Le Mille e Una Notte Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato.
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Sotto il regno del califfo Harùn ar-Rashìd c'era a Bagdàd un ricco mercante, che aveva una moglie già vecchia. Avevano un figlio che si chiamava Abu-Hassàn, di trent'anni circa, che era stato allevato con grande parsimonia. Il mercante morì, e Abu-Hassàn entrò in possesso delle molte ricchezze che suo padre aveva accumulate facendo grandi risparmi e prodigando grandi cure ai suoi affari. Il figlio, che aveva mire e inclinazioni diverse da quelle di suo padre, ne fece un uso opposto. Siccome suo padre non gli aveva mai dato denaro al tempo della sua giovinezza, se non appena il necessario, ed egli aveva sempre invidiato gli altri suoi coetanei che non ne erano mai privi, e potevano godere tutti quei piaceri ai quali la gioventù con troppa facilità si abbandona, decise di segnalarsi ora facendo spese proporzionate alle grandi ricchezze che la fortuna gli aveva offerto. A questo scopo divise le sue ricchezze in due parti: l'una fu adoperata in acquisti di campi e di case in città, per assicurarsi una rendita sufficiente per vivere con tutti i comodi, col proposito di non toccare le somme che ne avrebbe ricavato, ma di accumularle man mano che le avesse riscosse; l'altra parte, che consisteva in una considerevole somma di denaro, fu destinata a compensarlo di tutto il tempo che credeva di aver perduto sotto la dura disciplina con cui suo padre lo aveva allevato fino alla sua morte, ma si obbligò a non spendere nulla oltre quella somma per divertirsi nella vita dissoluta che si era proposta. Con questo programma Abu-Hassàn si formò in pochi giorni una compagnia di persone della sua età e della sua condizione, e non pensò ad altro che a passare il tempo con loro in tutti i piaceri possibili. Non si accontentò perciò di invitarli giorno e notte, e offrire loro banchetti splendidi, durante i quali erano servite con grande abbondanza vivande raffinate e vini prelibati: ma aggiunse anche la musica, facendo venire i migliori cantanti dell'uno e dell'altro sesso, a cui si univano spesso anche i suoi amici che cantavano col bicchiere in mano. Questi conviti per lo più terminavano con balli, nei quali erano invitati i migliori ballerini e le migliori ballerine della città di Bagdàd. Tutti questi divertimenti, ogni giorno rinnovati con nuovi piaceri, impegnarono Abu-Hassàn in spese tanto grandi, che non poté continuare una vita così dispendiosa per più di un anno. Infatti la somma, che aveva destinato a queste prodigalità, fu ben presto esaurita. Quando cessò di tenere tavola imbandita, i suoi amici sparirono, e non li incontrava mai ovunque andasse. Infatti essi fuggivano subito, appena lo vedevano, e se per caso ne raggiungeva qualcuno, e accennava a fermarlo, quegli si schermiva con mille pretesti. Abu-Hassàn fu più afflitto dalla stravagante condotta dei suoi amici che lo abbandonavano con tanta ingratitudine, dopo tutte le proteste di affetto che gli avevano fatte, che da tutto il denaro che aveva speso per loro tanto male a proposito. Triste, pensieroso, col capo chino e col viso pallido per il rammarico, entrò nell'appartamento di sua madre, e si sedette sull'orlo di un sofà molto lontano da lei. "Che hai dunque, figlio mio?", gli chiese sua madre, vedendolo in quello stato. "Perché sei tanto mutato, e oppresso, e così diverso dal solito? Se avessi perduto tutto quanto hai al mondo, non potresti essere più triste." A tali parole Abu-Hassàn si mise a piangere ed esclamò: "Madre mia, ho capito ora, dalla dolorosa esperienza, quanto la povertà sia insopportabile. Chi è povero è considerato perfino dai suoi parenti e amici, come un estraneo. Voi sapete, madre mia", proseguì, "in quale maniera mi sia comportato con i miei amici, per un anno intero. Li ho invitati ai conviti più splendidi che si possano immaginare, fino a consumare tutto il mio danaro e ora mi accorgo che tutti mi hanno abbandonato. Per ciò che riguarda la mia rendita, ringrazio il cielo di avermi ispirato di conservarla, facendo il giuramento che ho fatto di non toccarla. Osserverò questo giuramento, e so quale uso farò di quanto fortunatamente mi rimane. Ma prima voglio sperimentare fino a che punto i miei amici (se meritano ancora di essere chiamati tali) spingeranno la loro ingratitudine. Li voglio vedere tutti, uno dopo l'altro, e quando avrò mostrato quanti sforzi ho fatto per loro li pregherò di raccogliere una somma, che in qualche maniera serva a risollevarmi dallo stato infelice in cui, per fare piacere a loro, mi sono ridotto: ma voglio fare questo esperimento, come già vi ho detto, solo per vedere se troverò un sentimento di gratitudine in qualcuno di loro". "Figlio mio", rispose la madre di Abu-Hassàn, "non intendo dissuaderti dal fare questa prova: ma ti posso dire purtroppo che la tua speranza è mal fondata. Credi, qualunque cosa tu possa fare, questo esperimento sarà inutile, perché non troverai soccorso che in ciò che tu stesso hai messo da parte. Vedo bene che non conosci ancora questi amici, ma presto li conoscerai. Voglia il cielo che ciò avvenga nella maniera che io auguro, e cioè per il tuo bene. Guadagnare navigando! Acquisti prodotti e servizi. Guadagnare acquistando online. "Madre mia", ripigliò Abu-Hassàn, "sono persuaso della verità di quanto mi dite, ma sarò più certo di questo fatto, che tanto mi tocca, quando mi sarò assicurato da me stesso della loro viltà e insensibilità." Abu-Hassàn se ne partì subito, scelse così bene il momento, che trovò tutti i suoi amici ognuno a casa sua. Egli descrisse loro il gran bisogno in cui era, e li pregò di aprirgli i loro scrigni per soccorrerlo. Promise d'impegnarsi con ognuno di loro a restituire le somme che gli avessero prestato, non appena fossero ristabiliti i suoi affari, facendo anche notare che si era ridotto in quello stato in gran parte per far loro piacere, sperando in tal modo di suscitare la loro generosità. Non tralasciò neppure di lusingarli, facendo loro sperare che un giorno avrebbe potuto ricominciare a invitarli come aveva fatto per il passato. Nessuno dei suoi amici fu commosso dalle vivaci espressioni con cui l'afflitto Abu-Hassàn tentò di persuaderli. Oltre a ciò ebbe anche la mortificazione di vedere che molti gli dicevano esplicitamente che non lo conoscevano, e che non si ricordavano di averlo mai visto. Ritornò per questo a casa col cuore gonfio di dolore e di sdegno. "Ah! madre mia", esclamò, rientrando nel suo appartamento, "l'avevate ben detto! Invece di amici ho trovato dei perfidi e degli ingrati, indegni della mia amicizia! Io vi rinuncio e vi prometto di non rivederli ma più!" Abu-Hassàn rimase fermo nella propria determinazione di mantenere questa promessa. A questo fine mise in atto tutte le cautele più adatte a sfuggire le occasioni: e, per non ricadere nella stessa situazione, promise con giuramento di non banchettare più, per tutta la sua vita, con persone di Bagdàd. Prese poi lo scrigno dove stava il danaro delle sue rendite da dove lo aveva messo in serbo, e lo mise al posto di quello ormai vuoto. Decise allora di non prenderne per le sue spese giornaliere se non una somma fissa, sufficiente per invitare decorosamente una sola persona a cenare con lui. Fece inoltre giuramento che questa persona non dovesse esser di Bagdàd, ma forestiera e giunta in quello stesso giorno, e che il giorno seguente l'avrebbe congedata, dopo averla ospitata solamente per una notte. Seguendo questo programma, Abu-Hassàn provvedeva di persona a fare ogni mattina la provvista necessaria per questo banchetto, e verso la fine del giorno andava a sedersi sul ponte di Bagdàd, e non appena vedeva un forestiero, di qualunque stato o condizione fosse, lo fermava con molta cortesia, invitandolo a fargli l'onore di andare a cena e a dormire in casa sua per la prima notte del suo soggiorno: e dopo averlo informato della regola che si era imposta e della condizione che aveva messo alla sua prodigalità, lo conduceva nella propria abitazione. Il banchetto che Abu-Hassàn preparava al suo ospite non era sontuoso, ma c'era tutto il necessario, e in particolare non mancava il buon vino. Si prolungava il convito finché la notte era molto avanzata, e invece di intrattenere il suo ospite sui problemi dello stato, o sulla famiglia, o sugli affari, come di solito accade, badava al contrario di non parlare che di cose indifferenti, simpatiche e piacevoli. Era naturalmente faceto, di buon gusto, molto compiacente e sapeva parlare con grazia su qualsiasi argomento, dando allegria anche ai più malinconici. Quando, nel giorno seguente, congedava il suo ospite, egli soleva dirgli: "In qualunque luogo possiate andare, il cielo vi preservi da ogni ragione di rammarico! Nell'invitarvi ieri a venire a cena in casa mia, vi informai della regola che mi sono prescritta; sicché non vi dispiaccia se vi dico che non ceneremo più insieme e che non ci rivedremo più, né in casa mia né altrove, perché ho le mie buone ragioni per comportarmi così. Perciò il cielo vi guidi!". Abu-Hassàn era molto scrupoloso nell'osservare questa regola. Non guardava più i forestieri, una volta che li aveva accolti in casa sua, né parlava più con loro. Quando li incontrava, o nelle piazze, o nelle pubbliche adunanze, faceva finta di non vederli, oppure si voltava da un'altra parte per evitare che lo fermassero: insomma non aveva più nessun contatto con loro. Era qualche tempo che viveva in tal modo, quando un giorno, poco prima del tramonto del sole, mentre stava seduto al suo solito posto sul ponte, apparve il califfo Harùn ar-Rashìd, ma travestito, di modo che non lo riconobbe. Questo monarca infatti, pur avendo ministri ed ufficiali capi di giustizia, di una grande precisione nel puntuale adempimento dei loro doveri, voleva informarsi su ogni cosa, personalmente. E, a tale scopo, come abbiamo già visto, se ne andava spesso travestito in modi diversi per la città di Bagdàd. Non trascurava neppure di uscire dalla città, e anzi era sua abitudine andare ogni primo del mese sulle strade maestre lungo le quali si fermava, ora da una parte, ora dall'altra. Quel giorno, che era appunto uno di quelli dedicati a queste escursioni, comparve travestito da mercante di Mussul. Siccome il califfo aveva nel suo travestimento un'aria imponente e rispettabile, Abu-Hassàn, credendolo un mercante di Mussul, si alzò e, dopo averlo salutato con tono grave e gentile, gli baciò le mani e gli disse: "Signore, sono lieto del vostro felice arrivo, e vi supplico di farmi l'onore di venire a cenare da me e di passare la notte in casa mia, per riposarvi delle fatiche del viaggio". E per obbligarlo a non negargli la grazia che gli aveva chiesta, gli espose in poche parole la sua abitudine di accogliere giornalmente in casa sua, finché gli fosse stato possibile, e per una notte solamente, il primo forestiero che gli si presentava. Il califfo trovò qualche cosa di tanto singolare nella bizzarria del proposito di Abu-Hassàn, che gli venne voglia di conoscerlo meglio. Perciò, senza smentire la sua qualifica di mercante, lo assicurò che era grato della sua cortesia, che non si aspettava certo di trovare al suo arrivo a Bagdàd, e accettava volentieri l'offerta che gli faceva: e lo pregò di indicargli la strada, dato che era pronto a seguirlo. Abu-Hassàn, non sapendo che l'ospite che la sorte gli aveva mandato fosse infinitamente superiore a lui, si comportò col califfo come se fosse stato un suo pari. Lo condusse a casa sua, e lo introdusse in una camera ornata con molto gusto, dove gli fece occupare il posto di maggior riguardo. La cena era pronta. La madre di Abu-Hassàn, che aveva molta abilità nel cucinare, portò in tavola tre piatti, uno, nel mezzo, con un grosso cappone circondato da quattro buoni pollastri, mentre negli altri due, che servivano da antipasto, c'erano, nell'uno un'oca grassa, e nell'altro dei colombi in guazzetto. Non c'era niente altro: ma queste vivande erano raffinate e di un gusto squisito. Abu-Hassàn si mise a tavola di fronte al suo ospite, il califfo, e cominciarono a mangiare di buon appetito, pigliando ognuno quanto si confaceva al suo gusto, senza parlare, e senza bere, secondo l'usanza in vigore in quel paese. Quando ebbero terminato di mangiare, lo schiavo del califfo porse loro da lavarsi, mentre la madre di Abu-Hassàn, dopo avere sparecchiata la tavola, portò la frutta; ce n'era di tutte le qualità, relativamente alla stagione, e cioè uva, noci, pere, e molti tipi di paste di mandorle secche. Sul finire del giorno accese le candele; dopo di che Abu-Hassàn fece portare le bottiglie e le tazze vicine a sé, e si preoccupò che sua madre facesse mangiare lo schiavo del califfo. Quando il presunto mercante di Mussul - cioè il califfo - ebbe finito di mangiare, Abu-Hassàn, prima di servirsi della frutta, prese una tazza, vi versò del vino che bevve per primo, e tenendola nelle mani: "Signore", disse al califfo, che credeva fosse un mercante di Mussul, "voi sapete che il gallo non beve senza prima chiamare le galline a bere in sua compagnia: v'invito dunque a seguire il mio esempio. Non so ciò che ne pensate: in quanto a me credo che un uomo che odia il vino e pretenda di essere saggio, veramente non lo sia. Non parliamo di queste persone, e lasciamole nel loro umore malinconico e fastidioso, e ricerchiamo l'allegria: essa è nella tazza, e la tazza la comunica a quelli che la vuotano". Mentre Abu-Hassàn beveva: "Questo mi piace", disse il califfo, prendendo la tazza che gli era destinata. "Mi piace il vostro umore allegro! Aspetto che me ne versiate". Abu-Hassàn appena ebbe bevuto, riempendo la tazza che il califfo gli porgeva, rispose: "Assaggiatelo, signore, e lo troverete ottimo!". "Ne sono persuaso", rispose il califfo, "non è possibile che un uomo come voi non sappia sceglierlo." Mentre lui beveva, Abu-Hassàn soggiunse: "Basta guardarvi per accorgersi al primo sguardo che voi siete una persona che ha viaggiato per il mondo e che sa vivere. Se la mia casa", continuò in versi arabi, "fosse capace di sentimento, e potesse essere sensibile alla fortuna che le capita ospitandovi, lo mostrerebbe chiaramente e prostrandosi davanti a voi, esclamerebbe: "Ah! che piacere, che felicità, vedermi onorata dalla presenza di una persona tanto cortese e compiacente, che non sdegna di essere accolta da me!". Insomma, signore, io sono al colmo della gioia per essermi oggi imbattuto in un uomo del vostro merito". Queste facezie di Abu-Hassàn divertivano molto il califfo, che era di carattere assai allegro, e voleva stimolarlo a bere chiedendo egli stesso ripetutamente del vino, per conoscerlo meglio durante la conversazione grazie all'allegria che il vino gli doveva inspirare. Per intavolare la conversazione, gli domandò come si chiamasse, di che si occupasse e come passasse il tempo. "Signore", gli rispose, "il mio nome è Abu-Hassàn. Ho perso mio padre che era mercante, non certamente tra i più ricchi, ma almeno tra quelli che vivevano più comodamente a Bagdàd. Alla sua morte mi lasciò un'eredità più che sufficiente per vivere senza eccessivo lusso, secondo il mio stato. Siccome la sua condotta nei miei confronti era stata molto severa, e fino alla sua morte avevo passata la maggior parte della mia gioventù in grandi strettezze, volli recuperare il tempo che credevo di aver perduto. Ma", proseguì Abu-Hassàn, "io mi comportai diversamente da come si comportano di solito tutti gli altri giovani, che si danno inconsideratamente alla crapula, e vi si abbandonano fino a che, ridotti ad una estrema povertà, si trovano contro voglia costretti a fare penitenza per il resto dei loro giorni. Per non cadere in questa disgrazia; divisi le mie sostanze in due parti, una in latifondi e una in danaro. Destinai il denaro alle spese che desideravo fare per divertirmi, e formulai il fermo proposito di non toccare le mie rendite. Radunai un gruppo di persone di mia conoscenza e della mia età, e col danaro che spendevo a piene mani, li invitavo ogni giorno con gran lusso, e in maniera che nulla mancasse ai nostri divertimenti. Ma non durò molto, perché alla fine dell'anno non avevo più denaro nel mio scrigno; allora tutti i miei amici scomparvero. Li rividi uno dopo l'altro, dissi loro dello stato infelice in cui mi trovavo, ma nessuno mi aiutò. Rinunciai dunque alla loro amicizia, e riducendomi a spendere la mia rendita, m'impegnai a privarmi di ogni compagnia, fuorché di quella del primo forestiero che avrei incontrato al suo arrivo a Bagdàd, a condizione di invitarlo per un giorno solo. Vi ho informato del rimanente, e ringrazio la mia buona sorte di avermi oggi fatto incontrare un forestiero come voi." Il califfo, molto soddisfatto di questa spiegazione, disse ad Abu-Hassàn: "Non potrei lodarvi abbastanza per la buona risoluzione che avete preso, per essere stato tanto prudente, anche mentre gozzovigliavate, e per esservi comportato in una maniera che non è comune alla gioventù. Vi stimo ancor più per esser stato fedele a voi stesso, fedele fino al punto che mi avete detto. La cosa era molto pericolosa, e non posso fare a meno di ammirare la forza con cui, dopo aver visto la fine di tutto il vostro danaro, avete conservato abbastanza moderazione per non dissipare la vostra rendita, e anche i vostri capitali. Per dirvi ciò che penso, credo che voi siete il solo dissoluto, cui sia accaduto un fatto simile e che forse non accadrà mai più a nessun altro. Vi confesso insomma che invidio la vostra felicità. Voi siete l'uomo più felice che vi sia sulla terra perché godete ogni giorno della compagnia di un uomo onesto con cui vi intrattenete piacevolmente, ed al quale date occasione di rendere nota dappertutto la buona accoglienza che gli avete fatto. Ma, né io né voi, ci avvediamo che da lungo tempo parliamo senza bere: perciò bevete e versatene anche a me". Il califfo ed Abu-Hassàn continuarono in tal modo per molto tempo a bere, parlando di cose piacevoli. La notte era già inoltrata e il califfo, fingendo di essere stanco dal cammino che aveva fatto, disse ad Abu-Hassàn, che aveva bisogno di riposo. "E non voglio", soggiunse, "che perdiate del sonno per amor mio. Prima che ci separiamo - perché forse domani sarò uscito dalla vostra casa prima che siate desto - desidero dirvi quanto vi sia grato della vostra cortesia, del vostro convito, e dell'ospitalità che mi avete offerto con tanta cordialità. La sola cosa che mi dispiace è di non sapere con quale mezzo dimostrarvi la mia riconoscenza. Vi supplico di dirmelo voi, e vedrete che non sarò un ingrato. Non è possibile che un uomo come voi non abbia qualche affare qualche desiderio, o qualche altra cosa che gli farebbe piacere. Apritemi il vostro cuore, e parlatemi francamente. Benché io sia un semplice mercante, sono però in condizione di poter fare molte cose, da me e con l'intervento dei miei amici". A queste offerte del califfo, Abu-Hassàn, che credeva sempre fosse un mercante: "Mio buon signore", rispose, "sono persuaso che non solo per complimento mi fate tali generose offerte; ma posso assicurarvi, parola di galantuomo, che non ho dispiaceri, né affari, né desideri, e che non chiedo nulla a nessuno. Non ho ambizioni, come già vi ho detto, e sono contentissimo della mia sorte. Perciò a me non resta che ringraziarvi, non solamente delle vostre offerte tanto cortesi, ma anche di esservi compiaciuto di farmi l'onore di partecipare al mio modesto pasto. Vi dirò, però", proseguì Abu-Hassàn "che una sola cosa mi addolora, senza che peraltro disturbi il mio riposo. Voi sapete che la città di Bagdàd è divisa in quartieri, e che in ogni quartiere vi è una moschea con un imàm, per fare la preghiera alle ore indicate. L'imàm è un gran vecchio di aspetto severo, ma è un perfetto ipocrita, se mai ve ne fu uno. Per suo consiglio ha scelto quattro altri vecchioni miei vicini, gente simile a lui, e regolarmente ogni giorno si radunano in una casa. Nel loro conciliabolo, non vi è maldicenza, calunnia e malvagità, che non progettino contro di me e contro il quartiere, per disturbare la tranquillità, e far regnare la discordia, rendendosi temibili agli uni, e minacciando gli altri. Vogliono insomma farla da padroni, e che ognuno si regoli a seconda del loro capriccio, loro che non sanno governare se medesimi. A dire il vero ho gran pena vedendo che si occupano di tutto fuorché del loro Corano, e che non lasciano vivere la gente in pace". "Bene", riprese il califfo, "mi pare che vorreste trovare un mezzo per fermare questo stato di cose." "L'avete detto", rispose Abu-Hassàn, "e la sola cosa che chiederei al cielo, sarebbe di essere califfo, al posto del gran principe dei credenti, Harùn-ar-Rashìd, nostro sovrano, signore e padrone, per un giorno solamente." "Che fareste mai, se ciò accadesse?", domandò il califfo. "Farei una cosa che servirebbe di esempio", rispose Abu-Hassàn, "e che sarebbe molto gradita a tutte le persone dabbene. Farei dare cento colpi sulla pianta dei piedi a ognuno dei vecchi e quattrocento all'imàm, per insegnar loro che non devono importunare e addolorare così i loro vicini." "Il vostro desiderio mi piace", disse il califfo, "soprattutto perché nasce da un cuore sincero, e da un uomo che non può tollerare che la malvagità degli iniqui resti impunita. Mi piacerebbe molto di vederne l'effetto, e forse ciò può accadere più facilmente di quanto possiate immaginare. Sono persuaso