Le Mille e Una Notte Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato.

La moschea del sultano Alì a Baghdad

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Le Mille e Una Notte Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato [Parte intera 216KB]

Le Mille e Una Notte Storia dell'Uomo addormentato ridestato [Parte prima]

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Le Mille e Una Notte

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I Grandi Classici - Le Mille e una notte Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato [Parte prima]

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La notte seguente, dopo che Dunyazàd l'ebbe svegliata, cominciò il suo racconto. Sotto il regno del califfo Harùn ar-Rashìd c'era a Bagdàd un ricco mercante, che aveva una moglie già vecchia. Avevano un figlio che si chiamava Abu-Hassàn, di trent'anni circa, che era stato allevato con grande parsimonia. Il mercante morì, e Abu-Hassàn entrò in possesso delle molte ricchezze che suo padre aveva accumulate facendo grandi risparmi e prodigando grandi cure ai suoi affari. Il figlio, che aveva mire e inclinazioni diverse da quelle di suo padre, ne fece un uso opposto. Siccome suo padre non gli aveva mai dato denaro al tempo della sua giovinezza, se non appena il necessario, ed egli aveva sempre invidiato gli altri suoi coetanei che non ne erano mai privi, e potevano godere tutti quei piaceri ai quali la gioventù con troppa facilità si abbandona, decise di segnalarsi ora facendo spese proporzionate alle grandi ricchezze che la fortuna gli aveva offerto. A questo scopo divise le sue ricchezze in due parti: l'una fu adoperata in acquisti di campi e di case in città, per assicurarsi una rendita sufficiente per vivere con tutti i comodi, col proposito di non toccare le somme che ne avrebbe ricavato, ma di accumularle man mano che le avesse riscosse; l'altra parte, che consisteva in una considerevole somma di denaro, fu destinata a compensarlo di tutto il tempo che credeva di aver perduto sotto la dura disciplina con cui suo padre lo aveva allevato fino alla sua morte, ma si obbligò a non spendere nulla oltre quella somma per divertirsi nella vita dissoluta che si era proposta.

Con questo programma Abu-Hassàn si formò in pochi giorni una compagnia di persone della sua età e della sua condizione, e non pensò ad altro che a passare il tempo con loro in tutti i piaceri possibili. Non si accontentò perciò di invitarli giorno e notte, e offrire loro banchetti splendidi, durante i quali erano servite con grande abbondanza vivande raffinate e vini prelibati: ma aggiunse anche la musica, facendo venire i migliori cantanti dell'uno e dell'altro sesso, a cui si univano spesso anche i suoi amici che cantavano col bicchiere in mano.

Questi conviti per lo più terminavano con balli, nei quali erano invitati i migliori ballerini e le migliori ballerine della città di Bagdàd. Tutti questi divertimenti, ogni giorno rinnovati con nuovi piaceri, impegnarono Abu-Hassàn in spese tanto grandi, che non poté continuare una vita così dispendiosa per più di un anno. Infatti la somma, che aveva destinato a queste prodigalità, fu ben presto esaurita. Quando cessò di tenere tavola imbandita, i suoi amici sparirono, e non li incontrava mai ovunque andasse. Infatti essi fuggivano subito, appena lo vedevano, e se per caso ne raggiungeva qualcuno, e accennava a fermarlo, quegli si schermiva con mille pretesti. Abu-Hassàn fu più afflitto dalla stravagante condotta dei suoi amici che lo abbandonavano con tanta ingratitudine, dopo tutte le proteste di affetto che gli avevano fatte, che da tutto il denaro che aveva speso per loro tanto male a proposito. Triste, pensieroso, col capo chino e col viso pallido per il rammarico, entrò nell'appartamento di sua madre, e si sedette sull'orlo di un sofà molto lontano da lei. "Che hai dunque, figlio mio?", gli chiese sua madre, vedendolo in quello stato. "Perché sei tanto mutato, e oppresso, e così diverso dal solito? Se avessi perduto tutto quanto hai al mondo, non potresti essere più triste." A tali parole Abu-Hassàn si mise a piangere ed esclamò: "Madre mia, ho capito ora, dalla dolorosa esperienza, quanto la povertà sia insopportabile. Chi è povero è considerato perfino dai suoi parenti e amici, come un estraneo. Voi sapete, madre mia", proseguì, "in quale maniera mi sia comportato con i miei amici, per un anno intero. Li