Le Mille e Una Notte Storia del Principe Qamar Az Zaman.
Storia del Principe Qamar Az Zaman Raccolta di novelle e fiabe della Letteratura Araba Le mille e una notte - Introduzione Le avventure del Califfo Harun Ar Rashid Storia del Barbiere e Storia del Primo Fratello Gobbo Storia del Fratello dalle Labbra Tagliate Storia del Medico Ebreo e la Storia del Giovane di Mossul Storia del Principe Ahmed e della Fata Pari Banu Storia D'Ali Cogia Mercante di Bagdad Storia del Principe Zeyn Al-Asnam e del Re dei Geni Storia del Quarto Fratello Guercio e Storia del Quinto Fratello dalle orecchie tagliate Storia del Sarto e Storia del Giovane Zoppo Storia del Secondo Fratello Sdentato e Storia del Terzo Fratello Cieco Storia del Sovrintende e Storia dell'Invitato Storia della Principessa Giulnar La Marina Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato Storia di Aladino e Della Lampada Meravigliosa Storia di Ali Baba e dei Quaranta Ladroni Sterminati da una Schiava Storia di Ali Ibn Bakkar e di Shams An Nahar Storia di Badr Principe di Persia e della Principessa Giawara Figlia del Re As Samandal Storia di Codadad e dei suoi Fratelli Storia di Ghanim Lo Schiavo d'Amore Storia di Nur ed Din e della Bella Persiana Storia di Sindibad il marinaio Le mille e una notte Conclusione Web link: LE MILLE E UNA NOTTE - STORIA DEL PRINCIPE QAMAR AZ ZAMANSire, circa a venti giorni di navigazione dalle coste della Persia - cominciò a raccontare Shahrazàd - vi è in alto mare un'isola detta dei Figli di Kaledan. Quell'isola è divisa in parecchie grandi province, tutte considerevoli per le loro città, floride e ben popolate, che formano un regno potentissimo. Un tempo esso era governato da un re, detto Shahzamàn, il quale aveva quattro mogli legittime, tutte e quattro figlie di re, e settanta concubine. Shahzamàn si stimava il monarca più felice della terra per la tranquillità e la prosperità del suo regno. Una sola cosa turbava la sua felicità, quella di essere già in età avanzata e di non avere figli, quantunque avesse gran numero di donne. Egli non sapeva a che attribuire la sua sterilità, e nella sua afflizione temeva la disgrazia di morire senza lasciare un successore del suo sangue. Per lungo tempo dissimulò il grave dolore da cui era tormentato e tanto più soffriva quanto più si faceva forza per non fare apparire quello che chiudeva in sé. Finalmente ruppe il silenzio, e un giorno, dopo essersi lamentato della sua sciagura col suo gran visir, gli parlò in segreto e gli domandò se non avesse qualche mezzo per rimediarvi. «Se quanto vostra maestà mi domanda», rispose quel saggio ministro, «dipendesse dalla saggezza umana, avreste ben presto la soddisfazione desiderata: ma in simile caso si può ricorrere solamente a Dio: in mezzo alla nostra prosperità, gli piace di mortificarci, affinché noi pensiamo a lui e riconosciamo la sua onnipotenza, e domandiamo a lui quanto non dobbiamo aspettarci se non da lui. Voi avete sudditi i quali professano di onorarlo, servirlo e vivere puri per amor suo; io penso che vostra maestà dovrebbe fare delle elemosine ed esortare i sudditi ad aggiungere le loro preghiere alle sue, affinché se c'è nel loro gran numero, qualcuno sufficientemente puro e accetto a Dio, questi ottenga l'esaudimento dei vostri voti.» Il re Shahzamàn approvò questo consiglio, di cui rese grazie al suo gran visir. Fece portare ricche elemosine a ogni comunità; ne fece venire a sé i superiori e dopo aver loro offerto un frugale banchetto, manifestò la sua intenzione, e li pregò di avvertirne i devoti che dipendevano da loro. Shahzamàn ottenne dal cielo quello che desiderava: subito s'accorse che una delle sue donne era incinta e infatti in capo a nove mesi nacque un bambino. In segno di ringraziamento inviò alla comunità dei devoti musulmani nuove elemosine, degne della sua grandezza e della sua potenza. La nascita del principe si celebrò non solo nella capitale, ma anche in tutto il territorio dei suoi stati con feste pubbliche, che durarono una settimana intera. Il principe gli fu portato appena nato, e, vedendolo assai bello, gli impose il nome di Qamar az-Zamàn, che significa: luna del secolo. Il principe Qamar az-Zamàn fu allevato con tutte le cure immaginabili, e appena cresciuto in età, il sultano Shahzamàn suo padre gli diede un saggio precettore e dei valenti maestri. Questi personaggi, celebri per ingegno, trovarono in lui uno spirito docile e pronto a ricevere tutti gli insegnamenti che vollero impartirgli, tanto sul modo di comportarsi, quanto su tutte le scienze che un principe come lui doveva conoscere. Più avanti negli anni, apprese anche tutti gli esercizi e vi si distingueva per grazia e destrezza meravigliose, incantando tutti, e specialmente il sultano suo padre. Quando il principe ebbe raggiunto l'età di quindici anni, il sultano che l'amava teneramente, dandogliene ogni giorno nuove prove, decise di dargliene la prova più grande: quella cioè di rinunciare al trono e di metterlo al suo posto. Ne parlò al suo gran visir, e gli disse: «Temo che mio figlio perda nell'ozio della gioventù non solo le doti di cui la natura lo ha favorito, ma anche quelle acquisite con tanto successo grazie alla buona educazione che mi son dato cura di dargli. E siccome io sono vecchio e devo pensare al riposo, così sono quasi deciso a cedergli il governo e a passare il resto dei miei giorni nella soddisfazione di vederlo regnare. E' molto tempo che lavoro, e ho bisogno di riposo». Il gran visir non volle dire al sultano tutte quelle ragioni che avrebbero potuto dissuaderlo dalla sua risoluzione, tuttavia, manifestandogli in parte il suo pensiero, disse: «Sire, il principe è ancora troppo giovane, a parere mio, per imporgli così presto un dovere tanto pesante come quello di governare uno stato potente. Vostra maestà teme che si corrompa nell'ozio: ma per rimediarvi non sarebbe meglio prima dargli moglie? Il matrimonio lega e impedisce a un principe di diventare un discolo. Inoltre vostra maestà potrebbe dargli l'accesso nel suo consiglio, dove imparerebbe a poco a poco a sostenere degnamente lo splendore e il peso della vostra corona, che potrete sempre cedergli, quando lo giudicherete capace, avendolo voi stesso visto all'opera». Shahzamàn trovò il consiglio del primo ministro ragionevolissimo e, congedatolo, fece chiamare il principe Qamar az-Zamàn. Il principe era solito andare ogni giorno alla stessa ora dal sultano suo padre, senza bisogno di essere chiamato. Fu quindi stupito di questo ordine e invece di presentarglisi davanti con la solita franchezza, lo salutò con grande rispetto, tenendo gli occhi bassi. Il sultano s'accorse del timore del principe. «Figlio mio», gli disse per rassicurarlo, «sai per quale ragione ti ho fatto chiamare?» «Sire», rispose il principe con modestia, «non c'è che Dio che possa penetrare fino in fondo ai cuori; io lo saprò con piacere dalla maestà vostra.» «Dunque sappi», rispose il sultano, «che voglio ammogliarti: che ne pensi?» Il principe Qamar az-Zamàn ascoltò queste parole con grande dispiacere e ne fu così sconcertato, che gli si imperlò il viso di sudore e non seppe cosa rispondere. Dopo alcuni momenti di silenzio, disse: «Sire, vi supplico di perdonarmi se una tale proposta mi ha sconvolto. Sono così giovine che non me l'aspettavo. Non so nemmeno se potrò mai risolvermi al matrimonio, non solamente a causa dell'impaccio che procurano le donne, ma anche per aver letto nei nostri autori che esse sono furbe, perfide e malvage. Forse non nutrirò sempre questo sentimento, ma sento che ho bisogno di tempo per prepararmi a quanto la maestà vostra esige da me». La risposta del principe Qamar az-Zamàn afflisse estremamente il sultano, che sentì un vero dolore nel vedere il figlio così alieno dal matrimonio. Nondimeno non volle considerare quella ripugnanza come una disobbedienza, né usare del potere paterno. Si contentò quindi di dirgli: «Ti dò tempo per pensarci e per considerare che un principe come te, destinato a governare un grande regno, deve pensare prima di tutto ad avere un successore. Così facendo, farai il tuo bene, e darai la più grande soddisfazione a me, che sogno di vedermi rivivere nei tuoi figli». Shahzamàn non disse altro al principe Qamar az-Zamàn. Gli diede accesso nel suo consiglio, e quanto poteva desiderare per essere contento. In capo a un anno, chiamatolo in disparte gli disse: «Ebbene, figlio mio, hai pensato al progetto di accasarti? Ricuserai ancora di procurarmi la gioia che aspetto dalla tua sottomissione, e mi lascerai morire senza questa consolazione?». Il principe parve meno sconcertato della prima volta, e non esitò a rispondere in questi termini, con tono fermo: «Sire, io non ho mancato di riflettervi con l'attenzione dovuta: ma dopo avervi pensato seriamente, mi sono confermato sempre più nella risoluzione di non sposarmi. Infatti, i mali infiniti cagionati dalle donne in tutti i tempi, nell'universo, come ho letto nelle nostre storie, sono il motivo per cui ho deciso di non contrarre con esse nessun legame per tutta la mia vita. Quindi vostra maestà mi perdonerà se oso dire che è inutile parlarmi di matrimonio». Ciò detto, lasciò bruscamente il sultano suo padre, senza attendere la risposta. Nessun altro monarca, ad eccezione del re Shahzamàn, avrebbe tollerato l'audacia con cui il principe aveva parlato e avrebbe rinunciato a farlo pentire. Ma egli l'idolatrava, e voleva porre in opera tutte le vie della dolcezza prima di valersi dell'autorità paterna. Comunicò al suo primo ministro il nuovo dolore che gli aveva procurato Qamar az-Zamàn. «Ho seguito il vostro consiglio», gli disse, «ma Qamar az-Zamàn, quantunque gliene abbia più volte parlato, è così alieno dal volersi sposare e me l'ha detto con parole così ardite, che ho avuto bisogno di tutta la mia ragione e moderazione per non sdegnarmi contro di lui. Ditemi, ve ne prego, con quali mezzi potrò ricondurre al suo dovere uno spirito tanto ribelle alla mia volontà?» «Sire», rispose il gran visir, «con la pazienza si viene a capo delle cose più difficili. La maestà vostra non potrà rimproverarsi, se giudica a proposito di dare al principe un altro anno di tempo per consigliarsi con se stesso. Se in questo periodo egli consentirà, la maestà vostra ne avrà una più grande soddisfazione per aver usato solo la bontà. Se, al contrario, egli persiste nella sua ostinazione, quando sarà trascorso l'anno, vostra maestà