Le Mille e Una Notte Storia delle Tre Mele Storia di Ali Nur Ed-din e di Hasan Badr Ed-Din (2^ parte).
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Storia delle Tre mele - Storia della dama trucidata e del suo giovane marito Storia delle tre mele Storia di Ali Nur Ed-Din e di Hasan Badr Ed-Din (1^ Parte) Storia delle tre mele Storia di Ali Nur Ed-din e di Hasan Badr Ed-Din (2^ Parte) Storia delle Tre mele Storia di Ali Nur Ed-Din e di Hasan Badr Ed-Din (3^ Parte) LE MILLE E UNA NOTTE - STORIA DELLE TRE MELESTORIA DI ALI NUR ED-DIN E DI HASAN BADR ED-DIN (2^ Parte)Per non dargli requie, il genio si cambiò in un possente bufalo, e sotto questa forma gli gridò con voce tonante: «Gobbo villano!». A queste parole lo spaventato palafreniere si lasciò cadere sul pavimento, e coprendosi la testa con la veste per non vedere quella bestia spaventosa, gli rispose tremando: «Principe supremo dei bufali, che chiedete da me?». «Guai a te», gli rispose il genio, «se hai l'audacia di ammogliarti con la mia amante.» «Ah! signore», disse il gobbo, «vi supplico di perdonarmi. Io non sapevo che questa dama avesse un bufalo per amante. Comandatemi, io sono pronto a obbedirvi.» «Per la morte!», replicò il genio. «Se esci di qui, e se non osservi il silenzio fino a che sorga il sole, io ti schiaccio la testa. Fatto giorno, ti permetto di uscire da questa casa; ma ti ordino di ritirarti prestissimo, senza guardarti indietro: e se hai l'ardire di ritornarci, ne andrà della tua vita.» Pronunciate queste parole, il genio si trasformò in uomo; prese il gobbo per i piedi, e dopo averlo messo con la testa in giù contro il muro, soggiunse: «Se tu ti muovi prima dello spuntare del sole, come ti ho già detto, ti frantumerò il capo in mille pezzi contro questo muro!». Quanto a Hasan Badr ed-Din, incoraggiato dal genio e dalla presenza della fata, era ritornato nella sala e s'era insinuato nella camera nuziale, dove si sedette, attendendo l'esito della sua avventura. Dopo qualche tempo giunse la sposa, condotta da una buona vecchia, la quale si fermò sulla porta, poi chiuse e si ritirò. La giovane sposa fu estremamente sorpresa di vedere, al posto del gobbo, Hasan Badr ed-Din, che si presentò con la miglior grazia del mondo. «Mio caro amico», gli disse, «voi siete qui a quest'ora? Siete dunque camerata di mio marito?» «No, signora», riprese Badr ed-Din, «io son di diversa condizione di cotesto gobbo villano.» Ma lei riprese: «Come osate dire male del mio sposo?». «Lui, signora», soggiunse, «vostro sposo? E potete continuare a pensarlo? Uscite d'inganno. Tanta bellezza non sarà sacrificata al più spregevole di tutti gli uomini. Sono io, signora, sono io il più felice mortale a cui è riservata. Il sultano ha voluto divertirsi facendo questa burla al visir vostro padre, ed egli mi ha scelto per vostro sposo. Voi avete potuto osservare quanto le dame, i ballerini, le vostre donne e tutta la gente di casa vostra ha goduto di questa commedia. Noi abbiamo mandato via l'infelice gobbo, che a quest'ora mangia un piatto di crema nella sua scuderia, alla salute dei vostri occhi.» A questo discorso la figlia del visir, che era entrata più morta che viva nella camera nuziale, si cambiò in volto, prese un aspetto così gaio di farne rimaner incantato Badr ed-Din. «Non mi aspettavo», gli disse, «una così gradita sorpresa, e già mi ero rassegnata ad essere infelice per il resto della mia vita. Ma sono tanto più felice, in quanto avrò un marito degno della mia tenerezza.» Così dicendo, finì di spogliarsi e si mise a letto. Dal canto suo Hasan Badr ed-Din, fuori di sé nel vedersi possessore di tale bellezza, si spogliò prontamente. Pose il suo abito su di un seggio, si tolse il turbante, per mettersene uno da notte, che era stato preparato per il gobbo, e andò a coricarsi in camicia e in mutande. Le mutande erano di raso azzurro e legate con un cordone tessuto di oro. Quando i due amanti si furono addormentati, il genio che aveva raggiunto la fata, le disse che era tempo di finire ciò che avevano così ben cominciato. «Non lasciamoci sorprendere», soggiunse, «dal giorno che apparirà ben presto; andate e portate via il giovane senza svegliarlo.» La fata si recò nella camera degli amanti, i quali dormivano profondamente: portò via Hasan Badr ed-Din così come si trovava, cioè in camicia e in mutande, e volando col genio con meravigliosa rapidità fino alla porta di Damasco in Siria vi giunsero precisamente nel momento in cui i ministri delle moschee, chiamavano il popolo alla preghiera dell'alba. La fata posò dolcemente a terra Badr ed-Din, e lasciandolo presso la porta, s'allontanò col genio. Si aprirono le porte della città, e la gente fu estremamente sorpresa di vedere Hasan Badr