ho invitati ai conviti più splendidi che si possano immaginare, fino a consumare tutto il mio danaro e ora mi accorgo che tutti mi hanno abbandonato. Per ciò che riguarda la mia rendita, ringrazio il cielo di avermi ispirato di conservarla, facendo il giuramento che ho fatto di non toccarla. Osserverò questo giuramento, e so quale uso farò di quanto fortunatamente mi rimane. Ma prima voglio sperimentare fino a che punto i miei amici (se meritano ancora di essere chiamati tali) spingeranno la loro ingratitudine. Li voglio vedere tutti, uno dopo l'altro, e quando avrò mostrato quanti sforzi ho fatto per loro li pregherò di raccogliere una somma, che in qualche maniera serva a risollevarmi dallo stato infelice in cui, per fare piacere a loro, mi sono ridotto: ma voglio fare questo esperimento, come già vi ho detto, solo per vedere se troverò un sentimento di gratitudine in qualcuno di loro". "Figlio mio", rispose la madre di Abu-Hassàn, "non intendo dissuaderti dal fare questa prova: ma ti posso dire purtroppo che la tua speranza è mal fondata. Credi, qualunque cosa tu possa fare, questo esperimento sarà inutile, perché non troverai soccorso che in ciò che tu stesso hai messo da parte. Vedo bene che non conosci ancora questi amici, ma presto li conoscerai. Voglia il cielo che ciò avvenga nella maniera che io auguro, e cioè per il tuo bene."

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"Madre mia", ripigliò Abu-Hassàn, "sono persuaso della verità di quanto mi dite, ma sarò più certo di questo fatto, che tanto mi tocca, quando mi sarò assicurato da me stesso della loro viltà e insensibilità." Abu-Hassàn se ne partì subito, scelse così bene il momento, che trovò tutti i suoi amici ognuno a casa sua. Egli descrisse loro il gran bisogno in cui era, e li pregò di aprirgli i loro scrigni per soccorrerlo. Promise d'impegnarsi con ognuno di loro a restituire le somme che gli avessero prestato, non appena fossero ristabiliti i suoi affari, facendo anche notare che si era ridotto in quello stato in gran parte per far loro piacere, sperando in tal modo di suscitare la loro generosità. Non tralasciò neppure di lusingarli, facendo loro sperare che un giorno avrebbe potuto ricominciare a invitarli come aveva fatto per il passato. Nessuno dei suoi amici fu commosso dalle vivaci espressioni con cui l'afflitto Abu-Hassàn tentò di persuaderli. Oltre a ciò ebbe anche la mortificazione di vedere che molti gli dicevano esplicitamente che non lo conoscevano, e che non si ricordavano di averlo mai visto. Ritornò per questo a casa col cuore gonfio di dolore e di sdegno. "Ah! madre mia", esclamò, rientrando nel suo appartamento, "l'avevate ben detto! Invece di amici ho trovato dei perfidi e degli ingrati, indegni della mia amicizia! Io vi rinuncio e vi prometto di non rivederli ma più!" Abu-Hassàn rimase fermo nella propria determinazione di mantenere questa promessa. A questo fine mise in atto tutte le cautele più adatte a sfuggire le occasioni: e, per non ricadere nella stessa situazione, promise con giuramento di non banchettare più, per tutta la sua vita, con persone di Bagdàd. Prese poi lo scrigno dove stava il danaro delle sue rendite da dove lo aveva messo in serbo, e lo mise al posto di quello ormai vuoto. Decise allora di non prenderne per le sue spese giornaliere se non una somma fissa, sufficiente per invitare decorosamente una sola persona a cenare con lui. Fece inoltre giuramento che questa persona non dovesse esser di Bagdàd, ma forestiera e giunta in quello stesso giorno, e che il giorno seguente l'avrebbe congedata, dopo averla ospitata solamente per una notte. Seguendo questo programma, Abu-Hassàn provvedeva di persona a fare ogni mattina la provvista necessaria per questo banchetto, e verso la fine del giorno andava a sedersi sul ponte di Bagdàd, e non appena vedeva un forestiero, di qualunque stato o condizione fosse, lo fermava con molta cortesia, invitandolo a fargli l'onore di andare a cena e a dormire in casa sua per la prima notte del suo soggiorno: e dopo averlo informato della regola che si era imposta e della condizione che aveva messo alla sua prodigalità, lo conduceva nella propria abitazione. Il banchetto che Abu-Hassàn preparava al suo ospite non era sontuoso, ma c'era tutto il necessario, e in particolare non mancava il buon vino. Si prolungava il convito finché la notte era molto avanzata, e invece di intrattenere il suo ospite sui