potrà dichiarargli in pieno consiglio che è una necessità dello stato che egli si sposi.» Il sultano, che desiderava immensamente vedere ammogliato il principe suo figlio, durò fatica a risolversi ad aspettare tanto. Nondimeno si arrese alle ragioni del suo gran visir. Dopo che questo si fu ritirato, il sultano andò all'appartamento della madre del principe Qamar az-Zamàn, alla quale da lungo tempo aveva manifestato l'ardente suo desiderio. Quando le ebbe con dolore raccontato in qual modo egli aveva rifiutato una seconda volta, le fece notare l'indulgenza che voleva ancora avere per lui, a seguito del consiglio del suo gran visir. «Signora», le disse, «so che egli ha più confidenza in voi, che in me; quando gli parlate egli vi ascolta attentamente. Vi prego di cogliere l'occasione per intrattenerlo seriamente su ciò e di fargli ben comprendere che se persiste nella sua ostinazione, mi costringerà a usare mezzi che lo faranno pentire di avermi disobbedito.» Fatima, così si chiamava la madre di Qamar az-Zamàn, la prima volta che vide suo figlio gli disse che era informata del nuovo rifiuto fatto al sultano suo padre, che era addolorata che gli avesse dato un così grande motivo di collera. «Signora», rispose Qamar az-Zamàn, «vi supplico di non rinnovare il mio dolore a questo proposito; temo nell'impeto del mio sdegno, di mancarvi di rispetto.» Fatima da quel discorso, comprese che la piaga era ancora troppo recente, e non gli disse altro per quella volta. Molto tempo dopo Fatima pensò di aver trovata l'occasione di parlargli di quell'argomento con maggiore speranza di essere ascoltata. «Figlio mio, ti prego», gli disse, «se non ti rincresce, di dirmi quali sono le ragioni che ti rendono così avverso al matrimonio. Se non ne hai altre fuorché quella della malizia e della malvagità delle donne, lasciami dire che essa è futile ed irragionevole. Io non voglio già prendere la difesa delle donne cattive, di cui, lo convengo, v'è un gran numero: ma è una grande ingiustizia mettere tutte le donne su uno stesso piano. Eh, figlio mio, tu ti regoli da quello che dicono i libri, che parlano di donne che hanno provocato grandi disastri e che io non voglio punto scusare! Ma perché non consideri tanti monarchi, tanti sultani e tanti altri principi che furono così crudeli e così barbari da far inorridire? Per una donna troverai mille di questi tiranni e di questi barbari. E le donne oneste e sagge figlio, che hanno la sciagura di essere maritate a questi furiosi, non sono forse infelici?» «Signora», rispose Qamar az-Zamàn, «vi sono, non ne dubito, un gran numero di donne sagge, virtuose, cortesi, amabili e di gentile aspetto. Piacesse al cielo che vi rassomigliassero tutte! Quello che mi infastidisce è la scelta piena di incertezze che un uomo deve fare per sposarsi o piuttosto è il fatto che non gli si lascia la libertà di fare a suo piacimento. Supponiamo che io accettassi di contrarre un matrimonio, come il sultano mio padre desidera con tanta impazienza; che moglie mi darebbe? Probabilmente una principessa, che chiederebbe a qualche principe suo vicino, che si farebbe un dovere di mandargliela. Bella o brutta, sarei obbligato a prenderla. Inoltre, voglio anche ammettere che sia così bella che nessuna principessa possa uguagliarla; chi mi può garantire che abbia uno spirito magnanimo, che sia di compagnia piacevole, che il suo discorso sia serio e che non parli solo di vesti, ornamenti e di mille altre futilità, uggiose per ogni uomo di buon senso? Insomma che non sia altera, superba, sdegnosa, sprezzante, e che non dilapidi un patrimonio in spese frivole, in abiti, pietre preziose, gioielli, e in un lusso esagerato? Come vedete, ecco una infinità di ragioni per cui sono interamente disgustato dal matrimonio. E finalmente, anche se questa principessa fosse perfetta, compìta ed irreprensibile su ciascuno di questi punti, ci sarebbero molte altre ragioni ancora più forti per non farmi rinunciare alla mia idea e alla mia decisione.» «Come, figlio mio», soggiunse Fatima, «hai altre ragioni oltre tutte quelle che mi ha elencate? Io credevo di poterti rispondere e chiudere la bocca con una sola parola.» «Ciò non deve impedirvelo, signora», replicò il principe, «saprò forse come rispondere alle vostre parole.» «Volevo dirti», ripigliò Fatima, «che è facile per un principe, quando ha la sciagura di sposare una principessa quale l'hai descritta, di lasciarla.» «Eh, signora», rispose Qamar az-Zamàn, «non vedete quale grandissima vergogna sarebbe per un principe doversi ridurre a questi estremi? Non è molto meglio, per la sua gloria e per il suo riposo, che non si sposi affatto?» «Ma, figlio mio», disse Fatima, «da quanto vai dicendo, vedo che hai deciso di essere l'ultimo re della tua stirpe, che ha regnato così gloriosamente nell'isola dei Figli di Kaledan.» «Signora», rispose Qamar az-Zamàn, «io non desidero affatto di sopravvivere al re mio padre. Non ci sarebbe niente di strano se io morissi prima di lui, dopo tanti esempi di figli morti prima del padre loro. Peraltro, è sempre glorioso che una stirpe di re finisca con un principe altrettanto degno del suo nome (e io farò di tutto per rendermi tale), quanto quello che l'ha iniziata.» Dopo questo colloquio, Fatima ne ebbe molti altri simili col principe Qamar az-Zamàn, non lasciando nulla di intentato per strappargli dall'anima quell'avversione: ma egli eluse tutti i ragionamenti che poté fargli con altri a cui ella non sapeva rispondere. Passò l'anno, e con grande dispiacere del sultano Shahzamàn, il principe Qamar az-Zamàn non diede il minimo segno di aver cambiato parere. Finalmente, un giorno, durante una riunione del consiglio solenne, in cui il primo visir, i principali ufficiali della corona e i generali dell'esercito erano radunati, il sultano disse al principe: «Figlio mio, da molto tempo ti ho espresso il desiderio di vederti sposato, e aspettavo che tu ti mostrassi ubbidiente, per far piacere a me tuo padre, che non ti domandavo del resto nulla di irragionevole. Ora, poiché con la tua resistenza hai stancato la mia pazienza, ti comunico il mio ordine alla presenza del consiglio. Non si tratta più ormai di fare un favore a tuo padre; ora è il bene dello stato che lo esige e tutti questi signori te lo chiedono con me. Deciditi dunque; dalla tua risposta deciderò quali misure prendere». Il principe Qamar az-Zamàn rispose con poco ritegno e con tanta ira che il sultano, giustamente irritato, esclamò: «Come, figlio snaturato, hai l'insolenza di parlare così a tuo padre e al tuo sultano?». Lo fece quindi arrestare dagli uscieri e condurre in una antica torre con un solo schiavo per servirlo. Qamar az-Zamàn, contento di avere la libertà di trascorrere il tempo leggendo i libri lasciatigli da suo padre, non si rammaricò affatto della sua prigionia. Quando fu sera si lavò, e, dopo aver letto alcuni capitoli del Corano, con la stessa tranquillità, come se fosse stato nel suo appartamento al palazzo del sultano suo padre, si coricò senza spegnere la lampada, e si addormentò. In quella torre c'era un pozzo, che serviva da rifugio durante il giorno a una fata chiamata Maimùna, figlia di Dimiryàt, re o capo di una schiera di geni. Era circa mezzanotte quando Maimùna uscì con leggerezza sul bordo del pozzo, per andarsene a girare il mondo, secondo la sua abitudine. Essa fu molto meravigliata di vedere un lume nella camera del principe Qamar az-Zamàn. Vi si recò subito e senza arrestarsi davanti allo schiavo che era coricato accanto alla porta, si avvicinò al letto, la cui magnificenza la attrasse, e tanto più fu sorpresa nel vedere che c'era qualcuno coricato. Il principe Qamar az-Zamàn aveva il viso mezzo coperto dalle coperte: Maimùna le alzò un poco e scorse il più bel giovane che avesse mai incontrato, sebbene avesse girato in tutti i luoghi della terra abitata. «Quale splendore!», disse tra sé. «E chissà quale prodigio di bellezza deve essere quando gli occhi, nascosti da così belle palpebre, saranno aperti! Quale delitto può aver commesso, per essere trattato in modo così indegno dell'alto grado cui appartiene?» Infatti aveva già sentito parlare di lui. Maimùna non si stancava d'ammirare il principe ma alla fine, dopo averlo baciato sulle guance e sulla fronte senza svegliarlo rimise le coperte come stavano prima e spiccò il volo nell'aria. Quando si fu innalzata ben alta verso il cielo, udì un rumore di ali che la spinse a dirigersi dalla stessa parte. Avvicinandosi vide un genio, ma un genio di quelli che furono ribelli a Dio. Il genio si nominava Dahànnash ed era figlio di Shamhurash. Egli riconobbe Maimùna, e ne provò grande spavento, poiché sapeva che ella era superiore a lui, per la sua sottomissione a Dio. Avrebbe voluto evitarla: ma, trovandosela vicina, doveva combattere o cedere. Dahànnash la prevenne: «Valente Maimùna», le disse con tono supplichevole, «giuratemi pel gran nome di Dio che non mi farete male, e io vi prometto da parte mia di non farvene». «Maledetto genio», rispose Maimùna, «che male puoi farmi? Io non ti temo; voglio però accordarti quanto domandi, e ti faccio il giuramento che chiedi. Dimmi ora da dove vieni, e raccontami quello che hai veduto e fatto questa notte.» «Bella signora», soggiunse Dahànnash, «voi giungete a proposito per sentire un fatto meraviglioso. Vengo dall'estremità della Cina, presso le ultime isole di questo emisfero... Ma, leggiadra Maimùna», disse Dahànnash, che tremava di paura alla sua presenza, «mi promettete almeno di perdonarmi e di lasciarmi andar libero, quando avrò soddisfatto alle vostre domande?» «Prosegui, maledetto», ripigliò Maimùna, «e non temere nulla. Credi forse che io sia come te, e che possa mancare al mio giuramento? Bada però di dire la verità, altrimenti ti taglierò le ali e ti tratterò come meriti.» Dahànnash, un poco rassicurato da queste parole di Maimùna, rispose: «Mia cara signora, quanto vi dirò è la pura verità! Abbiate soltanto la bontà d'ascoltarmi. Il paese della Cina, da cui provengo, è uno dei più grandi e potenti della terra, e da esso dipendono le ultime isole di questo emisfero, come vi ho detto. Il re si chiama Ghayùr, ed ha un'unica figliuola; la più bella che si sia mai veduta nell'universo, dacché il mondo è mondo. Né voi, né io, né i geni del vostro partito, né quelli del mio, né tutti gli uomini insieme avrebbero espressioni sufficienti o eloquenza bastante per farne un ritratto fedele. Ha i