che il califfo volentieri rinuncerebbe al suo potere e lo depositerebbe per ventiquattr'ore nelle vostre mani, se fosse informato delle vostre buone intenzioni e del buon uso che ne fareste. Benché io sia solo un mercante forestiero ho tuttavia abbastanza potere per cercare di contribuire a soddisfare il vostro desiderio." "Vedo bene", riprese Abu-Hassàn, "che vi burlate della mia fantasia, e anche il califfo se ne burlerebbe se venisse a conoscere una tale stravaganza. Tutto il vantaggio che potrebbe derivarne sarebbe che, conoscendo la condotta dell'imàm e dei suoi consiglieri, li farebbe punire." "Io non mi burlo di voi!", replicò il califfo. "Il cielo mi guardi dal fare una cosa simile con una persona come voi, che tanto generosamente mi ha invitato pur non conoscendomi, e vi assicuro che il califfo non se ne burlerebbe affatto. Ma lasciamo da parte simili discorsi, poiché non è più lontana la mezzanotte, ed è ora di andarcene a dormire!" "Interrompiamo dunque la nostra conversazione", disse Abu-Hassàn, "non voglio essere d'ostacolo al vostro riposo. Ma resta ancora del vino nella bottiglia, e bisogna, se volete, che la vuotiamo; dopo di che andremo a coricarci. La sola cosa che vi raccomando è che, nell'uscire domani mattina, se non fossi ancora sveglio, non lasciate la porta aperta, ma vi prendiate l'incomodo di chiuderla." Il califfo promise di eseguire fedelmente ciò che gli aveva chiesto. Mentre Abu-Hassàn parlava, il califfo si era impadronito della bottiglia e delle due tazze. Si versò il vino per primo, per dimostrare ad Abu-Hassàn che lo faceva per ringraziarlo. Quando ebbe bevuto gettò destramente nella tazza di Abu-Hassàn una certa polvere che aveva con sé, e vi versò sopra il resto del vino, porgendolo poi ad Abu-Hassàn. Abu-Hassàn prese la tazza, e per dimostrare al suo ospite con quanto piacere accogliesse l'onore che gli faceva, bevve, e vuotò la tazza quasi tutto d'un fiato. Ma appena ebbe deposta la tazza sulla tavola, la polvere produsse il suo effetto. Fu preso da un sonno tanto profondo, che il capo gli cadde quasi sulle ginocchia in maniera così subitanea, che il califfo non poté a meno di riderne. "Carica quest'uomo sulle tue spalle", disse il califfo al suo schiavo, "ma bada bene al luogo dove sta questa casa, per poterlo riportare qui quando io te lo comanderò." Il califfo, accompagnato dallo schiavo carico di Abu-Hassàn, uscì dalla casa, ma senza chiudere la porta sebbene Abu-Hassàn lo avesse pregato di farlo, e fece ciò a bella posta. Giunto al suo palazzo, vi entrò per una porta segreta, e si fece accompagnare dallo schiavo fino nel suo appartamento, dove tutti gli ufficiali della sua camera lo attendevano. "Spogliate quest'uomo", disse loro, "e coricatelo nel mio letto: vi comunicherò poi le mie intenzioni." Gli ufficiali spogliarono Abu-Hassàn, lo rivestirono dell'abito da notte del califfo e lo coricarono, secondo l'ordine ricevuto. Nessuno era ancora coricato nel palazzo, e il califfo fece venire tutti gli altri suoi ufficiali e tutte le dame, e quando furono alla sua presenza: "Voglio", disse loro, "che tutti quelli che hanno l'abitudine di trovarsi vicino a me quando mi alzo dal letto, vadano domattina da quest'uomo che vedete coricato nel mio letto, e che ognuno si comporti con lui, non appena si sarà svegliato, come ordinariamente si comporta verso di me. Voglio ancora che si abbiano per lui gli stessi riguardi usati per la mia persona, e che sia obbedito in tutto ciò che comanderà. Nulla gli venga negato di quanto potesse chiedere, né lo si contraddica in alcuna cosa che egli desideri. In tutte le occasioni, in cui si tratterà di parlargli e di rispondergli, dovrà essere considerato come il gran principe dei credenti. In una parola esigo che chi è accanto a lui non pensi alla mia persona e lo consideri come se egli fosse veramente quello che io sono, cioè il califfo ed il gran principe dei credenti. Soprattutto voglio che stiate attenti a non fare il minimo errore". Gli ufficiali e le dame, che compresero subito che il califfo voleva divertirsi, risposero con un profondissimo inchino: e subito ciascuno si preparò a fare del suo meglio per rappresentare bene la sua parte. Rientrando nel palazzo, il califfo aveva mandato il primo ufficiale in cui si era imbattuto a chiamare il gran visir Giàafar, e appena egli fu giunto al suo cospetto, gli disse: "Giàafar, ti ho fatto chiamare per avvisarti di non stupirti quando domani scorgerai, entrando nella camera dove concedo udienza, l'uomo che vedi coricato nel mio letto, seduto sul trono col mio abito da cerimonia. Servilo con la stessa stima e rispetto con cui sei solito servire il tuo sovrano, trattandolo da gran principe dei credenti. Ascolta ed esegui puntualmente quando egli ti comanderà, come se io stesso te lo ordinassi. Egli darà ordine di fare doni e di distribuire del denaro: fa ciò che ti dirà anche se dovessi dar fondo a tutte le mie finanze. Avverti inoltre tutti gli emiri, gli usceri e tutti gli altri di rendergli domani, durante l'udienza, gli stessi onori che di solito rendono a me e che fingano così bene che egli non debba accorgersi di nulla". Dopo che il gran visir si fu ritirato, il califfo passò in un altro appartamento, e coricandosi nel letto, diede a Masrùr capo degli eunuchi i suoi ordini, affinché tutto riuscisse come desiderava per accontentare lo strano desiderio di Abu-Hassàn, e vedere come si sarebbe servito del potere e dell'autorità di gran principe dei credenti, nel breve tempo che gli era concesso. E gli ordinò di svegliarlo prima di Abu-Hassàn. Masrùr non mancò di svegliare il califfo all'ora che gii aveva indicata, e il califfo entrò nella camera in cui Abu-Hassàn dormiva, poi andò a collocarsi in una stanzetta sopraelevata da cui poteva vedere molto bene attraverso una finestrella quanto avveniva, senza essere veduto. Tutti gli ufficiali e tutte le dame che dovevano essere presenti al risveglio di Abu-Hassàn, entrarono collocandosi ciascuno al suo solito posto, secondo il grado, nel più gran silenzio, e, come se quegli che stava per alzarsi fosse il califfo in persona, erano pronti ad esercitare la funzione cui erano destinati. Essendo già l'alba, ed essendo tempo di alzarsi per fare preghiera, l'ufficiale che stava più vicino al capezzale del letto, accostò alle narici di Abu-Hassàn una piccola spugna, imbevuta d'aceto. Abu-Hassàn starnutì subito, girando il capo, senza aprir gli occhi, e con un leggero sforzo gettò dalle narici del muco, che l'ufficiale fu pronto a ricevere in una bacinella d'oro per impedire che cadesse sopra il tappeto e lo sporcasse. Questo era l'effetto abituale provocato dalla polvere che il califfo gli aveva data, nel momento in cui cessava di provocare il sonno, che poteva essere più o meno lungo a seconda della dose. Riadagiando il capo sul guanciale, Abu-Hassàn aprì gli occhi e, alla poca luce del giorno che cominciava a spuntare si vide al centro di una grande e magnifica camera, superbamente ornata di arabeschi dorati, di gran vasi d'oro massiccio, di tende e di un tappeto d'oro e seta. Molte fanciulle leggiadre circondavano il letto, alcune delle quali reggevano diverse specie di strumenti che si tenevano pronte a suonare, ed eunuchi mori, tutti riccamente vestiti, stavano in piedi in posizione di profondo rispetto. Fissando lo sguardo sopra la coperta del letto, vide che era di broccato con fondo rosso ricamato di perle e di diamanti, e vicino al letto scorse un abito dello stesso drappo e con lo stesso ornamento, ed accanto vide un berretto da califfo. A tale spettacolo Abu-Hassàn rimase stupito e straordinariamente confuso. Guardava tutto come in sogno; sogno tanto realistico per lui che desiderava non lo fosse. "Bene", diceva fra sé, "eccomi diventato califfo: ma", soggiunse poco dopo come smentendosi, "non bisogna che m'inganni, questo è un sogno, effetto del desiderio di cui parlavo poco fa col mio ospite." Così dicendo chiuse di nuovo gli occhi, come per dormire. Nello stesso momento un eunuco gli si accostò, dicendogli: "Gran principe dei credenti, vostra maestà non si addormenti di nuovo: è tempo di alzarsi per fare la preghiera, poiché l'aurora ha già cominciato ad apparire". A queste parole, che recarono grande sorpresa ad Abu-Hassàn: "Sono sveglio o dormo?", diceva fra sé. "No, certamente dormo", e continuava a tenere gli occhi chiusi, "non devo dubitarne!". Un momento dopo l'eunuco, vedendo che non gli rispondeva né dava segni di volersi alzare, riprese la parola, e gli disse: "La maestà vostra permetterà che io le ricordi che è ora di alzarsi se non vuol lasciar passare il momento di fare la sua preghiera del mattino; il sole sta già per spuntare, e la maestà vostra non è solita mancare a questo dovere". "M'ingannavo", disse subito Abu-Hassàn, "non dormo; anzi son ben desto! Quelli che dormono non odono, e io odo ciò che mi viene detto." Aprì di nuovo gli occhi, e siccome il giorno era avanzato, vide in modo chiaro quanto non aveva osservato prima se non confusamente. Si sedette allora sul letto con un volto ridente come un uomo contento di vedersi in uno stato molto superiore alla sua condizione, e il califfo, che senza essere visto lo osservava, immaginò quel che pensava con grandissimo piacere. Allora le damigelle che gli stavano intorno, si prostrarono con la faccia a terra e quelle che tenevano gli strumenti gli dettero il buon giorno con un concerto di flauti, di pive e di altri strumenti: egli ne restò incantato, rapito in estasi, tanto che non sapeva più né dove, né chi fosse. Ritornò peraltro alla sua prima idea, e ancora era in dubbio se quanto vedeva e udiva fosse sogno, o realtà. Si mise la mano davanti agli occhi, ed abbassando il capo, disse fra sé: "Che mai vuol dire tutto questo? Cosa mi è accaduto? Che significa questo palazzo? Cosa indicano questi eunuchi, questi ufficiali di così bell'aspetto e così ben vestiti? Queste dame bellissime e questa musica che incanta? E possibile che io non possa capire se sogno, o se sono sveglio?". Si tolse finalmente le mani dagli occhi, li aprì ed alzando il capo vide che il sole entrava coi suoi primi raggi dalle finestre della camera. Allora Masrùr, capo degli eunuchi, entrò, e dopo essersi prostrato profondamente alla presenza di Abu-Hassàn, gli disse: "Gran principe dei credenti, la maestà vostra mi permetterà di farle notare, che ella non è solita alzarsi ad ora tanto tarda, e che ha lasciato passare l'ora della preghiera. Forse ha trascorso una cattiva notte, o è indisposta. Ormai le resta appena il tempo di salire sul trono per tenere il consiglio, e farsi vedere secondo il solito. I generali, i governatori delle sue province, e i grandi ufficiali della sua corte sospirano il momento in cui la porta della sala del consiglio sarà loro aperta". Al discorso di Masrùr, Abu-Hassàn si persuase che non dormiva, e che lo stato in cui si trovava non era un sogno. Peraltro era molto imbarazzato e confuso, non sapendo che fare. Guardò fissamente negli occhi Masrùr, e con voce seria gli chiese: "A chi dunque credete di parlare, e chi è che chiamate gran principe dei credenti, voi che io non conosco? Certamente mi prendete per un altro". Chiunque altro, fuorché Masrùr, sarebbe stato sconcertato dalla domanda di Abu-Hassàn: ma lui, istruito dal califfo, rappresentò meravigliosamente bene la sua parte. "Mio riverito signore e padrone!", esclamò, "la maestà vostra mi parla forse così per mettermi alla prova? Voi siete il gran principe dei credenti, il monarca del mondo dall'oriente all'occidente, ed il vicario sopra la terra del profeta, spedito dal cielo, padrone di questo mondo celeste e terrestre! Masrùr, vostro infimo schiavo, non lo ha mai dimenticato, dopo tanti anni che ha l'onore e la buona sorte di prestare i suoi omaggi e le sue virtù alla maestà vostra. Egli sarebbe il più infelice degli uomini se fosse incorso nella vostra ira, e umilissimamente vi supplica di avere la bontà di rassicurarlo." Abu-Hassàn a queste parole di Masrùr proruppe in un grande scoppio di risa, e si lasciò ricadere sul cuscino, con gran giubilo del califfo, che avrebbe riso nello stesso modo se non avesse temuto di porre fine alla scena, che era invece appena cominciata e che voleva godersi. Abu-Hassàn, dopo aver riso a lungo, si mise di nuovo a sedere, e voltandosi a un piccolo eunuco moro come Masrùr, gli disse: "Ascolta, dimmi chi sono?" "Signore", rispose il piccolo eunuco con aria rispettosa, "la maestà vostra è il gran principe dei credenti, e il vicario in terra del padrone dei due mondi!" "Tu sei un bugiardo, faccia dipinta!", ripigliò Abu-Hassàn. Chiamò poi una dama, che gli stava più vicina delle altre: "Avvicinatevi, bella signora", le disse, porgendole la mano, "vi prego di mordermi la punta del dito, per rendermi conto se dormo o son desto". La dama, che sapeva che il califfo era spettatore di quanto avveniva nella camera, fu molto contenta di avere l'occasione di mostrargli quanto fosse brava, allorché si doveva divertirlo. Si avvicinò dunque ad Abu-Hassàn con tutta la serietà possibile, e stringendo leggermente tra i denti la punta del dito che egli le tendeva, gli fece sentire un po' di dolore. Ritirando prontamente la mano, Abu-Hassàn esclamò: "Non dormo, no, certamente non dormo! Per quale miracolo sono dunque diventato califfo in una notte? Questa è la cosa più meravigliosa e sorprendente del mondo!". Voltandosi poi alla stessa dama, le disse: "Non nascondetemi la verità, ve ne scongiuro, che Maometto vi protegga. E' proprio vero che sono il gran principe dei credenti?". "La maestà vostra è", rispose la dama, "il gran principe dei credenti; ciò è tanto vero che noi tutte quante siamo qui vostre schiave, siamo assai stupite che voi vogliate far credere di non esserlo." "Siete una bugiarda", riprese Abu-Hassàn, "lo so ben io quello che sono." Quando il capo degli eunuchi s'accorse che Abu-Hassàn voleva alzarsi, gli porse la mano e lo aiutò ad uscire dal letto. Appena fu in piedi, la camera risuonò del saluto che tutti gli ufficiali e le dame gli fecero in coro, acclamandolo con queste parole: "Gran principe dei credenti, il cielo benigno conceda un giorno fortunato alla maestà vostra!". "Ah cielo, che meraviglia!", esclamò allora Abu-Hassàn, "ieri sera ero Abu-Hassàn, e stamattina sono il gran principe dei credenti! Non ci capisco nulla in un cambiamento tanto repentino e sorprendente." Gli ufficiali destinati a questo compito lo vestirono con sollecitudine, e quando ebbero terminato, gli altri ufficiali, gli eunuchi e le dame si disposero in due file fino alla porta per la quale doveva entrare nella camera del consiglio. Masrùr camminò avanti e Abu-Hassàn gli tenne dietro. Sollevata la tenda e aperta la porta da un usciere, Masrùr entrò nella camera del consiglio e camminò ancora davanti a lui fino ai piedi del trono, dove si fermò per aiutarlo a salire, sorreggendolo sotto un'ascella, mentre un altro ufficiale, che lo seguiva, lo aiutava ugualmente dall'altra parte. Abu-Hassàn si sedette tra le acclamazioni degli uscieri, che gli auguravano ogni sorta di felicità e prosperità, e volgendosi ora a destra ora a sinistra vide gli ufficiali delle guardie disposti in bell'ordine e con atteggiamento deferente. Il califfo era uscito dalla stanza dove stava nascosto, quando Abu-Hassàn era entrato nella camera del consiglio, ed era passato in un'altra stanza che si affacciava sulla sala, per cui poteva vedere ed udire quanto avveniva nel consiglio, come era solito fare, quando il suo gran visir presiedeva in vece sua, perché qualche motivo gli impediva di assistervi personalmente. Ciò che da principio gli piacque di più, fu di vedere che Abu-Hassàn si teneva sul trono con molta gravità. Non appena Abu-Hassàn si fu seduto al suo posto, il gran visir Giàafar, che giungeva in quel momento, si prostrò davanti a lui ai piedi del trono, poi si rialzò e guardandolo: "Gran principe dei credenti", disse, "il cielo ricolmi la maestà vostra dei suoi favori in questa vita, la riceva nel suo paradiso nell'altra, e precipiti i suoi nemici nelle fiamme dell'inferno!". Abu-Hassàn, dopo quanto gli era accaduto, da quando si era svegliato, e da quanto aveva udito dalla bocca del gran visir, non dubitò più di essere il califfo, come aveva desiderato. E, senza più domandarsi come ciò potesse essere accaduto, o per quale motivo gli fosse capitato un cambiamento di fortuna tanto inaspettato, decise subito di esercitarne il potere: cosicché chiese al gran visir, guardandolo con gravità, se avesse qualche cosa da dirgli. "Gran principe dei credenti", ripigliò il gran visir, "gli emiri, i visir e gli altri ufficiali, che prendono parte al consiglio di vostra maestà, sono alla porta e sospirano il momento di poter presentare i loro soliti omaggi." Abu-Hassàn ordinò subito che venisse loro aperta la porta, e il gran visir, rivolgendosi al capo degli uscieri, disse: "Il gran principe dei credenti comanda che eseguiate il vostro dovere!". La porta fu aperta e nello stesso tempo i visir, gli emiri ed i principali ufficiali della corte, tutti in abiti magnifici da cerimonia, entrarono in bell'ordine, inoltrandosi fino ai piedi del trono, per presentare i loro omaggi ad Abu-Hassàn, ognuno, come richiedeva il suo grado, col ginocchio a terra e la fronte sul tappeto, e col rispetto dovuto alla persona stessa del califfo. Lo salutarono, dandogli il titolo di gran principe dei credenti secondo gli ordini che aveva loro impartiti il gran visir. Terminata la cerimonia, ciascuno prese posto e tutti se ne stettero in gran silenzio. Il gran visir allora, sempre in piedi davanti al trono, cominciò la relazione su molti affari, secondo l'ordine dei documenti che teneva tra le mani. Gli affari erano di ordinaria amministrazione e di poca importanza, ma anche così Abu-Hassàn suscitò l'ammirazione perfino del califfo: non solo non si mostrò inetto, ma neppure parve imbarazzato. Giudicò saggiamente su tutto, secondo quanto il buon senso gli suggeriva, sia che si trattasse di concedere, o di negare quanto gli veniva chiesto. Prima che il gran visir avesse terminata la sua esposizione, Abu-Hassàn vide il luogotenente di polizia, che egli conosceva di vista, seduto al suo posto. "Aspettate un momento", disse allora al gran visir interrompendolo, "ho un ordine che mi preme da dare al luogotenente di polizia." Il luogotenente, che teneva gli occhi fissi su Abu-Hassàn e che si accorse che guardava lui in particolare, udendosi chiamare per nome, si alzò dal suo posto, e con gravità si avvicinò al trono, davanti al quale si prostrò con la faccia a terra: "Luogotenente", gli disse Abu-Hassàn, dopo che egli si fu rialzato, "andate subito, e senza perdere tempo, nel quartiere tale, nella strada tale", e glieli indicò. "C'è in quella strada una moschea dove troverete l'imàm, e quattro vecchi dalla barba bianca. Prendeteli, e fate dare a ognuno dei quattro vecchi cento colpi con nerbi di bue, e quattrocento all'imàm. Poi li farete salire tutti sopra dei cammelli, vestiti di cenci, e con la faccia voltata verso la coda del cammello. In questa guisa li farete condurre attraverso tutti i quartieri della città preceduti da un banditore, che ad alta voce griderà: "Così si castigano quelli che s'impicciano degli affari altrui, e non hanno altra occupazione se non quella di seminare la discordia nelle famiglie dei loro vicini, cagionando a questi il maggior male che possono". Voglio inoltre che ingiungiate loro di cambiare quartiere con la proibizione di rimettere mai più piede in quello dal quale sono stati scacciati. Mentre i vostri ufficiali faranno loro fare questa passeggiata, tornerete a rendermi conto dell'esecuzione dei miei ordini". Il luogotenente di polizia si pose la mano sopra il capo per dimostrare che avrebbe eseguito l'ordine avuto, sotto pena di ricevere egli stesso un simile castigo se vi mancava. Si prostrò una seconda volta davanti al trono, e, dopo essersi rialzato, se ne andò. Quest'ordine, emanato con tanta fermezza, fece al califfo un grandissimo piacere perché vide che non si lasciava sfuggire l'occasione per castigare l'imàm e i vecchi del suo quartiere, giacché la prima cosa alla quale aveva pensato vedendosi califfo, era stata quella di farli castigare. Il gran visir intanto continuò a esporre la sua relazione, e stava per terminarla, quando il luogotenente di polizia, essendo ritornato, si presentò per render conto della sua missione. Accostandosi al trono, dopo la solita cerimonia dell'inchino, disse ad Abu-Hassàn: "Gran principe dei credenti, ho trovato l'imàm ed i quattro vecchi nella moschea, che la maestà vostra mi ha indicato, ed a prova del fatto che ho fedelmente adempiuto all'ordine che avevo ricevuto da vostra maestà, eccovi il verbale firmato da molti testimoni tra i cittadini più importanti del quartiere". Mentre parlava, cavò un foglio dalla tasca e lo presentò al presunto califfo. Abu-Hassàn prese il verbale, lo lesse, fino ai nomi dei testimoni, che erano tutte persone a lui ben note, e, terminato che ebbe, disse al luogotenente, sorridendo: "Tutto è stato eseguito ottimamente, e sono molto soddisfatto! Riprendete il vostro posto. Questi bacchettoni", disse fra sé, con allegria, "che pretendevano di censurare le mie operazioni, e criticavano che io ricevessi in casa mia della brava gente, meritavano davvero questo castigo". Il califfo, che l'osservava, indovinò il suo pensiero, e provò in sé un'indicibile gioia per quella