problemi dello stato, o sulla famiglia, o sugli affari, come di solito accade, badava al contrario di non parlare che di cose indifferenti, simpatiche e piacevoli. Era naturalmente faceto, di buon gusto, molto compiacente e sapeva parlare con grazia su qualsiasi argomento, dando allegria anche ai più malinconici. Quando, nel giorno seguente, congedava il suo ospite, egli soleva dirgli: "In qualunque luogo possiate andare, il cielo vi preservi da ogni ragione di rammarico! Nell'invitarvi ieri a venire a cena in casa mia, vi informai della regola che mi sono prescritta; sicché non vi dispiaccia se vi dico che non ceneremo più insieme e che non ci rivedremo più, né in casa mia né altrove, perché ho le mie buone ragioni per comportarmi così. Perciò il cielo vi guidi!". Abu-Hassàn era molto scrupoloso nell'osservare questa regola. Non guardava più i forestieri, una volta che li aveva accolti in casa sua, né parlava più con loro. Quando li incontrava, o nelle piazze, o nelle pubbliche adunanze, faceva finta di non vederli, oppure si voltava da un'altra parte per evitare che lo fermassero: insomma non aveva più nessun contatto con loro. Era qualche tempo che viveva in tal modo, quando un giorno, poco prima del tramonto del sole, mentre stava seduto al suo solito posto sul ponte, apparve il califfo Harùn ar-Rashìd, ma travestito, di modo che non lo riconobbe. Questo monarca infatti, pur avendo ministri ed ufficiali capi di giustizia, di una grande precisione nel puntuale adempimento dei loro doveri, voleva informarsi su ogni cosa, personalmente. E, a tale scopo, come abbiamo già visto, se ne andava spesso travestito in modi diversi per la città di Bagdàd. Non trascurava neppure di uscire dalla città, e anzi era sua abitudine andare ogni primo del mese sulle strade maestre lungo le quali si fermava, ora da una parte, ora dall'altra. Quel giorno, che era appunto uno di quelli dedicati a queste escursioni, comparve travestito da mercante di Mussul. Siccome il califfo aveva nel suo travestimento un'aria imponente e rispettabile, Abu-Hassàn, credendolo un mercante di Mussul, si alzò e, dopo averlo salutato con tono grave e gentile, gli baciò le mani e gli disse: "Signore, sono lieto del vostro felice arrivo, e vi supplico di farmi l'onore di venire a cenare da me e di passare la notte in casa mia, per riposarvi delle fatiche del viaggio". E per obbligarlo a non negargli la grazia che gli aveva chiesta, gli espose in poche parole la sua abitudine di accogliere giornalmente in casa sua, finché gli fosse stato possibile, e per una notte solamente, il primo forestiero che gli si presentava. Il califfo trovò qualche cosa di tanto singolare nella bizzarria del proposito di Abu-Hassàn, che gli venne voglia di conoscerlo meglio. Perciò, senza smentire la sua qualifica di mercante, lo assicurò che era grato della sua cortesia, che non si aspettava certo di trovare al suo arrivo a Bagdàd, e accettava volentieri l'offerta che gli faceva: e lo pregò di indicargli la strada, dato che era pronto a seguirlo. Abu-Hassàn, non sapendo che l'ospite che la sorte gli aveva mandato fosse infinitamente superiore a lui, si comportò col califfo come se fosse stato un suo pari. Lo condusse a casa sua, e lo introdusse in una camera ornata con molto gusto, dove gli fece occupare il posto di maggior riguardo. La cena era pronta. La madre di Abu-Hassàn, che aveva molta abilità nel cucinare, portò in tavola tre piatti, uno, nel mezzo, con un grosso cappone circondato da quattro buoni pollastri, mentre negli altri due, che servivano da antipasto, c'erano, nell'uno un'oca grassa, e nell'altro dei colombi in guazzetto. Non c'era niente altro: ma queste vivande erano raffinate e di un gusto squisito. Abu-Hassàn si mise a tavola di fronte al suo ospite, il califfo, e cominciarono a mangiare di buon appetito, pigliando ognuno quanto si confaceva al suo gusto, senza parlare, e senza bere, secondo l'usanza in vigore in quel paese. Quando ebbero terminato di mangiare, lo schiavo del califfo porse loro da lavarsi, mentre la madre di Abu-Hassàn, dopo avere sparecchiata la tavola, portò la frutta; ce n'era di tutte le qualità, relativamente alla stagione, e cioè uva, noci, pere, e molti tipi di paste di mandorle secche. Sul finire del giorno accese le candele; dopo di che Abu-Hassàn fece portare le bottiglie e le tazze vicine a sé, e si preoccupò che sua madre facesse mangiare lo schiavo del califfo.

