, anche i più rovinosi, e che Carlo I decise alla fine di non convocare più il Parlamento tentando un'esperienza di governo autoritario e personale. Tra le molte materie di conflitto che a questo punto erano venute a galla, la questione religiosa finì per riassumerle tutte in un'unica elementare contrapposizione: episcopalisti da una parte, puritani dall'altra. La Corona si era sempre schierata a favore delle correnti episcopaliste. Giacomo I odiava i puritani per le loro propensioni democratiche. Considerava la democrazia il peggior pericolo che incombesse sulla convivenza civile in Europa. I puritani, in verità, rifiutavano soltanto la gerarchia ecclesiastica e l'autorità dei vescovi, ma Giacomo riteneva che se la democrazia fosse riuscita a radicarsi nella Chiesa, prima o poi avrebbe finito per contagiare anche lo Stato: «niente vescovi, niente re», diceva. Giacomo decise dunque, proprio all'inizio del suo regno, di espellere i puritani dalla Chiesa ufficiale. Si trattava di una persecuzione, per così dire, «debole», che si risolse più a favore che a danno degli espulsi: i pastori puritani continuavano a predicare le loro idee, mentre l'essere perseguitati attirava su di loro l'attenzione e le simpatie della gente. Se Giacomo I odiava i puritani, suo figlio, Carlo I, amava i cattolici, il che, agli occhi dei puritani, era anche peggio. Con Carlo I la Chiesa d'Inghilterra si sforzò, tra l'indignazione di un numero crescente di fedeli, di somigliare sempre di più a quella di Roma, anche nell'intolleranza verso i dissidenti: le vere persecuzioni dei puritani cominciarono ora. I guai per Carlo cominciarono invece quando immaginò di poter imporre l'ordinamento episcopale e la liturgia anglo-cattolica alla Chiesa di Scozia, che da circa ottant'anni era calvinista e presbiteriana (i presbitèri erano le assemblee di laici e di ecclesiastici incaricate di governare la Chiesa al posto dei parroci e dei vescovi). Quando ci provò si trovò a dover fronteggiare l'insurrezione di tutta la Scozia. Sconfitto sul campo dagli Scozzesi, Carlo fu costretto, per trovare soldi, a convocare il Parlamento, di cui si era vantato di poter fare a meno. Era il Parlamento più ntrattabile che gli fosse mai capitato e lo sciolse subito (Corto Parlamento, durato meno di un mese tra l'aprile e il maggio del 1640). Sconfitto di nuovo dagli Scozzesi, dovette convocare un altro Parlamento, che si rivelò peggiore del primo ma che sarebbe durato vent'anni (Lungo Parlamento, dal novembre 1640 al marzo 1660). Dopo le sconfitte militari, era venuta per Carlo la disfatta politica.LA RIVOLUZIONE INGLESEI primi due anni di attività del Lungo Parlamento costituiscono uno di quei momenti magici che raramente si ripetono nella storia di un popolo (e, possiamo ben dirlo, nella storia dell'Occidente ce ne sono stati sì e no tre o quattro di simili). Le vittime delle persecuzioni antipuritane diventarono gli idoli delle folle inglesi; la loro liberazione dal carcere diventava occasione di straordinarie manifestazioni di piazza a metà tra la festa e la sommossa. Tutti dicevano la loro e nessuno osava più proibire a chicchessia di esprimere le proprie opinioni, anche le più audaci e le più avventate. Non c'era più nessun tipo di censura sulla stampa e un diluvio di opuscoli sommerse l'Inghilterra: ciascuno di quegli opuscoli aveva centinaia o migliaia di lettori attenti. Il popolo, che non aveva mai contato nulla in politica, scopriva improvvisamente di poter essere il protagonista della politica. Con il Parlamento stabilì subito un rapporto critico: lo appoggiò contro la monarchia, ma insieme, con dimostrazioni di piazza più o meno minacciose e con la raccolta di firme sotto particolari petizioni, lo stimolò a prendere decisioni sempre più avanzate, a procedere senza esitazioni nella riforma dello Stato e della Chiesa, a punire i responsabili della gestione autoritaria del potere al tempo del governo personale di Carlo I. Tutta la Camera dei Lord e molti membri della Camera dei Comuni, convinti, non senza qualche fondamento, che il Parlamento, intimidito dalle pressioni della piazza non fosse più in grado di deliberare liberamente, si tirarono indietro e fecero quadrato intorno al re. Ma ormai si era arrivati, senza quasi accorgersene, alla guerra civile. La guerra civile durò a lungo, dal 1642 al 1648, e si concluse con il trionfo dell'esercito parlamentare che era stato riformato da un soldato di genio, Oliver Cromwell. La riforma introdotta da Cromwell era in fondo semplicissima: i suoi soldati dovevano essere convinti di quello che facevano, dovevano sapere esattamente per che cosa rischiavano la vita e per che cosa la toglievano ai nemici. Erano puritani e il loro comportamento doveva essere coerente con le loro convinzioni rigoristiche: disciplina, morigeratezza, autocontrollo. C'era chi parlava dell'esercito di Cromwell come di un'armata di santi. Non era vero, naturalmente; ma non si trattava neppure di una banda di mercenari o di predoni. In tutti i Paesi d'Europa i soldati erano i peggiori nemici dei contadini; in Inghilterra i soldati di Cromwell si consideravano loro fratelli. Nell'esercito di Cromwell i predicatori contavano forse più degli ufficiali e tutti i soldati avevano l'obbligo di presenziare ai sermoni e agli uffici religiosi. Ma se la preghiera era un dovere, la discussione era un'abitudine e l'uguaglianza la norma. Gli ufficiali condividevano la vita dei soldati ed erano soggetti ad una disciplina anche più severa della loro. Nei ranghi di questo esercito, sul finire della guerra civile, si diffusero le idee di un gruppo politico radicale, detto dei Livellatori, che coltivava una singolare utopia, quella stessa che Giacomo I prevedeva che avrebbe trionfato al seguito del movimento puritano: la democrazia. La tesi dei Livellatori era che occorreva ricostruire dalle fondamenta lo Stato inglese, sulla base di una Patto del Popolo, ossia di una costituzione scritta, ispirata a due semplici princìpi: l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, e il suffragio universale, ossia l'uguale diritto di tutti a partecipare alla scelta dei membri del Parlamento. L'attuazione del primo principio avrebbe comportato una profonda riforma delle leggi e del sistema giudiziario, le une e l'altro fatti più per dare lavoro agli avvocati, che per tutelare i diritti dei cittadini, soprattutto dei più deboli. L'attuazione del secondo principio avrebbe comportato una riforma elettorale altrettanto radicale, giacché in Inghilterra la rappresentanza parlamentare dei diversi collegi non era affatto proporzionale al numero degli abitanti. Quanto al nuovo Parlamento che si sarebbe dovuto eleggere su basi egualitarie, quale depositario della sovranità popolare avrebbe dovuto avere tutti i poteri. Tranne due: non avrebbe potuto deliberare alcunché in materia di religione, giacché in questo campo la sola autorità legittima è la coscienza individuale; e non avrebbe potuto imporre a nessuno il servizio militare, giacché la coscrizione obbligatoria è assolutamente inconciliabile con la naturale libertà dell'uomo. Questo programma divise nettamente l'esercito di Cromwell: da una parte i soldati e gli ufficiali di grado inferiore che lo sostenevano; dall'altra i capi dell'esercito, e Cromwell prima di tutti, che lo avversavano. In discussione era soprattutto il principio del suffragio universale. Ai capi dell'esercito sembrava assurdo che poveri e nullatenenti potessero esercitare il diritto di voto: «A scegliere i deputati che devono fare le leggi - dissero in un incontro con i delegati dei soldati - devono essere quelli che nel loro insieme esprimono gli interessi del Paese, e cioè le persone nelle cui mani è tutta la terra, e i membri delle corporazioni, nelle cui mani è tutto il commercio». Un delegato dei soldati replicò:... Io penso che l'essere più povero che vi sia in Inghilterra ha una vita da vivere quanto il più grande e perciò, signore, credo sia chiaro che ogni uomo che ha da vivere sotto un governo debba prima col suo consenso accettare quel governo; e ritengo che l'uomo più povero in Inghilterra non sia affatto tenuto a rigore a obbedire a quel governo che egli non ha avuto alcuna voce nel creare... Sulla democrazia Cromwell e i suoi generali la pensavano più o meno come Giacomo I. Ma respingendo la democrazia Cromwell, che aveva voluto