spedizione così riuscita. Abu-Hassàn rivolgendosi poi al gran visir, gli disse: "Fatevi consegnare dal gran tesoriere una borsa con mille dinàr, e andate al quartiere dove ho mandato il luogotenente di polizia, e portatela alla madre di un certo Abu-Hassàn soprannominato il Crapulone; è ben conosciuto in tutto il quartiere sotto questo nome, e tutti potranno indicarvi la sua casa. Andate e tornate presto!". Il gran visir Giàafar si pose la mano sul capo, per dimostrare la sua prontezza nell'obbedire, e dopo essersi prostrato davanti al trono, uscì e andò dal gran tesoriere, che gli consegnò la borsa. La fece prendere da uno degli schiavi che lo accompagnavano e andò a portarla alla madre di Abu-Hassàn. La trovò e le disse che il califfo le mandava quel regalo, senza spiegarle altro. Ella lo ricevette con grande sorpresa, non potendo immaginare che cosa avesse spinto il califfo ad essere tanto generoso con lei, poiché non sapeva ciò che accadeva al palazzo. Durante l'assenza del gran visir, il luogotenente di polizia fece la sua relazione su molti affari che riguardavano il suo compito, e questa esposizione durò fino al ritorno del visir. Quando fu rientrato nella camera del consiglio, ed ebbe assicurato Abu-Hassàn di aver adempiuto al suo ordine, il capo degli eunuchi, Masrùr, che si era ritirato nell'interno del palazzo dopo aver accompagnato Abu-Hassàn fino al trono, ritornò e dimostrò con un cenno ai visir, agli emiri ed a tutti gli ufficiali che il consiglio era terminato e che ognuno poteva ritirarsi: il che fecero dopo aver preso congedo con un profondo inchino ai piedi del trono, nello stesso ordine con cui erano entrati. Non rimasero vicino ad Abu-Hassàn, se non gli ufficiali della guardia del califfo, ed il gran visir. Abu-Hassàn, senza rimanere oltre sul trono del califfo, discese nella maniera in cui era salito, cioè con l'aiuto di Masrùr e di un altro ufficiale degli eunuchi, che lo accompagnarono poi verso il suo appartamento: ma appena ebbe fatto pochi passi, fece capire che aveva una necessità urgente da soddisfare. Subito gli fu aperto un gabinetto molto pulito col pavimento di marmo, mentre l'appartamento in cui si trovava era coperto di ricchi tappeti. Gli furono presentate delle calzature di seta ricamate d'oro che, secondo l'etichetta, doveva mettersi prima di entrare. Lui le prese, e non sapendo che cosa farne, se le mise in una delle maniche, che erano molto larghe. Accade spesso che si rida più per una sciocchezza, che per qualche cosa di importanza, così poco mancò che il gran visir, Masrùr e tutti gli ufficiali del palazzo che gli stavano vicini, prorompessero in uno scoppio di risa e rovinassero tutto: ma si trattennero, ed il gran visir fu obbligato a spiegargli che doveva calzare le pantofole per entrare nel gabinetto di decenza. Mentre Abu-Hassàn stava nel gabinetto, il gran visir andò a raggiungere il califfo, il quale si era già appostato in un altro luogo per continuare a osservare Abu-Hassàn senza esser visto, e gli narrò quanto era accaduto: e il califfo si divertì molto. Abu-Hassàn uscì dal gabinetto, e Masrùr, camminandogli davanti per indicargli la strada, lo condusse nell'appartamento inferiore, dove era apparecchiata la tavola. La porta di accesso fu aperta, e molti eunuchi corsero ad avvisare i musici che il finto califfo era vicino. Subito cominciò un concerto di voci e di strumenti, il più melodioso che si possa immaginare, che procurò tanto piacere ad Abu-Hassàn, che ne fu rapito e non sapeva assolutamente che pensare di quanto vedeva e di quanto udiva. "Se questo è un sogno", diceva tra sé, "è un sogno che dura a lungo! Ma questo non è un sogno", continuava, "io sto bene, discorro, vedo, cammino, odo! Checché ne sia, mi rimetto al cielo per quanto mi sta capitando. Non posso credere però di non essere veramente il gran principe dei credenti. Vi è solo lui infatti che possa trovarsi nello splendore in cui sono. Gli onori e gli omaggi che mi furono e mi vengono tributati, gli ordini che ho emanato e che sono stati eseguiti sono una prova sufficiente." Abu-Hassàn insomma si convinse di essere il califfo e gran principe dei credenti: e ne restò ancora più persuaso quando si trovò in una sala magnifica e molto grande. L'oro frammischiato ai colori più vivi risplendeva da tutte le parti. Sette gruppi di deliziose cantanti, una più bella dell'altra, stavano tutt'intorno alla sala, e sette candelieri d'oro con sette braccia stavano appesi in diversi luoghi alle pareti, dove l'oro e l'azzurro, ingegnosamente disposti, producevano un mirabile effetto. Nel mezzo stava una tavola con sette grandi piatti d'oro massiccio, che spandevano per tutta la stanza l'odore delle spezie e dell'ambra, con cui le vivande erano condite. Sette fanciulle stavano in piedi, intorno alla mensa, tutte di mirabile bellezza, vestite con abiti di stoffe diverse molto ricche e dei più vaghi colori. Ciascuna di esse teneva in mano un ventaglio, col quale facevano vento ad Abu-Hassàn, mentre stava a tavola. Se mai un uomo restò meravigliato, questi fu Abu-Hassàn quando entrò in quel magnifico salone. Ad ogni passo che faceva, non poteva fare a meno di fermarsi per contemplare a suo agio le meraviglie che si presentavano al suo sguardo. Si voltava a ogni momento da una parte o dall'altra con grandissimo divertimento del califfo, che l'osservava molto attentamente. Finalmente s'inoltrò fino nel mezzo, e si mise a tavola. Subito le sette belle dame che stavano intorno, agitarono in aria tutte insieme i loro ventagli, per rinfrescare il nuovo califfo. Lui le guardava una dopo l'altra, e ammirava la grazia con la quale adempivano al loro ufficio; poi con un bel sorriso disse che credeva che una sola fra loro bastasse per procurargli tutto il fresco di cui avrebbe avuto bisogno, e volle che le altre sei sedessero a tavola con lui, tre alla sua destra e le altre tre alla sua sinistra, per fargli compagnia. La tavola essendo rotonda, Abu-Hassàn le fece sedere tutte intorno affinché, da qualunque parte girasse lo sguardo, potesse vedere solo cose belle e molto piacevoli. Le sei dame obbedirono e si misero a tavola. Ma Abu-Hassàn in breve si accorse che non mangiavano per rispetto alla sua persona: allora le servì egli stesso, invitandole e incitandole a mangiare con parole cortesissime. Chiese loro anche come si chiamassero, e ognuna appagò la sua curiosità. I loro nomi erano: Collo di Alabastro, Bocca di Corallo, Volto di Luna, Splendore di Sole, Piacere degli Occhi, Delizia del Cuore. Fece pure la stessa domanda alla settima che teneva il ventaglio, ed essa gli rispose che si chiamava Canna da Zucchero. Le osservazioni gentili che fece ad ognuna sopra i loro nomi dimostrarono che aveva moltissimo spirito: e non si può dire quanto tale contegno servì ad accrescere la stima che il califfo aveva già di lui. Ad un tratto le dame videro che Abu-Hassàn non mangiava più. "Poiché il gran principe dei credenti", disse una voltandosi agli eunuchi che erano presenti per servire, "non mangia, può passare al salone delle frutta! Si porti dunque l'occorrente per lavarsi." E alzandosi nello stesso tempo tutte dalla tavola, presero dalle mani degli eunuchi, la prima un catino d'oro; l'altra una brocca dello stesso metallo; la terza un asciugamano, e si presentarono col ginocchio a terra davanti ad Abu-Hassàn, che stava ancora seduto porgendogli umilmente da lavarsi. Quando lo ebbe fatto, si alzò, e nello stesso istante un eunuco sollevò la tenda ed aprì la porta di un altro salone nel quale doveva entrare. Masrùr, che non aveva abbandonato Abu-Hassàn, s'incamminò davanti a lui e l'introdusse in un salone di grandezza uguale a quello dal quale usciva, ma ornato di dipinti dei più eccellenti pittori, e ben più ricco di vasi d'oro e d'argento, di tappeti per terra e di altre suppellettili preziose. C'erano in questo salone sette gruppi di cantanti, diverse da quelli che stavano nel primo salone; questi sette gruppi, o per dir meglio questi sette cori, cominciarono un nuovo concerto, non appena Abu-Hassàn comparve. Il salone era adorno di sette grandi specchi e la tavola nel mezzo era coperta di sette grandi vassoi d'oro in piramide ripieni di ogni sorta di frutta della stagione, e intorno stavano altre sette giovani, ognuna con un ventaglio in mano, che superavano le prime per bellezza. Questa nuova apparizione, immerse Abu-Hassàn in una meraviglia ancora maggiore di prima, e fermandosi, diede segni manifesti della sua sorpresa e del suo stupore. Giunse finalmente fino alla tavola, e quando si fu seduto, contemplò a suo agio le sette dame, l'una dopo l'altra, con un imbarazzo che dimostrava che non sapeva a quale dare la preferenza; poi ordinò loro di lasciare ognuna il proprio ventaglio, e di sedersi a tavola, per mangiare con lui, dicendo che il caldo non gli dava tanta noia da aver bisogno del loro aiuto. Quando le dame si furono sedute a destra ed a sinistra di Abu-Hassàn, egli volle prima di ogni altra cosa sapere come si chiamassero: seppe così che esse avevano nomi diversi da quelli delle sette dame del salone, e che questi nomi significavano pure qualche perfezione dell'animo o del corpo, per la quale si distinguevano le une dalle altre. Ciò gli piacque e lo dimostrò con le belle parole che disse anche in questa occasione, offrendo loro, l'una dopo l'altra, la frutta di ciascun vassoio. "Mangiate questo per amor mio", disse a Catena dei Cuori, che stava alla sua destra, porgendole un fico, "e rendete più sopportabili le catene con cui mi avete legato dal momento in cui vi ho vista." E offrendo una noce a Tormento dell'Anima, le disse: "Pigliate questa noce ma fate cessare tra breve i tormenti che soffro per amor vostro". E così successivamente fece complimenti alle altre dame. E così facendo egli dava al califfo, che continuava ad osservarlo, nuovi motivi per essere soddisfatto di aver trovato una persona che lo divertiva tanto e che gli aveva suggerito il mezzo per conoscerlo meglio. Quando Abu-Hassàn ebbe assaggiato tutti i frutti che erano nei vassoi, si alzò: e subito Masrùr che non l'abbandonava mai, s'incamminò davanti a lui, e l'introdusse in un terzo salone ancor più ornato e ricco dei due primi. Abu-Hassàn, vi trovò altri sette cori di musicanti, e sette altre dame intorno a una tavola, coperta di sette bacinelle d'oro differentemente lavorate, piene di succhi di frutta di diversi colori. Dopo aver girato lo sguardo da tutte le parti con nuova meraviglia, si avvicinò alla tavola, al suono armonioso dei sette cori, che terminò quando si fu seduto. Le sette dame si sedettero pure ai suoi fianchi per suo ordine, e poiché non poteva porger loro il cibo come aveva fatto con le altre, le pregò di scegliere ciascuna ciò che preferiva. S'informò dei loro nomi, che non gli piacquero meno dei nomi delle precedenti dame, per la loro varietà, e che gli fornirono argomento per intrattenersi con loro, e dire delle arguzie, che diedero a loro altrettanto piacere, che al califfo, che non perdeva una parola di quanto egli andava dicendo. Era ormai sera, quando Abu-Hassàn fu condotto nel quarto salone che era ornato come gli altri di suppellettili magnifiche e preziose. C'erano pure sette grandi specchi d'oro, circondati di candele accese, e tutto il salone era illuminato da una prodigiosa quantità di lumi, che formavano uno spettacolo meraviglioso e straordinario. Non c'era stato niente di simile negli altri tre saloni, poiché non ve n'era stato bisogno. Abu-Hassàn trovò in quest'ultimo salone, come già negli altri tre, sette nuovi gruppi di cantanti, che facevano, tutti insieme, un concerto più dolce e allegro che negli altri saloni, e che parevano ispirare maggior giubilo. Vi vide pure sette altre dame, che se ne stavano in piedi intorno a una tavola coperta ugualmente di sette vassoi d'oro, pieni di sfogliate, marmellate e ogni sorta di dolciumi atti a spingere a bere. Ma ciò che Abu-Hassàn osservò, e che non aveva visto negli altri saloni, era una credenza su cui erano sette grandi brocche d'argento, piene di un vino squisito e sette bicchieri di cristallo di rocca lavorati finemente. Fino a questo punto, cioè nei primi tre saloni, Abu-Hassàn non aveva bevuto che acqua, secondo il costume di moda a Bagdàd tanto tra il popolo, quanto alla corte del califfo, per cui non si beve il vino se non alla sera. Tutti quelli che si regolano in modo diverso, sono considerati dei dissoluti, e non hanno il coraggio di mostrarsi di giorno. Questa usanza è tanto più lodevole, in quanto è necessario avere la mente lucida durante il giorno per badare agli affari, e inoltre, non bevendo vino se non la sera, durante il giorno non si vedono in giro ubriachi che provochino disordini nelle strade di quella città. Abu-Hassàn entrò dunque in questo quarto salone, avvicinandosi alla tavola. Quando vi fu seduto, si fermò come in estasi a contemplare le sette dame, che gli stavano intorno e le trovò più belle di quelle che aveva vedute negli altri saloni. Desiderò di conoscere il nome di ciascuna, ma poiché il rumore della musica, e specialmente dei cembali, non permetteva di udire, batté le mani per farlo cessare, e subito si fece un gran silenzio. Allora, prendendo per la mano la dama che gli stava più vicina, la fece sedere, e dopo averle offerto una sfogliata, le chiese come si chiamasse. "Gran principe dei credenti", rispose la dama, "il mio nome è Vezzo di Perle." "Non vi si poteva dare un nome più adatto", rispose Abu-Hassàn, "e che meglio mettesse in risalto i vostri pregi: ma senza biasimare chi ve lo ha imposto, trovo che i vostri bellissimi denti oscurano la più bell'acqua di tutte le perle che vi siano al mondo. Vezzo di Perle", soggiunse, "giacché questo è il vostro nome, fatemi la grazia di pigliare un bicchiere, e di porgermi da bere con la vostra bella mano!" La dama andò subito alla credenza, e ritornò con un bicchiere pieno di vino, che con bel garbo porse ad Abu-Hassàn. Egli lo prese con moltissimo piacere, e guardandola le disse: "Vezzo di Perle, io bevo alla vostra salute! Vi prego di versarne altrettanto per voi e di contraccambiarmi!". Ella corse subito alla credenza, e ritornò col bicchiere in mano: ma prima di bere, cantò una canzone che lo conquistò per la sua novità, e ancor più per il fascino della sua voce. Abu-Hassàn, dopo aver bevuto, scelse quello che gli piacque di più sui vassoi, e lo offrì a un'altra dama che fece sedere accanto a sé. Le chiese il suo nome e seppe che era Stella del Mattino. "I vostri begli occhi", rispose, "hanno più splendore e luminosità della stella di cui portate il nome. Andate e fatemi il piacere di portarmi da bere." Ella subito obbedì con la maggior cortesia possibile. Fece poi lo stesso con la terza dama, che si chiamava Luce del Giorno, e via via con le altre fino alla settima; e tutte gli versarono da bere con grande gioia del califfo. Quando Abu-Hassàn ebbe terminato di bere tante volte quante erano le dame, Vezzo di Perle - la prima alla quale si era rivolto - andò alla credenza, prese un bicchiere, che riempì dopo avervi gettato un pizzico di quella polvere, di cui il califfo si era servito il giorno precedente. "Gran principe dei credenti", gli disse, "supplico la maestà vostra, per l'interesse che porto alla conservazione della sua salute, di gradire questo bicchiere di vino, e farmi la grazia, prima di berlo, di ascoltare una canzone, che spero non le dispiacerà. Appunto oggi l'ho composta, e nessuno l'ha ancora udita." "Vi concedo questa grazia con piacere", le disse Abu-Hassàn, prendendo il bicchiere che essa gli porgeva, "e vi comando, come gran principe dei credenti di cantarmela, poiché sono persuaso che una persona bella come voi può comporre solo canzoni molto piacevoli e piene di spirito." La dama prese un liuto e cantò la canzone, accompagnando la sua voce col suono di questo strumento, con tanta grazia, brio ed espressione, che tenne Abu-Hassàn come in estasi dal principio alla fine. Egli la giudicò tanto bella, che gliela fece ripetere, e ne restò ancor più dilettato della prima volta. Quando la dama ebbe terminato, Abu-Hassàn, che voleva elogiarla come meritava, vuotò prima tutto d'un fiato il bicchiere, e poi volse il capo verso la dama come per parlare, ma ne fu impedito dalla polvere che produsse il suo effetto così in fretta, che egli poté solo aprire la bocca balbettando. Subito i suoi occhi si chiusero, e, lasciando cadere il capo sulla tavola, come un uomo vinto dal sonno, si addormentò profondamente come aveva fatto il giorno precedente alla stessa ora, quando il califfo gli aveva somministrato la stessa polvere. Nello stesso istante, una delle dame, che si trovava vicino a lui, fu sollecita ad afferrare il bicchiere, che egli si era lasciato sfuggire di mano. Il califfo, che aveva voluto darsi questo divertimento e che vi aveva trovato una soddisfazione molto maggiore di quella che si aspettava, era stato spettatore anche di quest'ultima scena, come di tutte le altre. Finalmente uscì dal luogo dov'era, e comparve nel salone tutto allegro perché era riuscito in quanto si era proposto. Comandò che Abu-Hassàn fosse spogliato dell'abito di califfo, e che gli fosse rimesso addosso quello che portava il giorno precedente, quando lo schiavo che lo accompagnava l'aveva trasportato nel suo palazzo. Fece poi chiamare lo stesso schiavo, e quando questi si fu presentato, gli disse: "Prendi quest'uomo e riportalo a casa sua sul sofà, senza fare rumore, e nel ritirarti, lascia aperta la porta". Lo schiavo prese Abu-Hassàn, lo portò fuori, passando per la porta segreta del palazzo, lo riportò in casa sua, come il califfo aveva ordinato, e ritornò rapidamente a rendergli conto di quanto aveva fatto. "Abu-Hassàn", disse allora il califfo, "aveva espresso il desiderio di essere califfo per un giorno solo per poter castigare l'imàm della moschea del suo quartiere, e i quattro sceicchi, la cui condotta non gli piaceva. Gli ho procurato il mezzo per soddisfare il suo desiderio e ne sono assai contento." Abu-Hassàn, adagiato sopra il suo sofà dallo schiavo, dormì fino al giorno seguente molto tardi, e non si svegliò se non quando la polvere, che era stata gettata nell'ultimo bicchiere che aveva bevuto, non ebbe compiuto il suo effetto. Aprendo allora gli occhi, restò molto sorpreso di vedersi in casa sua. "Vezzo di Perle, Stella del Mattino, Alba del Giorno, Bocca di Corallo, Volto di Luna", gridò, chiamando per nome le dame del palazzo, che gli avevano tenuto compagnia, quante poté ricordarsene, "dove siete? Venite, accostatevi." Poiché Abu-Hassàn gridava con quanta forza aveva, sua madre lo udì dal suo appartamento e accorse allo strepito. Entrando nella sua camera: "Che hai figlio mio?", gli domandò, "che succede?" A queste parole Abu-Hassàn alzò il capo, e guardando sdegnosamente sua madre: "Buona donna", le disse, "chi è dunque quello che tu chiami tuo figlio?". "Sei tu quello!", rispose la madre con molto garbo. "Non sei forse Abu-Hassàn, mio figlio? Sarebbe strano davvero che in così poco tempo te ne fossi dimenticato." "Io? figlio tuo, vecchiaccia?", ripigliò Abu-Hassàn. "Non sai quello che dici, e sei una bugiarda! Io non sono l'Abu-Hassàn che dici; io sono il gran principe dei credenti!" "Taci, figlio mio", riprese la madre, "ciò che dici non è saggio. Saresti creduto pazzo, se qualcuno ti udisse!" "Tu, sei una vecchia pazza", replicò Abu-Hassàn, "non io, come tu dici. Ti ripeto che sono il gran principe dei credenti, il vicario in terra del padrone dei due mondi." "Ah! figlio mio", esclamò la madre, "è possibile che io oda queste parole che rivelano una pazzia tanto grande? Quale genio maligno ti possiede, perché tu pronunci un simile discorso? La benedizione del cielo giunga su di te e ti liberi dalla malignità di Satana. Tu sei il mio figlio Abu-Hassàn, e io sono tua madre!" Dopo avergli date tutte le prove che poté immaginare per farlo rientrare in sé e per fargli riconoscere il suo errore, continuò: "Non vedi che questa camera è la tua e non quella del gran principe dei credenti, e che vi hai sempre vissuto, da quando sei nato, abitandovi con me? Pensa a quanto ti dico, e non metterti in mente cose che non sono, e che non possono essere; una volta ancora, figlio mio, pensaci!". Abu-Hassàn ascoltò con calma queste rimostranze di sua madre, con gli occhi bassi e il mento appoggiato alla mano come un uomo che rientra in sé per esaminare la verità di quanto vede e ode. "Credo che voi abbiate ragione", disse a sua madre qualche momento dopo, risvegliandosi come da un profondo sonno, senza però cambiare di posizione, "mi pare in verità di essere Abu-Hassàn, e che voi siate mia madre, e che io stia nella mia camera. Una volta ancora", soggiunse, guardandosi da capo a piedi ed osservando quanto vedeva, "sono Abu-Hassàn, non ne dubito, e non comprendo come mi fossi messo in mente questa idea." La madre credette in buona fede che suo figlio fosse risanato dal turbamento che agitava il suo spirito e che essa attribuiva a un sogno. Si preparava a riderne con lui, e a interrogarlo su questo sogno, quando all'improvviso lui si mise a sedere, e guardandola con occhio bieco: "Vecchia strega, vecchia maga!", gridò. "Tu non sai ciò che dici! Io non sono tuo figlio, tu non sei mia madre. Tu inganni te stessa e vuoi ingannare anche me! Ti dico che io sono il gran principe dei credenti, né mi persuaderai del contrario!". "Ti prego, figlio mio, raccomandati al cielo e non