capelli bruni e lunghi, che le discendono oltre i piedi, e sono così folti, che, quando sono raccolti in riccioli intorno alla testa, somigliano a uno di quei grappoli d'uva i cui acini sono d'una grossezza straordinaria. Sotto i capelli ha una fronte luminosa e liscia come uno specchio, occhi neri, splendidi e vivaci, il naso né troppo lungo né troppo corto, la bocca piccola e vermiglia, i denti come file di perle bianchissime; e quando parla ha una voce dolce e piacevole, e si esprime con parole che mostrano la vivacità del suo spirito. Il più bell'alabastro è meno bianco della sua gola. Da questa breve descrizione potete giudicare che non c'è al mondo una bellezza più perfetta. Chi non conoscesse il re, padre di questa principessa, vedendo le sue manifestazioni d'affetto, crederebbe che fosse il suo innamorato. Nessun amante ha fatto per la donna più diletta quanto egli fa per lei. Nessuno sposo fu mai tanto geloso quanto lui, che la tiene lontana da tutti gli uomini, riservandola per quello che dovrà diventare suo marito. Affinché non avesse ad annoiarsi nel ritiro in cui l'ha rinchiusa, ha fatto costruire per lei sette palazzi, così belli che non si è mai veduto nulla di simile. Il primo è di cristallo di rocca, il secondo di bronzo, il terzo di acciaio, il quarto d'un'altra specie di bronzo più prezioso del primo, il quinto di pietra di paragone, il sesto d'argento, il settimo d'oro massiccio. Li ha addobbati con una sontuosità inaudita, ciascuno in un modo adatto alla materia di cui è fabbricato. E non ha trascurato nei giardini, aiuole smaltate di fiori, fonti, zampilli di acqua, canali, cascate, boschetti piantati di alberi, dove il sole non penetra mai. Tutto ciò è poi disposto differentemente in ogni giardino. Il re Ghayùr insomma ha fatto vedere che l'amore paterno può fare prodigi. Avendo udito parlare della bellezza incomparabile della principessa i più possenti re dei paesi vicini mandarono ambasciatori a chiederla in sposa. Il re della Cina li accolse tutti: ma poiché non voleva maritare la principessa se non col consenso di lei, ed ella rifiutava tutti i partiti che le proponevano, gli ambasciatori hanno dovuto ritirarsi, scontenti del cattivo esito della loro ambasciata, ma soddisfattissimi della cortesia e degli onori con cui erano stati trattati. "Sire", diceva la principessa al re della Cina, "voi volete maritarmi, e credete con ciò di farmi gran piacere; ne sono persuasa, e ve ne sono riconoscente: ma dove potrò trovare, se non vicino alla maestà vostra, palazzi così belli e giardini così deliziosi? S'aggiunga che sotto i vostri sguardi io non vengo mai costretta in nulla, e mi si rendono gli stessi onori che alla vostra persona. Io non godrò certo questi vantaggi in nessun altro luogo al mondo, a qualunque sposo voleste darmi. I mariti vogliono essere padroni, ed io non mi sento di ubbidire." Dopo queste ambasciate, ne giunse una da parte di un re, più ricco e più potente di quelli che si erano presentati fino ad allora. Il re della Cina ne parlò alla principessa sua figlia e le fece notare quanto sarebbe stato vantaggioso per lei accettare un tale sposo. La principessa lo supplicò di dispensarla e gli addusse le stesse ragioni di prima. Egli insistette; e la principessa, invece di arrendersi, mancò di rispetto a suo padre. "Sire", disse con ira, "non mi parlate più di questo matrimonio né di alcun altro, altrimenti mi ucciderò con un pugnale e mi sottrarrò in tal modo ai vostri ordini." Il re della Cina, sdegnato contro la principessa, le rispose: "Figlia mia, sei una pazza e io ti tratterò come meriti!". Infatti la fece rinchiudere in un appartamento di uno dei sette palazzi, con due vecchie per farle compagnia e servirla, di cui una era la sua nutrice. Poi, affinché i re vicini non pensassero più a lei, spedì dei messi che annunciassero che la principessa non voleva maritarsi. E, poiché pensava che fosse veramente impazzita, incaricò gli stessi messi di far sapere in tutti i paesi che, se vi fosse qualche medico capace di guarirla, gliel'avrebbe data in moglie per ricompensa». «Bella Maimùna», proseguì Dahànnash, «le cose sono a questo punto, e io vado regolarmente ogni giorno a contemplare quella incomparabile bellezza cui non vorrei fare il minimo male ad onta della mia naturale cattiveria. Venite a vederla, ve ne supplico, ne vale la pena. Quando sarete convinta che non vi ho mentito, sono persuaso che mi sarete grata di avervi fatto vedere una principessa, che non ha l'uguale in bellezza. Non avete che da dirmelo, ed io sono pronto ad accompagnarvi da lei.» Invece di rispondere a Dahànnash, Maimùna scoppiò a ridere, e Dahànnash, non sapendo a che attribuirne la ragione, ne restò molto meravigliato. Quando ebbe finito di ridere: «Ma bene!», gli disse, «tu volevi imbrogliarmi. Io credevo si trattasse di qualche cosa di sorprendente e di straordinario, e tu mi parli invece di una donnicciola malata. Eh, via, che diresti dunque, maledetto, se tu avessi visto come me il più bello dei principi? Ne diventeresti pazzo». «Amabile Maimùna», rispose Dahànnash, «vorrei domandarvi chi può essere il principe di cui parlate?» «Sappi», gli disse Maimùna, «che la sua storia è quasi uguale a quella della principessa di cui mi hai parlato. Il re suo padre voleva ammogliarlo per forza. Ma lui, dopo aver sopportato molti rimproveri, ha dichiarato francamente di non volerne sapere. E per questa ragione, nel momento in cui ti parlo, è imprigionato in una vecchia torre, dove io abito e dove ho potuto vederlo.» «Io non voglio assolutamente contraddirvi», soggiunse Dahànnash, «ma, bella signora, mi permetterete, fino a che non abbia visto il principe in questione, di credere che nessuno possa essere pari in bellezza alla mia principessa.» «Taci, maledetto», replicò Maimùna, «ti dico ancora una volta che ciò non può essere.» «Io non voglio ostinarmi contro di voi», aggiunse Dahànnash, «c'è un solo mezzo per convincervi se dico il vero o il falso: accettate la mia proposta di venire a vedere la mia principessa, e mostratemi poi il vostro principe.» «Non occorre che mi sobbarchi questa fatica!», replicò Maimùna, «c'è anche un altro mezzo, quello di portare la tua principessa qui e di metterla vicino al mio principe addormentato: e in tal modo ci sarà agevole paragonarli e risolvere la nostra questione.» Dahànnash acconsentì al desiderio della fata, e voleva partire immediatamente per la Cina; ma Maimùna lo fermò. «Aspetta!», gli disse, «Vieni a vedere prima la torre dove devi portare la tua principessa!» Volarono insieme fino là; quando Maimùna l'ebbe mostrata a Dahànnash, disse: «Va a prendere la tua principessa, e fa presto, t'aspetto qui; ma voglio che tu almeno mi paghi la scommessa, se il mio principe è più bello della tua principessa; io te la pagherò se la tua principessa e più bella di lui». Dahànnash, allontanandosi dalla fata, andò in Cina e ritornò con una rapidità incredibile, portando la bella principessa addormentata. Maimùna li introdusse nella camera del principe Qamar az-Zamàn e posarono la fanciulla accanto a lui. Quando il principe e la principessa furono vicini, vi fu una gran discussione sulla loro bellezza tra il genio e la fata. Stettero qualche tempo ad ammirarli e a confrontarli silenziosamente. Dahànnash ruppe il silenzio: «Voi la vedete», disse a Maimùna, «ve l'avevo detto che la mia principessa è più bella del vostro principe. Ne dubitate ancora?». «Come, se ne dubito?», rispose Maimùna, «certamente che ne dubito! Bisogna che sia cieca per non vedere che il mio principe supera in bellezza la tua principessa. Ella è bella, non lo nego, ma se li paragoni senza prevenzione, vedrai che ho ragione io.» «Quanto più li confronto», rispose Dahànnash, «e tanto più mi confermo nel mio giudizio. Ciò non impedirà però bella Maimùna, che io ceda, se lo desiderate.» «Così non va!», rispose Maimùna. «Non voglio che un genio maledetto come te ceda per cortesia. Rimettiamo la cosa a un arbitro: se tu non acconsenti, io mi riterrò vincitrice.» Dahànnash, pronto a compiacere in tutto Maimùna, diede il consenso e subito la fata batté la terra con il piede: ne uscì un orrido genio, gobbo, cieco d'un occhio e zoppo, con sei corna in testa, e le mani e i piedi uncinati. Appena fu apparso, la terra si richiuse: nel vedere Maimùna, si prostrò, e restando in ginocchio, le chiese quello che desiderasse dal suo umile servitore. «Alzati, Qashqash (questo era il nome del genio). Ti ho fatto venire qui per essere giudice d'una disputa che ho con questo maledetto Dahànnash. Guarda questa coppia e dicci senza parzialità chi ti sembra più bello: il giovane o la giovane?» Qashqash guardò il principe e la principessa con stupore e ammirazione. Dopo averli ben considerati, senza potersi decidere: «Signora», disse a Maimùna, «ti confesso che ti ingannerei e tradirei me stesso, se ti dicessi che trovo l'uno più bello dell'altro. Più li guardo e più li trovo belli entrambi, per quanto posso giudicare. Né l'uno né l'altro possiede il minimo difetto. Per scoprire se l'uno o l'altro ne avesse qualcuno, vi sarebbe, secondo me, un mezzo: svegliamoli e quello che mostrerà più affetto col suo ardore, con la sua premura e col suo trasporto per l'altro, sarà meno bello in qualche cosa.» Il consiglio di Qashqash piacque tanto a Maimùna quanto a Dahànnash. Maimùna, trasformatasi in pulce, saltò sul collo di Qamar az-Zamàn e lo punse così forte che lo svegliò. Egli si portò la mano al collo, ma non prese niente, perché Maimùna aveva fatto prontamente un salto indietro, restando invisibile, come i due geni, perché volevano assistere a quanto sarebbe accaduto. Nel ritirare la mano, il principe la lasciò cadere su quella della principessa della Cina. Egli aprì gli occhi, e fu meravigliato di vedersi accanto una donna di tale bellezza. Alzò la testa e si appoggiò al gomito per osservarla. La giovinezza della principessa e la sua incomparabile bellezza l'infiammarono in un momento, e in maniera non mai provata in vita sua. L'amore s'impadronì del suo cuore in modo esclusivo, e non poté trattenersi dall'esclamare: «Che bellezza! Quale incanto! Cuor mio! Anima mia!». E ciò detto, la scosse così forte e con così poco garbo, che essa si sarebbe destata, se non avesse dormito in modo profondissimo per incantesimo di Dahànnash. «Come, mia bella signora, voi non vi svegliate a questa prova di amore del principe Qamar az-Zamàn? Chiunque voi siate, egli