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Quando il presunto mercante di Mussul - cioè il califfo - ebbe finito di mangiare, Abu-Hassàn, prima di servirsi della frutta, prese una tazza, vi versò del vino che bevve per primo, e tenendola nelle mani: "Signore", disse al califfo, che credeva fosse un mercante di Mussul, "voi sapete che il gallo non beve senza prima chiamare le galline a bere in sua compagnia: v'invito dunque a seguire il mio esempio. Non so ciò che ne pensate: in quanto a me credo che un uomo che odia il vino e pretenda di essere saggio, veramente non lo sia. Non parliamo di queste persone, e lasciamole nel loro umore malinconico e fastidioso, e ricerchiamo l'allegria: essa è nella tazza, e la tazza la comunica a quelli che la vuotano". Mentre Abu-Hassàn beveva: "Questo mi piace", disse il califfo, prendendo la tazza che gli era destinata. "Mi piace il vostro umore allegro! Aspetto che me ne versiate". Abu-Hassàn appena ebbe bevuto, riempendo la tazza che il califfo gli porgeva, rispose: "Assaggiatelo, signore, e lo troverete ottimo!". "Ne sono persuaso", rispose il califfo, "non è possibile che un uomo come voi non sappia sceglierlo." Mentre lui beveva, Abu-Hassàn soggiunse: "Basta guardarvi per accorgersi al primo sguardo che voi siete una persona che ha viaggiato per il mondo e che sa vivere. Se la mia casa", continuò in versi arabi, "fosse capace di sentimento, e potesse essere sensibile alla fortuna che le capita ospitandovi, lo mostrerebbe chiaramente e prostrandosi davanti a voi, esclamerebbe: "Ah! che piacere, che felicità, vedermi onorata dalla presenza di una persona tanto cortese e compiacente, che non sdegna di essere accolta da me!". Insomma, signore, io sono al colmo della gioia per essermi oggi imbattuto in un uomo del vostro merito". Queste facezie di Abu-Hassàn divertivano molto il califfo, che era di carattere assai allegro, e voleva stimolarlo a bere chiedendo egli stesso ripetutamente del vino, per conoscerlo meglio durante la conversazione grazie all'allegria che il vino gli doveva inspirare. Per intavolare la conversazione, gli domandò come si chiamasse, di che si occupasse e come passasse il tempo. "Signore", gli rispose, "il mio nome è Abu-Hassàn. Ho perso mio padre che era mercante, non certamente tra i più ricchi, ma almeno tra quelli che vivevano più comodamente a Bagdàd. Alla sua morte mi lasciò un'eredità più che sufficiente per vivere senza eccessivo lusso, secondo il mio stato. Siccome la sua condotta nei miei confronti era stata molto severa, e fino alla sua morte avevo passata la maggior parte della mia gioventù in grandi strettezze, volli recuperare il tempo che credevo di aver perduto. Ma", proseguì Abu-Hassàn, "io mi comportai diversamente da come si comportano di solito tutti gli altri giovani, che si danno inconsideratamente alla crapula, e vi si abbandonano fino a che, ridotti ad una estrema povertà, si trovano contro voglia costretti a fare penitenza per il resto dei loro giorni. Per non cadere in questa disgrazia; divisi le mie sostanze in due parti, una in latifondi e una in danaro. Destinai il denaro alle spese che desideravo fare per divertirmi, e formulai il fermo proposito di non toccare le mie rendite. Radunai un gruppo di persone di mia conoscenza e della mia età, e col danaro che spendevo a piene mani, li invitavo ogni giorno con gran lusso, e in maniera che nulla mancasse ai nostri divertimenti. Ma non durò molto, perché alla fine dell'anno non avevo più denaro nel mio scrigno; allora tutti i miei amici scomparvero. Li rividi uno dopo l'altro, dissi loro dello stato infelice in cui mi trovavo, ma nessuno mi aiutò. Rinunciai dunque alla loro amicizia, e riducendomi a spendere la mia rendita, m'impegnai a privarmi di ogni compagnia, fuorché di quella del