un esercito ideologicamente motivato (che si battesse cioè per delle idee), deludeva molti di quelli che lo avevano seguito nella guerra civile. Come disse un delegato dei soldati: ... Tutti quelli qui presenti, grandi e piccoli, credono di aver combattuto per qualche cosa. Confesso che molti di noi hanno combattuto per scopi che, ce ne siamo accorti solo dopo, non erano quelli per cui fummo chiamati ad affrontare tante difficoltà e stenti e a rischiare ogni cosa unendoci a voi. Avreste fatto bene ad avvertircene e credo che in tal caso avreste avuto meno uomini ai vostri ordini... Il movimento dei soldati fu a poco a poco soffocato e i loro promotori dispersi, imprigionati, alcuni fucilati. Il momento più drammatico della Grande Rivoluzione era stato il processo e la decapitazione di Carlo I nel gennaio del 1649. Era la prima volta che succedeva una cosa del genere. Carlo diventò una specie di martire della causa monarchica in Europa. In Inghilterra però, se la monarchia era stata abbattuta, la repubblica non fu mai istituita (in effetti gli Inglesi preferiscono chiamare «Interregno» i dodici anni che separano la morte di Carlo I dalla restaurazione di suo figlio, Carlo II). Insorti contrasti tra i generali che avevano vinto la guerra e il Lungo Parlamento in nome del quale la guerra era stata combattuta, Cromwell assunse su di sé ogni potere e disperse i rappresentanti della Nazione: alla monarchia succedeva un'altra specie di monarchia sotto forma di dittatura militare. Quello di Cromwell fu un governo di grandi iniziative: la marina, che costituiva la vera forza dell'Inghilterra, venne potenziata; i commerci furono protetti; l'intraprendenza economica della borghesia venne incoraggiata; la vita religiosa fu regolata secondo principi di larga tolleranza. In politica estera, poi, Cromwell raccolse grandi successi. Intervenne nella guerra tra Spagna e Francia a fianco di quest'ultima e ottenne Dunkerque sull'altra sponda della Manica. Ancora prima aveva affrontato l'Olanda (che sotto il profilo politico e religioso era il Paese più vicino all'Inghilterra rivoluzionaria, ma che sotto quello commerciale ne era la più pericolosa concorrente) e l'aveva costretta ad accettare le condizioni richieste dai mercanti inglesi. Nonostante i suoi molti meriti, tra cui quello di una grande tolleranza, il governo di Cromwell non risolse le questioni di fondo da cui era scaturita la guerra civile, a cominciare da quello delle prerogative del Parlamento. E naturalmente le riforme della giustizia e quella elettorale non sortirono alcun effetto. Era la conseguenza del moderatismo e della paura della democrazia. Anche per questo, morto Cromwell nel settembre del 1658, la monarchia poté essere in meno di due anni pacificamente restaurata. L'AMERICA: RIFUGIO E LABORATORIO POLITICOLe lotte tra la monarchia e il Parlamento e tra le diverse confessioni cristiane, anglicani, cattolici, puritani, quaccheri, nell'Inghilterra del Seicento ebbero effetti di grandissimo rilievo al di là dell'Atlantico. A partire soprattutto dal terzo decennio del Seicento molti puritani colpiti dalla politica autoritaria e intollerante di Carlo I e dei vescovi anglicani abbandonarono l'Inghilterra nel tentativo di realizzare oltre Oceano quelle forme di vita religiosa comunitaria che era loro impossibile realizzare in patria. Fu questa l'origine della Nuova Inghilterra, dove si calcola che tra il 1620 e il 1642 siano giunti più di ventimila puritani. Quando nel 1642 scoppiò in Inghilterra la guerra civile, e soprattutto dopo la sconfitta del partito monarchico e anglicano toccò invece agli anglicani ed ai partigiani del re emigrare. Per sottrarsi alle persecuzioni o semplicemente, data la relativa tolleranza del regime di Cromwell, per sfuggire a un modello di convivenza civile e religiosa che non condividevano, essi abbandonarono la patria a decine di migliaia e si rifugiarono in Virginia, l'altra grande colonia inglese d'America. L'afflusso di cittadini «dissidenti» (in contrasto cioè con gli orientamenti politici o religiosi che di volta in volta prevalevano nella madrepatria) non solo diede un grande impulso alla colonizzazione inglese nell'America settentrionale ma le conferì anche caratteristiche tutte particolari. Coloro che giungevano in colonia per motivi religiosi o politici non erano soltanto degli avventurieri o dei miserabili privi di mezzi. Certo molti emigravano in America desiderosi soltanto di arricchirsi, ed alcuni erano così poveri che per pagarsi il viaggio erano costretti a vendersi per lunghi anni come «servi obbligati» ai proprietari di piantagioni. Ma i puritani che popolarono le colonie del Nord appartenevano alle classi più operose dell'Inghilterra -agricoltori, artigiani, commercianti - e si trasferivano in America con tutti i loro beni e soprattutto con le loro grandi capacità. I partigiani del re, poi, che giunsero in Virginia tra il 1649 e il 1660, appartenevano in maggioranza all'aristocrazia terriera o comunque a classi agiate: la loro fu un'emigrazione di ricchi, che contribuì in modo decisivo allo sviluppo economico della colonia. Un'altra caratteristica importante dell'emigrazione religiosa fu che essa non riguardava soltanto individui isolati, ma anche gruppi organizzati di persone. Spesso erano interi villaggi che si trasferivano dall'Inghilterra in America. I cosiddetti «Padri Pellegrini», ad esempio, che fondarono nel 1620 la prima colonia della Nuova Inghilterra, erano tutti originari del villaggio di Scrooby nella contea di Nottingham. In tale modo le comunità d'oltre oceano, cementate da vecchi vincoli di parentela, di amicizia, di solidarietà, presentavano sin dal loro nascere un elevato grado di organizzazione e di coesione interna. Per lo più le comunità religiose che si trasferivano oltre oceano adottavano contro i seguaci di altre religioni le stesse misure di persecuzione di cui erano state vittime in patria. Nel complesso dell'America inglese, però, colonie di diverso orientamento religioso dovettero imparare a coesistere e finalmente alcune colonie adottarono il principio della tolleranza verso tutti i cristiani. Con ciò un altro elemento di richiamo stimolava l'arrivo di nuovi coloni, che sapevano di non dover affrontare persecuzioni a causa delle proprie opinioni. Le colonie inglesi sorsero in una regione che presentava molte condizioni favorevoli all'insediamento degli europei. Il clima era generalmente salubre, la selvaggina abbondante. Le pianure costiere si prestavano ad essere dissodate e le regioni meridionali presentavano condizioni favorevoli per stabilirvi grandi piantagioni. Le foreste costituivano un'inesauribile risorsa di combustibile e di materiale da costruzione e il legname fu uno dei principali prodotti esportati in Inghilterra. I molti fiumi che sboccano sull'Atlantico e che erano per lunghi tratti navigabili offrivano comode vie di comunicazione e di penetrazione verso l'interno. Le coste, ricche di baie e di porti, offrivano facile ricetto alle navi e favorivano lo sviluppo di attività marinare che, soprattutto nel Nord, si affiancavano e si integravano con quelle agricole. Gli Indiani erano spesso ostili, ma erano troppo pochi e soprattutto troppo male organizzati per rappresentare un serio impedimento alla colonizzazione. Ciò non vuol dire, naturalmente, che i coloni avessero una vita facile. Già il viaggio dall'Europa all'America costituiva una pericolosa avventura, e non era raro il caso che persino la metà dell'equipaggio di una nave perdesse la vita in diversi accidenti durante la traversata dell'Atlantico. I primi insediamenti si presentarono particolarmente difficili. Dei centoventi uomini che nel 1607 avevano fondato (in una località così insalubre che fu necessario più tardi abbandonarla) la colonia della Virginia, solo 53 erano ancora vivi nella primavera del 1608. Anche il primo anno di vita della colonia della Nuova Inghilterra si concluse con un bilancio tragico: del centinaio di persone che nel novembre del 1620 erano sbarcate con poche provviste dalla nave Mayflower più della metà morirono di freddo e di scorbuto nel corso dell'inverno. Quando però si vide che le colonie americane, superate le difficoltà iniziali, erano in grado di sopravvivere e di assicurare ai nuovi arrivati buone possibilità di arricchimento e di affermazione, si sviluppò una forte