ed-Din steso per terra in camicia e in mutande: l'uno diceva: «E' stato costretto ad uscire tanto in fretta dalla casa della sua amante, che non ha neppure avuto il tempo di vestirsi». «Vedete un po'», diceva un altro, «a quali accidenti siamo esposti! Avrà passato una buona parte della notte a bere con i suoi amici; si sarà ubriacato; sarà poi uscito, e invece di andare a casa sarà venuto fin qui senza sapere ciò che facesse, e l'avrà preso il sonno.» Altri dicevano altre cose, e nessuno poteva indovinare per quale avventura egli si trovasse là. La brezza mattutina gli aprì la camicia e lasciò vedere il suo petto più bianco della neve. Furono tutti talmente stupiti di tale candore, che mandarono un grido di meraviglia, e il giovane si svegliò. La sua sorpresa non fu meno grande della loro nel vedersi alla porta di una città dove non era mai venuto, e circondato da una calca di gente che lo osservava con attenzione. «Signori», disse loro, «ditemi di grazia dove sono e che desiderate da me?» Uno di loro prese la parola e gli rispose: «Giovane, or ora si è aperta la porta di questa città, e nell'uscire vi abbiamo trovato qui, coricato, nello stato in cui siete. Ci siamo fermati a guardarvi. Avete dunque passato qui la notte? Non sapete di trovarvi a una delle porte di Damasco?». «A una delle parte di Damasco!», replicò Badr ed-Din, «voi vi burlate di me. Questa notte mi sono coricato al Cairo.» A queste parole alcuni, mossi a compassione, dissero che era un peccato che un giovane tanto bello avesse perso la ragione: e passarono oltre. «Figlio mio», gli disse un buon vecchio, «voi non riflettete; se questa mattina siete a Damasco, come potevate ieri sera essere al Cairo? Questo non può essere.» «Eppure è verissimo», soggiunse Badr ed-Din, e vi giuro di aver passata la giornata di ieri a Bassora.» Appena ebbe terminato queste parole, tutti scoppiarono a ridere esclamando: «E' pazzo! è pazzo!». Pure alcuni lo compativano a motivo della sua giovinezza: e un uomo di quella compagnia disse: «Figlio mio, voi non sapete quello che dite. E' mai possibile che un uomo sia di giorno a Bassora, di notte al Cairo e la mattina seguente a Damasco? Voi certo non siete bene sveglio!». «Ciò che dico», riprese Badr ed-Din, «è tanto vero, che ieri mi sono sposato nella città del Cairo.» A questo discorso tutti coloro che avevano riso, raddoppiarono la loro allegria. «Badate bene», soggiunse la stessa persona, «voi dovete aver sognato quanto dite.» «Ditemi voi invece, com'è possibile che io sia andato in sogno al Cairo, dove per sette volte hanno condotto davanti a me la mia sposa, adorna d'un nuovo abbigliamento, e dove infine ho veduto l'orrido gobbo che avrebbe dovuto sposare? Ditemi quel che avvenne della mia veste, del mio turbante, e della mia borsa di dinàr?» Benché assicurasse che tutte queste cose erano reali, le persone che l'ascoltavano non fecero altro che riderne, il che lo turbò a un punto tale che non sapeva più che cosa pensare. Dopo che Hasan Badr ed-Din si fu ostinato a sostenere che tutto ciò che aveva detto era vero, si alzò per entrare nella città, e tutta la gente lo seguiva gridando: «E' pazzo!». A tali grida gli uni sporsero il capo dalle finestre, gli altri si presentarono sulle porte, ed altri, unendosi a quelli che attorniavano Badr ed-Din, gridavano come loro, senza sapere di che si trattasse: «E' pazzo!». Nell'impaccio in cui si trovava, il giovane giunse davanti alla casa di un pasticcere, il quale apriva allora la bottega, e vi entrò per liberarsi da coloro che lo seguivano. Quel pasticcere era stato un tempo capo di un gruppo di vagabondi che assalivano le carovane: e sebbene fosse venuto a stabilirsi a Damasco, ove non dava alcun motivo di lagnanza contro di sé, era pur sempre temuto da quanti lo conoscevano. Per la qual cosa non appena egli ebbe lanciato uno sguardo sulla marmaglia che seguiva Badr ed-Din quella si disperse. Poi rivolse parecchie domande al giovane; volle sapere chi fosse ed il motivo che l'aveva condotto a Damasco. Hasan Badr ed-Din non gli nascose né la sua nascita, né la morte del gran visir suo padre. Gli narrò in seguito in qual modo fosse uscito da Bassora, e come, dopo essersi addormentato la notte precedente nella tomba di suo padre, si fosse trovato, svegliandosi, al Cairo, dove aveva sposato una dama. Infine gli manifestò la sua sorpresa di vedersi a Damasco senza poter comprendere un bel nulla. «La vostra storia è delle più sorprendenti», gli disse il pasticcere «ma se volete seguire il mio consiglio, non confiderete ad alcuno le cose che avete detto a me, attendendo pazientemente che il cielo si degni di por fine alle disgrazie dalle quali siete afflitto. Vi contenterete di rimanere con me fino