non è indegno di voi.» E voleva svegliarla: ma si trattenne improvvisamente. «Che sia», disse tra sé, «la donna che il sultano mio padre voleva darmi in matrimonio? Ha avuto gran torto allora di non farmela vedere prima, perché non l'avrei offeso con una disobbedienza e con uno scatto d'ira, e avrebbe risparmiato a se medesimo l'umiliazione a cui l'ho esposto.» Il principe Qamar az-Zamàn, pentitosi sinceramente del fallo commesso, stava per destare la principessa della Cina, ma si trattenne e disse ancora tra sé: «Il sultano mio padre ha inviato questa giovane signora per cogliermi di sorpresa e per vedere se veramente io avessi tanta avversione al matrimonio quanta ne ho dimostrata. Chissà che non l'abbia condotta qui lui stesso e che non stia nascosto per mostrarsi e farmi vergognare della mia risoluzione? Questo secondo fallo sarebbe assai più grande del primo: ad ogni buon conto, mi contenterò di questo anello, per ricordo di lei». La principessa aveva al dito un bellissimo anello: egli lo sfilò e lo sostituì col suo. Ciò fatto, le voltò il dorso e non ci mise molto a riaddormentarsi profondamente come prima, per l'incanto dei geni. Appena il principe Qamar az-Zamàn fu addormentato, Dahànnash, a sua volta trasformatosi in pulce, andò a punzecchiare la principessa alle labbra. Ella si svegliò di soprassalto, e sedendosi sul letto, fu molto meravigliata di vedere nella sua stanza un uomo. Poi, dalla sorpresa passò all'ammirazione e dall'ammirazione alla gioia, vedendo che quel giovane era così bello e amabile. «Come», esclamò, «siete voi che mio padre ha scelto come mio sposo? Sono molto disgraziata a non averlo saputo prima; non l'avrei sdegnato, non sarei stata così a lungo priva d'un marito, che non posso impedirmi di amare con tutto il cuore.» Ciò detto, la principessa toccò il principe Qamar az-Zamàn sul braccio, e lo scosse con tanta energia che l'avrebbe svegliato, se Maimùna non avesse con un incantesimo reso ancor più profondo il suo sonno. Ella continuò a scuoterlo, più volte, ma vedendo che non si destava, esclamò: «Che cosa v'è mai accaduto? Qualche rivale geloso della nostra felicità avrebbe forse fatto ricorso alla magia facendovi cadere in questo invincibile letargo?». Gli prese la mano, e baciandogliela teneramente s'accorse dell'anello che aveva al dito, e che gli parve in tutto simile al suo. Si accorse poi che si trattava proprio del suo, vedendosene un altro al dito, e non comprendendo come simile scambio fosse avvenuto, si persuase che fosse la prova del loro matrimonio. Avendo tentato inutilmente di destarlo, e certa, come credeva, che non gli sarebbe sfuggito: «Poiché non posso riuscire a svegliarvi», disse, «non mi ostino più ad interrompere il vostro sonno. A più tardi!». E pronunciando queste parole si coricò di nuovo e non tardò molto ad addormentarsi. Quando Maimùna vide che poteva parlare senza che la principessa della Cina si svegliasse, disse a Dahànnash: «Ebbene, genio maledetto, sei convinto ora che la tua principessa è meno bella del mio principe? Va', voglio farti grazia della scommessa. Un'altra volta però credi a quanto ti dico». Poi, rivolgendosi a Qashqash, gli disse: «Ti ringrazio! Prendi la principessa con Dahànnash e riportala dove egli ti condurrà». Dahànnash e Qashqash eseguirono l'ordine di Maimùna, mentre lei ritornava nel suo pozzo. Il principe Qamar az-Zamàn, l'indomani, svegliandosi si guardò intorno per vedere se la donna che aveva vista la notte fosse ancora lì, e non scorgendola più: «Non mi ero sbagliato», disse tra sé, «supponendo che fosse una sorpresa del re mio padre». Svegliò lo schiavo, che dormiva ancora. Questi gli portò una bacinella e l'acqua. Qamar az-Zamàn si lavò e dopo aver fatto la sua preghiera prese un libro e lesse qualche tempo. Ciò fatto chiamò lo schiavo dicendogli: «Vieni qua e non mentire: da dove è venuta la donna che ho visto qui questa notte, e chi l'ha condotta?». «Principe», rispose lo schiavo molto meravigliato, «di quale donna parlate?» «Di quella», insistette, «che era qui questa notte.» «Principe», rispose lo schiavo, «vi giuro di non saperne niente: per dove sarebbe passata questa signora, se io dormivo davanti alla porta?» «Tu sei un briccone e sei d'accordo con gli altri per addolorarmi e farmi arrabbiare!» Ciò detto gli diede uno schiaffo, gettandolo per terra, e dopo averlo calpestato a lungo, lo legò sotto le ascelle con la fune del pozzo, e, calandolo, l'immerse più volte nell'acqua con la testa in giù, gridando: «Ti annegherò se non mi dici subito chi era quella signora, e chi l'ha condotta qui». Lo schiavo molto impacciato per metà immerso nell'acqua, disse tra sé: «Senza dubbio, il principe ha perduto la ragione, e io non posso sfuggirgli se non con una menzogna. Principe», gli disse poi in tono supplichevole, «lasciatemi la vita, ve ne scongiuro, e vi prometto di dirvi come è andata la faccenda». Il principe, tirato su lo schiavo, lo sollecitò a parlare. «Principe», gli disse lo schiavo tremando, «comprenderete che non posso soddisfarvi nello stato in cui sono; datemi prima il tempo di andare a cambiare il vestito.» «Te l'accordo, ma fa presto, e bada bene di non nascondermi la verità!» Lo schiavo uscì, e dopo aver ben rinchiuso il principe, corse dal sultano così come si trovava. Il re parlava col suo ministro e si lamentava della pessima notte che aveva passata, in seguito alla ribellione del principe suo figlio. Il ministro si sforzava di consolarlo. «Sire», gli diceva, «vostra maestà non deve pentirsi di averlo fatto mettere in prigione. Se avrete la pazienza di lasciarlo là per un po' di tempo, si sottometterà al vostro desiderio.» Il visir stava dicendo queste parole, quando lo schiavo si presentò al re Shahzamàn. «Sire», gli disse, «sono dolente di dovervi dare una notizia, che non potrete ascoltare senza dolore: il principe dice di aver veduta stanotte una signora, e il modo con cui m'ha trattato, come potete vedere fa purtroppo capire che egli non è più sano di mente.» Fece poi un resoconto di quanto il principe Qamar az-Zamàn aveva detto, e del modo strano con cui lo aveva trattato, in modo da avvalorare la sua affermazione. Il re, che non si aspettava questo nuovo motivo di preoccupazione, disse al suo primo ministro: «Ecco un fatto nuovo, assai triste, contrario alla speranza che poco fa esprimevate. Andate, senza perdere tempo, a vedere di persona quello che sta accadendo, e venite ad informarmene». Il gran visir obbedì immediatamente. Nell'entrare nella camera del principe lo trovò seduto, assai calmo, intento a leggere un libro. Dopo averlo salutato gli sedette accanto e gli disse: «Sono sdegnatissimo contro il vostro schiavo che è venuto a spaventare il re vostro padre con una triste notizia». «E per quale notizia», rispose il principe, «si è tanto spaventato? Io ho un motivo grave per lagnarmi del mio schiavo.» «Principe», soggiunse il visir, «a Dio non piaccia che egli abbia detto il vero. Il buono stato in cui vi vedo, e nel quale prego il cielo di conservarvi, mi fa pensare che egli abbia mentito.» «Forse», replicò il principe, «non si è spiegato bene; ma giacché siete venuto, sono contento di domandare a una persona come voi, poiché dovete saperne qualche cosa, dove sia la signora che ho veduto questa notte.» Il gran visir restò annientato da tale domanda. «Principe», gli disse, «non siate sorpreso della meraviglia che scorgete in me per quanto mi avete domandato. Non sarebbe stato possibile, non dico già per una signora, ma per nessuno al mondo, di penetrare qui di notte, senza passare dalla porta, e senza camminare sul ventre del vostro schiavo! Vi prego, pensateci bene, e vedrete che avete sognato!» «Io non mi contento del vostro discorso», ripigliò il principe in tono più concitato, «voglio sapere assolutamente che cos'è successo a quella signora, e saprò bene farmi obbedire.» A queste parole decise il gran visir rimase più che mai esterrefatto, e meditò il mezzo di cavarsi d'impaccio. Prese il principe con la dolcezza, domandandogli nei termini più umili e cortesi, se avesse visto coi suoi occhi quella signora. «Sicuro che l'ho veduta», rispose il principe, «e mi sono subito accorto che voi l'avevate fatta venire qui per tentarmi. Ha sostenuto benissimo la sua parte: non mi ha detto una parola, ha finto di dormire e si è ritirata non appena mi sono addormentato. Voi lo sapete senza dubbio, perché non avrà mancato di venire a rendervene conto.» «Principe, vi giuro che non c'è niente di vero in tutto ciò che mi dite; né il re vostro padre, né io abbiamo inviato la signora di cui parlate; anzi non ci abbiamo nemmeno pensato. Permettetemi di dirvi ancora una volta che voi avete visto quella signora solo in sogno.» «Siete venuto qui a burlarvi di me?», replicò il principe adirato. Ciò detto, lo prese per la barba e lo caricò di calci finché glielo permisero le sue forze. Il povero visir sopportò pazientemente tutti gli effetti della collera del principe, per il rispetto che gli doveva. «Eccomi», disse fra sé, «nelle stesse condizioni dello schiavo, e mi stimerei fin troppo felice se, come lui potessi sfuggire da questo gran pericolo!» Sotto ai colpi con cui il principe lo caricava, trovò il modo di dire: «Principe, vi supplico di darmi ascolto un momento!» Il principe, stanco di batterlo, lo lasciò parlare. «Io vi confesso», disse il gran visir mentendo, «che c'è del vero in quello che credete. Ma voi non ignorate che un ministro deve eseguire gli ordini del re suo padrone. Se voi avete la bontà di permettermelo, sono pronto ad andare a dirgli da parte vostra quanto m'ordinate.» «Ve lo permetto», disse il principe. «Andate e ditegli che voglio sposare la signora che mi ha inviata; fate presto e portatemi la risposta.» Il gran visir fece una grande riverenza lasciandolo e non si sentì al sicuro se non quando ebbe rinchiuso il principe. Il gran visir si presentò davanti al re con una tristezza che lo addolorò al primo sguardo. «Ebbene», gli domandò il monarca, «in quale stato avete trovato mio figlio?» «Sire», rispose il ministro, «quello che lo schiavo ha riferito a vostra maestà è purtroppo vero.» Gli fece il racconto del colloquio avuto con Qamar az-Zamàn, e dello scatto d'ira del principe, quando aveva cercato di dimostrargli che non era possibile che avesse visto una signora nella sua prigione. Gli disse della maniera brutale con cui l'aveva trattato, e della destrezza con cui era sfuggito dalle