primo forestiero che avrei incontrato al suo arrivo a Bagdàd, a condizione di invitarlo per un giorno solo. Vi ho informato del rimanente, e ringrazio la mia buona sorte di avermi oggi fatto incontrare un forestiero come voi." Il califfo, molto soddisfatto di questa spiegazione, disse ad Abu-Hassàn: "Non potrei lodarvi abbastanza per la buona risoluzione che avete preso, per essere stato tanto prudente, anche mentre gozzovigliavate, e per esservi comportato in una maniera che non è comune alla gioventù. Vi stimo ancor più per esser stato fedele a voi stesso, fedele fino al punto che mi avete detto. La cosa era molto pericolosa, e non posso fare a meno di ammirare la forza con cui, dopo aver visto la fine di tutto il vostro danaro, avete conservato abbastanza moderazione per non dissipare la vostra rendita, e anche i vostri capitali. Per dirvi ciò che penso, credo che voi siete il solo dissoluto, cui sia accaduto un fatto simile e che forse non accadrà mai più a nessun altro. Vi confesso insomma che invidio la vostra felicità. Voi siete l'uomo più felice che vi sia sulla terra perché godete ogni giorno della compagnia di un uomo onesto con cui vi intrattenete piacevolmente, ed al quale date occasione di rendere nota dappertutto la buona accoglienza che gli avete fatto. Ma, né io né voi, ci avvediamo che da lungo tempo parliamo senza bere: perciò bevete e versatene anche a me". Il califfo ed Abu-Hassàn continuarono in tal modo per molto tempo a bere, parlando di cose piacevoli. La notte era già inoltrata e il califfo, fingendo di essere stanco dal cammino che aveva fatto, disse ad Abu-Hassàn, che aveva bisogno di riposo. "E non voglio", soggiunse, "che perdiate del sonno per amor mio. Prima che ci separiamo - perché forse domani sarò uscito dalla vostra casa prima che siate desto - desidero dirvi quanto vi sia grato della vostra cortesia, del vostro convito, e dell'ospitalità che mi avete offerto con tanta cordialità. La sola cosa che mi dispiace è di non sapere con quale mezzo dimostrarvi la mia riconoscenza. Vi supplico di dirmelo voi, e vedrete che non sarò un ingrato. Non è possibile che un uomo come voi non abbia qualche affare qualche desiderio, o qualche altra cosa che gli farebbe piacere. Apritemi il vostro cuore, e parlatemi francamente. Benché io sia un semplice mercante, sono però in condizione di poter fare molte cose, da me e con l'intervento dei miei amici". A queste offerte del califfo, Abu-Hassàn, che credeva sempre fosse un mercante: "Mio buon signore", rispose, "sono persuaso che non solo per complimento mi fate tali generose offerte; ma posso assicurarvi, parola di galantuomo, che non ho dispiaceri, né affari, né desideri, e che non chiedo nulla a nessuno. Non ho ambizioni, come già vi ho detto, e sono contentissimo della mia sorte. Perciò a me non resta che ringraziarvi, non solamente delle vostre offerte tanto cortesi, ma anche di esservi compiaciuto di farmi l'onore di partecipare al mio modesto pasto. Vi dirò, però", proseguì Abu-Hassàn "che una sola cosa mi addolora, senza che peraltro disturbi il mio riposo. Voi sapete che la città di Bagdàd è divisa in quartieri, e che in ogni quartiere vi è una moschea con un imàm, per fare la preghiera alle ore indicate. L'imàm è un gran vecchio di aspetto severo, ma è un perfetto ipocrita, se mai ve ne fu uno. Per suo consiglio ha scelto quattro altri vecchioni miei vicini, gente simile a lui, e regolarmente ogni giorno si radunano in una casa. Nel loro conciliabolo, non vi è maldicenza, calunnia e malvagità, che non progettino contro di me e contro il quartiere, per disturbare la tranquillità, e far regnare la discordia, rendendosi temibili agli uni, e minacciando gli altri. Vogliono insomma farla da padroni, e che ognuno si regoli a seconda del loro capriccio, loro che