ad allora; siccome non ho figli, sono pronto a riconoscervi per mio figlio, se acconsentite. Dopo che v'avrò adottato, andrete liberamente per la città, e non sarete più esposto agli insulti della marmaglia.» Quantunque quest'adozione non facesse onore al figlio di un gran visir, Badr ed-Din accettò la proposta del pasticcere, stimando giustamente che quello fosse il miglior partito da prendere nello stato in cui si trovava. Il pasticcere lo fece vestire, prese dei testimoni, e andò a dichiarare davanti ad un cadì che lo riconosceva come suo figlio, e da allora Badr ed-Din restò in casa sua con il nome di Hasan, e apprese l'arte del pasticcere. Mentre ciò avveniva a Damasco, la figlia di Mohammed Shams ed-Din si risvegliò e non trovando Badr ed-Din accanto a sé, credette ch'egli si fosse alzato senza voler interrompere il suo riposo. Attendeva il suo ritorno, allorché il visir Mohammed Shams ed-Din suo padre, punto sul vivo dall'affronto che credeva aver ricevuto dal sultano d'Egitto, venne a bussare all'appartamento di lei, risoluto a piangere con lei il suo triste destino. La chiamò per nome: e lei, appena ebbe udito la sua voce, si alzò per aprirgli la porta. Gli baciò la mano, e lo ricevette con un'aria tanto contenta, che il visir, il quale s'aspettava di trovarla in lacrime, afflitta come lui, ne rimase estremamente sorpreso. «Sciagurata!», le disse adirato, «così dunque osi comparirmi davanti? Dopo l'orribile sacrificio, puoi presentarmi un volto così ilare?» «Signore di grazia, non mi fate un così ingiusto rimprovero; non è il gobbo, che io detesto più della morte, non è già cotesto mostro, che ho sposato: tutti lo han messo in tanta confusione che egli è stato costretto ad andarsi a nascondere e a lasciar il posto a un giovane bellissimo che è il mio vero marito.» «Che favola mi racconti?», interruppe bruscamente Mohammed Shams ed-Din. «Che? Il gobbo non è con te?» «No, signore», ella rispose, «non ho visto altra persona se non il giovane di cui vi parlo, il quale ha grandi occhi e sopracciglia nere.» A queste parole il visir perse la pazienza, e montò in grandissima furia contro sua figlia. «Ah! cattiva!», le disse. «Vuoi farmi perdere la testa coi tuoi discorsi!» «Siete voi, padre mio, che fate perdere la testa a me con la vostra incredulità.» «Non è dunque vero», replicò il visir, «che il gobbo ti ha...» «Eh! lasciamo perdere il gobbo», interruppe lei bruscamente, «sempre il maledetto gobbo! Ve lo ripeto, padre mio», aggiunse, «che non ho più visto il gobbo, ma solo il caro sposo di cui vi parlo, e che non deve essere lontano.» Mohammed Shams ed-Din uscì per andarlo a cercare, ma invece di trovare lui rimase estremamente sorpreso d'incontrare il gobbo con la testa in giù e i piedi in alto, nella stessa posizione in cui l'aveva messo il genio. «Che vuol dire ciò?», gli disse, «chi vi ha messo in tale stato?» Il gobbo, riconoscendo il visir, gli rispose: «Ah, ah! Siete dunque voi che volevate darmi in matrimonio l'amante del bufalo, l'amante di un genio villano? Io non sarò il vostro merlotto, e voi non mi ci coglierete!». Mohammed Shams ed-Din credette che il gobbo farneticasse e gli disse: «Levatevi di lì e mettetevi diritto». «Me ne guarderò bene», soggiunse il gobbo. «Sappiate che essendo venuto qui ieri sera, apparve all'improvviso un gatto nero, il quale si trasformò in un grosso bufalo; non ho dimenticato quel che mi ha detto: perciò andate per i fatti vostri e lasciatemi qui.» Il visir, invece di ritirarsi, prese il gobbo per i piedi e l'obbligò a rialzarsi. Ciò fatto, il gobbo uscì correndo di gran lena senza guardarsi indietro. Si recò al palazzo, si fece presentare al sultano d'Egitto e lo divertì moltissimo, raccontandogli il trattamento fattogli dal genio. Mohammed Shams ed-Din ritornò nella camera di sua figlia più stupito e più incerto di prima. «Ebbene, figlia», le disse, «puoi spiegarmi ciò che mi rende interdetto e confuso?» «Signore», gli rispose, «non posso dirvi altro, fuorché quello che ho già riferito. Ma ecco», aggiunse, «il vestito del mio sposo, esso forse vi darà i chiarimenti che cercate.» Dicendo queste parole, presentò il turbante di Badr ed-Din al visir, il quale lo prese, e dopo averlo bene esaminato da tutte le parti: «Lo prenderei», disse, «per un turbante di visir, se non fosse alla foggia di Mossul». Ma avvedendosi che c'era qualche cosa cucita tra la stoffa e la fodera, chiese delle forbici, e avendolo scucito, trovò una carta piegata. Era il quaderno dato da Ali Nur ed-Din morente a Badr ed-Din suo figlio, il quale l'aveva nascosto in quel luogo per meglio conservarlo. Mohammed Shams ed-Din, avendo aperto il quaderno, riconobbe la scrittura di suo fratello Nur ed-Din e lesse questo