tenere questo linguaggio, potrebbe accaderti qualche sventura; parliamo piuttosto di tutt'altro, e lascia che narri quanto è successo ieri nel nostro quartiere all'imàm della nostra moschea, e ai quattro sceicchi nostri vicini. Il luogotenente di polizia li ha fatti prendere e, dopo aver fatto dare in sua presenza a ciascuno non so quanti colpi con un nerbo di bue, ha fatto pubblicare da un banditore che tale era il castigo per quelli che si immischiano negli affari che non li riguardano, e che si divertono a seminare la discordia e la confusione nelle famiglie dei loro vicini. Poi li ha condotti in giro per tutti i quartieri della città con lo stesso annuncio e ha proibito loro di rimettere piede nel nostro quartiere." La madre di Abu-Hassàn, non potendo immaginare che il figlio avesse avuto qualche parte nel fatto che gli narrava, aveva di proposito cambiato discorso, e considerato il racconto di questo fatto come un mezzo adatto a cancellare la fantasia che gli turbava la mente, di essere cioè il gran principe dei credenti. Ma ottenne l'effetto contrario: questo racconto, invece di cancellare la sua convinzione di essere il gran principe dei credenti, non servì che a confermargliela, e ad imprimergliela tanto profondamente nell'immaginazione, da sembrargli non già fantastica, ma reale. Sicché appena Abu-Hassàn ebbe udito tale racconto, esclamò: "Io non sono tuo figlio, né Abu-Hassàn! Certamente sono il gran principe dei credenti, e non posso più dubitare dopo quanto tu stessa mi hai detto. Sappi che mentre esercitavo il potere di gran principe dei credenti, per mio preciso ordine l'imàm e i quattro sceicchi sono stati castigati nella maniera che mi hai riferito. Io dunque sono veramente il gran principe dei credenti, ti ripeto, e smettila di dirmi che questo è un sogno. Io non dormo ora ed ero sveglio ugualmente allora come lo sono in questo momento". La madre, che non poteva indovinare e neppure immaginare perché il suo figlio sostenesse tanto vivamente di essere il califfo, non dubitò più che egli avesse perso la ragione. Convinta da questo pensiero, gli disse: "Figlio mio, prego il cielo che abbia pietà di te, e ti conceda misericordia! Smetti, figlio mio, di tenere un discorso tanto privo di buon senso. Rivolgiti al cielo, e domandagli perdono e insieme la grazia di tornare a parlare come un uomo ragionevole. Che mai si direbbe di te se ti si udisse parlare in tal modo? Non sai che in questi casi anche le mura hanno orecchie?". Tante rimostranze, invece di ammansire lo spirito di Abu-Hassàn, non servirono che ad inasprirlo maggiormente. Egli si lasciò trasportare con maggior violenza dell'ira contro sua madre. "Vecchia", le disse, "ti ho già avvisata di stare zitta! Se continui, mi alzerò, e ti tratterò in tal maniera, che per tutto il resto dei tuoi giorni te ne ricorderai. Io sono il califfo, il gran principe dei credenti, e tu lo devi credere perché te lo dico io." La buona donna allora, nel vedere che Abu-Hassàn usciva sempre più di senno, si abbandonò al pianto, alle lacrime e schiaffeggiandosi il viso, percuotendosi il petto, proruppe in esclamazioni, che ben dimostravano la sua meraviglia e il suo profondo dolore nel vedere suo figlio in preda di una pazzia tanto orribile! Abu-Hassàn, invece di calmarsi e di lasciarsi muovere a pietà dalle lacrime di sua madre, al contrario, si infuriò fino a perdere verso di lei tutto quel rispetto che la natura gli ispirava. Si alzò sdegnosamente, afferrò un bastone, e andandole incontro con la mano alzata, furibondo: "Vecchia maledetta", le disse, nella sua stravaganza e con voce propria ad ispirar timore ad ogni altro, fuorché a una madre che l'amava teneramente, "dimmi subito chi sono". "Figlio mio", rispose la madre, amorosamente guardandolo invece d'intimorirsi, "io non ti credo abbandonato dal cielo a tal punto da non conoscere quella che ti ha dato la luce e di non conoscere te stesso. Io non fingo quando ti dico che sei mio figlio Abu-Hassàn e che hai gran torto di arrogarti un titolo che spetta solamente al califfo Harùn ar-Rashìd, tuo e mio sovrano; questo monarca ci ha colmati di benefici col regalo che mi ha mandato; perché devi sapere che il gran visir si diede ieri la pena di venire a cercarmi per consegnarmi una borsa con mille dinàr, dicendomi di pregare il cielo per il gran principe dei credenti, che mi mandava questo regalo. Questa generosità riguarda più te di me, cui non restano se non pochi giorni da vivere." A queste parole, Abu-Hassàn perse ogni ritegno. I particolari della generosità del califfo, che sua madre gli aveva narrati, gli dimostravano che non si era ingannato, e lo persuadevano più che mai di essere il califfo, giacché il visir aveva portato quella borsa per suo ordine. "Ebbene, vecchia!", esclamò, "sarai convinta quando ti dirò che sono stato io che ti ho mandato quei dinàr per mezzo del mio gran visir Giàafar, che non ha fatto che eseguire l'ordine che gli avevo imposto come gran principe dei credenti? E tu, invece di credermi, cerchi solo di confondermi con le tue menzogne, e sostieni ostinatamente che sono tuo figlio: ma non lascerò più a lungo impunita la tua malvagità." Nel terminare queste parole, nell'accesso della sua furia, divenne così snaturato che la percosse senza pietà col bastone che teneva in mano. La povera madre, che non aveva creduto che suo figlio sarebbe passato tanto in fretta dalle minacce ai fatti, sentendosi bastonata, proruppe in grandi grida, implorando aiuto: ma, finché i vicini non accorsero, Abu-Hassàn non smise di batterla, chiedendole ad ogni colpo: "Sono il gran principe dei credenti?". Al che la madre rispondeva sempre con queste affettuose parole: "Tu sei mio figlio!". Il furore di Abu-Hassàn cominciava a calmarsi un poco, quando entrarono nella camera i vicini. Il primo che giunse s'intromise subito fra la madre e lui, e dopo avergli levato a viva forza dalle mani il bastone, gli disse: "Orsù che fate, Abu-Hassàn? Avete perso il timore di Dio e la ragione? Un buon figlio come voi, non può osare di alzare la mano contro sua madre! Non vi vergognate di maltrattare in tal modo la vostra, che tanto vi ama?". Abu-Hassàn, ancora tutto pieno di furore, guardò quello che gli parlava senza rispondergli nulla, girando nello stesso tempo gli occhi stravolti su ognuno degli altri vicini che l'accompagnavano. "Chi è questo Abu-Hassàn, di cui parlate?", domandò infine, "sono io quello che chiamate con questo nome?" Questa domanda sconcertò un poco i vicini. "Come!", riprese quello che già aveva parlato, "dunque non riconoscete la donna che avete davanti, che vi ha allevato, e con la quale vi abbiamo sempre visto abitare, in una parola, vostra madre?" "Voi siete degli impertinenti", replicò Abu-Hassàn. "Io non la conosco e non vi conosco, né voglio conoscerla. Io non sono Abu-Hassàn, sono il gran principe dei credenti, e se non lo sapete ve lo farò imparare a vostre spese." A questo discorso di Abu-Hassàn, i vicini non dubitarono più della sua pazzia, e per impedire che desse in escandescenza, come aveva fatto prima contro sua madre, lo gettarono a terra e lo legarono in maniera da impedirgli l'uso delle mani e dei piedi, e benché fosse in condizione da non poter nuocere, nondimeno giudicarono opportuno non lasciarlo solo con sua madre. Due della compagnia, senza por tempo in mezzo, andarono all'ospedale dei matti ad avvisare il custode di quanto era avvenuto. Egli accorse subito con i vicini, ma accompagnato da un buon numero delle sue genti, cariche di catene, di manette e di un nerbo di bue. Al loro arrivo, Abu-Hassàn, che non si aspettava una cosa così orribile, fece grandi sforzi per liberarsi: ma il custode, che si era fatto porgere un nerbo di bue, in breve lo ridusse alla ragione con due o tre colpi ben assestati sulle spalle. Questo trattamento fece tanta impressione ad Abu-Hassàn, che divenne mansueto, e il custode con le sue genti fecero di lui ciò che vollero, senza che tentasse di opporsi. Lo legarono con catene, manette e ceppi, e lo condussero all'ospedale dei matti. Abu-Hassàn, appena fu in strada, fu circondato da una grande folla. Chi gli dava un pugno, chi uno schiaffo, altri lo coprivano d'ingiurie trattandolo da pazzo, da insensato e da stravagante. A tutti questi orribili trattamenti, rispondeva: "Non vi è grandezza e forza che nell'immenso ed onnipotente Dio. Si pretende che io sia pazzo, benché sia perfettamente sano di mente; soffro questa ingiuria, e tutte queste indegnità per amore di Dio!". Abu-Hassàn fu condotto fino all'ospedale dei matti. Vi fu accolto, e legato in una gabbia di ferro, e prima di rinchiudervelo, il custode, destinato a questo orribile incarico, gli diede senza pietà cinquanta colpi di nerbo di bue sopra le spalle e sopra la schiena. Continuò per più di tre settimane a fargli lo stesso trattamento e ogni volta gli ripeteva queste stesse parole: "Rientra in te stesso, e dimmi se sei ancora il gran principe dei credenti". "Non ho bisogno del tuo consiglio", rispondeva Abu-Hassàn, "io non sono pazzo: ma se dovessi diventarlo, nulla potrebbe cagionarmi una tale disgrazia, quanto le bastonate di cui mi carichi." La madre di Abu-Hassàn frattanto andava a visitare suo figlio regolarmente ogni giorno, e non poteva contenere le lacrime vedendo che ogni giorno diventava più pallido e perdeva le forze, e udendolo lamentarsi e sospirare per i molti tormenti che soffriva. Infatti egli aveva le spalle, la schiena e le costole nere e peste, e non sapeva da che parte girarsi per trovare riposo. Sua madre voleva parlargli per consolarlo, e per cercare di sapere se era sempre fisso nella sua idea di essere il califfo e gran principe dei credenti. Ma ogni volta che s'accingeva a parlargliene, lui la rimproverava con tanto sdegno, che era costretta a lasciarlo e a ritornarsene a casa sconsolata, vedendolo in tale ostinazione. Il ricordo forte e preciso che Abu-Hassàn aveva conservato nella sua mente di essersi visto col vestito da califfo, di averne veramente esercitate le funzioni, di aver fatto uso della sua autorità, di essere stato obbedito e trattato veramente da califfo, e che l'aveva persuaso al suo risveglio d'esserlo realmente, così che aveva durato a lungo in quell'errore, cominciò insensibilmente a cancellarsi dalla sua mente. "Se io fossi il califfo e il gran principe dei credenti", diceva qualche volta a se stesso, "come mai mi sarei risvegliato in casa mia e col mio solito vestito? Perché non mi sarei ritrovato circondato dal capo degli eunuchi, da tanti altri eunuchi e da una moltitudine di belle dame? Perché il gran visir Giàafar, che ho visto ai miei piedi, e gli emiri, i governatori delle province, e gli altri ufficiali, dai quali ero attorniato, mi avrebbero abbandonato? Certamente mi avrebbero liberato già da gran tempo dallo stato deplorevole in cui sono, se avessi qualche autorità sopra di loro. Tutto ciò è stato solo un sogno, e devo persuadermene. Ma è anche vero che ho comandato al luogotenente di polizia di castigare l'imàm e i quattro vecchi del suo consiglio e ho ordinato al gran visir Giàafar di portare mille dinàr a mia madre, e i miei ordini sono stati eseguiti. Ciò mi cagiona dei dubbi, e non capisco più nulla. Ma quante altre cose vi sono che non capirò mai? Mi rimetto dunque nelle mani di Dio, che tutto sa e tutto conosce." Abu-Hassàn era ancora occupato in questi pensieri e in questi sentimenti, quando giunse sua madre. Ella lo vide talmente estenuato e smunto, che versò ancor più lacrime di quanto non avesse fatto fino ad allora. In mezzo ai suoi singhiozzi, lo salutò col suo saluto solito ed Abu-Hassàn glielo restituì, contrariamente a quanto aveva fatto da quando era all'ospedale. Ne trasse un buon presagio, e gli disse, asciugandosi le lacrime: "Ebbene, figlio mio, come stai? In che condizione si trova il tuo spirito? Hai rinunciato a tutte le tue fantasie, e alle idee che lo spirito malefico ti ha suggerito?". "Madre mia", rispose Abu-Hassàn molto tranquillo e con un modo che ben dimostrava il dolore che provava per il furore con cui l'aveva trattata, "riconosco il mio errore, ma vi prego di perdonarmi l'esecrabile delitto che ho commesso contro di voi. Fate la medesima preghiera ai nostri vicini, per lo scandalo che ho dato loro. Sono stato ingannato da un sogno tanto stravagante, e tanto verosimile, che posso asserire che ogni altro cui fosse accaduto, non ne sarebbe stato meno impressionato, e sarebbe forse caduto in stravaganze maggiori di quelle che mi avete visto fare. Ne sono ancora così confuso, mentre vi parlo, che ho gran pena a persuadermi che quanto mi è accaduto sia proprio un sogno, tanto è simile a quello che accade fra persone che non dormono. Comunque sia, credo e voglio credere che sia un sogno e un'illusione. Sono convinto di non essere un fantasma di califfo, o di gran principe dei credenti, ma Abu-Hassàn vostro figlio, di voi, dico, che ho sempre onorata fino a quel giorno fatale, che ancora mi fa arrossire, e che onorerò per tutta la mia vita come devo." A queste parole tanto sagge e tanto prudenti, le lacrime di dolore, di compassione e di afflizione che la madre di Abu-Hassàn versava da gran tempo, si trasformarono in lacrime di gioia, di consolazione e di profondo amore per il suo caro figlio che finalmente ritrovava. "Figlio mio", esclamò piena di gioia, "io mi sento così felice e piena di soddisfazione, sentendoti parlare tanto ragionevolmente dopo quanto è accaduto, come se ti avessi dato alla luce una seconda volta. Bisogna che ti dica il mio pensiero su questa avventura, e ti faccia osservare una cosa, che forse non hai considerato. Lo straniero che hai condotto una sera a cenare con te, partì senza chiudere la porta della tua camera come gli avevi raccomandato, ed io credo che questo abbia dato occasione allo spirito malefico di entrarvi, e di sprofondarti nell'orribile illusione in cui eri. Sicché, figlio mio, devi ora ringraziare il cielo di avertene liberato, e pregarlo di preservarti dal cadere ancora nelle reti dello spirito maligno." "Voi avete trovata la sorgente del mio male", rispose Abu-Hassàn, "proprio in quella notte feci quel sogno che mi turbò la mente. Avevo avvisato chiaramente il mercante di chiudere la porta, e ora mi dici che non l'ha fatto. Sono dunque persuaso con voi che lo spirito malefico, avendo trovato la porta aperta, sia entrato, mettendomi tutte queste fantasie in testa. Ma ora, in nome di Maometto, madre mia, giacché per la grazia del cielo, mi vedete perfettamente guarito dal turbamento in cui ero, vi supplico, quanto un figlio può supplicare una madre così buona quale voi siete, di farmi uscire al più presto da questo inferno e di liberarmi dalle mani del carnefice, che certamente mi farà morire, se resto ancora qui." La madre di Abu-Hassàn, perfettamente consolata e intenerita nel vedere che Abu-Hassàn era completamente guarito della sua pazza idea di essere califfo, andò subito a cercare il custode, a cui era stato affidato fino allora. Gli disse che era perfettamente ristabilito nel suo senno, ed egli venne, l'esaminò e lo mise subito in libertà. Abu-Hassàn ritornò a casa sua, e vi si trattenne per molti giorni per ristabilirsi in salute mangiando cibi migliori di quelli che gli avevano dato all'ospedale dei matti. Ma appena ebbe interamente recuperato le forze così che non risentiva più le conseguenze dei pessimi trattamenti che aveva subito in carcere, cominciò ad annoiarsi di passare le sere senza compagnia, e non tardò molto a riprendere le stesse abitudini di prima; ricominciò cioè a fare la provvista sufficiente a invitare un ospite nuovo ogni sera. Il giorno in cui riprese ad andare al tramonto del sole sul ponte di Bagdàd per fermarvi il primo forestiero che gli si fosse presentato, e pregarlo di fargli l'onore di andare a cena con lui, era il primo del mese, il giorno, cioè, come già abbiamo detto, in cui il califfo si divertiva ad andare travestito fuori da qualche porta della città, per osservare di persona se si contravveniva alle regole che egli aveva stabilite all'inizio del suo regno. Abu-Hassàn era giunto da poco e si era seduto su un banco, allorché girando gli occhi verso l'altro capo del ponte, scorse il califfo che gli veniva incontro, travestito da mercante di Mussul, come la prima volta, e accompagnato dallo stesso schiavo. Persuaso che tutto il male che aveva sofferto derivasse dal fatto che il califfo, che egli conosceva come un mercante di Mussul, aveva lasciato la porta aperta nell'uscire dalla sua camera, vedendolo fremette. "Il cielo mi preservi!", disse fra sé. "Ecco, se non m'inganno, il mago che mi ha stregato!" Volse subito il capo verso il fiume, appoggiandosi al parapetto per non vederlo, finché fosse passato. Il califfo, che voleva prolungare il piacere che già si era preso con Abu-Hassàn, si era preoccupato di farsi tenere al corrente di quanto aveva detto e fatto il giorno seguente al suo risveglio in casa sua, e di quanto gli era accaduto. Si divertì molto di tutto ciò che gli venne riferito, e perfino del pessimo trattamento che aveva ricevuto all'ospedale dei matti. Ma poiché questo monarca era generoso e giustissimo, e aveva inoltre riconosciuto in Abu-Hassàn uno spirito capace di divertirlo, non dubitando che, dopo aver rinunciato alla sua presunta dignità di califfo, egli avrebbe ripreso la sua vita, come prima, giudicò opportuno, per attirarlo a sé, di travestirsi, il primo del mese, da mercante di Mussul come la prima volta, allo scopo di conseguire quanto aveva stabilito a suo riguardo. Vide dunque Abu-Hassàn quasi nello stesso tempo in cui egli lo scorse: e al suo gesto capì che era adirato con lui, e voleva evitarlo. Ciò l'indusse ad andare rasente al parapetto dove stava Abu-Hassàn andandogli il più vicino possibile. Quando gli fu accanto chinò il capo e lo guardò in faccia dicendogli: "Siete voi, dunque, fratello mio Abu-Hassàn? Io vi saluto, e vi prego di permettermi di abbracciarvi". "E io", rispose sdegnosamente Abu-Hassàn senza guardare il finto mercante di Mussul, "io non vi saluto; non desidero né il vostro saluto né i vostri abbracci. Andate per la vostra strada!" "E come!", ripigliò il califfo. "Non mi riconoscete? Non vi ricordate di quella sera che passammo insieme, giusto un mese fa in casa vostra, dove mi faceste l'onore di trattarmi con tanta generosità?" "No", replicò Abu-Hassàn con lo stesso tono di prima, "non vi riconosco, né so di che vogliate parlare. Andatevene, ve lo ripeto per la seconda volta, e continuate la vostra strada." Il califfo non fece caso dell'alterazione di Abu-Hassàn, sapendo che una delle sue regole consisteva nel non aver più nulla a che fare con i forestieri che aveva invitato una volta, come Abu-Hassàn stesso gli aveva detto. Tuttavia voleva far destramente finta di ignorarla. "Non posso credere", riprese, "che voi non mi conosciate; non è molto tempo che ci siamo visti, e non è possibile che vi siate dimenticato di me con tanta facilità. Bisogna che vi sia accaduta qualche disgrazia, che ha provocato tanta collera contro di me. Dovreste ricordarvi però che vi ho attestato la mia gratitudine con molti auguri di felicità e anche che, per una certa cosa che vi stava molto a cuore, vi ho offerto il mio aiuto, che non merita tutto il disprezzo che mi dimostrate." "Non so", riprese Abu-Hassàn, "quale potesse essere il vostro aiuto, né ho la minima voglia di metterlo alla prova; so però che i vostri presagi non hanno fatto altro che farmi diventare pazzo. In nome di Maometto, vi ripeto ancora una volta di proseguire per la vostra strada e di non infastidirmi." "Ah! fratello mio Abu-Hassàn", replicò il califfo, abbracciandolo, "non posso separarmi da voi in questo modo! Giacché la mia buona sorte ha voluto che per una seconda volta vi incontrassi, dovete ospitarmi ancora come un mese fa, affinché abbia l'onore di bere un'altra volta in vostra compagnia." Abu-Hassàn protestò che se ne sarebbe ben guardato. "Sono padrone di me stesso quanto basta", soggiunse, "per non lasciarmi convincere a stare di nuovo con un uomo come voi, che porta con sé il malaugurio. Conoscete il proverbio che dice: "Pigliate il vostro fardello sulle spalle e sloggiate"? Seguitelo. Devo ripetervelo ancora? Il cielo vi guidi! Mi avete portato tanto male, che basta." "Mio caro amico Abu-Hassàn", riprese il califfo abbracciandolo ancora una volta, "voi mi trattate con un'asprezza che non mi aspettavo. Vi supplico di non farmi un discorso tanto offensivo, e di essere al contrario persuaso della mia amicizia. Fatemi dunque la grazia di dirmi quanto vi è accaduto; ditelo a me che desidero solo il vostro bene, che ve lo auguro ancora, e vorrei trovare ogni occasione di farvene, per riparare al male che vi avrei causato a quanto dite, se pure è mia la colpa di quello che dite." Abu-Hassàn si arrese alle insistenze del califfo, e, dopo averlo fatto sedere vicino a sé: "La vostra incredulità e la vostra insistenza", gli disse, "mi hanno fatto perdere la pazienza, e ciò che ora vi narrerò vi dimostrerà che non a torto ce l'ho con voi". Il califfo si sedette vicino ad Abu-Hassàn, che gli narrò tutte le avventure che gli erano capitate da quando si era destato nel palazzo, fino al suo secondo risveglio nella sua camera, e gliele raccontò come se fossero state un sogno e con una infinità di particolari che il califfo conosceva quanto lui, e che rinnovarono il divertimento che ne aveva avuto la prima volta. Gli descrisse