corrente di emigrazione dall'Europa. L'America cominciò infatti ad apparire a tutti coloro che erano insoddisfatti delle proprie condizioni come una sorta di rifugio, e molti sventurati trovarono nelle colonie uno scampo alla povertà, alla persecuzione, alla sfortuna di cui erano vittime in patria.L'ECONOMIA DELLE COLONIE INGLESILe colonie inglesi del Nord America non ebbero tutte uno sviluppo simile. Si può dire anzi che, nonostante alcuni caratteri comuni, esse differivano tra loro non meno di quanto differissero dalle colonie spagnole o francesi. Nelle regioni del Nord il clima temperato consentiva di adottare colture e tecniche agricole identiche a quelle europee e favoriva l'afflusso di coloni, attirati da un ambiente per molti aspetti simile a quello dei Paesi di provenienza. Anche l'organizzazione economica e sociale finì col riprodurre, almeno nelle grandi linee, quella della madrepatria: la terra era affidata a contadini liberi, che spesso erano proprietari dei fondi che coltivavano; specialmente nelle colonie della Nuova Inghilterra (Connecticut, Massachusetts, Rhode Island, New Hampshire e Maine), poté svilupparsi un'intensa vita cittadina fondata sull'attività di artigiani, mercanti e marinai, che in molti campi facevano concorrenza ai loro colleghi inglesi. Proprio questa concorrenza faceva sì che le colonie del Nord fossero poco apprezzate se non addirittura avversate dal governo inglese che non vedeva alcun tornaconto nel loro sviluppo. Al contrario, quelle del Sud (Maryland, Virginia, Carolina, Georgia) erano considerate la parte più preziosa dell'Impero nordamericano. La loro economia, infatti, era complementare a quella della madrepatria e non c'era pericolo che le facesse concorrenza: fornivano prodotti (come il tabacco, il riso e una pianta colorante, l'indaco) di cui l'Inghilterra era priva ed acquistavano in cambio merci (come stoffe, utensili ecc.) di cui l'industria inglese era produttrice. Le colture del tabacco, del riso e dell'indaco, come più tardi quella del cotone, finirono però con l'imporre un particolare sistema di sfruttamento della terra: quello della piantagione, che era già largamente adottato nelle colonie europee dell'America tropicale. Per le stesse caratteristiche tecniche di tali colture le piantagioni necessitavano di grandi estensioni di terreno. Il tabacco, per esempio, impoveriva il suolo nel giro di tre o quattro anni, sicché ogni piantagione, accanto agli appezzamenti effettivamente coltivati, doveva comprendere quelli già esauriti e quelli da destinare alle future coltivazioni. Un'enorme quantità di terra restava insomma inutilizzata e ciò non favoriva lo sviluppo della piccola e media azienda contadina. Un'altra caratteristica della piantagione era l'impiego di servi o schiavi. Il tabacco, il riso, l'indaco erano prodotti destinati esclusivamente alla madrepatria, e poiché con l'estendersi delle coltivazioni la produzione aumentava più di quanto aumentasse la richiesta in Europa, il prezzo di tali prodotti andò generalmente calando nel corso del Seicento e del Settecento. Solo il basso costo della manodopera poteva garantire ai padroni larghi guadagni. Ma in quelle condizioni il lavoratore meno caro e più efficiente era appunto il servo o lo schiavo. Agli inizi la manodopera impiegata nelle piantagioni fu prevalentemente costituita da immigrati europei. Coloro che desideravano andare in colonia ma non avevano il denaro per pagarsi il viaggio e per impiantare oltre oceano un'attività economica indipendente dovevano vendersi ai padroni delle piantagioni come servi obbligati: cioè si impegnavano a lavorare senza salario per un periodo variante da cinque a sette anni, al termine del quale riacquistavano la libertà. Questo sistema era destinato però ad attirare un numero limitato di coloni, anche perché gli antichi servi quando riacquistavano la libertà continuavano ad essere sprovvisti di denaro e difficilmente riuscivano ad avere successo in una società dominata dai ricchi piantatori che si accaparravano le terre migliori. A poco a poco i servi bianchi vennero sostituiti con schiavi neri. Sebbene i primi africani fossero venduti a piantatori della Virginia già nel 1619, soltanto sul finire del Seicento essi assunsero un ruolo importante nelle colonie del sud; verso la metà del Settecento rappresentavano già una buona percentuale della popolazione della Virginia, del Maryland e della Carolina. Gli schiavi africani risolsero in modo definitivo il problema della manodopera nelle grandi piantagioni. Il loro reclutamento non presentava difficoltà: mentre i servi bianchi venivano in America volontariamente e scarseggiavano, gli schiavi neri vi erano condotti con la forza e nella quantità richiesta. Il loro impiego poi, risultava economicamente più vantaggioso. Un servo obbligato che costava ai piantatori da quindici a venti sterline, poteva fruttare in sette anni di lavoro da sessanta a cento sterline. Uno schiavo nero costava un poco di più, da venti a trenta sterline, ma rendeva incomparabilmente di più. La servitù dei bianchi, infatti, era temporanea, mentre la schiavitù dei neri era perpetua ed anzi si estendeva ai discendenti. Il servo bianco, infine, aveva dei diritti. Lo schiavo nero era interamente alla mercé del padrone, che ne faceva quel che voleva.IL RE SOLELuigi XIV, autodefinitosi «il Re Sole» per la magnificenza della sua corte e per la potenza raggiunta dallo Stato francese sotto la sua guida (ma il sole era un simbolo molto comune del potere sovrano), era salito al trono nel 1643, quando era ancora un bambino. Per molti anni il governo del Paese era stato affidato alla regina madre, Anna d'Austria, sorretta dal suo ministro (e devoto amante), il cardinale Mazzarino. Allievo e collaboratore di Richelieu, Mazzarino si era dimostrato assai più bravo del maestro, visto che Richelieu, fanatico e arrogante sostenitore dell'assolutismo e della politica di potenza, era riuscito a portare la Francia sull'orlo della rovina, mentre Mazzarino, senza soldi e senza amici (salvo la regina) era riuscito a salvare la monarchia francese e a riconsegnare al giovane re, Luigi XIV, un Paese prospero e pacificato. Luigi XIV, riconoscente, lasciò che Mazzarino morisse in carica, ma quando morì, nel 1661, invece di nominargli un successore, prese nelle proprie mani tutti gli affari di governo. Si circondò di abili collaboratori (il più famoso è il ministro Jean-Baptiste Colbert, 1619-1683, che si occupò soprattutto di problemi economici) ma, almeno in teoria, non lasciò loro alcuna autonomia, se non nelle questioni di minore rilievo e di loro specifica competenza. Si dice che Luigi XIV abbia pronunciato la celebre frase: «Lo Stato sono io». Non era vero, perché lo Stato francese era una macchina ben più complicata e i ministri del re la conoscevano e la utilizzavano assai meglio di lui. Quelle parole, però, sintetizzano bene lo stile di governo personale, accentratore e dispotico che Luigi XIV avrebbe voluto realizzare. L'identificazione dello Stato con la persona del re, che era l'ideale verso il quale muoveva ogni governo assoluto, poteva avere conseguenze fortemente negative. Basta pensare che cosa poteva significare la presenza sul trono di un sovrano debole, incerto, scervellato, quale non era raro incontrare. Lo stesso Luigi XIV, che pure era un uomo di notevoli qualità, proprio per l'assenza di efficaci sistemi di controllo delle sue decisioni, commise una tale quantità di errori che quando, nel 1715, dopo un regno lunghissimo, finalmente morì, il popolo francese, ridotto alla miseria e alla disperazione, non solo non lo rimpianse, ma festeggiò l'avvenimento come una liberazione. Tra gli errori commessi da Luigi XIV uno dei più dissennati fu la decisione di riprendere, dopo anni di pace religiosa, la persecuzione degli Ugonotti. A questa decisione Luigi XIV giunse nella seconda parte del suo regno, quella che possiamo chiamare la sua fase «devota» perché caratterizzata dall'influenza determinante dei suoi confessori, delle sue amanti (tutte rigorosamente cattoliche, in particolare la Maintenon, che riuscì alla fine a farsi sposare) e dei confessori delle sue amanti. Probabilmente Luigi XIV, a differenza dei cardinali Richelieu e Mazzarino, che non se ne erano curati affatto, si era convinto di quello che i papi non si erano mai stancati di predicare ai sovrani