Le Mille e Una Notte Storia delle Tre Mele: «Per voi figlio Hasan Badr ed-Din». Prima che avesse il tempo di riflettere, sua figlia gli mise nelle mani la borsa che aveva ritrovata sotto l'abito. Egli l'aprì, e la trovò piena di dinàr, poiché, nonostante le elargizioni fatte da Hasan Badr ed-Din, era sempre rimasta piena per cura del genio e della fata. Egli lesse queste parole sulla soprascritta della borsa: «Mille dinàr appartenenti all'ebreo Isacco»; e queste altre di sotto, scritte dall'ebreo prima di separarsi da Hasan Badr ed-Din: Rilasciati a Hasan Badr ed-Din per il carico che mi ha venduto della prima delle navi che prima appartenevano a Ali Nur ed-Din suo padre di felice memoria, quando sarà arrivata a questo porto. Non appena ebbe terminato questa lettura, proruppe in un grande grido e svenne. Il visir Mohammed Shams ed-Din, essendo rinvenuto dal suo svenimento, disse: «Figlia mia, non stupirti di ciò che mi è capitato. I fatti sono così straordinari che appena vi potresti prestar fede. Codesto sposo, che ha passato la notte con te, è tuo cugino, il figlio di Ali Nur ed-Din. I mille dinàr, contenuti in questa borsa, mi fanno ricordare la disputa avuta con quel caro fratello. Questo è, senza dubbio, il regalo nuziale che ti fa. Dio sia lodato di ogni cosa e particolarmente di questa meravigliosa avventura, la quale mostra luminosamente la sua potenza». Guardò poi lo scritto di suo fratello, e più volte lo baciò, versando abbondanti lacrime. «Perché non mi è concesso», diceva, «mentre vedo questi caratteri che mi cagionano tanto giubilo, veder qui Nur ed-Din stesso, e riconciliarmi con lui?» Egli lesse da capo a fondo il quaderno: vi trovò le date dall'arrivo di suo fratello a Bassora, del suo matrimonio, della nascita di Hasan Badr ed-Din; e quando, dopo aver confrontato con queste date quelle del suo matrimonio e della nascita di sua figlia al Cairo, considerò la relazione che vi era fra esse, e riflettendo infine che suo nipote era ora suo genero, si diede tutto alla gioia. Prese il quaderno e la soprascritta della borsa e andò a mostrarli al sultano il quale gli perdonò il passato, e fu talmente incantato dal racconto di questa storia, che la fece mettere per iscritto, per tramandarlo alla posterità. Intanto il visir Mohammed Shams ed-Din non poteva capire perché suo nipote fosse sparito, e sperava vederselo comparire davanti a ogni momento, e lo aspettava con grande impazienza per abbracciarlo. Dopo averlo inutilmente aspettato per sette giorni, lo fece cercare in tutto il Cairo, ma non ne seppe alcuna notizia. Ciò gli causò molta inquietudine. «Ecco», diceva, «un'avventura singolare; nessuno mai ne ha esperimentata una simile.» Nell'incertezza di quel che potesse accadere in seguito, credette di dover mettere per iscritto ciò che riguardava la sua cassa, in quale maniera le nozze erano avvenute, come la sala e la camera di sua figlia fossero addobbate. Fece pure un fagotto del turbante, della borsa e del resto del vestito di Badr ed-Din, e lo chiuse sotto chiave. In capo a qualche giorno, la figlia del visir Mohammed Shams ed-Din si accorse di essere gravida, e infatti nel termine di nove mesi ella partorì un figlio. Si diede una nutrice al fanciullo, con altre donne e schiave per servirlo e lo si chiamò Agìb. Quando questo giovane Agìb ebbe toccato l'età di sette anni, il visir Mohammed Shams ed-Din, invece di fargli insegnare a leggere nella propria casa, lo mandò a scuola da un maestro di grande reputazione, e due schiavi avevano cura di accompagnarlo ogni giorno. Agìb giocava con i suoi compagni; siccome erano tutti di una condizione inferiore alla sua, essi avevano molta deferenza per lui, ed in ciò si regolavano sull'esempio del maestro, il quale gli passava molte cose che non perdonava agli altri. La cieca compiacenza usata verso Agìb lo guastò; divenne superbo, insolente; voleva che i suoi compagni sopportassero tutto da lui, senza voler sopportare nulla da loro. Dominava su tutti, e se qualcuno aveva l'ardire di opporsi alla sua volontà, gli diceva mille improperi, e giungeva spesso fino a picchiarlo. Si rendette insomma insopportabile a tutti gli scolari, i quali si lamentarono di lui col maestro di scuola. Dapprima egli li esortò ad aver pazienza: ma vide che con ciò non facevano che aumentare l'insolenza di Agìb. «Figli miei», disse ai suoi scolari. «Vedo che Agìb è un insolente; voglio insegnarvi un mezzo per mortificarlo, in modo che non vi tormenti più. Domani, quando sarà venuto, e vorrete giocare insieme, mettetevi tutti intorno a lui, e qualcuno dica ad alta voce: "Noi vogliamo giocare, ma a patto che quelli che giocheranno dicano il nome della loro madre e del loro padre. Noi considereremo come bastardi