poi l'impressione che gli era rimasta nella mente dopo questo sogno di essere davvero il gran principe dei credenti. "Impressione", soggiunse, "che mi aveva messo in uno stato così stravagante, che i miei vicini furono costretti a legarmi come un pazzo furioso e a farmi condurre all'ospedale dei matti dove sono stato trattato in una maniera che si può chiamare crudele, barbara e inumana: ma ciò che vi sorprenderà, e che senza dubbio non v'immaginate, è che tutte queste cose mi sono accadute per colpa vostra. Vi ricorderete della raccomandazione che vi avevo fatta di chiudere la porta della mia camera: voi non l'avete fatto, e anzi l'avete lasciata aperta, e così lo spirito maligno è entrato, e mi ha riempito la mente con questo sogno che, quantunque mi fosse sembrato piacevole, pur tuttavia è stato causa di tutti i mali che ho sofferto. Voi dunque siete responsabile, per la vostra negligenza, del mio delitto, mi avete fatto commettere una cosa iniqua e detestabile, poiché non solamente ho inveito contro mia madre percuotendola, ma anche poco è mancato che non la facessi morire ai miei piedi, commettendo un matricidio! E tutto ciò per una ragione che mi fa arrossire di vergogna ogni volta che ci penso, giacché ciò accadde perché mi chiamava suo figlio, come veramente sono, non volendo ammettere che fossi il gran principe dei credenti come io credevo di essere, e come ostinatamente sostenevo. Siete causa inoltre dello scandalo che ho dato ai miei vicini, allorché, accorsi alle grida della mia povera madre, mi sorpresero mentre infuriato volevo ucciderla: il che senza dubbio non sarebbe accaduto, se aveste avuto l'attenzione di chiudere la porta della mia camera, uscendone, come io stesso vi avevo pregato di fare. Essi non sarebbero infatti entrati in casa senza il mio permesso, e non sarebbero stati testimoni della mia pazzia, cosa che accresce la mia pena. Non sarei stato obbligato a batterli, difendendomi da loro, né mi avrebbero maltrattato e legato, come hanno fatto, per condurmi e farmi rinchiudere nell'ospedale dei matti, dove posso assicurarvi che ogni giorno, per tutto il tempo che sono stato trattenuto in quell'inferno, non hanno mai trascurato di darmi molte bastonate col nerbo di bue!" Abu-Hassàn narrava al califfo, con molto calore e veemenza, i motivi di lagnanza che aveva contro di lui. Il califfo sapeva meglio di lui quanto era avvenuto e sentiva grande soddisfazione per essere riuscito in ciò che aveva ideato, per averlo messo in uno stato di smarrimento in cui ancora lo vedeva: ma non poté ascoltare questo racconto, fatto con tanta ingenuità, senza prorompere in un grande scoppio di risa. Abu-Hassàn, che credeva il suo racconto degno di compassione così che ognuno dovesse esserne commosso, si scandalizzò molto di questo scoppio di risa del finto mercante di Mussul. "Voi vi burlate di me", gli disse, "ridendomi così in faccia, o credete forse che mi burli di voi, mentre vi parlo seriamente? Volete delle prove più convincenti di quanto vi ho raccontato? Ecco, osservate voi stesso, e dopo mi direte se scherzo." Nel dire tali parole si abbassò, e scoprendosi le spalle ed il petto, fece vedere al califfo le cicatrici e i lividi causati dai colpi ricevuti col nerbo di bue. Il califfo non poté guardarlo senza provarne orrore. Ebbe molta compassione del povero Abu-Hassàn e molto gli rincrebbe che il suo scherzo fosse andato più in là di quanto avesse immaginato. Ripresosi lo abbracciò di tutto cuore e gli disse con grande serietà: "Alzatevi, ve ne supplico, fratello mio caro. Venite e andiamo a casa vostra; voglio avere ancora l'onore di stare allegramente questa sera in vostra compagnia; domani, se piace al cielo, vedrete che tutto andrà meglio di quanto possiate immaginare". Abu-Hassàn, nonostante la sua risoluzione, e il giuramento che aveva fatto di non ricevere in casa sua lo stesso forestiero per due volte, non poté resistere alle affettuosità del califfo che egli credeva un mercante di Mussul. "Acconsento volentieri", disse al supposto mercante, "ma", aggiunse, "ad una condizione, che v'impegnerete con giuramento a osservare. Dovete farmi la grazia di chiudere la porta della mia camera nell'uscire da casa mia, perché lo spirito maligno non venga a confondermi la mente, come ha fatto la prima volta." Il finto mercante promise e poi si alzarono ambedue e s'incamminarono verso la città. Il califfo per impegnare maggiormente Abu-Hassàn, gli disse: "Abbiate fiducia in me, e io non mancherò alla mia promessa, ve lo prometto da uomo d'onore. Dopo ciò non dovete esitare a riporre tutta la vostra fiducia in una persona della mia qualità, che desidera per voi ogni sorta di bene e prosperità, di cui presto vedrete gli effetti". "Io non vi chiedo questo", riprese Abu-Hassàn fermandosi stupito, "mi arrendo di buon cuore alla vostra insistenza, ma vi dispenso dal farmi auguri, e vi supplico, in nome del cielo, di non farmene. Tutto il male che mi è capitato fino ad ora ha avuto origine, oltre che dalla porta aperta, dagli auguri che già mi avete fatti." "Ebbene", replicò il califfo, ridendo tra sé della fantasia ancora confusa di Abu-Hassàn, "giacché volete così, sarete obbedito e vi prometto di non farvene." "Mi fate gran piacere parlando così", gli disse Abu-Hassàn, "né vi domando altro. Sarò contento, se manterrete la vostra parola. Sarò così ripagato di tutto." Abu-Hassàn ed il califfo, accompagnato dal suo schiavo, conversando in tal modo, giunsero a casa di Abu-Hassàn. Egli chiamò subito sua madre, e si fece portare il lume. Pregò il califfo di sedersi sul sofà, prese posto accanto a lui, ed in poco tempo la cena fu pronta, servita sulla tavola che era lì vicina. Mangiarono senza cerimonie, e quando ebbero finito, la madre di Abu-Hassàn sparecchiò, e mise la frutta sulla tavola e il vino con le tazze vicino a suo figlio. Poi si ritirò, e non ritornò. Abu-Hassàn cominciò col versarsi del vino per primo, e ne versò poi al califfo. Essi vuotarono ognuno cinque o sei tazze, parlando sempre di cose indifferenti. Quando il califfo vide che Abu-Hassàn cominciava a sentire gli effetti del vino, portò il discorso sull'amore e gli chiese se avesse mai amato. "Fratello mio", rispose con familiarità Abu-Hassàn, che credeva di parlare a un suo eguale, "non ho mai considerato l'amore, o il matrimonio se preferite, che come una schiavitù, alla quale ho avuto sempre gran ripugnanza a sottomettermi, e fino ad ora vi confesso ho amato solo la tavola, la baldoria ed il buon vino; in una parola, non ho pensato che a divertirmi, e a godermela piacevolmente con i miei amici. Non dico però di essere indifferente al matrimonio, né incapace di affetto se potessi incontrare una donna bella e amabile come quelle che vidi in sogno nella notte fatale in cui vi accolsi la prima volta quando, per mia disgrazia, lasciaste la porta della mia camera aperta. Se essa accettasse di passare la sera con me a bere in mia compagnia, se sapesse cantare, suonare diversi strumenti, e intrattenermi piacevolmente; se insomma si sforzasse di compiacermi e di divertirmi, credo che la mia indifferenza si cambierebbe in un grandissimo amore per quella persona, e sarei felicissimo di vivere con lei. Ma dove trovare una donna tale quale ve l'ho dipinta, in altro luogo se non nel palazzo del gran principe dei credenti, o in quello del gran visir Giàafar, o degli altri signori più potenti della corte, ai quali non manca l'oro e l'argento per procurarsela? Preferisco restar fedele alla bottiglia, essendo questo un piacere che costa poco." Nel dire queste parole prese la sua tazza e la riempì di vino; dopo di che riprese: "Datemi la vostra tazza, perché ve la riempia, e continuiamo a gustare un piacere tanto dilettevole". Quando Harùn ar-Rashìd e Abu-Hassàn ebbero bevuto: "E' peccato", riprese il califfo, "che un uomo cortese come voi, e che non è contrario all'amore, faccia una vita tanto solitaria e ritirata". "Non mi è difficile", disse Abu-Hassàn, "preferire la vita tranquilla che faccio, alla compagnia di una donna, che forse non avrebbe una bellezza di mio gusto, e che d'altra parte mi causerebbe mille dispiaceri con le sue imperfezioni e col suo pessimo carattere." Dopo aver parlato molto a lungo su questo argomento, il califfo, avendo visto Abu-Hassàn nello stato d'animo che desiderava: "Lasciate fare a me", gli disse, "giacché avete in tutto i gusti delle persone oneste, voglio trovarvi io quello che fa per voi, senza che vi costi nulla". Dopo aver così detto, prese la bottiglia e la tazza di Abu-Hassàn, nella quale con molta destrezza gettò della polvere simile a quella di cui si era già servito l'altra volta, la riempì poi di vino, e, porgendogliela, disse: "Prendete e bevete sin d'ora alla salute di quella bella, che farà la vostra felicità per tutta la vita; ne sarete soddisfatto". Abu-Hassàn prese la tazza ridendo, e scuotendo il capo rispose: "Sia, giacché lo volete, e non saprei farvi una scortesia né scontentare un ospite del vostro merito per una cosa così da poco; bevo dunque alla salute della bella che mi avete promesso, però vi ripeto che, sono contento della mia sorte, e non faccio alcun conto sulla vostra promessa". Abu-Hassàn appena ebbe bevuto il vino, fu preso da un profondo torpore, come nelle altre due volte, e il califfo rimase di nuovo padrone di disporre di lui a suo piacimento. Ordinò subito allo schiavo, che aveva condotto con sé, di prendere Abu-Hassàn, e di portarlo al palazzo. Lo schiavo se ne andò col suo carico, e quando furono giunti al palazzo, il califfo fece coricare Abu-Hassàn sopra un sofà nel quarto salone, da dove era stato preso e ricondotto addormentato, alla sua casa, un mese prima. Prima di lasciarvelo disteso, comandò che gli fosse fatto indossare lo stesso abito, con cui era stato vestito allora per suo ordine, per fargli rappresentare il personaggio di califfo. Ordinò poi a ognuno di andare a dormire, e al capo degli eunuchi, agli altri ufficiali, ed alle stesse dame che erano in quel salone, quando aveva bevuto l'ultimo bicchiere di vino che lo aveva fatto addormentare, di ritrovarsi lì senza fallo la mattina seguente sul far del giorno al suo risveglio, e ingiunse a ognuno di rappresentare bene la propria parte. Il califfo andò a coricarsi, dopo aver fatto avvertire Masrùr di venire a svegliarlo in tempo per recarsi nella stanzetta dove si era già nascosto l'altra volta. Masrùr non mancò di svegliare all'ora stabilita il califfo, che si fece vestire in tutta fretta, ed uscì per andare nel salone dove Abu-Hassàn dormiva ancora. Trovò alla porta gli ufficiali degli eunuchi, quelli di camera, le dame e le cantanti che aspettavano il suo arrivo. In poche parole, disse loro quel che intendeva fare. Entrò poi e andò a collocarsi nella stanza chiusa da gelosie attraverso cui poteva vedere. Masrùr, tutti gli altri ufficiali, le dame e le cantanti entrarono dopo di lui, e si disposero intorno al letto sul quale Abu-Hassàn era stato coricato, in modo però da non impedire al califfo di vedere e di osservare tutto quel che accadeva. Tutte le cose essendo state così ordinate, e avendo la polvere del califfo cessato il suo effetto, Abu-Hassàn si svegliò senza aprir gli occhi, e buttò fuori un po' di muco, che fu raccolto in una piccola bacinella d'oro, come la prima volta. Allora sette cori di cantanti unirono le loro voci melodiose al suono dei cembali, dei flauti e degli altri strumenti, e formarono un concerto bellissimo. La sorpresa di Abu-Hassàn fu grandissima quando udì una musica tanto armoniosa. Aperti gli occhi, la sua meraviglia aumentò vedendo le dame e gli ufficiali che lo circondavano, e credendo di riconoscerle. Il salone in cui si trovava, gli parve lo stesso di quello che aveva visto nel suo primo sogno. Vi notò la stessa illuminazione, le stesse suppellettili e gli stessi ornamenti. Il concerto terminò, per dar modo al califfo di osservare il contegno del suo ospite e di ascoltare quanto avrebbe detto nella sua sorpresa. Le dame, Masrùr e gli ufficiali in gran silenzio stettero ognuno al suo posto, in atteggiamento rispettoso. "Ohimè!", esclamò Abu-Hassàn mordendosi le dita e con voce così forte che il califfo l'udì con molta gioia, "eccomi ricaduto nello stesso sogno e nella stessa illusione di un mese fa! Ora non mi resta che aspettarmi ancora una volta le bastonate col nerbo di bue all'ospedale dei matti, legato nella gabbia di ferro. Oh Dio!", proseguì, "mi ripongo interamente nelle mani della vostra provvidenza! E' un uomo malvagio quello che ieri sera accolsi in casa mia; è lui che mi provoca questa illusione e le pene che ne devo soffrire. Traditore, perfido! M'aveva promesso con giuramento di chiudere la porta della mia camera nell'uscire, ma non l'ha mantenuta, e lo spirito malefico è entrato di nuovo, e mi va sconvolgendo il cervello con questo maledetto sogno di gran principe dei credenti e con tanti altri fantasmi, con i quali mi abbaglia la vista. Il cielo ti confonda, o Satana, e che tu sia sepolto sotto un monte di pietre!" Dopo queste ultime parole, Abu-Hassàn chiuse gli occhi, e se ne stette raccolto in se stesso con lo spirito molto confuso. Un momento dopo li riaprì, girandoli dall'una all'altra parte su tutti gli oggetti che si presentavano al suo sguardo. "Gran Profeta", esclamò ancora una volta con minore stupore, "io mi rimetto interamente nelle mani della vostra provvidenza; preservatemi da questa tentazione di Satana." Chiudendo poi gli occhi: "So", continuò, "ciò che debbo fare; mi addormenterò ancora, perché Satana mi lasci in pace e torni da dove è venuto, quand'anche dovessi aspettare fino a mezzodì". Ma non gli fu concesso di riaddormentarsi come si era proposto, perché Forza dei Cuori, una delle dame che aveva visto la prima volta si accostò e sedutasi sull'orlo del letto gli disse con tutto rispetto: "Gran principe dei credenti, supplico la maestà vostra di perdonarmi se mi prendo la libertà di avvertirla di non riaddormentarsi: fate ogni sforzo per svegliarvi e alzarvi giacché il giorno comincia ad apparire". "Vattene, Satana!", disse Abu-Hassàn nell'udire quella voce. Guardando poi Forza dei Cuori, le disse: "Son io quello che voi chiamate gran principe dei credenti? Voi certamente mi prendete per un altro". "Alla maestà vostra appunto", replicò Forza dei Cuori, "io attribuisco questo titolo che le appartiene, come al sovrano dei musulmani che vi sono al mondo, e di cui sono umilissima schiava." "Vostra maestà vuole divertirsi", aggiunse, "o forse ha fatto qualche strano sogno, ma se vorrà aprire gli occhi, vedrà che tutte le nubi che le confondono la mente si dissiperanno e vedrà che è nel suo palazzo, circondato da suoi ufficiali e da noi, sue schiave, pronte a servirla. Del resto non dovete meravigliarvi di trovarvi in questa sala e non nel vostro letto: ieri sera vi siete addormentato così profondamente e così improvvisamente che non abbiamo voluto svegliarvi, portandovi fino alla vostra stanza e abbiamo preferito coricarvi su questo sofà." Forza dei Cuori disse tante altre cose ad Abu-Hassàn così convincenti, che finalmente lui si mise a sedere. Aprì gli occhi e la riconobbe, insieme a Vezzo di Perle, e alle altre dame che aveva già visto. Esse allora si accostarono tutte insieme, e Forza dei Cuori riprese il suo discorso: "Gran principe dei credenti, e vicario del Profeta in terra, la maestà vostra troverà conveniente che di nuovo l'avvisiamo che è ormai tempo di alzarsi, perché il giorno comincia ad apparire". "Voi siete persone pericolose e importune", replicò Abu-Hassàn fregandosi gli occhi, "io non sono il gran principe dei credenti, ma Abu-Hassàn, e ne sono così certo che non potrete farmi credere il contrario." "Noi non conosciamo questo Abu-Hassàn, di cui vostra maestà ci parla", soggiunse Forza dei Cuori, "e neppure vogliamo conoscerlo: ma conosciamo la maestà vostra che è il gran principe dei credenti ed ella non ci persuaderà mai di non esserlo." Abu-Hassàn volgeva gli occhi da ogni parte, e sembrava meravigliato di vedersi nello stesso salone nel quale era già stato: ma attribuiva tutto ciò a un sogno eguale a quello dell'altra volta e ne temeva le conseguenze funeste. "Ah!", esclamò, alzando le mani e gli occhi come un uomo che non sappia dove sia, "mi rimetto nelle mani di Maometto! Dopo quanto vedo, non posso dubitare che lo spirito malefico, si sia introdotto nella mia camera, e ora mi tenga in suo potere e mi confonda la mente, con tutte queste visioni." Il califfo, che lo vedeva e che udiva tutte le sue esclamazioni, si mise a ridere con tanta allegria che fece grande fatica a non farsi sentire. Abu-Hassàn era tornato a coricarsi, e aveva chiuso di nuovo gli occhi. "Gran principe dei credenti", disse subito Forza dei Cuori, "giacché la maestà vostra non si alza, benché l'abbiamo avvertita che è giorno, come il nostro dovere esige, e che è ora che si occupi degli affari dello stato, faremo uso del permesso che ci ha accordato per queste situazioni." Ciò detto lo prese per un braccio e chiamò le altre dame, che l'aiutarono a farlo uscire dal letto e lo portarono, per così dire, fino nel mezzo del salone dove lo misero a sedere. Si presero poi per mano e ballarono e saltarono intorno a lui al suono di tutti gli strumenti e di tutti i cembali che suonavano rumorosamente sopra il suo capo e accanto alle sue orecchie. Abu-Hassàn era in grande perplessità. "Che io sia veramente il califfo ed il gran principe dei credenti?", diceva tra sé. Nell'incertezza in cui era, voleva dire qualche cosa: ma il grande strepito di tutti gli strumenti gli impediva di farsi ascoltare. Fece cenno a Vezzo di Perle ed a Stella del Mattino, che si tenevano per la mano ballando, mostrando di voler parlare e quelle fecero cessare subito il ballo e la musica e si accostarono a lui. "Non mentite", disse loro con molta ingenuità, "e ditemi veramente chi sono." "Gran principe dei credenti", rispose Stella del Mattino, "la maestà vostra vuol sorprenderci con questa domanda, come se ella non sapesse da sé di essere il gran principe dei credenti ed il vicario in terra del Profeta, padrone dell'uno e dell'altro mondo, di questo in cui siamo e dell'altro che sarà dopo la morte! Se ciò non fosse, bisognerebbe che uno stravagante sogno le avesse fatto dimenticare chi è. Potrebbe benissimo essere accaduto, se si considera che la maestà vostra ha dormito stanotte ben più a lungo del solito. Ma se me lo permette, le farò ricordare quanto fece ieri in tutto il giorno." Essa dunque gli narrò il suo ingresso nel consiglio, l'ordine di punire l'imàm e i quattro vecchi che aveva dato al luogotenente di polizia, il regalo di una borsa di dinàr spedito per mezzo del suo visir alla madre di un certo Abu-Hassàn; quello che aveva fatto nell'interno del palazzo e quanto gli era accaduto alle tre mense imbandite nei tre saloni, fino all'ultimo. "La maestà vostra", continuò lei, voltandosi verso di lui, "dopo averci fatto sedere a tavola al suo fianco, ci fece il grande onore di udire i nostri canti e di ricevere il vino dalle nostre mani, fino al momento in cui la maestà vostra s'addormentò nel modo che Forza dei Cuori le ha narrato. Dopo la maestà vostra, contrariamente al suo solito, ha dormito sempre di un sonno profondo fino ad ora; ed è giorno. Vezzo di Perle, tutte le schiave e gli ufficiali, qui presenti, vi diranno la stessa cosa. E ora la maestà vostra si metta in condizione di fare la sua preghiera, poiché è l'ora." "Bene, bene", replicò Abu-Hassàn scuotendo il capo, "voi me lo fareste certo credere, se vi volessi dare ascolto. Ed io", continuò, "vi dico che siete tutte pazze e avete perso il senno, il che è un gran peccato, perché siete tanto belle. Sappiate che da quando non vi ho visto sono andato a casa mia e ho maltrattato mia madre, e sono stato condotto all'ospedale dei matti, dove, contro la mia volontà, son rimasto per più di tre settimane, durante le quali il custode non ha lasciato passare giorno senza darmi cinquanta colpi di nerbo di bue; o vorreste farmi credere che tutto questo è stato solo un sogno? Voi vi burlate di me." "Gran principe dei credenti", replicò Stella del Mattino, "eccoci pronte tutte quante a giurare, per tutto ciò che la vostra maestà ha di più caro, che quanto lei ci ha raccontato non può essere che un sogno. Lei da ieri non è uscito da questo salone, e ha dormito tutta la notte fino ad ora." L'insistenza con la quale questa dama assicurava ad Abu-Hassàn che quanto gli diceva era vero e che non era uscito dal salone da quando vi era entrato, lo mise di nuovo in uno stato di incertezza per cui non sapeva più cosa pensare. Se ne stette per qualche tempo immerso nei suoi pensieri. "Oh cielo", diceva fra sé, "sono Abu-Hassàn o sono il gran principe dei credenti? Cielo, illuminate la mia mente, fatemi conoscere la verità, affinché io sappia che cosa devo credere." Si scoprì allora le spalle ancora tutte coperte di lividi per i colpi ricevuti, mostrandole alle dame: "Vedete", disse loro, "e giudicate se simili colpi possono esser prodotti in sogno o dormendo! In quanto a me vi posso assicurare che mi sono stati inflitti veramente e il dolore che sento ancora è una prova tale che non posso dubitarne. Se ciò invece mi è accaduto mentre dormivo, questa è la più stravagante e la più meravigliosa avventura del mondo, e vi assicuro che non posso crederla." Nell'incertezza in cui Abu-Hassàn si trovava sulla sua identità, chiamò uno degli ufficiali del