cattolici fin dai tempi della Riforma e cioè che una monarchia assoluta non poteva sopportare l'esistenza di una minoranza religiosa senza esporsi ad una gravissima diminuzione di autorità. A partire dal 1681, gli Ugonotti cominciarono ad essere esclusi dalle cariche pubbliche; ogni pretesto era buono per incarcerarli; i loro templi furono distrutti, le loro scuole disperse. Molte conversioni al cattolicesimo furono comperate con il denaro, altre furono imposte a mano armata. Nelle famiglie protestanti i bambini venivano strappati alle cure dei loro genitori e educati nell'osservanza della religione cattolica: nella buona società rapire un bambino ugonotto era un'opera di merito. Alla fine, nel 1685, Luigi XIV revocò l'editto di Nantes con il quale suo nonno, Enrico IV, novant'anni prima aveva concesso agli Ugonotti la libertà di culto. A centinaia di migliaia gli Ugonotti abbandonarono la Francia e andarono ad aumentare in Olanda, in Inghilterra, in Germania, il numero già esorbitante dei nemici di Luigi XIV. La revoca dell'editto di Nantes ebbe tra l'altro l'effetto di spaventare gli Inglesi che si trovavano nella singolare situazione di avere per re (e quindi per capo della Chiesa anglicana) un cattolico dichiarato, amico e alleato di Luigi XIV: Giacomo II Stuart. Quando, nel 1688, Giacomo venne cacciato dall'Inghilterra, nell'isola si stabilì un nuovo regime politico fondato sulla libertà politica e sulla tolleranza religiosa, che si presentò all'Europa come la felice antitesi di quel governo assoluto di cui Luigi XIV era stato uno dei massimi esponenti. Nonostante tutto, però, l'assolutismo monarchico godeva in Francia di larghi consensi e solo gli errori di Luigi XIV riuscirono a far nascere un'ombra di opposizione. La monarchia esercitava un'utile funzione di mediazione nei conflitti sociali esigendo da tutti i contendenti un'uguale sottomissione. Ciò non significa affatto che la monarchia fosse neutrale: al contrario, stava sempre con i più forti, purché le si sottomettessero; riusciva però a dare qualche soddisfazione anche agli altri, rispondendo così ad una approssimativa esigenza di ordine e di giustizia. La turbolenza dei nobili, per esempio, era una delle cause riconosciute del disordine interno e la monarchia francese non riuscì mai (perché non volle mai) estirpare dai comportamenti della nobiltà l'abitudine alla violenza (il costume dei duelli, ad esempio) e il disprezzo per la legge comune. In qualche caso però, e tanto per dare un esempio, aveva fatto tagliare delle teste. Con ciò la legge non diventava certo uguale per tutti, ma il governo del re poteva dire di non guardare in faccia a nessuno. Il che faceva piacere a quanti, non essendo nobili, erano tenuti ad osservare in tutti i casi la legge. Il più importante sostegno della monarchia assoluta erano le classi privilegiate (l'aristocrazia, l'alto clero, la nobiltà di toga) e gli affaristi, che facevano quattrini con i prestiti allo Stato, con gli appalti delle imposte e con le forniture all'esercito e alla Corte. Sul terreno politico le ambizioni della vecchia aristocrazia feudale di metter le mani sul governo e di tenere sotto tutela la monarchia erano stati frustrati in più occasioni: al tempo della Lega cattolica da Enrico IV, durante il regno di Luigi XIII da Richelieu e al tempo della Fronda da Mazzarino. Non è difficile immaginare che negli ambienti aristocratici covasse qualche risentimento nei confronti della monarchia assoluta. Ma le ragioni di gratitudine erano sicuramente più forti. La forza economica dell'aristocrazia stava declinando di fronte all'ascesa dei ceti borghesi e capitalistici: il rischio di una progressiva perdita di ruolo e di prestigio era evidente. Se l'aristocrazia riuscì a difendere efficacemente gli antichi privilegi finendo anzi per esercitare un'indubbia egemonia sulla società fu principalmente per l'aiuto che aveva trovato nella monarchia, a cominciare, appunto, da Luigi XIV.LA GLORIOSA RIVOLUZIONELa dinastia degli Stuart era stata restaurata nel 1660, nella persona di Carlo II, tra l'entusiasmo degli Inglesi, stanchi di guerre, di rivoluzioni e di austerità puritane. Gli Stuart però non erano destinati a rimanere a lungo sul trono d'Inghilterra: quella di rendersi rapidamente invisi ai sudditi era una caratteristica di famiglia. Carlo II era la vera antitesi di un puritano: pigro e corrotto. Era però un uomo di buon senso, lontano da fanatismi: aveva perdonato tutti (o quasi tutti) i nemici di suo padre e della Corona e aveva ordinato per decreto che tutto quanto era accaduto nel ventennio rivoluzionario fosse dimenticato. Era stato molto irritato, anzi, dall'eccessivo zelo reazionario mostrato dal primo Parlamento della Restaurazione. Per il resto aveva continuato come poteva la politica di Cromwell: per esempio, ne aveva ripreso gli indirizzi protezionistici (o «mercantilistici» come più esattamente si chiamano) e aveva confermato tutti i provvedimenti del periodo rivoluzionario che tornavano a beneficio di mercanti e imprenditori. Come Cromwell, si mostrò pronto a promuovere con le armi gli interessi economici dell'Inghilterra: se Cromwell per ragioni economiche, e cioè per ridimensionare le straordinarie capacità competitive degli Olandesi, aveva fatto una guerra alla vicina Repubblica delle Province Unite, Carlo II volle farne due, che in effetti, anche se condotte in modo tutt'altro che felice, ottennero alla fine lo scopo desiderato. Sul terreno della religione le simpatie di Carlo andavano ormai non tanto agli episcopalisti quanto ai cattolici. Suo fratello Giacomo poi, che, in mancanza di figli legittimi di Carlo, era l'erede al trono, era cattolico dichiarato, e cattolici erano la regina, la moglie di Giacomo e parecchi dei più influenti personaggi della Corte e del Governo. Era singolare che il capo di una Chiesa considerata dal papa di Roma scismatica ed eretica vivesse immerso in una così densa atmosfera di papismo. Ed era preoccupante che il rigoglioso papismo della corte coincidesse con una politica di alleanza con Luigi XIV, che era il più potente e il più aggressivo dei sovrani cattolici. Negli anni Settanta nel Paese e nel Parlamento aveva cominciato lentamente a formarsi un'opposizione consistente alla politica di Carlo II. Alla fine di quel decennio l'opposizione, sotto la guida di Anthony Ashley Cooper, conte di Shaftesbury (1621-1683), già ministro di Carlo II, riuscì ad ottenere un notevole successo elettorale. Uno degli effetti della vittoria fu il ritorno di Shaftesbury al governo e la conferma, nel 1679, del vecchio principio «garantista» (vedremo in seguito che cosa significa questa parola) dell'habeas corpus (che, in verità non era mai stato troppo rispettato) e la sua estensione a tutti i cittadini inglesi (mentre prima riguardava solo i nobili). Ma l'obiettivo principale dell'opposizione era ormai quello di escludere Giacomo dalla successione al trono e qualcuno aveva presentato in Parlamento un apposito disegno di legge. Sembrava l'unico modo di garantire il Paese dall'eventualità di una restaurazione cattolica della cui pericolosità gli Inglesi, all'inizio degli anni Ottanta, avevano una eloquente dimostrazione nella rinnovata persecuzione degli Ugonotti in Francia. Ma che il Parlamento potesse modificare le regole della successione era tutt'altro che pacifico: avrebbe significato ammettere la supremazia del Parlamento sulla monarchia, cosa che Carlo II non era assolutamente disposto a fare. Shaftesbury e i suoi condussero una grande battaglia d'opinione su questo punto, e la persero. È in questo periodo che i nomignoli whig (usato in origine per indicare i presbiteriani scozzesi era un insulto equivalente pressappoco a «bifolco») e tory (usato per i cattolici irlandesi, voleva dire «bandito») sono stati usati per indicare rispettivamente il partito di Shaftesbury e quello del re. Nella successiva storia politica inglese per whig si sarebbero intesi i liberali e per tory i conservatori, ma nella questione dell'esclusione di Giacomo dalla successione l'opposizione tra liberali e conservatori non c'entrava: whig e tory erano entrambi moderati. Semplicemente, i tory esprimevano i sentimenti della maggioranza dei moderati inglesi, che non voleva sentir parlare di princìpi, come quello della supremazia parlamentare, che in un modo o nell'altro potevano riecheggiare