gli altri, né sopporteremo che giochino con noi".» Il maestro di scuola fece loro capire l'imbarazzo nel quale avrebbero messo Agìb con questo mezzo, ed essi si ritirarono con molta allegrezza. L'indomani non trascurarono di fare ciò che il maestro aveva insegnato loro. Circondarono Agìb, e uno di loro prendendo la parola: «Giochiamo», disse, «a un gioco, ma a patto che colui il quale non potrà dire il suo nome, il nome di sua madre e di suo padre, non giocherà con noi». Tutti accettarono la condizione stabilita e vi soddisfecero l'uno dopo l'altro ed anche Agìb. «Mia madre si chiama Dama di Bellezza, e mio padre Mohammed Shams ed-Din, visir del sultano.» A queste parole, tutti i fanciulli gridarono: «Che dici mai? Questo non è il nome di tuo padre, ma del tuo nonno». «Che Iddio vi confonda!», replicò lui con collera. «Oserete voi dire che il visir Mohammed Shams ed-Din non è mio padre?» Gli scolari ripigliarono con scoppi di risa: «No, no, è solamente il tuo nonno, e tu non giocherai con noi e ci guarderemo bene dall'avvicinarti». Dicendo ciò s'allontanarono da lui sbeffeggiandolo, e seguitando a ridere fra loro. Agìb fu molto mortificato dei loro motteggi e si mise a piangere. Il maestro, che aveva ascoltato ogni cosa, entrò allora rivolgendosi ad Agìb: «Agìb», gli disse, «non sai ancora che il visir Mohammed Shams ed-Din è solo tuo nonno, padre di tua madre Dama di Bellezza? Noi ignoriamo come te, il nome di tuo padre. Sappiamo soltanto che il sultano avrebbe voluto maritare tua madre con uno dei suoi palafrenieri, gobbo per giunta, ma che lei fu amata invece da un genio. Ciò è spiacevole per te, e perciò devi imparare a trattare i compagni con minor fierezza di quella con cui finora li hai trattati». Il piccolo Agìb, offeso dai motteggi dei suoi compagni, bruscamente se ne andò dalla scuola, e tornò a casa piangendo. Andò da principio nell'appartamento di sua madre Dama di Bellezza, la quale, afflitta di vederlo così malinconico, con premura gliene domandò la ragione. Egli non poté rispondere se non con parole rotte dai singhiozzi, tanto era addolorato, e a stento poté raccontare la causa mortificante della sua afflizione. Quando ebbe terminato: «In nome di Dio, o madre mia», disse, «ditemi, se vi piace, chi è mio padre?». «Figlio mio», rispose, «tuo padre è Mohammed Shams ed-Din, che ti abbraccia tutti i giorni.» «Voi non mi dite la verità», egli rispose, «non è mio padre, ma il vostro. Ma io di quale padre sono figlio?» A questa domanda inaspettata, Dama di Bellezza, ricordandosi delle sue nozze, seguite da una così lunga vedovanza, cominciò a spargere lacrime, compiangendo amaramente la perdita d'uno sposo così amabile qual era Badr ed-Din. Mentre Dama di Bellezza piangeva da una parte ed Agìb dall'altra, entrò Shams ed-Din e volle sapere la causa delle loro afflizioni. Dama di Bellezza gli rivelò la mortificazione ricevuta da Agìb nella scuola. Questo racconto toccò vivamente il visir, il quale unì le sue alle loro lacrime, e pensando che tutti tenessero dei discorsi contro l'onore di sua figlia, si disperò. Tormentato da questo crudele pensiero, andò al palazzo del sultano, e dopo essersi prostrato ai suoi piedi, lo supplicò umilmente d'accordargli il permesso di fare un viaggio nelle province del Levante, e propriamente a Bassora, per andare a cercare suo nipote Hasan Badr ed-Din, dicendo di non poter sopportare si credesse nella città che un genio si fosse congiunto con sua figlia Dama di Bellezza. Il sultano, mosso dalle pene del visir, approvò la sua risoluzione e gli permise di attuarla. Gli fece anche avere uno scritto, col quale pregava nei termini più cortesi, i principi e i signori dei luoghi ove era possibile fosse Badr ed-Din, ad acconsentire che il visir lo conducesse con sé. Mohammed Shams ed-Din non trovò parole bastanti per ringraziarlo della bontà usatagli. Egli si prostrò di nuovo dinanzi al principe, e le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi, dimostrarono chiaramente la sua riconoscenza. Infine si congedò dal sultano, dopo avergli augurato tutte le prosperità immaginabili. I preparativi della partenza furono fatti con molta sollecitudine, e dopo quattro giorni, egli partì accompagnato da sua figlia Dama di Bellezza e da Agìb suo nipote. Essi camminarono per diciannove giorni di seguito senza mai fermarsi; ma il ventesimo, essendo arrivati in una bellissima prateria poco distante dalla porta di Damasco, si fermarono e fecero innalzare le loro tende sul margine di un ruscello che attraversava la città, rendendo i suoi dintorni piacevolissimi. Il visir Mohammed Shams ed-Din dichiarò di volersi fermare due giorni in quel luogo. Intanto permise alle genti del suo seguito di andare fino a