sue mani. Il re, volendo essere certo della verità, andò di persona alla torre. Il principe ricevette con gran rispetto il re suo padre nella camera dove era prigioniero. Il re si sedette, e dopo aver fatto sedere il principe vicino a sé, gli fece alcune domande, alle quali egli rispose assennatamente. Ogni tanto il re guardava il gran visir, come per dirgli che il principe suo figlio non aveva perso la ragione, contrariamente a quanto aveva assicurato. Il re finalmente parlò al principe della signora. «Sire», rispose Qamar az-Zàman, «supplico vostra maestà di non accrescere il dispiacere che già mi avete cagionato a questo proposito; fatemi piuttosto la grazia di darmela in moglie. Qualunque avversione vi abbia dimostrato finora per le donne, quella bella giovane mi ha talmente incantato, che non ho difficoltà a confessarvi la mia debolezza. Io sono pronto ad accoglierla.» Il re restò imbarazzato della risposta del principe. «Figlio mio», rispose, «mi dici cose che mi fanno molta meraviglia. Ti giuro, per la mia corona, di non saper nulla della signora di cui mi parli, e se è venuto qui qualcuno, io non c'entro. Ma d'altronde come avrebbe potuto penetrare in questa torre senza il mio consenso poiché quanto ti ha detto il mio gran visir è una menzogna detta solo per calmarti? Sarà stato un sogno, bada bene, rientra in te!» «Sire», soggiunse il principe, «sarei indegno per sempre della vostra bontà se non prestassi fede alle vostre parole: ma vi supplico di avere la pazienza di ascoltarmi, e di giudicare se quanto avrò l'onore di dirvi può essere un sogno.» Il principe Qamar az-Zamàn raccontò allora al re suo padre in qual modo s'era svegliato, descrisse la bellezza e le attrattive della donna vista, gli confessò di essersi innamorato di lei immediatamente e di aver tentato invano di svegliarla. Continuò dicendogli come si fosse riaddormentato, dopo aver fatto il cambio del suo anello con quello della donna: e ciò detto glielo mostrò. «Sire, voi conoscete il mio, avendolo visto più volte; dopo di ciò spero che sarete convinto che non sono diventato matto, come vi si è fatto credere.» Il re Shahzamàn si convinse della verità di quanto gli aveva raccontato il principe suo figlio, e non trovò nulla da rispondere. Ne fu anzi tanto meravigliato, che restò a lungo senza dire una parola. Il principe approfittò di questi pochi momenti di silenzio per dirgli: «Sire, l'amore che provo per questa incantevole persona, di cui tengo scolpita nel cuore la preziosa immagine, è già così ardente, che non mi sento la forza per resistervi. Vi supplico d'aver compassione di me, e di procurarmi la felicità di possederla!». «Dopo quanto ho inteso, figlio mio, e dopo aver visto l'anello», rispose il re, «credo che la tua passione sia reale, e che tu abbia veduto la donna che ti ha infiammato il cuore. Piacesse al cielo che la conoscessi! Tu saresti contento ed io sarei il più felice padre del mondo; ma dove cercarla? Come è entrata qui? Perché è entrata solamente per farti vedere la sua bellezza, per infiammarti d'amore mentre dormiva e per sparire, quando dormivi? Io non capisco nulla di quest'avventura, e se il cielo non ci favorisce ne moriremo tanto tu quanto io.» E ciò detto, prendendo per mano il principe: «Vieni», soggiunse, «andiamo ad affliggerci insieme, tu d'amore senza speranza, ed io per vederti afflitto e non poter consolare il tuo dolore». Il re condusse il principe fuori dalla torre e al palazzo, dove, disperato di amare con tutta l'anima una donna sconosciuta, si mise a letto. Il re si ritirò e pianse più giorni senza volersi occupare delle cose del regno. Un giorno il suo primo ministro, che solo poteva avvicinarlo, venne a fargli notare che tutta la corte ed anche il popolo cominciavano a mormorare, perché non lo si vedeva più e non rendeva più come al solito, giustizia ogni giorno, dicendo che non rispondeva del disordine che potrebbe accadere. «Vi supplico, maestà», proseguì, «di pensarci. Sono persuaso che la vostra presenza sollevi il dolore del principe e la compagnia del principe sollevi il vostro, ma voi dovete curare che gli affari dello stato non vadano in rovina. Mi permetterete di proporvi di trasferirvi col principe al castello della piccola isola, poco lontano dal porto, e di dar udienza due volte la settimana solamente. Mentre questo lavoro vi obbligherà a star lontano dal principe, il giovane per l'incantevole bellezza del luogo, e per la meravigliosa vista che vi si gode, sopporterà la vostra breve lontananza con maggior pazienza.» Il re approvò il consiglio: ed appena il castello, dove non era andato da molto tempo, fu arredato, vi si trasferì col principe, non abbandonandolo se non durante le udienze, e passando il resto del tempo al capezzale del suo letto, ora cercando di consolarlo, ora affliggendosi con lui. Mentre queste cose avvenivano nella capitale del re Shahzamàn, i due geni Dahànnash e Qashqash avevano riportato la principessa della Cina al palazzo dove il re suo padre l'aveva rinchiusa e l'avevano posata sul suo letto. L'indomani, svegliandosi la principessa della Cina si guardò a destra ed a sinistra, e non vedendo più il principe al suo fianco, chiamò le sue donne, che tosto accorsero. La nutrice le domandò che cosa le fosse accaduto. «Ditemi, che è avvenuto al giovane che amo con tutta l'anima e che ho veduto questa notte?» «Principessa», rispose la nutrice, «noi non comprendiamo niente del vostro discorso, se non vi spiegate meglio.» «Vi domando dov'è», riprese la principessa, «il giovane che ho visto accanto a me? Era bellissimo e io ho fatto di tutto per svegliarlo, senza riuscirvi.» «Ma, principessa», insistette la nutrice, «quanto ci dite è impossibile, per quanto ne sappiamo noi.» La principessa della Cina perse la pazienza, prese la nutrice per i capelli dandole schiaffi e pugni e dicendole: «Me lo dirai, vecchia strega, o ti ammazzerò!». La nutrice fece grandi sforzi per sfuggire dalle sue mani, e quando vi fu riuscita, andò sollecitamente a trovare la regina della Cina, madre della principessa, e si presentò davanti a lei con le lacrime agli occhi e il viso tutto pesto, con grande meraviglia della regina, che le domandò chi l'avesse così maltrattata. «Signora, vedete in qual modo mi ha trattata la principessa, e m'avrebbe ammazzata se non fossi riuscita a sfuggire dalle sue mani.» Le raccontò la ragione della sua collera e della sua ira, e la regina ne fu afflitta e sorpresa. «Voi vedete, signora», aggiunse, terminando la vecchia, «che la principessa è fuori di sé, e ne giudicherete voi medesima se vorrete prendervi la pena di venirla a vedere.» Siccome la regina della Cina amava moltissimo la figlia, andò a vedere immediatamente la principessa, seguita dalla nutrice. La regina della Cina si sedette vicino alla figlia, non appena fu giunta nell'appartamento dove era rinchiusa, e dopo averla interrogata sulla sua salute, le chiese la ragione del suo sdegno contro la nutrice, così violento da arrivare a maltrattarla. Le disse: «Figlia mia, ciò non va bene, e una principessa come te non deve mai giungere a tali eccessi». «Signora», rispose la principessa, «vedo che vostra maestà viene per burlarsi di me: ma vi assicuro che non potrò riavere la calma finché non mi sarà dato per sposo l'amabile cavaliere che ho visto questa notte. Voi dovete sapere dove è, e vi supplico di farlo ritornare.» «Figlia mia», soggiunse la regina, «sono molto sorpresa del tuo discorso e non ci capisco nulla.» La principessa sdegnata mancò allora di rispetto alla madre, dicendole: «Signora, il re mio padre e voi mi avete perseguitata per costringermi a sposarmi quando non ne avevo desiderio, ma ora questo desiderio m'è venuto e voglio assolutamente per marito il cavaliere di cui vi ho parlato, altrimenti mi ucciderò». La regina cercò di calmarla, dicendole: «Figlia mia, ma sai pure di essere sola in questo appartamento, dove nessun uomo può entrare». Ma, invece di ascoltarla, la principessa la interruppe, facendo delle stravaganze che costrinsero la regina a ritirarsi con grande dolore e ad andare dal re. Il re, volendo rendersi conto personalmente della cosa, si recò all'appartamento della figlia, e le chiese se quanto gli era stato detto fosse vero. «Sire», gli disse, «non parliamo di ciò: fatemi solamente la grazia di maritarmi al giovane che ho visto.» «Ma come, figlia mia! Chi è questo giovane?» «Ma come, sire», replicò la principessa, senza dargli il tempo di proseguire, «proprio voi mi domandate se ho visto qualcuno? Vostra maestà non l'ignora! E' il giovane più bello che vi sia sotto il cielo! Ed affinché vostra maestà non dubiti di quanto dico, veda, se lo desidera questo anello.» E, così dicendo, stese la mano, e il re della Cina vide che portava un anello da uomo. Ma non potendo capire nulla di quanto gli aveva detto e avendola rinchiusa perché la credeva pazza, la ritenne più pazza di prima. Allora, senza più rivolgerle la parola, temendo facesse qualche violenza a lui o agli altri, la fece incatenare e rinchiudere più strettamente, dandole solo la nutrice per servirla, con una buona guardia alla porta. Il re della Cina, inconsolabile per la sciagura che aveva colpito la principessa sua figlia, poiché credeva che avesse perso la ragione, pensò ai mezzi per guarirla. Riunito il consiglio, dopo aver esposto lo stato in cui si trovava, disse: «Se qualcuno di voi è tanto abile da saperla guarire io gliela darò in sposa e lo farò erede dei miei stati e della mia corona, dopo la mia morte». Il desiderio di possedere la bella principessa, e la speranza di governare un giorno un regno tanto potente come quello della Cina, fece grande effetto sull'animo d'un giovane emiro presente al consiglio. Essendo egli esperto di magia, si lusingò di riuscirvi e s'offerse al re. «Vi consento», rispose questi, «ma voglio avvertirvi prima che vi farò mozzare il capo se non riuscirete: non sarebbe giusto che meritaste una così gran ricompensa senza rischiare da parte vostra qualche cosa. Quello che dico a voi lo dirò anche a tutti gli altri che si presenteranno dopo di voi, se non riuscirete nell'impresa.» L'emiro accettò la condizione, ed il re lo condusse dalla principessa, che si coprì il viso non appena vide apparire l'emiro. «Sire», disse, «vostra maestà mi sorprende, conducendo qui un uomo che non conosco, e la cui religione mi proibisce di farmi vedere.» «Figlia mia», le rispose il re, «la sua presenza non deve