le idee della prima rivoluzione. Isolati i whig di fronte all'opinione pubblica, non fu difficile a Carlo II accusare i capi dell'opposizione di cospirazione. Alcuni finirono al patibolo, altri, e tra loro Shaftesbury, dovettero riparare all'estero. Quando però, nel 1685, morto Carlo II, salì al trono d'Inghilterra Giacomo II, il pericolo di una restaurazione cattolica e di un ritorno di autoritarismo monarchico parve improvvisamente farsi più vicino e gli Inglesi, messe da parte antiche e nuove divisioni (tra anglicani e dissidenti, ma anche tra whig e tory), e senza per nulla rinunciare alle proprie convinzioni moderate, si misero d'accordo per cambiare re. La cosa avvenne nel 1688 e fu la seconda rivoluzione inglese, detta «gloriosa». L'unica buona ragione per un tale appellativo è che ebbe la felice particolarità di compiersi praticamente senza spargimento di sangue. Per il resto fu un gran pasticcio: gli Inglesi avevano deposto il loro re legittimo, ma, per non evocare il fantasma della rivoluzione, non volevano assolutamente ammetterlo: dissero (all'incirca) che se ne era andato e che lo avevano dovuto sostituire. Era una bugia così grossa che i tory continuarono a vergognarsene per decenni (un nuovo motivo per contrapporsi ai whig) e molti di loro finirono «giacobiti» (come vennero chiamati i legittimisti sostenitori di Giacomo II e dei suoi eredi). Il nuovo re, Guglielmo III, aveva sposato una figlia di Giacomo II, Maria, e questo parve un appiglio sufficiente a legittimare l'usurpazione. Guglielmo III era un Orange, statolder della Repubblica delle Province Unite e campione della resistenza olandese (ed europea) contro le aggressioni di Luigi XIV: non c'era da dubitare su come si sarebbe schierata l'Inghilterra in campo internazionale. A Luigi XIV fino a quel momento era andata bene: il passaggio dell'Inghilterra nel campo dei suoi avversari e la sua unione con l'Olanda nella persona di Guglielmo doveva segnare il declino delle fortune francesi. Quanto al tradizionale odio degli Inglesi per i loro troppo bravi concorrenti d'Oltremanica, dopo tre guerre vinte a fatica, lasciava finalmente posto ad un rassicurante sentimento di solidarietà protestante. Insediato nel 1688, Guglielmo III rinunciò al potere assoluto che gli Stuart avevano cercato di esercitare e accettò un patto costituzionale (nella forma di una Dichiarazione dei diritti, trasformata poi in legge nel dicembre del 1689 con il Bill of Rights), che lo impegnava a non violare le libertà dei cittadini, in particolare le libertà di parola, di stampa e di religione, a non sospendere arbitrariamente alcuna legge, a non imporre tasse senza l'approvazione del Parlamento, a non mantenere in tempo di pace forze armate che potessero costituire uno strumento di sopraffazione o di intimidazione nei confronti del Parlamento; si impegnò, infine, ad assicurare il regolare funzionamento del Parlamento stesso. Così, proprio mentre in Francia Luigi XIV portava, a spese del suo popolo, ai massimi splendori la politica dell'assolutismo monarchico, nasceva in Inghilterra uno Stato costituzionale destinato a diventare il modello di tutti i regimi liberali che si costituirono nei secoli seguenti in Europa e in America.STATO DI NATURA E SOCIETÀ CIVILESegretario di Anthony Ashley Cooper, conte di Shaftesbury, era un personaggio d'eccezione: il filosofo John Locke. Proprio dalla collaborazione con Shaftesbury, che gli permise di occupare posizioni di qualche rilievo nell'esecutivo e di partecipare ai lavori di alcune commissioni governative, Locke fu indotto ad occuparsi dei problemi riguardanti la politica, l'origine e la natura dello Stato, i rapporti tra Stato e Chiesa, la tolleranza religiosa. A questi temi Locke ha dedicato diverse opere tra cui l'Epistola sulla tolleranza, scritta in latino e pubblicata anonima nel 1689, La ragionevolezza del cristianesimo del 1695. Ma la sintesi più matura del suo pensiero in materia si trova nel secondo dei Due trattati sul governo civile, che Locke scrisse in Olanda, dove si era rifugiato dopo la sconfitta dei wigh. Come teorico dello Stato costituzionale, Locke viene di solito contrapposto ad Hobbes, il teorico dell'assolutismo. Assai più vecchio di Locke, Thomas Hobbes (1588-1679) aveva vissuto, sia pure da spettatore, le vicende della rivoluzione, di cui nel dialogo Behemoth volle dare, nel 1670, una stringata e penetrante interpretazione. Nel 1640 aveva pubblicato una delle sue opere fondamentali, il De cive, che voleva essere anche una condanna del contrasto che si stava drammaticamente aprendo tra il re e il Parlamento. Hobbes non era però, in senso proprio un partigiano degli Stuart: quel che gli interessava era il carattere assoluto (ossia non contestabile) del potere; che poi questo potere fosse nelle mani del re o del Parlamento, di Carlo I o di Cromwell gli importava poco. Tanto è vero che, rovesciata la monarchia e consolidata la dittatura di Cromwell, dalla Francia, dove si era rifugiato, Hobbes rientrò in patria e qui pubblicò l'altra sua grande opera, Il Leviatano. Tanto Hobbes quanto Locke assumevano l'ipotesi di un originario stato di natura in cui tutti gli uomini erano perfettamente liberi, e dal quale gli uomini sarebbero usciti volontariamente per istituire, in forza di un contratto sociale, la convivenza civile, ossia lo Stato. Hobbes immaginava però che l'illimitata libertà propria dello stato di natura dovesse necessariamente generare una insostenibile condizione di guerra perenne di tutti contro tutti e si figurava il patto sociale istitutivo dello Stato come una sorta di resa senza condizioni dell'individuo. In altri termini ogni uomo, per sfuggire alla distruzione inevitabile nello stato di guerra primitivo, avrebbe rinunciato completamente e irrevocabilmente alla propria libertà in favore di dell'autorità, unica e assoluta, dello Stato. Locke, invece, riteneva che lo stato di natura fosse una condizione sostanzialmente pacifica, in cui gli uomini, pur essendo del tutto liberi, sarebbero stati indotti dal loro stesso interesse a collaborare. L'istituzione dello Stato era dunque uno sviluppo e un perfezionamento di questa originaria collaborazione e l'uscita degli uomini dallo stato di natura sarebbe stata determinata non dalla paura (come pensava Hobbes), ma dall'esatta valutazione del loro interesse. Il vantaggio della società politica rispetto allo stato di natura è che nello stato di natura la sanzione per qualunque violazione della legge naturale della collaborazione tra gli uomini è affidata all'autodifesa, alla rappresaglia individuale, mentre nello Stato è organizzata. La sostanza del patto sociale, allora, non è, come in Hobbes, la rinuncia totale e irrevocabile alla libertà, ma semplicemente la rinuncia a farsi giustizia da soli, che poi coincide con il diritto ad avere una migliore tutela della propria libertà. Lo Stato è dunque essenzialmente amministrazione pubblica della giustizia e cioè, come anche si può dire, monopolio della violenza legale. Questo monopolio, però, che nasce per delega degli individui, è condizionato alla difesa dei diritti naturali degli individui stessi ed è revocabile se questi diritti risultano non sufficientemente tutelati. Per Hobbes la religione è solo una pratica sociale ed è l'autorità statale che decide che cosa i sudditi devono credere e quali culti devono professare. Lo Stato, diceva invece Locke nella sua celebre Epistola sulla tolleranza, ha il compito di conservare e promuovere i beni civili, cioè i diritti naturali degli uomini, ma non può ingerirsi in questioni che riguardano la coscienza. Il magistrato non può con la forza delle leggi imporre articoli di fede o forme di culto, perché la coercizione non può essere uno strumento di persuasione. Le ragioni della coscienza sono superiori a quelle della società civile e l'adesione a una confessione religiosa ha un senso solo se risponde ai dettami della coscienza individuale.RIBELLARSI È GIUSTONel Medio Evo, che in determinate circostanze ribellarsi fosse giusto era fuori discussione: il principio rientrava nella dottrina giuridica comunemente accettata. Ciò non significa, naturalmente, che ribellarsi fosse facile, né che il ribelle sconfitto potesse sperare di cavarsela appellandosi a un diritto universalmente riconosciuto. Non era neppure chiaro quando fosse giusto ribellarsi. Il diritto