Damasco. Quasi tutti approfittarono del permesso: gli uni spinti dalla curiosità di vedere una città, della quale avevano tanto sentito parlare, gli altri, per vendervi delle mercanzie portate dall'Egitto, o per comprarvi delle stoffe e delle rarità del paese. Dama di Bellezza, volendo che suo figlio Agìb si divertisse, passeggiando in quella celebre città, ordinò all'eunuco nero, che serviva da guida al fanciullo, di condurvelo. Agìb, magnificamente vestito, si mise in cammino con l'eunuco. Non appena entrati in città, Agìb, bello come il giorno, attirò su di sé gli sguardi di tutti. Gli uni uscivano dalle case per vederlo più da vicino, gli altri si affacciavano alle finestre e quelli che lo incontravano per la strada non si contentavano di guardarlo, ma lo accompagnavano per ammirarlo più a lungo. Insomma non c'era nessuno che non l'ammirasse e che non benedicesse il padre e la madre che avevano dato la vita ad un fanciullo così grazioso. L'eunuco e il ragazzo arrivarono per caso davanti alla bottega ove era Hasan Badr ed-Din, e là si videro circondati da una grande folla e furono obbligati ad arrestarsi. Il pasticcere, che aveva adottato Hasan Badr ed-Din era morto da alcuni anni e lo aveva lasciato erede della sua bottega e di tutti gli altri suoi beni. Badr ed-Din era dunque padrone della bottega ed esercitava la professione di pasticcere con tanta abilità che godeva grande reputazione in Damasco. Vedendo tanta gente affollata davanti alla sua porta, intenta ad ammirare Agìb e l'eunuco nero, uscì anch'egli a guardarli. Hasan Badr ed-Din, fissando gli occhi su Agìb si sentì commuovere, senza saperne il perché. Non era impressionato come il popolo dalla bellezza di quel ragazzo: il suo turbamento e la sua emozione erano di una natura sconosciuta. La forza del sangue operava sul padre, che, interrompendo le sue occupazioni, s'avvicinò ad Agìb, dicendogli in modo cortese: «Mio piccolo signore, fatemi la grazia d'entrare nella mia bottega per mangiarvi qualche cosa fatta dalle mie mani, affinché io abbia il piacere di contemplarvi a mio agio». Queste parole furono pronunciate con una indicibile tenerezza che commosse il piccolo Agìb, il quale rivolto all'eunuco: «Questo buon uomo», disse, «ha un aspetto che mi piace, e mi parla in modo tanto affettuoso, che non posso rifiutarmi di fare quanto desidera. Entriamo dunque da lui e mangiamo della sua pasticceria». «Ah!», gli rispose lo schiavo, «sarebbe bello vedere un figlio di visir come voi, entrare nella bottega di un pasticcere per mangiare. Non crediate che io ve lo permetta.» «Mio buon amico», disse Badr ed-Din, «non impedite a questo giovane signore d'accordarmi la grazia chiestagli. Deh, non datemi questo dolore! Fatemi piuttosto l'onore d'entrare voi pure con lui da me.» L'eunuco rinunciò a resistere alle preghiere di Badr ed-Din e, lasciato entrare Agìb nella sua bottega, vi entrò egli pure. Hasan Badr ed-Din provò immensa gioia nel vedere esaudito il suo ardente desiderio, e rimettendosi al lavoro interrotto: «Sto facendo», disse, «delle torte di fior di latte: bisogna che ne mangiate; sono certo che le troverete eccellenti». Ciò detto ne cavò una dal forno e dopo avervi messo sopra dei granelli di melagrana e zucchero, la servì ad Agìb che la trovò deliziosa. L'eunuco, cui Badr ed-Din ne offrì, diede lo stesso giudizio. Mentre ambedue mangiavano, Hasan Badr ed-Din esaminava Agìb con grande attenzione, e pensando, nel guardarlo, che avrebbe potuto avere un figlio bello come quello dalla leggiadra sposa da cui era stato troppo presto e crudelmente separato, ruppe in pianto. Si preparava a fare delle domande al piccolo Agìb sullo scopo del suo viaggio a Damasco, ma non poté soddisfare la sua curiosità, perché l'eunuco lo condusse via appena ebbe finito di mangiare. Hasan Badr ed-Din, non contentandosi di seguirlo con lo sguardo, chiuse prontamente la sua bottega e lo seguì. Corse appresso ad Agìb e all'eunuco e li raggiunse prima che uscissero dalla città. L'eunuco, essendosi accorto che egli li seguiva, ne fu estremamente sorpreso. «Siete un importuno», gli disse sdegnato. «Che volete da noi?» «Mio buon amico, non andate in collera; avendo fuori della città un piccolo affare, di cui mi sono ricordato, vado a sbrigarlo.» L'eunuco, non essendo soddisfatto di questa risposta, rivoltosi ad Agìb gli disse: «Ecco quel che succede: avevo previsto che mi sarei pentito della mia compiacenza, facendovi entrare nella bottega di costui; non ho agito da saggio, permettendovelo». «Forse», soggiunse Agìb, «egli effettivamente ha degli affari fuori della città, e le strade sono libere per tutti.» Mentre così parlavano, lui e l'eunuco camminavano senza guardarsi indietro. Arrivati alle tende