califfo che stava vicino a lui: "Accostatevi", gli disse, "e mordetemi l'orecchio, perché giudichi se dormo o se son desto". L'ufficiale si accostò, gli afferrò l'orecchio fra i denti e tanto fortemente lo strinse, che Abu-Hassàn proruppe in uno spaventevole grido. A tal grido tutti gli strumenti di musica suonarono nello stesso tempo, e le dame e gli ufficiali si misero a ballare, a cantare e a saltare intorno ad Abu-Hassàn con tanto strepito che egli entrò in uno stato d'euforia che gli fece fare mille pazzie. Si mise a cantare come gli altri: lacerò l'abito da califfo, col quale era stato vestito, gettò a terra la berretta che teneva sul capo, e rimanendo in camicia e mutande, si alzò, e si mise fra due dame che pigliò per le mani, mettendosi a cantare, a danzare e a saltare con tanti gesti e movimenti e contorsioni buffonesche e ridicole, che il califfo non poté più contenersi nel nascondiglio dove stava. L'inaspettata buffoneria d'Abu-Hassàn lo fece ridere tanto che si lasciò cadere all'indietro e il rumore che fece fu molto superiore allo strepito degli strumenti musicali e dei cembali. Stette così a lungo senza potersi calmare, che poco mancò non si sentisse male. Finalmente si rialzò, ed aprì la gelosia. Allora esclamò alzando il capo e ridendo: "Abu-Hassàn, Abu-Hassàn, vuoi dunque farmi morire a forza di ridere?". Alla voce del califfo tutti tacquero e lo strepito finì. Abu-Hassàn si fermò con gli altri, e girò il capo dalla parte dalla quale aveva udito la voce. Riconobbe il califfo, e nello stesso tempo il mercante di Mussul. Egli non si sconcertò per questo; al contrario comprese subito di essere ben sveglio e che l'accaduto era realtà e non un sogno. Comprese lo scherzo e l'intenzione del califfo. "Ah! ah!", esclamò guardandolo con coraggio. "Eccolo dunque il mercante di Mussul. Come! Voi vi lamentate che vi faccio morire voi che siete causa dei pessimi trattamenti che ho fatto subire a mia madre e di quelli che ho subiti io per lungo tempo all'ospedale dei matti? Voi che avete trattato tanto malamente l'imàm della moschea del mio quartiere, ed i quattro sceicchi miei vicini, giacché non sono stato io, e me ne lavo le mani? Voi che mi avete causato tante pene di spirito e tanti guai? Insomma il colpevole siete voi e io sono la vittima." "Hai ragione, Abu-Hassàn", rispose il califfo, continuando a ridere, "ma per consolarti, e compensare tutte le tue pene, sono pronto, e chiamo il cielo a testimonio, a concederti quel risarcimento che vorrai indicarmi a tua scelta." Dette queste parole il califfo uscì dal nascondiglio ed entrò nel salone. Si fece portare uno dei suoi begli abiti, e comandò alle dame di compiere le funzioni degli ufficiali di camera, e di rivestirne Abu-Hassàn. Quando esse l'ebbero vestito: "Tu sei mio fratello", gli disse il califfo abbracciandolo, "chiedimi quanto può farti piacere, ed io te lo concederò". "Gran principe dei credenti", riprese Abu-Hassàn, "supplico la maestà vostra di concedermi la grazia di dirmi come ha fatto per sconcertarmi in tal maniera la mente, e qual è stato il suo scopo. Questo adesso m'importa più d'ogni altra cosa per ricomporre del tutto l'animo mio." Il califfo si degnò concedere questa soddisfazione ad Abu-Hassàn, dicendogli: "Devi sapere prima di tutto che io mi travesto spesso, e in particolare la notte, per constatare di persona se tutto è in ordine nella città di Bagdàd. E ho gran piacere di sapere anche ciò che accade nei dintorni per cui mi sono prefisso di fare il primo di ogni mese un gran giro fuori città, ora dall'una, ora dall'altra parte, e ritorno sempre per il ponte. Ritornavo da una gita, la sera in cui tu mi invitasti a cenare in casa tua. Durante la nostra conversazione mi dicesti che avresti voluto essere califfo e gran principe dei credenti per ventiquattr'ore per ridurre al dovere l'imàm della moschea del tuo quartiere e i quattro sceicchi suoi consiglieri. Il tuo desiderio mi parve adatto per procurarmi un divertimento, e con questa intenzione pensai subito al mezzo di procurarti la soddisfazione che desideravi. Io portavo con me una certa polvere, che fa dormire nello stesso momento in cui viene presa e non fa risvegliare se non dopo un certo tempo: senza che te ne accorgessi, ne gettai una certa dose nell'ultima tazza che ti presentai e che bevesti. Appena fosti addormentato, ti feci prendere e trasportare nel mio palazzo dal mio schiavo, dopo aver lasciata aperta nell'uscire la porta della tua camera. Non è necessario dirti ciò che successe nel mio palazzo quando ti risvegliasti e durante il giorno fino alla sera; dopo essere stato lautamente servito di cibi e bevande per mio ordine, una delle mie schiave che ti serviva, gettò un'altra dose della stessa polvere nell'ultimo bicchiere che ti offrì e che bevesti. Subito fosti immerso nel sopore, e ti feci trasportare a casa tua dallo stesso schiavo che ti aveva portato, con l'ordine di lasciare ancora nell'uscire la porta della tua camera aperta. Tu stesso mi hai narrato quello che ti è accaduto la mattina e i giorni seguenti. Non mi ero per nulla immaginato che avresti sofferto tante pene, quante ne hai sofferte in questa occasione: ma mi sono già impegnato verso di te a fare tutto il possibile per consolarti e darti occasione di dimenticare tutti i tuoi mali. Vedi dunque ciò che posso fare per farti piacere, e puoi chiedermi senza timore quanto desideri". "Gran principe dei credenti", rispose Abu-Hassàn, "per grandi che siano i mali che ho sofferto, sono cancellati dalla mia memoria dal momento che so che mi sono venuti dal mio sovrano signore e padrone. Per quello che riguarda la generosità di cui la maestà vostra con tanta bontà si offre di farmi provare gli effetti, non dubito della sua irrevocabile parola. Ma siccome mi concede questa libertà, ardisco chiedere la grazia di permettermi libero accesso presso la sua corte, per godere la fortuna di poter, per tutta la vita, onorare la sua grandezza." Quest'ultima prova del disinteresse di Abu-Hassàn gli attirò tutta la stima del califfo. "Questa tua domanda mi è molto cara, e io ti concedo quanto desideri", gli disse il califfo, "insieme al libero ingresso a qualsiasi ora nel mio palazzo, in qualunque luogo mi trovi." Nello stesso tempo gli assegnò un appartamento nel palazzo, e per quanto riguardava il suo stipendio gli disse che voleva che dipendesse non dai suoi tesorieri, ma da lui stesso: e subito gli fece consegnare dal suo tesoriere segreto una borsa di mille dinàr. Abu-Hassàn ringraziò calorosamente il califfo, che poi lo lasciò per andare ad assistere al consiglio, secondo il suo solito. Abu-Hassàn approfittò di questo tempo per andare, senza indugio, a informare sua madre di quanto era accaduto e a farla partecipare della sua buona sorte. Le spiegò che quanto gli era accaduto non era stato un sogno ma che era stato davvero califfo, e ne aveva esercitate le funzioni per lo spazio di un giorno, ricevendone anche gli onori. Le disse che non doveva dubitare di quanto affermava, perché ne aveva avuta la conferma dalla bocca del califfo stesso. La notizia della storia di Abu-Hassàn non tardò molto a essere conosciuta nella città di Bagdàd e passò pure nelle province vicine e di là nelle più lontane, con tutti gli strani e buffi particolari che l'accompagnavano. Il nuovo favore di cui godeva Abu-Hassàn lo rendeva molto assiduo presso il califfo. Egli era per natura di umore gaio, e faceva nascere l'allegria ovunque si trovava con i suoi motti piacevoli e i suoi scherzi e per questo il califfo non poteva star senza di lui, e non prendeva nessun divertimento senza chiamarlo: lo conduceva pure qualche volta da Zobeida sua moglie, alla quale aveva narrato la sua storia, che l'aveva divertita molto. Zobeida se ne compiaceva molto, ma osservò che ogni volta che egli accompagnava il califfo da lei teneva sempre gli occhi fissi su una delle sue schiave chiamata Nùzat al-Auda, e decise di avvisarne il califfo. "Gran principe dei credenti", disse un giorno la principessa al califfo, "voi non avete forse osservato che, ogni volta che Abu-Hassàn vi accompagna qui, non stacca g1i occhi da Nùzat al-Auda e che lei ne arrossisce. Questo mi pare un segno certo che ella non l'odia; per cui se volete seguire il mio consiglio, li faremo sposare." "Signora", rispose il califfo, "voi mi fate ricordare una cosa che dovrei aver già fatto. So quale sia il pensiero di Abu-Hassàn riguardo al matrimonio, lo so da lui stesso, e gli avevo promesso di dargli una moglie dalla quale avrebbe avuto ogni motivo di gioia. Ho molto piacere che me ne abbiate parlato né so come questo affare mi sia uscito dalla mente. Ma è molto meglio che Abu-Hassàn abbia seguito la propria inclinazione con questa scelta fatta da lui stesso. Peraltro, giacché Nùzat al-Auda non è contraria, non dobbiamo più oltre differire questo matrimonio. Eccoli tutti e due; essi non hanno che da dichiarare che vi acconsentono." Abu-Hassàn si prostrò ai piedi del califfo e di Zobeida per dimostrar loro quanto fosse commosso dalle bontà che avevano per lui. "Non posso", disse, rialzandosi, "ricevere la mia sposa da mani migliori; ma non oso sperare che Nùzat al-Auda voglia concedermi la sua mano tanto di buon grado, quanto io sono pronto a concederle la mia." Nel terminare queste parole, egli guardò la schiava della principessa, che, col suo rispettoso silenzio, e col rossore che le coprì il viso, dimostrò chiaramente di essere disposta a seguire il volere del califfo e di Zobeida sua padrona. Il matrimonio fu concluso e le nozze celebrate nel palazzo con grandi feste, che durarono parecchi giorni. Zobeida si fece un dovere di offrire ricchi regali alla sua schiava, per compiacere il califfo, e il califfo dal canto suo, in considerazione di Zobeida, fece lo stesso verso Abu-Hassàn. La moglie fu condotta nell'alloggio che il califfo aveva assegnato ad Abu-Hassàn suo marito, che l'aspettava con impazienza. L'accolse, in mezzo all'armonia di tutti gli strumenti musicali, dei cori di cantori e cantatrici di palazzo che facevano echeggiare l'aria del concerto delle loro voci e dei loro strumenti. Molti giorni passarono in feste ed allegria, come avviene in simili occasioni, poi i novelli sposi furono lasciati a godere in pace il loro amore. Abu-Hassàn e la sua consorte erano innamoratissimi l'uno dell'altra. Vivevano in così perfetta unione, che tranne il tempo che dedicavano l'uno al califfo, l'altra alla principessa Zobeida, stavano sempre insieme, né mai si dividevano. Vero è che Nùzat al-Auda aveva tutte le qualità di una donna capace di ispirare amore e attaccamento ad Abu-Hassàn, giacché corrispondeva ai desideri che egli aveva per l'appunto esposti una volta al califfo, cioè di sapergli stare alla pari a tavola. Con queste disposizioni essi non potevano mancare di passar insieme molto piacevolmente il loro tempo. La loro tavola era sempre pronta e imbandita di vivande delicate e ghiotte, che un cuoco aveva l'incombenza d'apprestare e provvedere loro. La credenza era sempre carica di vino squisito e disposto in maniera, che, stando a tavola, ne potessero prendere a lor agio senza disturbo né dell'uno, né dell'altra. Se ne stavano a tavola allegramente, e si intrattenevano con mille scherzi, che li facevano prorompere in scoppi di risa più o meno forti, secondo che quanto dicevano fosse più o meno divertente. Il pasto della sera particolarmente era consacrato all'allegria. Si faceva apprestare frutta eccellente, dolciumi, paste di mandorle, e ad ogni sorso di vino si sfidavano a gara l'un l'altra con delle canzoni, che erano per lo più improvvisate sull'argomento di cui parlavano. Queste canzoni erano qualche volta accompagnate da un liuto, o da qualche altro strumento, che l'uno e l'altra sapevano suonare. Abu-Hassàn e Nùzat al-Auda passarono in tal modo un lungo periodo di tempo in gozzoviglie e in divertimenti. Non si erano mai curati della spesa dei pranzi, e il cuoco, che era stato scelto da loro, aveva anticipato il pagamento. Era giusto che alla fine ricevesse del denaro: ed egli presentò loro la nota delle spese. La somma era ragguardevole, e aggiungendo a questa quella considerevole degli abiti nuziali di stoffe preziosissime, si accorsero, ma tardi, che di tutto il danaro ricevuto dalla generosità del califfo e dalla principessa Zobeida, in occasione del loro matrimonio, non restava più se non quanto bastava a pagare i debiti. Ciò li obbligò a far serie considerazioni sul passato, che per altro non rimediavano in nessun modo alla situazione presente. Abu-Hassàn pensò di pagare il cuoco, e sua moglie vi aderì; lo fecero quindi venire e gli pagarono quanto gli dovevano; senza peraltro lasciargli capire l'imbarazzo in cui si sarebbero trovati, dopo averlo pagato. Il cuoco se ne andò molto contento di essere stato pagato in tante belle monete d'oro coniate di fresco, che non si vedevano se non nel palazzo del califfo; ma Abu-Hassàn e la sua sposa non lo furono altrettanto, vedendo il fondo delle loro borse, e rimasero silenziosi, con gli occhi bassi, e molto imbarazzati di vedersi ridotti in quello stato nel primo anno del loro matrimonio. Abu-Hassàn si ricordava molto bene che il califfo, trattenendolo nel suo palazzo, gli aveva promesso di non lasciargli mancare nulla. Ma quando rifletteva che in poco tempo aveva dissipato i doni della sua mano generosa, non osava più chiedere, non volendo esporsi alla vergogna di dover rivelare al califfo il cattivo uso che ne aveva fatto, e il bisogno in cui era di ricevere altro denaro. D'altra parte egli aveva ceduto la rendita del suo patrimonio a sua madre, quando il califfo lo aveva trattenuto presso di sé, ed era contrario a ricorrere alla borsa di sua madre, alla quale avrebbe fatto capire così di essere ricaduto nella stessa vita sregolata in cui si era trovato dopo la morte di suo padre. Nùzat al-Auda dal canto suo, considerando che la libertà accordatale con tanta generosità di maritarsi fosse una ricompensa più che sufficiente per i suoi servizi e la sua fedeltà, non credeva di avere diritto a domandare ancora. Abu-Hassàn ruppe finalmente il silenzio, e guardando Nùzat al-Auda con faccia serena, le disse: "Mi accorgo molto bene che siete nello stesso imbarazzo in cui mi trovo io e che cercate quale soluzione possiamo trovare in una situazione tanto infausta quanto questa, in cui ci troviamo improvvisamente privi di denaro e senza averlo perso. Non so cosa ne pensiate voi; in quanto a me, checché possa accadere, il mio parere non è di diminuire in qualche cosa la nostra spesa ordinaria, e credo che dal canto vostro non sarete di parere contrario. Il punto sta nel trovare il mezzo di procurarci il denaro, senza soggiacere alla viltà di chiederne né io al califfo né voi a Zobeida; e credo di aver trovato il mezzo. Ma per questo dobbiamo aiutarci l'un l'altra". Questo discorso di Abu-Hassàn piacque molto a Nùzat al-Auda e le diede qualche speranza. "Non ero meno preoccupata di voi da questo pensiero", gli rispose, "e se non parlavo, era perché non vedevo alcun rimedio. Vi confesso che la spiegazione che state per darmi mi reca grandissimo piacere, e giacché avete trovato il mezzo e il mio soccorso vi è necessario per riuscire, a voi spetta dirmi quello che devo fare e vedrete che mi adoprerò con tutte le forze possibili." "Non dubitavo", riprese Abu-Hassàn, "che avreste accettato di buona voglia di concorrere a quanto sto per suggerirvi in un affare che ci riguarda entrambi. Udite il mezzo che ho immaginato perché il denaro non ci manchi nel bisogno che ne abbiamo, almeno per qualche tempo. Consiste in un piccolo inganno che faremo, io al califfo, e voi a Zobeida, e che vi assicuro li divertirà e a noi sarà utile. L'inganno dunque che ho pensato è che noi moriamo." "Che moriamo tutti e due?", interruppe Nùzat al-Auda, "morite pure voi se volete, voi solo! Quanto a me, non sono stanca di vivere, né voglio, non ve ne dispiaccia, morire tanto presto! Se non avete altro mezzo da propormi, potete metterlo in atto da solo, perché vi assicuro che non vi aiuterò." "Voi siete donna", soggiunse Abu-Hassàn, "di una vivacità e di una prontezza sorprendenti: non mi date neppure il tempo di spiegarmi. Ascoltate dunque con pazienza e dopo vedrete che vorrete morire della stessa morte della quale voglio morire io; perché capirete che non intendo parlare di una morte vera, ma di una morte finta." "Ah! Allora va bene", interruppe di nuovo Nùzat al-Auda, "quando si tratta di una morte finta, sono con voi. Contate pure su di me e vedrete con quanto zelo vi asseconderò per morire in questa maniera. Perché, a parlarvi francamente, ho una ripugnanza invincibile a morire tanto presto, come mi ero immaginata." "Ebbene, resterete soddisfatta!", continuò Abu-Hassàn. "Ecco che cosa penso, per riuscire in quanto mi propongo. Io fingerò di esser morto; subito voi piglierete un lenzuolo e mi avvolgerete in esso come se effettivamente fossi morto. Mi porterete nel mezzo della camera nella maniera consueta, col turbante posto sopra il viso e i piedi voltati dalla parte della Mecca, pronto per essere trasportato nel luogo della sepoltura. Quando tutto sarà così disposto, voi proromperete in clamori, e spargerete lacrime come accade in simili occasioni, lacerandovi gli abiti, e strappandovi i capelli, o almeno fingendo di strapparveli, e tutta in pianto, con i capelli sparsi, andrete a presentarvi a Zobeida. La principessa vorrà sapere la causa delle vostre lacrime; e non appena l'avrete informata, con parole interrotte da singhiozzi, non mancherà di compatirvi, e di farvi dono di qualche somma di danaro per le spese dei miei funerali, e di una pezza di broccato per farne il drappo mortuario, per rendere la mia sepoltura più magnifica, e per un abito per voi. Quando sarete ritornata con questo denaro e la pezza di broccato, mi alzerò e voi vi metterete al posto mio e fingerete di essere morta; dopo avervi avvolta in un lenzuolo, andrò dal califfo a raccontargli quanto voi avete raccontato a Zobeida e sono pronto a scommettere che il califfo non sarà meno generoso con me, di quanto lo sarà stata Zobeida verso di voi, per la mia morte." Quando Abu-Hassàn ebbe terminato di esporre il suo pensiero, la moglie gli rispose: "Credo che lo scherzo sarà molto divertente e sono certa che il califfo e Zobeida ne saranno lieti. Ora si tratta di condurlo bene. In quanto a me lasciatemi fare: rappresenterò la mia parte bene, e mi aspetto lo stesso da voi e con tanto maggior zelo e attenzione, in quanto ne comprendo come voi il vantaggio che dobbiamo riportarne. Dunque non perdiamo tempo. Mentre prenderò un lenzuolo, voi preparatevi a mettervi in camicia ed in mutande!". Abu-Hassàn non tardò ad eseguire quanto Nùzat al-Auda aveva detto. Si stese con la schiena sopra il tappeto, nel mezzo della camera, incrociò le braccia, e si lasciò avvolgere in modo che pareva dovesse entro breve tempo essere posto nella bara e portato via. Sua moglie gli voltò i piedi dalla parte della Mecca, gli coprì la faccia con della mussolina, e vi pose sopra il turbante, in modo che potesse respirare. Essa poi si spettinò, e con le lacrime agli occhi, i capelli sparsi che mostrava di volersi strappare, con grandi strida si batteva le guance ed il petto con tutte le dimostrazioni di un vivo dolore. In questo modo uscì dalla camera e attraversò un gran cortile per andare all'appartamento della principessa Zobeida. Lanciava urla tanto dolorose che Zobeida le udì fin dal suo appartamento. Comandò allora alle sue schiave di andare a vedere da dove venissero tali pianti. Accorsero subito alle gelosie, e ritornarono ad avvisare Zobeida che Nùzat al-Auda si avvicinava al suo appartamento, piangendo. La principessa, impaziente di sapere cosa le fosse accaduto, si alzò e le andò incontro fino alla porta della sua camera. Nùzat al-Auda rappresentò perfettamente la parte che doveva recitare. Non appena ebbe visto Zobeida, raddoppiò i suoi clamori, si strappò i capelli, si percosse le guance ed il petto con maggior forza, e si prostrò ai suoi piedi bagnandoli di lacrime. Zobeida, meravigliata di vedere la sua schiava in un'afflizione tanto straordinaria, le chiese che avesse, e quale disgrazia le fosse accaduta. Invece di rispondere la falsa afflitta continuò a singhiozzare per qualche tempo. "Ohimè! mia riveritissima signora e padrona", esclamò finalmente, "quale disgrazia maggiore e più funesta mi poteva accadere di questa, che mi obbliga a prostrarmi ai piedi della maestà vostra nella estrema disgrazia in cui sono? Il cielo vi conceda molti giorni in perfetta salute, o mia adoratissima principessa, e vi conceda lunghi e felicissimi anni. Abu-Hassàn, che avete onorato della vostra grazia e che mi avete dato per marito d'accordo col gran principe dei credenti, è morto." Dicendo queste parole, Nùzat al-Auda raddoppiò le sue lacrime e di nuovo si prostrò ai piedi della principessa. Zobeida restò estremamente sorpresa da questa cattiva notizia. "Abu-Hassàn è morto!", esclamò, "un uomo così pieno di salute, così simpatico e così divertente! Davvero non mi aspettavo di udire una tale notizia." E non poté non mostrare il suo dolore piangendo. Le schiave che l'accompagnavano, e che molte volte avevano preso parte agli scherzi di Abu-Hassàn, mostrarono esse pure col pianto il loro rammarico per la sua perdita, e la parte che vi prendevano. Zobeida, le schiave e Nùzat al-Auda, rimasero a lungo in pianto, nascondendosi gli