di resistenza (ius resistentiae) valeva, naturalmente, solo nei confronti di autorità tiranniche, e come sappiamo per tiranno si intendeva o l'usurpato}e, giunto illegalmente al potere, oppure il principe legittimo che però abusava del suo potere. Ma come riconoscere l'abuso dall'uso legittimo di un potere che nessuna legge positiva definiva e delimitava? In pratica ci si riduceva a due soli casi: il primo era quando il tirarino ordinava qualcosa che era in contrasto con i comandamenti di Dio (ma c'erano sempre preti, vescovi, papi o antipapi disposti a dichiarare che gli ordini delle autorità, anche i più assurdi e feroci, erano perfettamente conformi ai comandamenti di Dio). Il secondo era quando il tiranno violava consuetudini o diritti consolidati dei suoi sudditi. Qui la materia era meno opinabile, ma il diritto alla resistenza e all'insurrezione era soggetto a molte limitazioni. San Tommaso, ad esempio, riteneva che prima di esercitare quel diritto occorresse domandarsi se il disordine prodotto dalla ribellione non potesse risultare in definitiva più grave del disordine rappresentato dalla tirannide. In questo caso (che è il più frequente, visto che raramente i tiranni si lasciano cacciare pacificamente), il dovere di ogni buon cristiano sarebbe stato di rinunciare alla ribellione, di cedere al male per evitare un male peggiore e insomma di rassegnarsi. Con l'andar del tempo le riserve espresse da San Tommaso si rafforzarono piuttosto che indebolirsi. Il Cinquecento, che fu un secolo di rivoluzioni e di guerre civili, vide fiorire le teorie dei monarcomachi (che ritenevano legittimo assassinare i tiranni), ma finì anche per convincere molti intellettuali tra i più aperti e liberali del tempo che la ribellione non era per niente una buona cosa. Erasmo, che aveva conosciuto gli orrori della guerra dei contadini in Germania, era arrivato alla conclusione che nessuna tirannide è peggiore dell'insurrezione e dell'anarchia. Come già sappiamo, Montaigne, che scriveva i suoi Saggi mentre le guerre di religione minacciavano di travolgere la monarchia francese (i primi due libri furono stampati nel 1580), era dell'opinione che quando si aveva la disgrazia di vivere sotto un cattivo governo la miglior cosa da fare fosse di adattarvisi alla meglio, cercando semmai, nei limiti del possibile di correggerne o di nasconderne i vizi: pensare di riformarlo mettendolo sottosopra era come voler guarire una malattia con la morte. Quelle di San Tommaso, di Erasmo e di Montaigne erano obiezioni che riguardavano più l'opportunità che la legittimità della ribellione. Le cose cambiarono tra Sei e Settecento, con l'affermazione del contrattualismo moderno, ossia della teoria che giustificava la subordinazione del popolo all'autorità sovrana con l'idea di un patto originario che avrebbe istituito lo Stato. I contrattualisti non avevano un orientamento politico uniforme. Al contrario, il loro atteggiamento nei confronti della ribellione era totalmente diverso a seconda che considerassero questo presunto patto sociale come un impegno definitivo e incondizionato all'obbedienza da parte del popolo nei confronti del sovrano (Hobbes) oppure come una sorta di delega condizionata e quindi revocabile (Locke). Nel primo caso la ribellione era inammissibile (logicamente impossibile oltre che moralmente condannabile); nel secondo caso il ricorso all'insurrezione diventava quasi una garanzia costituzionale del corretto esercizio del potere da parte del sovrano. Ribellarsi, per Locke, è giusto (con moderazione):... Tali rivoluzioni non accadono ad ogni menoma mancanza nell'amministrazione dei pubblici affari. Gravi errori nei governanti, molte leggi ingiuste e inopportune e tutti gli errori dovuti alla fragilità dell'uomo saranno sopportati dal popolo senza rivolta o mormorazione. Ma se una lunga serie di abusi, prevaricazioni e inganni, tutti tendenti al medesimo scopo, rendono manifesta al popolo l'intenzionalità, ed esso non può non accorgersi di ciò a cui è esposto o non vedere dove sta andando, non è meraviglia se si riscuote e tenta di porre il governo nelle mani di chi gli garantisca i fini per cui il governo era stato in origine istituito... Le parole di Locke sarebbero state riprese alla lettera dalla dichiarazione di indipendenza americana. AUTOCRAZIA E SERVITÙ IN RUSSIAMentre nell'Europa occidentale la Francia di Luigi XIV offriva un modello insuperabile di Stato assoluto e l'Inghilterra faceva per prima l'esperienza di un regime costituzionale fondato sul principio della rappresentanza parlamentare, in Russia si consolidava l'antica autocrazia. Per certi aspetti l'autocrazia russa era un regime analogo a quell'assolutismo monarchico che, pressappoco nello stesso tempo, si andava affermando nell'Europa occidentale: come l'autocrate russo, anche il sovrano assoluto dell'Europa occidentale accentrava in sé ogni potere statale e non era tenuto a concordare con nessuno le proprie azioni. Ma il potere di un re occidentale, anche se era assoluto (cioè non vincolato da nessun'altra autorità), non era però illimitato: egli non poteva disporre a capriccio della vita e dei beni dei sudditi e doveva, almeno in teoria, rispettare le libertà e i diritti riconosciuti dalle tradizioni e dalle consuetudini del suo popolo. Questa differenza spiega perché poté nascere nell'Europa occidentale e non in Russia l'idea d'una costituzione, ossia di una legge superiore alla stessa volontà del sovrano, nella quale fossero fissati con precisione, i diritti e i doveri dei cittadini e i limiti invalicabili del potere statale. L'autocrazia si era affermata in Russia già dal tempo di Ivan III il Grande (1462-1505). A quell'epoca però esistevano ancora vaste forze sociali che le si opponevano. La nobiltà russa, ad esempio, poteva essere distinta in due grandi categorie: i «boiari», che erano i grandi proprietari di terre e che nei confronti del sovrano non avevano speciali obblighi di servitù, e la «nobiltà di servizio», detta così perché possedeva terre e rendite solo in forza di una concessione sovrana subordinata ai servizi che era tenuta a prestare allo zar nella burocrazia o nell'esercito. I boiari erano appunto i più pericolosi e tenaci oppositori dell'autocrazia: desiderosi di conservare la propria libertà, essi traevano dai vasti domini terrieri i mezzi per resistere alle imposizioni dello zar o addirittura per ribellarsi ad esso. Ben diversa era la condizione dei nobili di servizio, per i quali la minima disobbedienza poteva significare la perdita di ogni bene. È evidente che l'interesse dello zar era di eliminare la classe dei boiari e di trasformare tutta la nobiltà in nobiltà di servizio. È quello che cercò di fare uno dei maggiori rappresentanti dell'autocrazia russa, Ivan IV, conosciuto con il significativo soprannome di Terribile, che regnò tra il 1547 e il 1584. Ivan il Terribile scatenò una sanguinosa persecuzione contro i boiari, di cui tentò, si può dire, l'eliminazione fisica. Gli obiettivi della politica di Ivan furono sostanzialmente raggiunti: se prima di lui vigeva il principio che ogni servizio reso allo zar doveva essere compensato con una concessione di terre, dopo di lui, entrò in vigore il principio che ogni possesso di terra doveva essere giustificato con un servizio allo zar. In altre parole la condizione dei boiari era diventata del tutto simile a quella della nobiltà di servizio. L'eliminazione dei boiari e la particolare caratteristica assunta dalla nobiltà russa ebbe importantissime conseguenze su tutta la struttura sociale del Paese e in particolare sulla condizione dei contadini. Nei secoli del Medio Evo i contadini russi erano in grande maggioranza liberi. Molti di loro non possedevano terra in proprio, e lavoravano al servizio di un signore, ma, a differenza di quel che accadeva normalmente in Occidente, potevano abbandonare il fondo loro affidato e cambiare padrone. Poco alla volta però furono posti diversi limiti alla libertà dei contadini, che preoccupava seriamente i proprietari terrieri. Il più importante di questi vincoli era che nessun contadino poteva abbandonare il proprio padrone se prima non aveva pagato tutti i debiti che aveva con lui. Poiché in pratica tutti i contadini erano indebitati nessuno avrebbe potuto muoversi, a meno che non avesse trovato un nuovo padrone disposto a pagargli i debiti e a