non sanno governare se medesimi. A dire il vero ho gran pena vedendo che si occupano di tutto fuorché del loro Corano, e che non lasciano vivere la gente in pace". "Bene", riprese il califfo, "mi pare che vorreste trovare un mezzo per fermare questo stato di cose." "L'avete detto", rispose Abu-Hassàn, "e la sola cosa che chiederei al cielo, sarebbe di essere califfo, al posto del gran principe dei credenti, Harùn-ar-Rashìd, nostro sovrano, signore e padrone, per un giorno solamente." "Che fareste mai, se ciò accadesse?", domandò il califfo. "Farei una cosa che servirebbe di esempio", rispose Abu-Hassàn, "e che sarebbe molto gradita a tutte le persone dabbene. Farei dare cento colpi sulla pianta dei piedi a ognuno dei vecchi e quattrocento all'imàm, per insegnar loro che non devono importunare e addolorare così i loro vicini." "Il vostro desiderio mi piace", disse il califfo, "soprattutto perché nasce da un cuore sincero, e da un uomo che non può tollerare che la malvagità degli iniqui resti impunita. Mi piacerebbe molto di vederne l'effetto, e forse ciò può accadere più facilmente di quanto possiate immaginare. Sono persuaso che il califfo volentieri rinuncerebbe al suo potere e lo depositerebbe per ventiquattr'ore nelle vostre mani, se fosse informato delle vostre buone intenzioni e del buon uso che ne fareste. Benché io sia solo un mercante forestiero ho tuttavia abbastanza potere per cercare di contribuire a soddisfare il vostro desiderio." "Vedo bene", riprese Abu-Hassàn, "che vi burlate della mia fantasia, e anche il califfo se ne burlerebbe se venisse a conoscere una tale stravaganza. Tutto il vantaggio che potrebbe derivarne sarebbe che, conoscendo la condotta dell'imàm e dei suoi consiglieri, li farebbe punire." "Io non mi burlo di voi!", replicò il califfo. "Il cielo mi guardi dal fare una cosa simile con una persona come voi, che tanto generosamente mi ha invitato pur non conoscendomi, e vi assicuro che il califfo non se ne burlerebbe affatto. Ma lasciamo da parte simili discorsi, poiché non è più lontana la mezzanotte, ed è ora di andarcene a dormire!"

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"Interrompiamo dunque la nostra conversazione", disse Abu-Hassàn, "non voglio essere d'ostacolo al vostro riposo. Ma resta ancora del vino nella bottiglia, e bisogna, se volete, che la vuotiamo; dopo di che andremo a coricarci. La sola cosa che vi raccomando è che, nell'uscire domani mattina, se non fossi ancora sveglio, non lasciate la porta aperta, ma vi prendiate l'incomodo di chiuderla." Il califfo promise di eseguire fedelmente ciò che gli aveva chiesto. Mentre Abu-Hassàn parlava, il califfo si era impadronito della bottiglia e delle due tazze. Si versò il vino per primo, per dimostrare ad Abu-Hassàn che lo faceva per ringraziarlo. Quando ebbe bevuto gettò destramente nella tazza di Abu-Hassàn una certa polvere che aveva con sé, e vi versò sopra il resto del vino, porgendolo poi ad Abu-Hassàn. Abu-Hassàn prese la tazza, e per dimostrare al suo ospite con quanto piacere accogliesse l'onore che gli faceva, bevve, e vuotò la tazza quasi tutto d'un fiato. Ma appena ebbe deposta la tazza sulla tavola, la polvere produsse il suo effetto. Fu preso da un sonno tanto profondo, che il capo gli cadde quasi sulle ginocchia in maniera così subitanea, che il califfo non poté a meno di riderne. "Carica quest'uomo sulle tue spalle", disse il califfo al suo schiavo, "ma bada bene al luogo dove sta questa casa, per poterlo riportare qui quando io te lo comanderò." Il califfo, accompagnato dallo schiavo carico di Abu-Hassàn, uscì dalla casa, ma senza chiudere la porta sebbene Abu-Hassàn lo avesse pregato di farlo, e fece ciò a bella posta. Giunto al suo palazzo, vi entrò per una porta segreta, e si fece accompagnare dallo schiavo