scandalizzarti, poiché egli è uno dei miei emiri che ti chiede in sposa.» «Sire», ribatté la principessa, «egli non è lo sposo che mi avete già dato e dal quale ho ricevuto in fede l'anello che porto. Non ve n'abbiate a male se io non accetto nessun altro.» L'emiro il quale s'aspettava che la principessa avrebbe fatto o detto cose strane, fu meravigliato di vederla così calma e ragionevole e così assennata e capì che non era malata, se non di un violentissimo e ben fondato amore: ma non ebbe l'ardire di spiegarsi col re, che non avrebbe sopportato che la principessa avesse dato il suo cuore a un altro e non a colui che egli voleva presentarle personalmente. Nondimeno l'emiro, prostrandosi a lui, gli disse: «Sire, da quanto ho inteso, è inutile che io intraprenda una cura per guarire la principessa: io non ho rimedi adatti, e il mio capo è a disposizione della vostra maestà!». Il re, sdegnato dell'incapacità dell'emiro e della molestia che gli aveva data, gli fece mozzare il capo. Alcuni giorni dopo, per non avere da rimproverarsi di aver tralasciato qualche mezzo per guarire la principessa, questo monarca fece annunciare pubblicamente nella capitale che, se vi era qualche medico, astrologo o mago capace di guarire la principessa, venisse a presentarsi, a condizione però che gli verrebbe tagliata la testa se falliva. Mandò ad annunciare la stessa cosa in tutte le principali città dei suoi stati, e nelle corti dei principi suoi vicini. Il primo a presentarsi fu un astrologo, e mago; il re lo fece condurre alla prigione della principessa da un eunuco. L'astrologo trasse da un sacco che portava sotto il braccio, un astrolabio, una piccola sfera, uno scaldavivande, diverse specie di droghe adatte per fumigazione, un vaso di rame con parecchie altre cose, e chiese del fuoco. La principessa della Cina domandò che significassero quei preparativi. «Principessa», rispose l'eunuco, «si fanno per scongiurare lo spirito maligno che vi possiede, rinchiuderlo in questo vaso che vedete, e gettarlo nel fondo del mare.» «Maledetto astrologo», esclamò la principessa, «non ho bisogno dei tuoi preparativi, sono sanissima di mente; tu solo sei un insensato. Se hai qualche potere, conduci qui quello che amo: questo è il solo favore che tu possa rendermi.» «Principessa», rispose l'astrologo, «se le cose stanno così, non da me, ma dal re vostro padre, dovete attenderlo», e ripose nel suo sacco i suoi strumenti, oltremodo dolente di essersi con tanta facilità impegnato a guarire una malattia immaginaria. Quando l'eunuco ebbe ricondotto l'astrologo davanti al sovrano della Cina, egli senza aspettar oltre disse: «Sire, ho creduto, in seguito a quanto avete fatto annunciare, che la principessa vostra figlia fosse pazza, ed ero sicuro di ristabilirla in salute con delle formule segrete, di cui ho cognizione: ma non ho durato molta fatica a capire che non ha altra malattia se non quella d'amore: vostra maestà vi rimedierà meglio degli altri, dandole il marito che desidera». Il re trattò l'astrologo d'insolente e gli fece mozzare il capo. Sorte eguale ebbero altri cinquantatré pretendenti, tra maghi e astrologi, le cui teste mozzate furono affisse al di fuori delle mura, presso la porta centrale della città. La nutrice della principessa della Cina aveva un figlio chiamato Marzawàn, fratello di latte della principessa; essi erano stati nutriti e allevati insieme, e la loro amicizia era stata così grande al tempo della loro infanzia, quando erano come fratelli, che essa durò anche quando, cresciuti, furono costretti a separarsi. Tra le molte scienze che Marzawàn aveva studiato nella sua giovinezza, la sua inclinazione l'aveva portato particolarmente allo studio dell'astrologia, della geomanzia, e di altre scienze segrete, nelle quali era diventato abilissimo. Non contento di quanto aveva imparato dai suoi maestri, si era messo a viaggiare e non vi era scienziato o artista celebre che non avesse visitato nelle più lontane città per acquistare nuove cognizioni. Dopo un'assenza di molti anni, Marzawàn ritornò finalmente nella capitale della Cina, e le teste mozzate e poste in fila al di sopra della porta per dove entrò, lo sorpresero estremamente. Appena ritornato in casa sua ne domandò la ragione, informandosi in pari tempo della principessa, sua sorella di latte, che non aveva dimenticato. Rispondendo alle sue domande in una volta sola, gli raccontarono tutta la storia, ed egli, ascoltandola, provò grande dolore e attese ancor più impazientemente il ritorno di sua madre, che avrebbe potuto dirgliene di più. Quantunque la nutrice, madre di Marzawàn, fosse molto occupata presso la principessa della Cina, tuttavia appena seppe che il suo caro figlio era ritornato, trovò il mezzo d'uscire per andare ad abbracciarlo e parlare con lui, per qualche momento. Dopo che gli ebbe raccontato lo stato miserando in cui si trovava la principessa, e la ragione per cui il re della Cina, la trattava in quel modo, Marzawàn le chiese se poteva combinare un incontro segreto. Dopo averci pensato alcuni momenti: «Figlio mio, io non posso dirti nulla adesso, ma aspettami domani alla stessa ora e ti darò una risposta». Siccome, oltre la nutrice, nessuno poteva avvicinarsi alla principessa senza il permesso dell'eunuco, che stava di guardia alla porta, la nutrice che sapeva che egli era in servizio da poco tempo e non era al corrente su ciò che era accaduto alla corte del re della Cina, si rivolse a lui dicendogli: «Voi sapete che io ho allevato e nutrito la principessa, ma non sapete che l'ho allevata con mia figlia che ha la stessa età e che ho maritata da non molto tempo. La principessa che l'ama sempre, vorrebbe vederla, ma desidererebbe che nessuno la vedesse entrare e uscire». La nutrice voleva dire di più, ma l'eunuco la interruppe: «Non dite altro», le disse. «Farò sempre con piacere quanto posso per servire la principessa: perciò fate venire o andate a prendere voi stesso la vostra figlia quando sarà notte, e conducetela dopo che il re si sarà ritirato: la porta sarà aperta». Appena fu notte, la nutrice andò dal suo figlio Marzawàn, e travestitolo da donna, lo condusse con sé. L'eunuco, non dubitando di nulla, aprì la porta e li lasciò entrare insieme. Prima di presentare Marzawàn, la nutrice si avvicinò alla principessa e le disse: «Signora, questa che vedete non è una donna, ma mio figlio Marzawàn da poco ritornato dai suoi viaggi; egli ha voluto arrivare fino a voi e ho dovuto ricorrere a questo travestimento. Spero che vorrete accordargli l'onore di presentarvi i suoi omaggi». Al nome di Marzawàn la principessa dimostrò una grande gioia: «Avvicinatevi, fratello mio», disse subito a Marzawàn, «e toglietevi questo velo; non è proibito a un fratello e a una sorella di vedersi a viso scoperto». Marzawàn la salutò con gran rispetto, ma senza dargli il tempo di parlare: «Sono contenta», continuò la principessa, «di vedere che state bene, dopo un'assenza di tanti anni, durante la quale non avete mai mandato vostre notizie, neppure alla vostra buona mamma». «Principessa», rispose Marzawàn, «io vi sono infinitamente grato della vostra bontà. Mi aspettavo, al mio ritorno, di avere notizie migliori di voi; d'altra parte sono contento d'esser giunto a tempo per portarvi, dopo tanti altri, che non vi sono riusciti, la guarigione di cui avete bisogno. Quand'anche non ottenessi altro vantaggio dai miei studi e dai miei viaggi oltre a questo, ne sarei più che ricompensato.» Ciò detto, Marzawàn trasse un libro ed altre cose di cui s'era munito, e che aveva giudicate necessarie, secondo quanto la madre gli aveva detto della malattia della principessa. Ella, nel vedere quei preparativi, esclamo: «Che! Fratello mio! anche voi credete che sia pazza? Disingannatevi ed ascoltatemi». Allora la principessa raccontò a Marzawàn tutta la sua storia, non tralasciando neppure un particolare, e gli disse che il suo anello era stato scambiato con un altro che gli mostrò. «Io non vi ho nascosto nulla», aggiunse, «e quello che vi ho raccontato è la verità. C'è qualche cosa che non comprendo, e che fa credere che io sia pazza: ma nessuno bada a ciò che dico e che è vero.» Quando la principessa ebbe terminato di parlare, Marzawàn pieno di meraviglia e di stupore, restò qualche tempo con gli occhi bassi, senza parlare. Finalmente, alzando la testa, disse: «Principessa, se quanto m'avete raccontato è vero, e io ne sono persuaso, non dispero di procurarvi la soddisfazione che desiderate. Vi supplico solamente di armarvi di pazienza ancora per qualche tempo, finché io non abbia percorso i regni dove non sono ancora stato, e quando vi sarà annunciato il mio ritorno, siate certa che quello per cui sospirate con tanta passione non sarà più lontano». Ciò detto, Marzawàn prese congedo dalla principessa e il giorno dopo si mise in viaggio. Marzawàn andò di città in città, di provincia in provincia e d'isola in isola, e ovunque giungesse, non sentiva parlare che della principessa della Cina e della sua storia. Dopo quattro mesi il nostro viaggiatore arrivò a at-Taìrab, città marittima, grande e popolatissima, dove non sentì più parlare della principessa Budùr (così infatti si chiama la principessa della Cina), ma del principe Qamar az-Zamàn che, dicevano, era infermo, e di cui si raccontava la storia, pressappoco simile a quella della principessa Budùr. Marzawàn ne provò una gioia inesprimibile e si informò in qual parte del mondo vivesse questo principe; glielo dissero. Vi erano due strade, per giungervi, l'una per terra e l'altra per mare, e questa era la più breve. Marzawàn, scelse quest'ultima, si imbarcò su una nave mercantile, che ebbe una agevole navigazione fino nelle vicinanze della capitale del regno di Shahzamàn: ma prima d'entrare nel porto, il vascello sciaguratamente si schiantò su uno scoglio per l'imperizia del pilota, e affondò in vista del castello, dove vivevano il principe e il re suo padre con il gran visir. Marzawàn sapeva nuotare, e non esitò a gettarsi in acqua, e a nuotare, finché approdò ai piedi del castello del re Shahzamàn, dove fu ricevuto e soccorso per ordine del re. Gli venne data una veste per cambiarsi, fu trattato bene, e quando si fu rimesso, andò dal gran visir che aveva ordinato di condurglielo. Essendo Marzawàn un giovane bello e di aspetto simpatico, il ministro lo accolse cortesemente, e udendo le risposte sagge e argute che egli diede a qualunque domanda gli si facesse, provò