liberarlo dal precedente servizio. Di fronte a queste limitazioni molti contadini reagirono con la fuga e i fuggitivi presero a rifugiarsi nella Russia meridionali dove si organizzarono in turbolente associazioni militari (cosacchi) che, se erano utili in quanto lottavano incessantemente contro le popolazioni mongole di confine proteggendo il resto del Paese, costituivano anche una perenne minaccia di disordine e di rivolta. Durante il regno di Ivan il Terribile e negli anni immediatamente successivi le fughe dei contadini si intensificarono danneggiando gravemente gli interessi dei proprietari terrieri. Per porvi fine fu stabilito che nessun contadino potesse più lasciare il suo padrone e naturalmente si previde la restituzione ai proprietari dei fuggitivi catturati. Con ciò in Russia si introduceva quella servitù della gleba che nell'Europa occidentale stava lentamente scomparendo dalle campagne. L'introduzione della servitù della gleba non rispondeva però soltanto agli interessi dei proprietari terrieri, ma anche a quelli dell'autocrazia zarista. Si è visto infatti che con la liquidazione dei boiari la proprietà terriera era diventata il corrispettivo di un servizio prestato allo Stato. Se gli zar volevano disporre di una burocrazia efficiente e di un buon esercito dovevano perciò garantire ai propri funzionari il pieno godimento dei privilegi connessi al possesso della terra. L'introduzione della servitù fu in pratica il modo con cui gli zar finanziarono la costruzione e il funzionamento dell'enorme apparato amministrativo e militare necessario all'esercizio del loro potere autocratico. Per questo anche gli zar più «illuminati» e più energicamente (per non dire brutalmente) riformatori, come Pietro il Grande o Caterina II (1762-1796), non solo non pensarono mai ad eliminare o anche soltanto ad attenuare la servitù della gleba, ma anzi la aggravarono progressivamente aggiungendo sempre nuovi vincoli e nuovi pesi. Man mano che la classe dei proprietari terrieri veniva ad identificarsi con il ceto dei funzionari statali, gli interessi di quella classe finivano necessariamente per coincidere con gli interessi dell'autocrazia. Pietro il Grande e Caterina sono sempre citati come i due sovrani che hanno fatto di più per «occidentalizzare» la Russia, e cioè per modernizzarla, tenendola al passo con i progressi tecnici, scientifici, civili che l'Occidente, a partire almeno dal XVI secolo, stava compiendo a ritmo accelerato. Tra questi progressi uno dei più importanti (non solo dal punto di vista degli ideali umanitari, ma anche da quello dello sviluppo complessivo della società) era rappresentato dalla totale scomparsa della servitù della gleba e dalla progressiva eliminazione delle forme di lavoro coatto. Spesso non si fa sufficiente attenzione al fatto che la modernizzazione promossa da Pietro e da Caterina era fondata proprio sull'estensione della servitù e del lavoro coatto, oppure si giudica la cosa un semplice «effetto collaterale», un inconveniente increscioso, ma inevitabile di riforme comunque benefiche. In realtà anziché avvicinare, quel tipo di modernizzazione allontanava la Russia dall'Occidente, tanto che negli ultimi tre secoli ci si è potuto chiedere in molte occasioni se e fino a che punto la Russia facesse davvero parte dell'Europa.PIETRO I IL GRANDELa trasformazione della nobiltà russa in nobiltà di servizio, iniziata da Ivan il Terribile, fu completata assai più tardi, per opera specialmente dello zar Pietro I il Grande (1689-1725), che stroncò inesorabilmente ogni residua opposizione. Pietro il Grande è considerato il padre della Russia moderna soprattutto per il suo tentativo, solo in parte riuscito, di occidentalizzare la Russia, un'impresa che affrontò senza badare alle reticenze o all'aperta ostilità dei suoi sudditi e che cercò di realizzare in breve tempo facendo ricorso (come era solito) a forme di «persuasione» non di rado barbaramente crudeli. È diventato emblematico della stravaganza e della brutalità con cui Pietro il Grande immaginava di educare il suo popolo ai valori dell'Occidente l'obbligo imposto ai nobili russi di acconciarsi all'occidentale e di tagliarsi la barba, che in Russia era tradizionalmente considerata segno di dignità.COMPETIZIONE ED EQUILIBRIONei due secoli che vanno dalla metà del Cinquecento alla metà del Settecento neppure quaranta, forse, furono gli anni di pace in Europa ed anche in questi brevi intervalli la competizione tra le potenze non ebbe sosta. Se l'attività bellica cessava in Europa, continuava o si riaccendeva in altri continenti, tra le colonie rivali. In tutti i mari del mondo i corsari delle diverse Nazioni, una specie di pirati autorizzati dai rispettivi governi, proseguivano la loro piccola guerra incuranti dei trattati. I diplomatici, poi, utilizzavano alacremente i brevi periodi di pace nella ricerca di nuove alleanze e nella preparazione di nuove guerre. Ma la competizione continuava soprattutto su un terreno, quello economico, che si dimostrava ogni giorno più importante in quella ricerca di grandezza e di potenza in cui tutte le Nazioni europee erano impegnate. Si era sempre saputo che i soldi sono l'anima della guerra e che senza soldi non c'è possibilità di vittoria. Ora però si cominciava a capire che la ricchezza di un Paese non stava nelle sue riserve di oro e d'argento, ma nel lavoro dei suoi abitanti. Gli esempi della Spagna e dell'Olanda insegnavano: la prima, con tutte le miniere d'oro e d'argento delle sue colonie, si era ridotta in un inguaribile stato di depressione economica e il suo governo, carico di debiti, dopo aver fatto una mezza dozzina di bancarotte, aveva dovuto rinunciare alle ambizioni di grande potenza e accontentarsi di sopravvivere in un ruolo del tutto secondario; la seconda, invece, assolutamente priva di risorse naturali, era diventata uno dei Paesi più ricchi e potenti del mondo e Amsterdam, la sua capitale, era diventata la piazza commerciale e finanziaria più importante d'Europa. Il fatto è che l'oro e l'argento delle miniere se ne vanno all'estero quando il Paese non è in grado di produrre tanto quanto consuma, mentre un Paese che non ha neppure una miniera può accumulare oro e argento vendendo all'estero il lavoro dei propri abitanti o nella forma di manufatti (tessuti e confezioni, ceramiche, oggetti in vetro e metallo, ecc.) o in quella di servizi (trasporti marittimi o terrestri, mediazioni commerciali, servizi bancari, ecc.). La capacità di vendere le proprie merci (manufatti o servizi che siano) agli altri si era rivelato uno strumento di dominio più efficace dell'invasione armata dei territori altrui e la conquista di nuovi mercati più utile della stessa conquista di nuove province. C'era dunque un nuovo genere di guerra da combattere, la guerra economica, che richiedeva che lo Stato fosse gestito come un'efficiente impresa mercantile (viene da qui il termine «mercantilismo» con cui si è poi indicata questa politica). Le armi di questa guerra erano fondamentalmente due: i dazi doganali e la concessione di sovvenzioni statali o di altri favori alle industrie nazionali. Con l'imposizione di dazi doganali sui manufatti o sui servizi importati dall'estero si potevano far aumentare i loro prezzi in misura tale da renderli praticamente invendibili sul mercato nazionale. Al riparo dei dazi doganali l'industria nazionale poteva dunque svilupparsi senza fare i conti con la concorrenza straniera (è ciò che si indica col termine «protezionismo»). Sovvenzioni e favori erano invece diretti a mettere l'industria nazionale in condizione di produrre a costi inferiori a quelli delle industrie straniere e quindi di batterne la concorrenza anche sui mercati esteri. In questo senso l'adozione di tecniche produttive sempre più efficienti e meno costose diventava una necessità a cui i governi provvedevano premiando le invenzioni utili, finanziando la ricerca scientifica e tecnica, fondando società e accademie il cui scopo specifico era l'avanzamento delle scienze e il progresso dell'industria. Già sul finire del Seicento (era sempre l'Olanda a insegnare) la potenza di una Nazione si affidava più all'ingegnosità dei suoi tecnici che all'abilità dei suoi generali. Tra guerra economica e guerra guerreggiata, del resto, i legami erano molto stretti. Il funzionamento di un esercito moderno richiedeva ingenti somme di