del visir e voltisi per vedere se Hasan Badr ed-Din li seguisse, Agìb impallidì ed arrossì successivamente, scorgendolo a due passi da sé. Temeva che il visir suo nonno venisse a sapere che era entrato nella bottega di un pasticcere per mangiare. Spinto da questo timore, raccolse una grossa pietra che era ai suoi piedi, e, lanciandogliela contro, lo colpì in mezzo alla fronte, inondandogli il viso di sangue, poi, mettendosi a correre con tutte le sue forze si rifugiò sotto le tende con l'eunuco, il quale disse che Hasan Badr ed-Din non doveva lamentarsi di questa sciagura, poiché se l'era meritata. Badr ed-Din riprese la via della città, tergendosi il sangue della ferita col grembiule di cui non si era nemmeno sbarazzato. «Ho fatto male», diceva tra sé, «ad abbandonare la mia bottega, e causare tanta pena a quel ragazzo, che certamente m'ha trattato in tal modo credendo che io meditassi qualche sinistro inganno a suo danno.» Come fu giunto a casa sua si fece medicare, e si consolò dell'avventura, riflettendo che c'è sulla terra gente più disgraziata. Badr ed-Din continuò ad esercitare il suo mestiere a Damasco, da dove suo zio Mohammed Shams ed-Din partì tre giorni dopo il suo arrivo. Prese la via di Homs, poi andò ad Hemach, di là ad Aleppo, dove si fermò due giorni. Da Aleppo passò l'Eufrate, entrando nella Mesopotamia, e dopo aver attraversato Mardin, Mossul, Sengira, Diyàr Bekr e diverse altre città, arrivò a Bassora, dove domandò udienza al sultano. Questi, appena seppe il grado di Mohammed Shams ed-Din, gliela accordò. Avendolo ricevuto cortesemente, gli domandò la causa del suo viaggio a Bassora. «Sire», rispose il visir Shams ed-Din, «sono venuto per avere notizie di Ali Nur ed-Din, mio fratello, che ha avuto l'onore di servire vostra maestà.» «Ali Nur ed-Din è morto da lungo tempo», rispose il sultano. «Tutto quello che vi posso dire di suo figlio è che due mesi dopo la morte di suo padre, scomparve ad un tratto, e nessuno l'ha più visto da allora in poi, nonostante quanto ho fatto per cercarlo. Ma sua madre, che è figlia d'un mio visir, vive ancora.» Mohammed Shams ed-Din gli chiese il permesso di vederla e di condurla con sé in Egitto; il sultano acconsentì ed egli, per non differire questa consolazione, essendosi fatto indicare dove fosse la dimora di lei, vi andò subito accompagnato dalla figlia e dal nipote. La vedova di Ali Nur ed-Din abitava sola nel palazzo dove suo marito era morto. Era una bellissima casa, superbamente costruita e ornata di colonne di marmo; Mohammed Shams ed-Din non si fermò ad ammirarla. Giungendovi baciò la porta e un marmo su cui era scritto in lettere d'oro il nome di suo fratello, poi chiese di parlare alla cognata, e i domestici gli dissero che era in un piccolo edificio a forma di cupola, che gli mostrarono in mezzo a un cortile spazioso. Questa tenera madre aveva l'abitudine di passare gran parte del giorno e della notte in quell'edificio, fatto costruire per rappresentare la tomba di Hasan Badr ed-Din, che lei credeva morto, dopo averlo invano atteso per molto tempo. Era intenta a piangere un figlio tanto amato: e Mohammed Shams ed-Din la trovò immersa in una grande afflizione. Nel salutarla la pregò di sospendere le lacrime e i gemiti, facendosi riconoscere come suo cognato, e le disse quali erano le ragioni che lo avevano obbligato a partire dal Cairo per recarsi a Bassora. Mohammed Shams ed-Din, dopo aver narrato alla cognata quanto era avvenuto la notte delle nozze di sua figlia, e dopo averle raccontato la sorpresa provocatagli dalla scoperta delle carte cucite nel turbante di Badr ed-Din, le presentò Agìb e Dama di Bellezza. Quando la vedova di Ali Nur ed-Din, la quale se ne stava seduta come una donna che non prende più alcuna parte alle cose del mondo, comprese che il suo amato figlio, che ella tanto piangeva, poteva essere ancora in vita, si alzò ed abbracciò strettamente Dama di Bellezza e il suo nipote Agìb nel quale riconobbe la fisionomia di Badr ed-Din, e versò lacrime ben differenti da quelle versate fino allora. Non si stancava di baciare quel ragazzo, che riceveva quegli abbracci con dimostrazioni della più grande gioia. «Signora», disse Mohammed Shams ed-Din, «è tempo ormai che cessiate di rammaricarvi; asciugate le vostre lacrime, bisogna che vi disponiate a venire con noi in Egitto. Il sultano di Bassora mi permette di condurvi con me e spero di vedere esaudita da voi la mia preghiera. Forse troveremo vostro figlio, mio nipote: e se ciò avverrà, le sue avventure, le vostre, quelle di mia figlia e le mie, meriteranno di essere scritte, e tramandate alla posterità.» La vedova di Ali Nur ed-Din ascoltò questi discorsi con piacere, e fece preparare tutto per la partenza. Mohammed