per lui stima e simpatia. «Ascoltandovi si capisce che voi non siete un uomo comune. Piacesse a Dio che nei vostri viaggi aveste appreso qualche segreto per guarire un malato che da lungo tempo dà grande preoccupazione a questa corte.» Marzawàn rispose che se avesse saputo da quale malattia quella persona era tormentata, avrebbe potuto trovare un rimedio. Il gran visir narrò allora lo stato in cui si trovava il principe, cominciando dall'inizio. Non gli celò nulla della sua nascita tanto desiderata, della sua educazione, del desiderio del re di dargli moglie, della resistenza del principe e della sua straordinaria avversione per il matrimonio, della sua disobbedienza in pieno consiglio, della sua prigionia, della sua stravaganza nella prigione, che si era trasformata in una passione violenta per una donna sconosciuta, non avendo altro punto di riferimento che un anello, che il principe pretendeva fosse di quella signora, che forse non esisteva neppure. A questo discorso del gran visir, Marzawàn si rallegrò infinitamente di essere giunto, in conseguenza del suo naufragio, precisamente nel luogo dove si trovava colui che cercava. Egli era certo e non poteva dubitarne, che il principe Qamar az-Zamàn fosse quello per cui la principessa della Cina ardeva di amore, e che proprio lei fosse l'oggetto degli ardentissimi desideri del principe. Senza rivelare nulla al gran visir, disse solamente che se avesse visto il principe, avrebbe potuto giudicare meglio quale cura somministrargli. «Seguitemi», gli disse il gran visir, «troverete vicino a lui il re suo padre, il quale mi ha espresso il desiderio di vedervi.» La prima cosa che colpì Marzawàn, fu, entrando nella camera del principe, di vederlo steso sul letto con gli occhi chiusi. Benché lo vedesse in questo stato, e senza aver riguardo per il re Shahzamàn, padre del principe, che gli stava seduto vicino, né per il principe, che questa libertà poteva infastidire, non poté non esclamare: «Cielo! Nulla al mondo è altrettanto somigliante!», e voleva dire che lo trovava simile alla principessa della Cina, e per vero si assomigliavano molto nei lineamenti. Queste parole di Marzawàn risvegliarono la curiosità del principe, che aprì gli occhi e guardò Marzawàn. Essendo dotato di grandissimo ingegno egli profittò del momento, per fargli i suoi complimenti in versi e improvvisandoli là per là, ma in modo così ermetico che il re e il gran visir non ne compresero nulla: ma con le sue parole egli dipinse così bene ciò che era accaduto con la principessa della Cina, che il principe non dubitò che egli la conoscesse e potesse dargliene notizia. Il principe fu preso da una gioia ineffabile, di cui lasciò trasparire traccia negli occhi e nel viso. Quando Marzawàn ebbe terminato il suo complimento in versi, sorprendendo piacevolmente il principe, questi si prese la libertà di far segno al re suo padre di cedere il posto a Marzawàn. Il re, esultante nel vedere nel principe suo figlio un cambiamento che gli dava buone speranze, si alzò e, prendendo Marzawàn per mano, l'obbligò a sedersi al posto che lui aveva lasciato libero. Gli chiese chi fosse e da dove venisse, e dopo che Marzawàn gli ebbe risposto di essere suddito del re della Cina, dai cui stati proveniva: «Dio voglia», gli disse, «che salviate mio figlio dalla sua profonda malinconia! Io ve ne sarei infinitamente riconoscente, e i segni della mia gratitudine non avrebbero limite». Ciò detto lasciò il principe suo figlio in perfetta libertà di conversare con Marzawàn, mentre egli si intratteneva col suo gran visir su quel felice incontro. Marzawàn, avvicinandosi all'orecchio del principe e parlandogli sottovoce, gli disse: «Principe, è ormai tempo che non vi abbandoniate più a questo crudele dolore. Conosco la donna per cui voi soffrite: è la principessa Budùr, figlia di Ghayùr, re della Cina. Ne sono sicuro da quanto ella stessa m'ha detto della sua sventura, e da quello che ho saputo della vostra. La principessa non soffre meno per amor vostro di quanto voi soffriate per amor suo». Gli fece poi il racconto di tutto quanto sapeva della storia della principessa: dalla notte fatale in cui s'erano veduti in modo così incredibile. Gli raccontò anche del modo in cui il re della Cina trattava coloro i quali tentavano invano di guarire la principessa Budùr dalla sua pretesa follia. «Voi siete il solo che possiate guarirla perfettamente e potete quindi presentarvi senza timore; ma prima d'intraprendere il viaggio, occorre che siate bene in salute, e allora prenderemo a questo scopo le misure necessarie. Non pensate dunque ad altro se non a rimettervi.» Il discorso di Marzawàn produsse un grande effetto. Il principe fu talmente sollevato, da sentirsi abbastanza in forze da alzarsi. Pregò allora il re suo padre di permettergli di vestirsi, ed egli ne provò un'incredibile gioia. Il re abbracciò Marzawàn per ringraziarlo, senza cercare di sapere come avesse ottenuto un effetto così sorprendente, ed uscì subito dalla camera del principe col gran visir per annunciare la piacevole notizia. Ordinò feste per più giorni, fece magnifici doni agli ufficiali e al popolo, elemosine ai poveri e diede la libertà a tutti i prigionieri. La capitale e tutti gli stati del re Shahzamàn risuonarono di gioia e di allegrezza. Il principe, estremamente indebolito dal continuo vegliare e da una lunga astinenza, recuperò rapidamente la salute. Quando sentì d'essere abbastanza forte per sopportare la fatica del viaggio, prese Marzawàn in disparte e gli disse: «Caro Marzawàn è venuto il momento ormai di mantenere la promessa che mi avete fatta. Impaziente come sono di vedere la leggiadra principessa, e di porre fine agli strazi che soffre per amor mio, sento che ricadrei nello stato in cui m'avete veduto, se non partissimo subito. Una cosa mi affligge e mi fa temere un ritardo: la tenerezza importuna del re mio padre, il quale non consentirà mai ad accordarmi il permesso d'allontanarmi da lui. Sarà per me una disgrazia se non troverete un rimedio; vedete voi stesso che non mi perde quasi mai di vista!». E terminando queste parole, il principe non poté trattenere le lacrime. «Principe», rispose Marzawàn, «avevo già previsto questo ostacolo, ma tocca a me liberarvene. Il primo scopo del mio viaggio è stato di procurare alla principessa della Cina il rimedio ai suoi mali, e ciò per l'amicizia che ci lega dalla nascita, e per l'affetto che nutro per lei. Mancherei al mio dovere se non ne profittassi per il suo conforto e per il vostro, e se non adoperassi tutta la destrezza di cui sono capace. Ecco dunque quello che ho pensato. Voi non siete ancora uscito dacché io son giunto: mostrate a vostro padre il desiderio di fare una partita di caccia di due o tre giorni: egli ve ne accorderà senza dubbio il permesso. Quando ve l'avrà accordato, ordinerete di dare a ciascuno di noi due buoni cavalli, uno per cavalcare, l'altro per cambio, e lasciate a me il resto.» L'indomani, il principe, colta l'occasione, espresse al re suo padre il desiderio di uscire, e lo pregò di permettergli d'andare a caccia un giorno o due con Marzawàn. «Volentieri», gli rispose il re, «a condizione che non dormiate più d'una notte fuori; troppo moto potrebbe ancora nuocervi, e una più lunga assenza mi cagionerebbe pena.» Il re comandò che si scegliessero i migliori cavalli, e badò egli stesso che nulla mancasse. Quando fu tutto pronto, lo abbracciò, e dopo aver raccomandato a Marzawàn di avere cura di lui, lo lasciò partire. Il principe e Marzawàn raggiunsero la campagna, e per ingannare i due palafrenieri, i quali conducevano i due cavalli di ricambio, finsero di cacciare, e s'allontanarono dalla città per quanto fu possibile. All'imbrunire si fermarono in un albergo per carovanieri, dove cenarono e dormirono fino a mezzanotte. Marzawàn, svegliatosi, destò il principe senza farsi sentire dai palafrenieri, e lo pregò di dargli il suo abito e di prenderne un altro diverso. Montarono poi ciascuno il proprio cavallo di ricambio, e dopo che Marzawàn ebbe preso per la briglia il cavallo di un palafreniere, si misero in viaggio a gran galoppo. All'alba i due cavalieri si trovarono in una foresta, in un punto dove la strada si biforcava. Là, Marzawàn pregò il principe di attenderlo un momento, poi entrò nella foresta, sgozzò il cavallo del palafreniere, lacerò l'abito che si era fatto dare dal principe, lo macchiò di sangue, e portò ogni cosa in mezzo alla strada al punto dove si biforcava. Il principe chiese a Marzawàn quale fosse il suo piano. «Principe», rispose Marzawàn, «appena il re vostro padre, non vedendovi tornare, saprà dai palafrenieri che siamo partiti insieme mentre loro dormivano, non mancherà di mandare persone sulle nostre tracce. Coloro che verranno da questa parte, troveranno questo abito insanguinato e crederanno che qualche bestia feroce vi abbia divorato e che io me ne sia fuggito per timore della collera del re. Vostro padre non credendovi più vivo, cesserà di farvi cercare, e in tal modo noi avremo tempo di continuare il nostro viaggio senza timore di essere inseguiti. Dare così, tutto ad un tratto, il terribile dolore della morte di un figlio a un padre che vi ama appassionatamente, è in verità, crudele; ma la gioia del re vostro padre sarà ancor più grande quando saprà che siete in vita e felice.» «Saggio Marzawàn», rispose il principe, «io approvo uno stratagemma tanto ingegnoso e ve ne sono ancor più riconoscente.» Il principe e Marzawàn, che si erano provvisti di gioie per le loro spese, continuarono il viaggio per terra e per mare, non trovando altro ostacolo se non la lunghezza del tempo. Finalmente giunsero alla capitale della Cina, dove Marzawàn, invece di condurre il principe in casa sua, lo fece scendere all'albergo degli stranieri. Vi stettero tre giorni a riposarsi dalle fatiche del viaggio e in questo tempo Marzawàn fece fare un abito da astrologo per travestire il principe. Passati tre giorni, andarono insieme al bagno, dove Marzawàn fece vestire il principe da astrologo, e all'uscita dal bagno, lo condusse davanti al palazzo del re della Cina, e lo lasciò per andare ad avvertire sua madre, nutrice della principessa Budùr, del suo arrivo, perché ne avvertisse la principessa. Il principe Qamar az-Zamàn, istruito da Marzawàn su quanto doveva fare, e fornito di quello che occorreva a un astrologo, avanzò fino alla porta del palazzo del re della Cina, e, fermatosi, esclamò