occhi col fazzoletto, e di tanto in tanto sospiravano profondamente per questa finta morte. La principessa finalmente ruppe il silenzio dicendo con serietà: "Iniqua! Sei forse tu la causa della sua morte? Gli avrai dato tali dispiaceri col tuo umore inquieto, che l'avrai portato a sepoltura". Nùzat al-Auda mostrò di essere molto mortificata del rimprovero che Zobeida le faceva. "Ah! signora", esclamò, "non credo di aver mai dato alla maestà vostra, per tutto il tempo che ho avuto l'onore di essere sua schiava, il minimo motivo che giustifichi un'opinione tanto negativa della mia condotta verso un marito che mi era così caro. Mi reputerei la più sventurata di tutte le donne, se voi ne foste persuasa. Ho amato Abu-Hassàn come una moglie deve amare un marito diletto sopra ogni cosa, e senza vantarmi posso affermare che l'ho amato quanto meritava per tutte le ragionevoli compiacenze che egli aveva per me, e che erano la prova che mi amava non meno teneramente. Sono persuasa che su questo punto egli mi difenderebbe presso la maestà vostra, se fosse ancora vivo." Zobeida aveva in verità osservato nella sua schiava una grande uniformità di umore, un'affabilità che non si smentiva mai, una grande docilità, e perciò non esitò a credere alle sue espressioni, e comandò alla sua tesoriera d'andare a prendere dal suo tesoro una borsa di cento dinàr e una pezza di broccato. La tesoriera ritornò subito con la borsa e la pezza di broccato, che consegnò, per ordine di Zobeida, nelle mani di Nùzat al-Auda. Nel ricevere questo dono, lei si prostrò ai piedi della principessa, e le rese umilissimi ringraziamenti, mentre dentro di sé gioiva per essere riuscita ottimamente nel suo intento. "Va", le disse Zobeida, "fa stendere la pezza di broccato sotto il catafalco di tuo marito, e usa il danaro per fargli esequie onorevoli e degne di lui. Non affliggerti troppo, perché io stessa prenderò cura di te." Nùzat al-Auda non appena fu lontana da Zobeida si asciugò le lacrime e con grande giubilo e sollecitudine ritornò da Abu-Hassàn per raccontargli del successo ottenuto. Nel rientrare, Nùzat al-Auda proruppe in un grande scoppio di risa, ritrovando Abu-Hassàn nello stato in cui l'aveva lasciato, cioè avvolto nel lenzuolo, in mezzo alla camera. "Alzatevi", disse ridendo, "e venite a vedere il frutto dell'imbroglio che abbiamo fatto a Zobeida. Per ora non moriremo di fame." Abu-Hassàn si alzò prontamente, e si rallegrò molto con sua moglie vedendo la borsa e la pezza di broccato. Nùzat al-Auda era così contenta di essere riuscita ad imbrogliare la principessa, che non poteva contenere il suo giubilo. "Ciò non basta", disse a suo marito ridendo, "ora voglio anch'io fingermi morta, e vedere se voi sarete tanto bravo da ottenere altrettanto dal califfo, quanto io ho ottenuto da Zobeida." Abu-Hassàn, a sua volta, avvolse la moglie in un lenzuolo, le voltò i piedi verso la Mecca, ed uscì dalla camera tutto in disordine, col turbante malamente accomodato, come di un uomo colpito da un grave dolore. In questo stato andò dal califfo, che in quel momento teneva un consiglio privato col suo gran visir Giàafar ed altri visir, nei quali aveva maggior fiducia. Si presentò alla porta e l'usciere, sapendo che egli aveva libero ingresso, gli aprì. Entrò tenendosi con una mano il fazzoletto sugli occhi per nascondere le finte lacrime, che versava in abbondanza, battendosi con l'altra mano dei colpi sul petto, con esclamazioni che esprimevano un grandissimo dolore. Il califfo, che era solito vedere Abu-Hassàn con espressione sempre ilare, e che ispirava gioia, restò molto sorpreso vedendolo comparire alla sua presenza così mesto, e senza più prestare attenzione all'affare del quale si stava trattando in consiglio, gli chiese la causa del suo dolore. "Gran principe dei credenti", rispose Abu-Hassàn con singhiozzi e reiterati sospiri, "non mi poteva accadere disgrazia maggiore di quella che causa la mia afflizione! Il cielo dia lunga vita alla maestà vostra sul trono che con tanta gloria occupa. Nùzat al-Auda, che la vostra bontà mi aveva concessa in matrimonio, per passare il rimanente dei miei giorni in sua compagnia... Ohimè!..." A questa esclamazione, Abu-Hassàn mostrò di avere il cuore talmente oppresso, da non poter proseguire e scoppiò in pianto. Il califfo, che comprese che Abu-Hassàn veniva ad annunciargli la morte di sua moglie, ne parve estremamente commosso. "Il cielo le conceda misericordia", disse con un tono che dimostrava quanto gli rincrescesse, "era una buona schiava, e te l'avevamo concessa, Zobeida ed io, con l'intenzione di farti piacere. Meritava davvero di vivere più a lungo." Egli stesso fu obbligato a pigliare il fazzoletto per asciugare le lacrime che gli scorrevano dagli occhi. Il dolore di Abu-Hassàn e le lacrime del califfo commossero il gran visir Giàafar e gli altri visir. Piansero tutti la morte di Nuzàt al-Auda, la quale invece attendeva con grande impazienza di sapere se Abu-Hassàn fosse riuscito nel suo intento. Il califfo ebbe per Abu-Hassàn lo stesso pensiero che Zobeida aveva avuto per la moglie, e immaginò che egli fosse stato la causa di quella morte. "Sciagurato!", gli disse con aria sdegnosa, "non sei forse stato tu la causa della morte di tua moglie, trattandola male? Dovevi almeno avere qualche considerazione per la principessa Zobeida mia moglie, che l'amava più delle altre schiave, e che volentieri ha consentito a privarsene per concedertela. Questa è una bella dimostrazione della tua gratitudine!" "Gran principe dei credenti", rispose Abu-Hassàn facendo finta di piangere più amaramente di prima, "come può la maestà vostra nutrire per un sol momento il pensiero che Abu-Hassàn, ricolmato dalle sue grazie e dai suoi benefici, e al quale ha concesso tanti onori, cui mai avrebbe osato aspirare, abbia potuto essere capace di tale e tanta ingratitudine? Amavo mia moglie, per tutte queste ragioni e ancora per le belle qualità che aveva; ed ho sempre avuto per lei tutta la tenerezza e tutto l'amore che meritava. Ma, signore", soggiunse, "lei doveva morire, ed il cielo non ha voluto lasciarmi godere più a lungo di una felicità che avevo ottenuto dalla bontà della maestà vostra e di Zobeida, sua cara sposa." Abu-Hassàn, insomma, seppe così bene simulare il suo dolore, mostrando tutti i segni di una vera afflizione, che il califfo, il quale per altro non aveva mai sentito dire che egli avesse avuto il minimo contrasto con la moglie, prestò fede a quanto gli disse, e non dubitò della sincerità del suo dolore. Il tesoriere del palazzo era presente, e il califfo gli ordinò di andare al tesoro, e consegnare ad Abu-Hassàn una borsa con cento dinàr, insieme ad una bella pezza di broccato. Abu-Hassàn si prostrò subito ai piedi del califfo per dimostrargli la sua gratitudine e ringraziarlo del suo regalo. "Segui il tesoriere", gli disse il califfo, "la pezza di broccato deve servire a coprire il catafalco della defunta, e il danaro per farle un funerale degno di lei. Penso che volentieri le darai quest'ultima prova del tuo amore!" Abu-Hassàn non rispose a queste parole cortesi del califfo, se non con un profondissimo inchino, e si ritirò. Seguì il tesoriere, e non appena gli furono consegnate la borsa e la pezza di broccato, ritornò contentissimo al suo alloggio, molto soddisfatto di avere con tanta rapidità e facilità trovato il danaro con cui supplire alle necessità in cui si era ridotto, e che gli avevano cagionato tanta inquietudine. Nùzat al-Auda, stanca di essere stata lungamente in quella incomoda posizione, non aspettò che Abu-Hassàn le dicesse di abbandonare il triste stato in cui era. Appena udì aprire la porta gli corse incontro. "Ebbene", gli disse, "il califfo è stato egualmente facile da ingannare come Zobeida?" "Voi vedete", rispose Abu-Hassàn scherzando e mostrandole la borsa e la pezza di broccato, "che so rappresentare la parte del marito afflitto per la morte di una moglie in ottima salute, altrettanto bene quanto voi quella di una moglie che piange la morte di un marito sano come un pesce." Abu-Hassàn frattanto sospettava che questo duplice inganno avrebbe avuto delle conseguenze. Perciò preparò sua moglie per quanto gli fu possibile su ciò che sarebbe potuto capitare, per agire di concerto. "Infatti", aggiunse, "quanto più riusciremo a mettere il califfo e Zobeida in imbarazzo, tanto più alla fine se ne divertiranno, e forse ci proveranno la loro soddisfazione con nuove prove di generosità." Questa ultima considerazione li incoraggiò a continuare nella finzione per quanto possibile. Benché avesse ancora affari da regolare nel consiglio che presiedeva, il califfo, impaziente di andare dalla principessa Zobeida per farle le sue condoglianze per la morte della schiava, si alzò poco dopo la partenza di Abu-Hassàn, e rimandò il consiglio a un altro giorno. Il gran visir e gli altri visir presero commiato e se ne andarono. Il califfo allora disse a Masrùr, capo degli eunuchi del suo palazzo: "Seguimi, e vieni con me a prender parte al dolore della principessa per la morte di Nùzat al-Auda sua schiava". Arrivati all'appartamento di Zobeida, videro la principessa seduta su un sofà, molto afflitta e con gli occhi ancora bagnati di lacrime. Il califfo entrò, ed avvicinandosi a Zobeida: "Signora", le disse, "non è necessario dirvi quanta parte prendo alla vostra afflizione, giacché non ignorate che sono sensibile a ciò che vi addolora quanto a ciò che vi fa piacere. Ma siamo tutti mortali, e dobbiamo restituire la vita a chi ce l'ha concessa, quando ci viene chiesta. La vostra schiava fedele aveva veramente qualità tali che la rendevano degna della vostra stima, e approvo che gliene diate ancora delle prove dopo la sua morte. Considerate peraltro che la vostra afflizione non le restituirà la vita. Sicché, o signora, se volete lasciarvi persuadere e se mi amate, consolatevi di questa perdita, prendendo cura della vostra vita che mi è molto preziosa, e che forma tutta la felicità della mia". La principessa restò commossa dai sentimenti di tenerezza che accompagnavano le parole del califfo, ma fu molto meravigliata udendo parlare della morte di Nùzat al-Auda che non si aspettava. Questa notizia le procurò una tale sorpresa, che se ne stette per qualche tempo in silenzio senza poter rispondere. Era infatti molto stupita di udire una notizia tanto contraria a quella che aveva saputo, e non poteva quasi parlare. Si riscosse dal suo stordimento, e finalmente, incominciando a parlare, disse, con aria e con voce che ben mostravano il suo stupore: "Gran principe dei credenti, io sono sensibilissima a tutti i sentimenti di tenerezza che mi dimostrate; ma permettetemi di dirvi che non capisco nulla di ciò che mi dite della morte della mia schiava che gode perfetta salute. Il cielo conservi voi e me, o signore: se mi vedete afflitta, ciò deriva dalla morte di Abu-Hassàn, suo marito e vostro favorito, che io stimavo sia per la considerazione che avevate di lui, sia perché avete avuta la bontà di farmelo conoscere e l'ho trovato divertente. Ma, signore, l'insensibilità che dimostrate per la sua morte, e la noncuranza con cui ne parlate dopo così poco tempo malgrado mi aveste dimostrato di provare gran piacere nell'averlo vicino a voi, mi causano stupore e sorpresa. E questa insensibilità appare maggiormente perché volete annunciarmi la morte della mia schiava, invece di quella di Abu-Hassàn suo marito". Il califfo, che credeva di essere bene informato sulla morte della schiava, che aveva buone ragioni di crederlo per ciò che aveva lui stesso visto ed udito, si mise a ridere e si strinse nelle spalle udendo Zobeida parlare a quel modo. "Masrùr", disse volgendosi verso di lui e parlandogli, "che ne dici del discorso della principessa? Non è vero che le donne hanno qualche volta certe fantasie che solo difficilmente si possono perdonare?" E rivolgendosi verso Zobeida le disse: "Signora, non distruggetevi più in pianto per la morte di Abu-Hassan; egli gode perfetta salute. Piangete piuttosto la morte della vostra schiava; pochi minuti fa infatti suo marito è venuto nel mio appartamento piangendo a calde lacrime, e in tale afflizione che mi ha commosso, e mi ha annunciato la morte di sua moglie. Io gli ho fatto consegnare una borsa con cento dinàr e una pezza di broccato, per consolarlo e per pagare le spese del funerale della defunta. Masrùr, che è qui presente, è stato testimone di tutto, e vi confermerà quanto ho detto". Questo discorso del califfo, non sembrò alla principessa un discorso serio e credette che volesse farle credere una fandonia. "Gran principe dei credenti", riprese, "benché sia una vostra abitudine scherzare, vi dirò che non è questo il momento di farlo. Ciò che vi dico è serissimo; non si tratta della morte della mia schiava, ma della morte di Abu-Hassàn suo marito; io ne compiango la sorte, e voi dovreste compiangerla con me." "E io, signora", rispose il califfo, con aria molto seria, "vi dico, senza scherzi, che vi ingannate. E Nùzat al-Auda che è morta, mentre Abu-Hassàn vive, e gode ottima salute." Zobeida restò offesa dalla risposta del califfo. "Gran principe dei credenti", soggiunse con vivacità, "il cielo vi preservi dal rimanere in questo errore; mi fareste supporre che la vostra mente è alterata. Permettetemi di ripetervi che Abu-Hassàn è morto, e che la mia schiava, vedova del defunto, gode perfetta salute. Non è passata un'ora da che essa è uscita di qui. Era venuta, disperata e in uno stato che mi avrebbe fatta piangere al solo vederla, anche se non mi avesse detto con mille affannosi singhiozzi la causa della sua afflizione. Le mie donne hanno tutte pianto, e possono darvene testimonianza. Vi diranno anche che le ho fatto dono di una borsa con cento dinàr e d'una pezza di broccato, e il dolore che nell'entrare avete scorto sul mio viso, era causato non tanto dalla morte di suo marito, quanto dalla desolazione in cui l'avevo vista. Stavo anzi mandando a portarvi le mie condoglianze, allorché siete entrato." A queste parole di Zobeida: "Questa, signora, è una ostinazione stravagante!", esclamò il califfo con un grande scoppio di risa. "Io vi dico", continuò tornando serio, "che è Nùzat al-Auda che è morta!". "No, vi dico, signore", esclamò Zobeida interrompendo con grande serietà, "Abu-Hassàn è il morto, e non riuscirete a farmi credere il contrario." Fu tale lo sdegno del califfo a questa risposta che divenne rosso dalla rabbia. Si sedette sul sofà, molto lontano dalla principessa, e rivolgendosi a Masrùr: "Va subito a vedere", gli disse, "chi di loro è morto, e ritorna subito a dirmelo. Benché io sia certissimo che è Nùzat al-Auda che è morta, preferisco averne conferma con questo mezzo, piuttosto che continuare a discutere su una cosa che mi è perfettamente nota". Il califfo non aveva ancora terminato di parlare, che Masrùr era partito per eseguire il suo ordine. "Vedrete", riprese il califfo parlando a Zobeida, "tra un momento chi di noi due ha ragione, se voi o io." "In quanto a me", replicò Zobeida, "so bene che la ragione è dalla mia parte e voi stesso vedrete che Abu-Hassàn è morto, come io vi ho detto." "E io", insistette il califfo, "sono tanto certo che la morta sia Nùzat al-Auda, che sono pronto a scommettere con voi quello che vorrete, sostenendo che non è più al mondo, e che Abu-Hassàn gode perfetta salute." "Non pensate di averla già vinta con questo!", replicò Zobeida. "Accetto la scommessa. Sono tanto persuasa della morte di Abu-Hassàn che scommetto volentieri quanto ho di più caro, contro ciò che vorrete, anche poco." "A queste condizioni", disse allora il califfo, "scommetto il mio giardino di delizie contro il vostro palazzo dei dipinti: l'uno val bene l'altro." "Accetto, e la scommessa è fatta. Non sarò io a tirarmi indietro, e ne chiamo il cielo in testimonio!" Il califfo prestò lo stesso giuramento, e senza dir altro aspettarono il ritorno di Masrùr. Mentre il califfo e Zobeida discutevano con tanto calore sulla morte di Abu-Hassàn o di Nùzat al-Auda, Abu-Hassàn che aveva previsto molto bene che essi avrebbero così battibeccato, spiava quanto stava per accadere. Quando dalla gelosia presso la quale si era seduto mentre parlava con sua moglie, vide Masrùr che si dirigeva verso il loro appartamento, comprese subito con quale ordine fosse stato mandato. Disse perciò a sua moglie che doveva ancora una volta fingersi morta, come avevano deciso, e che non c'era tempo da perdere. Infatti il tempo stringeva, e Abu-Hassàn prima dell'arrivo di Masrùr ebbe appena il tempo di avvolgere nel lenzuolo sua moglie, e distendere sopra di lei la pezza di broccato che il califfo gli aveva fatta consegnare. Aprì poi la porta della sua casa, e con la faccia mesta e smunta, tenendosi il fazzoletto sugli occhi, si sedette accanto alla finta morta. Aveva appena terminato, quando Masrùr giunse nella sua camera; lo spettacolo funebre che gli si presentò lo soddisfece, per quanto riguardava l'ordine che il califfo gli aveva dato. Quando Abu-Hassàn lo vide, gli andò incontro, e, baciandogli in segno di rispetto la mano: "Signore", disse sospirando e lacrimando, "voi mi vedete nella più grande afflizione per la morte di Nùzat al-Auda, la mia cara moglie, che voi onoravate del vostro favore". Masrùr fu commosso da questo discorso, e non poté trattenere le lacrime al pensiero della defunta. Alzò un poco la stoffa che copriva la presunta morta, dalla parte del capo, per vederle la faccia che era scoperta, e lasciandola andare dopo averla guardata: "Non vi è altro Dio che Dio", disse con un profondo sospiro, "e Maometto è il suo profeta! Dobbiamo sottometterci tutti al volere del cielo, e chi nasce deve ritornare a lui! Nùzat al-Auda, mia buona sorella", soggiunse sospirando, "il tuo destino è stato di breve durata. Il cielo ti conceda misericordia!". Si volse poi ad Abu-Hassàn che si consumava in lacrime: "Non senza ragione", gli disse, "si dice che le donne sono qualche volta fuori di senno, e che non si possono perdonare; Zobeida, la mia buonissima padrona, si trova in questo stato. Ha voluto sostenere col califfo che non già vostra moglie era morta, ma voi: e qualunque cosa il califfo abbia potuto dirle per persuaderla del contrario, non ha potuto convincerla. Ha perfino chiamato me per testimonio, poiché, come ben sapete, ero presente quando siete venuto ad annunciargli la dolorosa notizia, ma anche questo non è servito a nulla. Ne hanno fatto una tremenda discussione, che non sarebbe più finita se il califfo, per convincere Zobeida, non mi avesse mandato qui per constatare la verità. Ma temo di non riuscire neppure così, perché qualunque cosa si possa dire a una donna per convincerla della verità, la sua ostinazione è tale che non si può averla vinta, quando è proprio convinta di una cosa". "Il cielo conservi il gran principe dei credenti nel possesso e nel buon uso del suo raro spirito", rispose Abu-Hassàn con le lacrime agli occhi e con parole interrotte da singhiozzi, "voi vedete quello che veramente è, e che non ho ingannato sua maestà: fosse piaciuto al cielo", esclamò per meglio simulare, "che non avessi avuto l'occasione di andare a partecipargli una notizia tanto infausta e dolorosa!" "E' vero", riprese Masrùr, "e io prendo molta parte alla vostra afflizione. Ma bisogna che ve ne consoliate, e non dovete abbandonarvi in questo modo al vostro dolore. Vi lascio controvoglia per ritornare dal califfo; ma vi chiedo di grazia", proseguì, "di non far portar via il cadavere prima che sia ritornato, perché voglio assistere alla sepoltura ed accompagnarla con le mie preghiere." Masrùr se ne andò a render conto della sua ambasciata, e Abu-Hassàn lo accompagnò fino alla porta assicurandolo di non meritare l'onore che gli voleva fare. Temendo che Masrùr ritornasse subito a dirgli qualche altra cosa, lo seguì con lo sguardo per qualche tempo e quando lo vide lontano rientrò in casa, e sciogliendo Nùzat al-Auda dei panni in cui stava avvolta: "Ecco", le disse, "una nuova scena della nostra commedia: ma immagino che non sarà l'ultima, perché la principessa certamente non si vorrà arrendere alla relazione di Masrùr, e se ne burlerà. Ha ragioni troppo forti per non prestargli fede, e dobbiamo aspettarci ancora qualche nuovo fatto". Durante questo discorso di Abu-Hassàn sua moglie ebbe il tempo di ripigliare i suoi abiti; dopo di che andarono entrambi a collocarsi di nuovo sopra il sofà, accanto alla finestra per tentare di scoprire ciò che sarebbe accaduto. Frattanto Masrùr arrivò da Zobeida ed entrò nel suo salottino ridendo e battendo le mani, come uno che avesse qualche buona notizia da annunciare. Il califfo, naturalmente impaziente, voleva essere subito informato di quest'affare e siccome era anche vivamente irritato per la sfida della principessa, così appena vide Masrùr: "Scellerato schiavo", esclamò, "non è tempo di ridere. Tu non proferisci parola? Parla con coraggio: chi è morto? il marito o la moglie?". "Gran principe dei credenti", rispose subito Masrùr ritornando serio, "Nùzat al-Auda è morta, ed Abu-Hassàn ne è ancora afflitto come nel momento in cui si è presentato davanti alla maestà vostra." Senza dar tempo a Masrùr di proseguire oltre, il califfo l'interruppe: "Buone notizie!", esclamò con un grande scoppio di risa. "Un momento fa il palazzo dei dipinti apparteneva a Zobeida tua padrona, ma ora è mio. Lo abbiamo scommesso contro il mio giardino di delizie, dopo che te ne sei andato; sarà mia