fino nel suo appartamento, dove tutti gli ufficiali della sua camera lo attendevano. "Spogliate quest'uomo", disse loro, "e coricatelo nel mio letto: vi comunicherò poi le mie intenzioni." Gli ufficiali spogliarono Abu-Hassàn, lo rivestirono dell'abito da notte del califfo e lo coricarono, secondo l'ordine ricevuto. Nessuno era ancora coricato nel palazzo, e il califfo fece venire tutti gli altri suoi ufficiali e tutte le dame, e quando furono alla sua presenza: "Voglio", disse loro, "che tutti quelli che hanno l'abitudine di trovarsi vicino a me quando mi alzo dal letto, vadano domattina da quest'uomo che vedete coricato nel mio letto, e che ognuno si comporti con lui, non appena si sarà svegliato, come ordinariamente si comporta verso di me. Voglio ancora che si abbiano per lui gli stessi riguardi usati per la mia persona, e che sia obbedito in tutto ciò che comanderà. Nulla gli venga negato di quanto potesse chiedere, né lo si contraddica in alcuna cosa che egli desideri. In tutte le occasioni, in cui si tratterà di parlargli e di rispondergli, dovrà essere considerato come il gran principe dei credenti. In una parola esigo che chi è accanto a lui non pensi alla mia persona e lo consideri come se egli fosse veramente quello che io sono, cioè il califfo ed il gran principe dei credenti. Soprattutto voglio che stiate attenti a non fare il minimo errore". Gli ufficiali e le dame, che compresero subito che il califfo voleva divertirsi, risposero con un profondissimo inchino: e subito ciascuno si preparò a fare del suo meglio per rappresentare bene la sua parte. Rientrando nel palazzo, il califfo aveva mandato il primo ufficiale in cui si era imbattuto a chiamare il gran visir Giàafar, e appena egli fu giunto al suo cospetto, gli disse: "Giàafar, ti ho fatto chiamare per avvisarti di non stupirti quando domani scorgerai, entrando nella camera dove concedo udienza, l'uomo che vedi coricato nel mio letto, seduto sul trono col mio abito da cerimonia. Servilo con la stessa stima e rispetto con cui sei solito servire il tuo sovrano, trattandolo da gran principe dei credenti. Ascolta ed esegui puntualmente quando egli ti comanderà, come se io stesso te lo ordinassi. Egli darà ordine di fare doni e di distribuire del denaro: fa ciò che ti dirà anche se dovessi dar fondo a tutte le mie finanze. Avverti inoltre tutti gli emiri, gli usceri e tutti gli altri di rendergli domani, durante l'udienza, gli stessi onori che di solito rendono a me e che fingano così bene che egli non debba accorgersi di nulla". Dopo che il gran visir si fu ritirato, il califfo passò in un altro appartamento, e coricandosi nel letto, diede a Masrùr capo degli eunuchi i suoi ordini, affinché tutto riuscisse come desiderava per accontentare lo strano desiderio di Abu-Hassàn, e vedere come si sarebbe servito del potere e dell'autorità di gran principe dei credenti, nel breve tempo che gli era concesso. E gli ordinò di svegliarlo prima di Abu-Hassàn. Masrùr non mancò di svegliare il califfo all'ora che gii aveva indicata, e il califfo entrò nella camera in cui Abu-Hassàn dormiva, poi andò a collocarsi in una stanzetta sopraelevata da cui poteva vedere molto bene attraverso una finestrella quanto avveniva, senza essere veduto. Tutti gli ufficiali e tutte le dame che dovevano essere presenti al risveglio di Abu-Hassàn, entrarono collocandosi ciascuno al suo solito posto, secondo il grado, nel più gran silenzio, e, come se quegli che stava per alzarsi fosse il califfo in persona, erano pronti ad esercitare la funzione cui erano destinati. Essendo già l'alba, ed essendo tempo di alzarsi per fare preghiera, l'ufficiale che stava più vicino al capezzale del letto, accostò alle narici di Abu-Hassàn una piccola spugna, imbevuta d'aceto. Abu-Hassàn starnutì subito, girando il