denaro, che potevano essere raccolte solo attraverso le tasse. Ma un Paese povero non avrebbe potuto sopportare a lungo una forte tassazione. Di qui la necessità per ogni governo di promuovere la prosperità del proprio Paese e di attentare in tutti i modi possibili a quella dei Paesi concorrenti. A loro volta un esercito e una marina da guerra efficienti potevano dare un aiuto decisivo agli industriali ed ai mercanti della propria Nazione nella lotta contro gli industriali e i mercanti di altre Nazioni. La padronanza dei mari, le conquiste territoriali, le invasioni devastatrici avevano sempre più lo scopo di distruggere il potenziale produttivo del Paese nemico, di disorganizzare le sue vie di traffico, di sottrargli le fonti delle materie prime e i mercati di vendita delle sue merci. Una particolare importanza ebbe in questo quadro la rivalità coloniale. All'inizio tale rivalità aveva interessato soltanto la Spagna e il Portogallo, ma presto altre Nazioni si fecero avanti. Il Portogallo, la più debole delle due antiche potenze coloniali, dopo il 1580 dovette cedere buona parte del suo Impero a Inglesi e Olandesi, mentre la Spagna riuscì a conservare il suo soltanto a prezzo di continue lotte. Inghilterra e Francia, poi, si assicurarono importanti domini nell'America del Nord e in India, entrando tra di loro in aspra concorrenza. Nella gara di potenza nessun Paese riuscì a conquistare una stabile egemonia sugli altri. A partire dalla pace di Westfalia e poi soprattutto dopo la guerra di successione spagnola la diplomazia europea aveva cominciato a porsi come obiettivo, contro la prospettiva dell'egemonia di una potenza sulle altre, il raggiungimento e la difesa di un equilibrio generale di tutte le potenze. Le guerre non divennero per questo meno frequenti: si trattava di un equilibrio assai precario che il più piccolo avvenimento poteva turbare, e che ogni volta si doveva ristabilire per mezzo di nuovi schieramenti di alleanze e di nuovi conflitti. Se nessuna potenza europea riuscì a conquistare una posizione di assoluto predominio, le continue guerre e l'incessante competizione economica avevano finito col favorire lo sviluppo degli Stati territorialmente più vasti e più compatti, più popolosi, meglio organizzati. Alla fine del Settecento le maggiori potenze europee erano la Francia, l'Inghilterra, la Prussia (i cui domini solo in parte rientravano nell'antico Impero Germanico) e l'Austria. I sovrani austriaci erano anche, per tradizione, imperatori del Sacro Romano Impero; la loro autorità però si esercitava effettivamente solo sui domini diretti (comprendenti, oltre l'Austria, l'Ungheria, la Boemia e, dagli inizi del Settecento, il Ducato di Milano) mentre il resto della Germania continuava ad essere diviso in numerosi piccoli Stati praticamente indipendenti. La Spagna, che era stata la più grande potenza europea nel Cinquecento, era in decadenza, prostrata dal lungo sforzo sostenuto per combattere la ribellione degli Olandesi nei Paesi Bassi, per difendere dagli attacchi delle potenze rivali il suo immenso impero e per sostenere nel Mediterraneo la pressione costante della marina turca e barbaresca. Una grande potenza era invece sorta nell'Europa orientale a spese della Svezia, della Polonia, dell'Impero ottomano: la Russia, dove la monarchia, anziché combattere la classe dei signori feudali, l'aveva trasformata in una casta di burocrati e di militari, facendone il pilastro del proprio assolutismo. Tra i piccoli Paesi d'Europa solo l'Olanda era assurta a ruolo di grande potenza in virtù della sua grande marina (nel Seicento era stata la più potente del mondo): a poco a poco, però, aveva dovuto ripiegare in una posizione di secondaria importanza e accettare la supremazia dell'Inghilterra, che disponeva di risorse economiche e militari nettamente superiori. Quanto all'Italia, il cui nome indicava un'area geografica relativamente omogenea dal punto di vista culturale e linguistico, ma assai frammentata sul piano economico e politico, la presenza di numerosi piccoli Stati non aveva permesso a nessuno di loro di partecipare ad armi pari alla competizione politica ed economica ingaggiata dalle grandi potenze. Perciò gli Stati italiani, anche quelli formalmente indipendenti, come la monarchia dei Savoia o la repubblica di Venezia, avevano dovuto o entrare nel pericoloso gioco delle potenze maggiori sperando (come i Savoia) di trarre qualche profitto dai servizi prestati, o tenersene rigorosamente fuori sperando (come Venezia) di non suscitare inimicizie o appetiti pericolosi.L'AMERICA DEL NORD TRA INGHILTERRA E FRANCIAGli Spagnoli era stati i primi a penetrare nel continente nordamericano e a conquistare vaste regioni, dalla California, al Nuovo Messico, alla Florida. I Francesi erano sopraggiunti nel Seicento ed erano avanzati da Nord a sud, a partire dalle loro primitive basi nel Canada lungo la vallata del Mississippi e sino alla nuova colonia della Louisiana: nel Settecento l'intera regione tra i Grandi Laghi e il Golfo del Messico era loro. I coloni inglesi, invece, dalle coste atlantiche, dove avevano fondato le prime colonie, si erano spinti progressivamente verso l'interno seguendo la direzione Est-Ovest. Quando raggiunsero il sistema montuoso degli Appalachi e cominciarono a penetrare nei territori dell'Ovest, apparve inevitabile lo scontro con i Francesi che circondando le colonie inglesi tagliavano la strada ad ogni loro nuova espansione. Relativamente poco estese e mal collegate fra loro rispetto a quelle francesi, le colonie inglesi sembravano destinate a soccombere. In realtà esse avevano diversi vantaggi, legati innanzi tutto alla più salda organizzazione interna. Nelle colonie spagnole poche migliaia di preti, di soldati e di grandi proprietari dominavano su milioni di indiani e di neri. Enormi ricchezze si concentravano in poche mani, mentre la grande massa della popolazione di colore viveva in condizioni di estrema povertà e di assoluta dipendenza. Era un sistema che non favoriva quella intraprendenza e quello spirito d'iniziativa che erano invece caratteristici dei coloni inglesi e non permetteva che si formasse una classe operosa di piccoli proprietari, di liberi artigiani, di commercianti e di marinai interessati a migliorare le proprie condizioni e a difendere con le armi, se necessario, la propria terra e il proprio lavoro. Quanto ai coloni francesi, essi erano soprattutto cacciatori e mercanti di pellicce. Nelle fredde e inospitali regioni del Canada era possibile stabilire soltanto poche e piccole comunità agricole. Poiché la caccia degli animali da pelliccia diventava più fruttuosa via via che ci si inoltrava nel continente, i Francesi si sparpagliarono in territori vastissimi, dove non riuscirono a creare un insediamento stabile ed uniforme. I territori francesi erano insomma scarsamente popolati e la loro difesa era affidata semplicemente ad una sottile linea di guarnigioni militari disseminate lungo la valle del Mississippi. Al contrario, i territori posti sotto la sovranità dell'Inghilterra, sebbene meno estesi, presentavano condizioni assai favorevoli all'insediamento degli Europei e furono la meta di un ininterrotto flusso di coloni, che occuparono saldamente le terre poste tra i monti Appalachi e l'Atlantico costruendovi città, villaggi, fattorie, piantagioni. Quando intorno al 1760 si giunse tra Inglesi e Francesi allo scontro finale, c'era ormai una netta sproporzione di forze: un milione e mezzo di Inglesi contro sessanta o settantacinquemila Francesi. Non fu dunque difficile all'Inghilterra impadronirsi del Canada (dove però ancora oggi il 30% della popolazione è di origine francese) e dei territori che si estendono ad Ovest degli Appalachi sino al Mississippi. Esclusi in tal modo i Francesi, restarono gli Spagnoli a contendere ai coloni dell'Inghilterra il controllo del continente nord-americano. Ma lo scontro tra le comunità di origine spagnola e quelle di origine inglese avvenne solo nel corso del secolo XIX, quando le colonie dell'uno e dell'altro gruppo si erano rese ormai indipendenti dalle rispettive metropoli: esso costituì uno degli episodi più importanti di una vicenda tutta nuova che ebbe per aggressivo protagonista il nuovo imperialismo americano.La colonizzazione dell'America del Nord (1700-1763)
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