cura ricompensarti perché non mi potevi fare maggior piacere. Ma a parte questo, dimmi quanto hai visto". "Gran principe dei credenti", rispose Masrùr, "arrivando da Abu-Hassàn, sono entrato nella sua camera che era aperta: l'ho trovato molto afflitto, che piangeva la morte della sposa. Era seduto accanto alla defunta, che era in mezzo alla stanza, avvolta in un lenzuolo, con i piedi rivolti verso la Mecca e coperta dalla pezza di broccato che vostra maestà ha donato ad Abu-Hassàn. Dopo avergli provato che prendevo viva parte al suo dolore mi sono avvicinato e, sollevando la stoffa dalla parte della testa ho riconosciuto Nùzat al-Auda col volto già gonfio e trasformato. Ho consolato come ho potuto Abu-Hassàn e, venendo via gli ho detto che avrei voluto partecipare ai funerali e che quindi aspettasse a far seppellire il corpo. Ecco quanto posso dire a vostra maestà." Masrùr finì così la relazione al califfo, che gli disse, ridendo di cuore: "Io non pretendevo altro, e sono contentissimo della tua esattezza". Rivolgendosi poi alla principessa Zobeida, le disse: "Ebbene, signora, avete ancora qualche cosa da ridire contro una verità così lampante? Credete ancora che Nùzat al-Auda sia viva e che Abu-Hassàn sia morto, o riconoscete di aver perso la scommessa?". Zobeida non ammise affatto che Masrùr avesse riferita la verità. "Come, signore", rispose, "potete immaginare che io creda a questo schiavo? Egli è un impertinente e non sa ciò che dice: io non sono né cieca, né pazza, e coi miei stessi occhi ho visto Nùzat al-Auda in grande afflizione. Io stessa le ho parlato, e ho udito benissimo quanto mi ha detto della morte di suo marito." "Signora", disse Masrùr, "vi giuro sulla vostra vita e su quella del gran principe dei credenti, che mi sono entrambe più care della mia stessa vita, che Nùzat al-Auda è morta, e che Abu-Hassàn vive." "Tu menti, schiavo vile e spregevole!", replicò Zobeida indignata, "e voglio sbugiardarti." Chiamò le sue donne, battendo le mani. Quelle subito entrarono in gran numero. "Venite qui!", disse loro la principessa. "Chi è venuto a parlarmi poco prima che il gran principe dei credenti giungesse?" Le donne risposero tutte d'accordo, che era venuta la sconsolata ed afflitta Nùzat al-Auda. "E a voi", soggiunse, voltandosi alla tesoriera, "che cosa ho ordinato di consegnarle prima che se ne andasse?" "Signora", rispose la tesoriera, "ho consegnato a Nùzat al-Auda per ordine della maestà vostra una borsa di cento dinàr, e una pezza di broccato." "Ebbene, schiavo sciagurato e indegno!", disse allora Zobeida a Masrùr, "che rispondi a queste parole? A chi pensi che debba credere ora, a te o alla mia tesoriera, e alle mie altre donne oltre che a me stessa?" A Masrùr non sarebbero mancate le ragioni per contraddire il discorso della principessa; ma temendo di sdegnarla maggiormente, prese il partito di ritirarsi, e se ne stette in profondo silenzio, convinto tuttavia, per tutte le prove che aveva, che fosse morta Nùzat al-Auda e non Abu-Hassàn. Durante questa discussione fra Zobeida e Masrùr, il califfo, che aveva assistito alle testimonianze riferite dall'una e dall'altra parte, in base alle quali ognuno sosteneva le sue ragioni, e sempre persuaso del contrario di quanto affermava la principessa, sia per quello che aveva visto lui stesso parlando con Abu-Hassàn sia per ciò che aveva riferito Masrùr, rideva di tutto cuore nel vedere Zobeida tanto indignata contro Masrùr. "Signora, lo ripeto ancora una volta", disse a Zobeida: "non so chi abbia detto che le donne qualche volta vaneggiano; permettete che vi dica che, comportandovi così, dimostrate che chi ha affermato ciò, ha ragione. Masrùr è venuto un momento fa dalla casa di Abu-Hassàn, e dice di avere coi propri occhi visto Nùzat al-Auda morta, nel mezzo della camera, ed Abu-Hassàn vivo, vicino alla defunta: e nonostante la sua testimonianza, che non si può ragionevolmente negare, persistete a non credergli: questo non riesco a capirlo". Zobeida, senza voler udire quanto il califfo le andava dicendo: "Gran principe dei credenti", riprese, "perdonatemi se vi considero sospetto. Mi accorgo che ve la intendete con Masrùr per farmi dispetto e per mettere alla prova la mia pazienza. Ho capito che la relazione di Masrùr è stata concordata prima con voi, e vi prego di lasciarmi mandare qualche persona in mio nome a casa di Abu-Hassan per sapere se veramente io sia in errore". Il califfo acconsentì, e la principessa incaricò la sua nutrice di questa importante commissione. Era questa una donna di età avanzata, che era rimasta sempre presso Zobeida fin dalla sua infanzia, ed era presente, in compagnia delle altre sue donne. "Nutrice mia", le disse, "ascolta, va alla casa di Abu-Hassàn, o per dir meglio da Nùzat al-Auda, giacché Abu-Hassàn è morto; tu ben vedi quale sia la disputa tra me e il gran principe dei credenti e Masrùr; non c'è bisogno di dirti altro. Informati di tutto, e se mi porti una buona notizia, vi sarà per te un bel regalo. Va, e ritorna in fretta." La nutrice partì, con gran giubilo del califfo, che si divertiva molto vedendo Zobeida in quell'imbarazzo. Ma Masrùr, estremamente mortificato perché la principessa era così indignata contro di lui, andava cercando il mezzo per placarla e per fare sì che il califfo e Zobeida fossero egualmente contenti di lui. Per cui provò grande gioia quando vide che Zobeida aveva deciso di mandare la sua nutrice a casa di Abu-Hassàn, essendo persuaso che la relazione di lei sarebbe stata simile alla sua, e lo avrebbe così giustificato, rendendogli il favore della principessa. Abu-Hassàn, che era sempre di sentinella presso la gelosia, vide da lontano la nutrice. Avendo compreso che veniva da parte di Zobeida, chiamò sua moglie, e senza esitare neppure un momento su quanto dovevano fare, disse: "Ora viene la nutrice della principessa per informarsi della verità, e tocca a me fare il morto!". Poiché era già tutto pronto. Nùzat al-Auda avvolse Abu-Hassàn, distese sopra di lui la pezza di broccato che Zobeida gli aveva consegnata, e gli pose il turbante sulla faccia. La nutrice, per la premura di eseguire la commissione, era venuta molto sollecitamente. Entrando nella camera, vide Nùzat al-Auda seduta presso il capo di Abu-Hassàn, tutta scapigliata e in pianto che si percuoteva le guance ed il petto, prorompendo in alte grida. Si avvicinò alla finta vedova, dicendole con aria mesta: "Nùzat al-Auda, mia cara, io non vengo a disturbare il vostro dolore, o ad impedirvi di spargere lacrime per la perdita di un marito che teneramente vi amava". "Ah! mia buona madre", l'interruppe pietosamente la finta vedova, "vedete quale è la mia disgrazia, e da quale infausta sventura sono afflitta per la perdita del mio caro Abu-Hassàn, che Zobeida, mia e vostra padrona, e il gran principe dei credenti, mi avevano dato per marito." "Abu-Hassàn, mio caro sposo", esclamò poi, "che vi ho mai fatto per avermi tanto presto abbandonata? Non ho sempre seguito i vostri voleri piuttosto che i miei? Ohimè, che ne sarà della povera Nùzat al-Auda?" La nutrice era molto sorpresa trovando proprio il contrario di quanto il capo degli eunuchi aveva riferito al califfo. "Quel brutto ceffo di Masrùr", esclamò, "meriterebbe giustamente che il cielo lo perdesse per aver provocato un tale disaccordo fra la mia buona padrona e il gran principe dei credenti raccontando una bugia così grande come quella che ha detta loro! Bisogna, figlia mia", continuò volgendosi a Nùzat al-Auda, "che vi faccia conoscere l'iniquità e l'impostura di quel vile Masrùr. Egli ha sostenuto davanti alla nostra buona padrona, con una sfrontatezza indicibile, che voi eravate morta, e che Abu-Hassàn era vivo." "Ohimè! Mia buona madre", esclamò allora Nùzat al-Auda, "volesse il cielo ch'egli avesse detto il vero! Non mi troverei ora nell'afflizione in cui mi vedete, né piangerei un marito che mi era tanto caro!" Nel pronunciare queste ultime parole si struggeva in pianto, e mostrò nuova desolazione, rinnovando le sue lacrime e i suoi clamori. La nutrice, commossa dalle sue lacrime, si sedette vicino a lei, e unendo le sue lacrime a quelle di lei si avvicinò insensibilmente al capo di Abu-Hassàn, sollevò un poco il turbante, e gli scoprì la faccia, per riconoscerlo. "Ah! povero Abu-Hassàn", disse subito, ricoprendolo, "prego il cielo che vi conceda misericordia! Addio, figlia mia", aggiunse, "se potessi rimanervi accanto più a lungo, lo farei di buona voglia, ma non posso trattenermi oltre. Il mio dovere mi chiama altrove." Appena la nutrice di Zobeida, uscendo, ebbe chiusa la porta, Nùzat al-Auda, giudicando dalla premura che aveva dimostrata di ritornare dalla principessa, che non sarebbe ritornata, si asciugò le lacrime, liberò rapidamente Abu-Hassàn dal lenzuolo in cui era avvolto, ed entrambi andarono a riprendere il loro posto accanto alla gelosia, aspettando con tranquillità la conclusione di quell'inganno. La nutrice di Zobeida, nonostante la sua grande vecchiaia, aveva accelerato il passo per il piacere di portare alla principessa notizia a lei favorevole, e più ancora per la speranza di ricevere un gran premio. Entrata nel salottino della principessa quasi senza fiato, le riferì della sua commissione, narrandole con gran giubilo quanto aveva visto. Zobeida ascoltò la nutrice con grandissimo piacere, e lo mostrò, poiché, come quella ebbe terminato il suo discorso, disse alla nutrice con voce allegra, che manifestava la sua certezza di aver vinto: "Narra dunque la stessa cosa al gran principe dei credenti, il quale ci considera delle sciocche, e che inoltre vorrebbe farci passare per gente che non ha religione e timor di Dio. Dillo anche a questo iniquo schiavo moro, che è tanto temerario da volermi sostenere una cosa, che so meglio di lui che non è vera!". Masrùr, il quale aveva creduto che il messaggio della nutrice e la relazione che ne avrebbe fatto sarebbero tornati a suo favore, restò mortificato vedendosi deluso nella sua aspettativa. Peraltro si sentì vivamente offeso dallo sdegno che Zobeida nutriva contro di lui, per una cosa di cui si credeva più certo di chiunque altro. Perciò fu lieto di poter sfogare il suo malcontento con tutta libertà contro la nutrice, piuttosto che con la principessa, alla quale non ardiva rispondere, nel timore di mancarle di rispetto. "Vecchia sdentata", disse alla nutrice, lasciando da parte ogni riguardo, "tu sei una bugiarda! Non c'è niente di vero in quanto hai raccontato! Ho visto coi miei occhi Nùzat al-Auda stesa morta in mezzo alla camera." "Tu menti, e sei tu l'insigne bugiardo", ripigliò la nutrice con aria minacciosa, "tu che ardisci sostenere una tale falsità davanti a me, che esco in questo istante dalla casa di Abu-Hassàn, e l'ho visto disteso, morto, mentre ho lasciato sua moglie in perfetta salute." "Io non sono né bugiardo né impostore", riprese Masrùr, "ma tu sì, che cerchi di convincerci di una cosa falsa!" "Questa è una sfrontatezza!", replicò la nutrice. "Come osi dare una tale smentita alla presenza delle loro maestà, a me, che coi miei stessi occhi ho visto la verità di quanto ho avuto l'onore di riferire?" "Nutrice", riprese di nuovo Masrùr, "faresti meglio a non parlare, poiché rimbambisci." Zobeida non poté tollerare il modo ingiurioso con cui Masrùr, senza alcun riguardo, trattava in sua presenza la sua nutrice. Perciò, senza dar tempo a questa di rispondere all'atroce ingiuria: "Gran principe dei credenti", disse al califfo, "imploro la vostra giustizia contro questa insolenza, che riguarda voi non meno di me!". Non poté proseguire, tanto era soffocata dallo sdegno: il resto del discorso fu sostituito da copiose lacrime. Il califfo, il quale aveva udito tutto questo battibecco, rimase molto imbarazzato. Aveva un bel pensarci; non sapeva che dire tra tante contraddizioni. Dal canto loro, la principessa, Masrùr, la nutrice e le schiave che erano presenti, non sapevano che pensare di questo imbroglio. Il califfo finalmente prese a dire: "Signora, vedo bene che tutti siamo bugiardi, io per primo, tu, Masrùr, e anche la nutrice: almeno non sembra che l'uno sia più credibile dell'altro. Perciò alziamoci e andiamo noi stessi a vedere da quale parte sta la verità. Non vedo altro mezzo per chiarire i nostri dubbi, e placare gli animi". Nel profferire queste parole, il califfo si alzò, la principessa lo seguì, e Masrùr andò avanti per aprire la porta. "Gran principe dei credenti", egli disse al califfo, "provo gran giubilo che la maestà vostra abbia preso questa decisione e lo proverò ancora maggiore quando avrò fatto vedere alla nutrice, non già che rimbambisce, poiché questa espressione sfortunatamente non piace alla mia venerata padrona, ma che ha fatto una relazione che non corrisponde alla verità." La nutrice non poté trattenersi dal dire: "Taci, faccia orrenda, nessun altro c'è qui se non tu che sia rimbambito!". Zobeida, che era molto sdegnata contro Masrùr, non poté tollerare che egli di nuovo fosse venuto a contrasto con la sua nutrice, di cui prese le parti, dicendogli: "Scellerato schiavo, qualunque cosa tu possa dire, sostengo che la mia nutrice ha affermata la verità. In quanto a te, ti considero un bugiardo!". "Signora", replicò Masrùr, "se la nutrice è tanto sicura che Nùzat al-Auda è viva e che Abu-Hassàn è morto, scommetta qualche cosa con me, se ne ha il coraggio." La nutrice fu pronta alla risposta. "Certo che ne ho il coraggio", gli disse, "e ti piglio in parola; vediamo se hai l'ardire di ritirarti." Masrùr non si ritirò e fecero la scommessa in presenza del califfo e della principessa; una pezza di broccato d'oro e gran fiori d'argento per l'uno o per l'altra. L'appartamento dal quale il califfo e Zobeida uscirono, benché fosse molto lontano, stava di rimpetto a quello di Abu-Hassàn; egli li vide dunque avanzare preceduti da Masrùr e accompagnati dalla nutrice e dalla folla delle donne di Zobeida, e ne avvertì subito sua moglie, dicendole, che se non si sbagliava di grosso, stavano per essere onorati dalla loro vista. Nùzat al-Auda guardò pure lei dalla gelosia, e vide che era proprio così. Benché suo marito l'avesse avvertita che ciò poteva accadere, ne restò molto sorpresa. "Che faremo?", esclamò. "Siamo perduti!" "Niente paura", rispose Abu-Hassàn con molto sangue freddo, "vi siete già dimenticata di quanto abbiamo deciso in questo caso? Fingiamoci morti, voi ed io, come abbiamo deciso, e vedrete come tutto andrà bene. A giudicare dal passo con cui vengono, saremo pronti prima che essi giungano alla porta." Infatti Abu-Hassàn e sua moglie cercarono di avvolgersi il meglio possibile nei lenzuoli, ed in questo stato si misero nel mezzo della camera, l'uno vicino all'altra, coperti ciascuno dalla loro pezza di broccato e aspettarono in pace la bella compagnia che veniva a visitarli. Questi infine giunsero. Masrùr aprì la porta, e il califfo e Zobeida entrarono nella camera, seguiti da tutta la gente che avevano presa con sé. Restarono molto sorpresi, e si fermarono, immobili, al vedere il funebre spettacolo che si presentava ai loro sguardi. Zobeida finalmente ruppe il silenzio. "Ohimè!", disse al califfo, "sono morti tutti e due! Tanto avete fatto", continuò guardando il califfo e Masrùr, "con la vostra ostinazione per farmi credere che la mia cara schiava fosse morta, che ciò è avvenuto e senza dubbio sarà morta per il dolore di aver perso suo marito." "Dite piuttosto, signora", rispose il califfo, convinto del contrario, "che Nùzat al-Auda è morta prima, e che il povero Abu-Hassàn ha dovuto soccombere alla sua afflizione nell'aver visto morire sua moglie, vostra schiava. Per cui dovete riconoscer di aver perso la scommessa, e il vostro palazzo dei dipinti mi spetta di diritto." "E io", riprese Zobeida sdegnata di essere contraddetta dal califfo, "sostengo che voi avete perduto e che il vostro giardino di delizie mi appartiene. Abu-Hassàn è morto per primo, giacché la mia nutrice ha detto a voi, e a me, di aver veduto sua moglie viva, che piangeva il marito morto." Questo battibecco tra il califfo e Zobeida ne produsse un altro. Masrùr e la nutrice si trovavano nella stessa situazione; avevano scommesso, e ognuno pretendeva di aver vinto. La disputa evidentemente si riscaldava, ed il capo degli eunuchi e la nutrice stavano ormai per scambiarsi grosse ingiurie. Il califfo finalmente considerando quanto era accaduto, tacitamente riconosceva che Zobeida aveva altrettante ragioni quanto lui per sostenere che aveva vinto. Era davvero spiacente di non poter risolvere la questione e in questo dubbio si avvicinò ai due corpi inanimati e si sedette, meditando tra sé su quale espediente potesse fargli riportare la vittoria sopra Zobeida: "Sì", esclamò un momento dopo, "giuro per il profeta Maometto, che darò mille dinàr a quello che mi dirà chi dei due è morto prima!" Il califfo aveva appena pronunciato queste parole, che udì una voce uscire da sotto la pezza di broccato che copriva Abu-Hassàn: "Gran principe dei credenti", diceva, "io sono morto per primo! Datemi dunque mille dinàr!". E nello stesso tempo vide Abu-Hassàn uscire da sotto la pezza di broccato che lo copriva e prostrarsi ai suoi piedi. Sua moglie fece lo stesso, e andò a mettersi ai piedi di Zobeida, coprendosi per pudore con la pezza di broccato. A questa vista Zobeida proruppe in un grande grido, che accrebbe il timore di tutti i presenti. La principessa infine, ripresasi dal suo spavento, fu assai lieta di vedere la sua cara schiava risuscitata, proprio quando si desolava di saperla morta. "Ah! cattiva", esclamò, "tu mi hai fatto soffrire una gran pena per amor tuo, e in più modi. Io peraltro te lo perdono di cuore, giacché non sei morta!" Il califfo da parte sua non aveva preso la cosa tanto sul serio; non si spaventò, udendo la voce di Abu-Hassàn, e credette di scoppiare dalle risa vedendoli entrambi sciogliersi dal lenzuolo in cui erano avviluppati, e udendo Abu-Hassàn chiedere con serietà i mille dinàr, che aveva promesso a chi gli avrebbe detto chi fosse morto prima. "Tu, dunque, caro Abu-Hassàn", gli disse il califfo ridendo, "hai cospirato contro di me, volendo farmi morire dal ridere? E come ti è venuta l'idea di ingannare in tal maniera Zobeida e me, con un mezzo che non ci aspettavamo davvero?" "Gran principe dei credenti", rispose Abu-Hassàn, "ve lo dirò senza nasconder nulla. La maestà vostra sa benissimo che sono stato sempre incline alla crapula. La moglie ch'ella m'ha concesso, non ha posto nessun freno a questa mia passione, ma, al contrario, ho ritrovato in lei dei gusti favorevoli ad accrescerla. Con tale disposizione la maestà vostra facilmente capirà che quand'anche avessimo posseduto un tesoro vasto quanto il mare, o come quello di vostra maestà, ne avremmo in poco tempo visto la fine. Da quando viviamo insieme, non abbiamo risparmiato nulla per arricchire la mensa grazie alla generosità della maestà vostra. Questa mattina, dopo aver fatto i conti col nostro cuoco, abbiamo scoperto che dopo averlo pagato e aver pagato altri nostri debiti, non ci restava nulla del danaro che avevamo. Le considerazioni sopra il passato, e le risoluzioni di una vita più regolata nell'avvenire, sono venute in folla ad occupare il nostro spirito ed i nostri pensieri. Abbiamo fatto e disfatto mille progetti e infine la vergogna di vederci ridotti in uno stato così deplorevole, non avendo il coraggio di confessarlo alla maestà vostra, ci ha fatto immaginare questo mezzo per supplire alla nostra indigenza, divertendovi con questo piccolo inganno, che preghiamo la maestà vostra di perdonarci!" Il califfo e Zobeida, molto contenti della sincerità di Abu-Hassàn, non si sdegnarono per quanto era accaduto; anzi, perfino Zobeida, che aveva preso tutta la faccenda con molta serietà, non poté a meno di ridere, pensando a quanto Abu-Hassàn aveva immaginato per riuscire nel suo proposito. Il califfo, che non aveva quasi mai smesso di ridere, tanto questa astuzia gli pareva straordinaria: "Seguitemi", disse ad Abu-Hassàn ed a sua moglie, alzandosi, "voglio farvi consegnare i mille dinàr che vi ho promesso". "Gran principe dei credenti", disse Zobeida, contenta, "vi prego, di far consegnare i mille dinàr ad Abu-Hassàn; a sua moglie ci penserò io." Nello stesso tempo comandò alla sua tesoriera di consegnare altri mille dinàr a Nùzat al-Auda, per dimostrarle la sua gioia di saperla viva. Con questo mezzo Abu-Hassàn e Nùzat al-Auda, sua cara moglie, conservarono a lungo i favori del califfo Harùn ar-Rashìd e di Zobeida sua sposa, e ottennero dalla loro generosità di che provvedere abbondantemente a tutte le proprie necessità per tutta la vita. Le Mille e Una Notte Storia dell'Uomo addormentato ridestato [Parte prima] Enciclopedia termini lemmi con iniziale a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Storia Antica dizionario lemmi a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Dizionario di Storia Moderna e Contemporanea a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w y z Lemmi Storia Antica Lemmi Storia Moderna e Contemporanea Dizionario Egizio Dizionario di storia antica e medievale Prima Seconda Terza Parte Storia Antica e Medievale Storia Moderna e Contemporanea Dizionario di matematica iniziale: a b c d e f g i k l m n o p q r s t u v z Dizionario faunistico df1 df2 df3 df4 df5 df6 df7 df8 df9 Dizionario di botanica a b c d e f g h i l m n o p q r s t u v z |
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