capo, senza aprir gli occhi, e con un leggero sforzo gettò dalle narici del muco, che l'ufficiale fu pronto a ricevere in una bacinella d'oro per impedire che cadesse sopra il tappeto e lo sporcasse. Questo era l'effetto abituale provocato dalla polvere che il califfo gli aveva data, nel momento in cui cessava di provocare il sonno, che poteva essere più o meno lungo a seconda della dose. Riadagiando il capo sul guanciale, Abu-Hassàn aprì gli occhi e, alla poca luce del giorno che cominciava a spuntare si vide al centro di una grande e magnifica camera, superbamente ornata di arabeschi dorati, di gran vasi d'oro massiccio, di tende e di un tappeto d'oro e seta. Molte fanciulle leggiadre circondavano il letto, alcune delle quali reggevano diverse specie di strumenti che si tenevano pronte a suonare, ed eunuchi mori, tutti riccamente vestiti, stavano in piedi in posizione di profondo rispetto. Fissando lo sguardo sopra la coperta del letto, vide che era di broccato con fondo rosso ricamato di perle e di diamanti, e vicino al letto scorse un abito dello stesso drappo e con lo stesso ornamento, ed accanto vide un berretto da califfo. A tale spettacolo Abu-Hassàn rimase stupito e straordinariamente confuso. Guardava tutto come in sogno; sogno tanto realistico per lui che desiderava non lo fosse. "Bene", diceva fra sé, "eccomi diventato califfo: ma", soggiunse poco dopo come smentendosi, "non bisogna che m'inganni, questo è un sogno, effetto del desiderio di cui parlavo poco fa col mio ospite." Così dicendo chiuse di nuovo gli occhi, come per dormire. Nello stesso momento un eunuco gli si accostò, dicendogli: "Gran principe dei credenti, vostra maestà non si addormenti di nuovo: è tempo di alzarsi per fare la preghiera, poiché l'aurora ha già cominciato ad apparire". A queste parole, che recarono grande sorpresa ad Abu-Hassàn: "Sono sveglio o dormo?", diceva fra sé. "No, certamente dormo", e continuava a tenere gli occhi chiusi, "non devo dubitarne!". Un momento dopo l'eunuco, vedendo che non gli rispondeva né dava segni di volersi alzare, riprese la parola, e gli disse: "La maestà vostra permetterà che io le ricordi che è ora di alzarsi se non vuol lasciar passare il momento di fare la sua preghiera del mattino; il sole sta già per spuntare, e la maestà vostra non è solita mancare a questo dovere". "M'ingannavo", disse subito Abu-Hassàn, "non dormo; anzi son ben desto! Quelli che dormono non odono, e io odo ciò che mi viene detto." Aprì di nuovo gli occhi, e siccome il giorno era avanzato, vide in modo chiaro quanto non aveva osservato prima se non confusamente. Si sedette allora sul letto con un volto ridente come un uomo contento di vedersi in uno stato molto superiore alla sua condizione, e il califfo, che senza essere visto lo osservava, immaginò quel che pensava con grandissimo piacere. Allora le damigelle che gli stavano intorno, si prostrarono con la faccia a terra e quelle che tenevano gli strumenti gli dettero il buon giorno con un concerto di flauti, di pive e di altri strumenti: egli ne restò incantato, rapito in estasi, tanto che non sapeva più né dove, né chi fosse. Ritornò peraltro alla sua prima idea, e ancora era in dubbio se quanto vedeva e udiva fosse sogno, o realtà. Si mise la mano davanti agli occhi, ed abbassando il capo, disse fra sé: "Che mai vuol dire tutto questo? Cosa mi è accaduto? Che significa questo palazzo? Cosa indicano questi eunuchi, questi ufficiali di così bell'aspetto e così ben vestiti? Queste dame bellissime e questa musica che incanta? E possibile che io non possa capire se sogno, o se sono sveglio?". Si tolse finalmente le mani dagli occhi, li aprì ed alzando il capo vide che il sole entrava coi suoi primi raggi dalle finestre della camera.

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