Shams ed-Din, chiese una seconda udienza, per congedarsi dal sultano, il quale lo colmò di onori insieme ad un dono considerevole per lui, ed un altro più ricco per il sultano d'Egitto: dopo ciò partì da Bassora e riprese il cammino di Damasco. Allorché fu vicino a questa città, fece piantare le sue tende fuori dalla porta, per la quale doveva entrare, e si propose di soggiornarvi tre giorni per far riposare il suo equipaggio e per comprare qualche curiosità degna d'essere presentata al sultano d'Egitto. Mentre si occupava egli medesimo a scegliere le più belle stoffe che i migliori mercanti avevano recato sotto le sue tende, Agìb pregò l'eunuco, sua guida, di condurlo a passeggiare per la città, avendo gran piacere di saper notizie del pasticcere da lui ferito. L'eunuco acconsentì, entrarono in Damasco per la porta del Paradiso, la più vicina alle tende del visir Mohammed Shams ed-Din; percorsero le grandi piazze, i luoghi pubblici e coperti, dove si vendevano le mercanzie più ricche, e videro l'antica moschea degli Ommiadi. Passarono poi davanti alla bottega di Hasan Badr ed-Din, e lo ritrovarono occupato a far torte di fior di latte. «Io vi saluto», gli disse Agìb, «guardatemi. Vi ricordate di avermi già visto?» A queste parole Badr ed-Din lo fissò e riconosciutolo (o meraviglioso effetto dell'amore paterno!), sentì la stessa commozione della prima volta, e si confuse: invece di rispondere, restò immobile per lungo tempo, senza poter profferire una sola parola. Poi, rinvenuto dal suo sbalordimento: «Mio piccolo signore», disse, «fatemi la grazia di entrare un'altra volta nella mia bottega col vostro zio, per mangiare una torta di fior di latte. Vi supplico di perdonarmi la pena arrecatavi quella volta seguendovi. Ero fuori di me, né sapevo ciò che facevo. Voi mi trascinavate, senza che io potessi resistere ad una violenza tanto cara». Agìb, meravigliato di quanto diceva Badr ed-Din, rispose: «L'ardore che mi dimostrate è eccessivo, e non entrerò nella vostra bottega se prima non mi giurate di non seguirmi quando ne sarò uscito. Se lo promettete e manterrete la promessa tornerò a vedervi domani, mentre il visir mio nonno comprerà di che poter fare un regalo al sultano d'Egitto». «Mio piccolo signore», ripigliò Hasan Badr ed-Din, «farò quanto mi comandate.» Allora, Agìb e l'eunuco entrarono nella bottega. Badr ed-Din subito presentò loro una torta di fior di latte, non meno eccellente né meno delicata di quella della prima volta. «Venite», disse Agìb, «sedete vicino a me, e mangiate con noi.» Badr ed-Din, essendosi seduto, voleva abbracciare Agìb, per la gioia che provava di vederselo vicino, ma il ragazzo lo respinse dicendo: «Trattenetevi; il vostro amore è troppo vivo. Contentatevi di guardarmi e di divertirmi». Badr ed-Din obbedì, e cantò una canzone improvvisata in onore di Agìb. Non mangiò, né fece altro se non servire i suoi ospiti. Dopo che ebbero finito di mangiare, presentò loro di che lavarsi, porgendo una tovaglia bianchissima per asciugarsi le mani. Preso poi un vaso di sorbetto ne riempì una gran tazza di porcellana, dove mise della neve. Presentando poi il vassoio al piccolo Agìb: «Prendete», disse, «questo sorbetto di rosa, è il più delicato che si possa trovare in tutta la città». Agìb avendone bevuto con piacere, Hasan Badr ed-Din riprese il vassoio e lo presentò all'eunuco, il quale bevve a lunghi sorsi tutto il liquore sino all'ultima goccia. Agìb e il suo compagno, sazi finalmente, ringraziarono il pasticcere della sontuosa colazione, e si ritirarono in fretta, perché era già un po' tardi. Giunti alle tende di Mohammed Shams ed-Din, andarono subito a quella delle dame. La nonna di Agìb fu molto contenta di rivederlo: e poiché aveva sempre presente il figlio Badr ed-Din, non poté trattenere le lacrime abbracciando Agìb. «Ah! figlio mio», gli disse, «la mia gioia sarebbe perfetta se avessi il piacere di abbracciare tuo padre Hasan Badr ed-Din, come abbraccio te.» E allora mettendosi a tavola per cenare, lo fece sedere vicino, interrogandolo sopra la sua passeggiata e offrendogli un pezzo di torta di fior di latte, come pure all'eunuco. Agìb, dopo aver assaggiato un bocconcino della torta di fior di latte, finse di non trovarla di suo gusto e la lasciò intera, e Shahan, così si chiamava l'eunuco, fece lo stesso. La vedova di Ali Nur ed-Din, accortasi con dispiacere del poco conto che suo nipote faceva della sua torta, «Come, figlio mio», gli disse, «è possibile che tu disprezzi l'opera delle mie mani? Nessuno al mondo è capace di fare torte così buone, all'infuori di tuo padre Hasan Badr ed-Din al quale ho insegnato la grande arte di farne delle simili». 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