ad alta voce in presenza delle guardie e dei portinai: «Io sono un astrologo e vengo a dare la guarigione alla rispettabile principessa Budùr, figlia dell'alto e potente monarca Ghayùr, re della Cina, alle condizioni proposte da sua maestà, di sposarla se riesco, o di perder la vita, se fallisco». Oltre alle guardie ed ai portinai del re, la novità fece accorrere, in un momento, una infinità di gente intorno al principe. Infatti era molto tempo che non si era più presentato nessuno, né medico, né astrologo, né mago, dopo gli esempi tragici di coloro che non erano riusciti nella difficile impresa. Si credeva che non ve ne fossero più al mondo. Nel veder il bell'aspetto del principe, il suo nobile portamento e la sua giovinezza, non vi fu nessuno che non provasse compassione per lui. «A che pensate signore?», gli dissero i più vicini. «Per quale follia volete concludere in tal modo, con una morte certa, una vita che vi offre così belle speranze? Le teste troncate che avete veduto sopra la porta, non vi hanno fatto inorridire? In nome del cielo, desistete da questo disperato proposito e allontanatevi!» Il principe stette fermo, e, invece di ascoltare quei consigli, vedendo che nessuno veniva per condurlo dal re, ripeté le stesse parole, con una sicurezza che fece fremere tutti. Ognuno allora esclamò: «E deciso a morire! Che il cielo abbia pietà della sua giovinezza e dell'anima sua!». Avendo gridato una terza volta, finalmente il gran visir in persona venne a prenderlo da parte del re della Cina, e lo condusse davanti a lui. Non appena il principe lo vide, si prostrò e baciò la terra davanti a lui. Il re, che, fra tutti coloro che per una smisurata presunzione avevano gettato ai suoi piedi le loro teste, non aveva visto ancora nessuno così degno di interesse, ebbe pietà di Qamar az-Zamàn per il pericolo a cui si esponeva. Per questo motivo gli fece onore, e comandò che gli si avvicinasse e gli sedesse vicino. «Giovane», gli disse, «stento a credere che, alla vostra età, abbiate acquistata sufficiente sapienza per voler guarire la mia figlia. Io vorrei che vi riusciste, e ve la darei non solo senza esserne contrariato, come sarebbe avvenuto per tutti gli altri, ma anche con la più grande gioia. Però vi dichiaro, sebbene con grandissimo dolore, che se non riuscirete, la vostra giovinezza, il vostro nobile aspetto non mi impediranno di farvi troncare la testa!» «Sire», rispose il principe Qamar az-Zamàn, «rendo infinite grazie alla maestà vostra dell'onore che mi ha fatto e della bontà infinita che dimostra per uno sconosciuto. Io sono venuto da un paese lontano, il cui nome è forse sconosciuto nei vostri stati, per compiere quel proposito che mi ha condotto qui. Che si direbbe della mia leggerezza, se abbandonassi un progetto tanto generoso dopo aver sopportato mille fatiche e pericoli? Vostra maestà stessa non avrebbe più quella stima che ha ora per me! Se debbo morire sire, morirò almeno con la soddisfazione di non averla perduta dopo essermela meritata. Vi supplico dunque di non lasciarmi più oltre nella impazienza di far conoscere la mia scienza, con la prova che sono pronto a darne.» Il re della Cina domandò all'eunuco custode della principessa Budùr, che era presente, di condurre il principe dalla principessa sua figlia. Prima che se ne andasse gli disse un'altra volta che era ancora libero di ritirarsi, dall'impresa: ma il principe, senza ascoltarlo, seguì l'eunuco mostrando grande decisione, o meglio un ardore meraviglioso. L'eunuco accompagnò il principe e, quando furono in una lunga galleria, in fondo a cui era l'appartamento della principessa, il principe nel vedersi così vicino a colei che gli aveva fatto versare tante lacrime, e per la quale non aveva cessato di sospirare da tanto tempo, accelerò il passo e superò l'eunuco, il quale durando fatica a raggiungerlo, prendendolo per un braccio gli disse: «Dove andate così di fretta? Non potete entrare senza di me. Credo abbiate un gran desiderio di morire, perché vi vedo correre tanto presto incontro alla morte. Nemmeno uno di tanti astrologi condotti finora qui, ha mostrato questa premura». «Amico», disse il principe Qamar az-Zamàn, guardando l'eunuco e camminando con uguale passo, «ciò è dovuto al fatto che tutti gli astrologi di cui parli non erano sicuri della loro scienza come lo sono io della mia. Essi sapevano che avrebbero perso la vita se non fossero riusciti, e poiché non avevano speranza di riuscire, avevano ragione di tremare avvicinandosi al luogo dove vado, e dove sono certo di trovare la mia felicità.» Così parlando, giunsero alla porta. L'eunuco aprì e introdusse il principe in una grande camera, dalla quale si entrava in quella della principessa, divisa solo da una tenda. Prima di entrare, il principe si fermò e parlando più sottovoce di prima, per timore di essere udito dalla principessa: «Per convincerti», disse all'eunuco, «che non c'è né presunzione, né capriccio, né fuoco di gioventù nella mia impresa, voglio lasciarti scegliere fra due proposte: preferisci che io guarisca la principessa in tua presenza, o che lo faccia da qui, senza andare più avanti e senza vederla?». L'eunuco, estremamente sorpreso della sicurezza con cui il principe gli parlava, smise di insultarlo, e gli disse seriamente: «Non importa che sia qua o là; in qualunque maniera avvenga, voi acquisterete una gloria immortale, non solo in questa corte, ma anche in tutto il mondo». «E' dunque meglio», soggiunse il principe, «che io la guarisca senza vederla, perché tu renda testimonianza della mia bravura. Ad onta della mia impazienza di vedere una principessa di così alto grado, e che deve diventare la mia sposa, pure, per te, voglio privarmi per alcuni momenti di questo piacere.» Poiché aveva con sé tutto il necessario per un astrologo, prese il calamaio e la carta, e scrisse il seguente biglietto alla principessa della Cina: Il principe Qamar az-Zamàn alla principessa della Cina, Adorabile principessa, l'amoroso principe Qamar az-Zamàn non vi parla degli inesprimibili mali che soffre dalla notte fatale in cui la vostra bellezza gli fece perdere la libertà che aveva deciso di conservare per tutta la sua vita, egli al contrario vi fa osservare che vi ha dato il cuore, durante il vostro dolcissimo sonno; sonno importuno che lo privò del vivo splendore dei vostri begli occhi, ad onta dei suoi sforzi per obbligarvi ad aprirli. Osò anche darvi il suo anello in segno del suo amore, e prendere il vostro in cambio; ora ve lo manda in questo biglietto. Se vi degnate rinviarglielo, egli si stimerà il più felice degli amanti; altrimenti il vostro rifiuto non gli impedirà di affrontare la morte con una rassegnazione tanto più grande in quanto gli sarà data per amor vostro. Egli attende la vostra risposta nella vostra anticamera. Terminato di scrivere questo biglietto, il principe ne fece un involto con l'anello della principessa, senza farlo vedere all'eunuco, e dandoglielo gli disse: «Amico, prendi, e porta questa lettera alla tua padrona; se essa non guarisce dopo averla letta e dopo aver veduto ciò che vi è racchiuso, ti permetto di dire a tutti che sono il più indegno e il più imprudente di tutti gli astrologi, che sono stati, che sono, e che saranno fino alla fine del mondo». L'eunuco entrò nella camera della principessa della Cina, e presentandole la lettera che il principe le inviava, le disse: «Principessa, un astrologo più temerario degli altri è giunto e pretende che guarirete non appena avrete letta questa lettera, e avrete veduto quello che vi è dentro. Io desidererei che egli non mentisse, né fosse un impostore!». La principessa Budùr prese il biglietto con molta indifferenza; ma non appena ebbe veduto il suo anello, non pensò più a terminare di leggere; si alzò così bruscamente che ruppe la catena che la teneva legata, e corse alla tenda, che aprì. Subito riconobbe il principe, ed egli lei, e corsero l'uno verso l'altra e si abbracciarono teneramente, guardandosi a lungo senza poter parlare nell'eccesso della loro gioia, e rallegrandosi di rivedersi dopo il loro primo colloquio, che restava tuttora incomprensibile per loro. La nutrice accorse, li fece entrare nella camera, dove la principessa rese il suo anello al principe, dicendogli: «Riprendetelo, io non potrei tenerlo senza dovervi rendere il vostro, che vorrei invece tenere per tutta la vita. Entrambi non possono essere in mani migliori». L'eunuco intanto era andato sollecitamente ad avvertire il re della Cina di quanto era accaduto, dicendogli: «Sire, tutti gli astrologi, medici ed altri che hanno tentato finora di guarire la principessa, non erano che degli ignoranti. Quest'ultimo non si è servito né di libri magici, né di scongiuri di spiriti maligni, né di profumi, né d'altre cose: ma l'ha guarita senza neppure vederla». Gli raccontò come si fosse comportato, ed il re, piacevolmente sorpreso, andò subito dalla principessa, l'abbracciò, e abbracciò anche il principe; poi prese la sua mano e mettendola in quella della principessa, disse: «Fortunato straniero! Chiunque voi siate, io mantengo la mia parola, e vi dò mia figlia in sposa: però guardandovi, non posso persuadermi che siate quello che avete voluto farmi credere d'essere». Il principe ringraziò il re con le più rispettose espressioni, per meglio manifestargli la sua riconoscenza. «Per quanto riguarda la mia persona, sire», proseguì, «è vero che io non sono astrologo come vostra maestà ha ben giudicato, ma ne ho preso le vesti solo per riuscire a meritare il favore del potente monarca dell'universo; io sono nato principe, figlio di re e di regina, il mio nome è Qamar az-Zamàn; mio padre si chiama Shahzamàn, e regna nell'isola assai conosciuta dei Figli di Kaledan.» Gli raccontò poi la sua storia, e gli rivelò l'origine meravigliosa dei suoi amori con la principessa. Quando il principe ebbe terminato, il re esclamò: «Una storia tanto straordinaria non merita di restare sconosciuta alla posterità. Io la farò scrivere e poi ne farò depositare l'originale negli archivi del mio regno, e la divulgherò perché dai miei stati passi anche negli altri». La cerimonia delle nozze si fece in quello stesso giorno e vi furono feste solenni in tutta la Cina. Marzawàn non fu dimenticato: il re gli diede libero accesso alla corte, e lo onorò dandogli un impiego in un ufficio, con la promessa d'innalzarlo poi a gradi più elevati. Il principe Qamar az-Zamàn e la principessa Budùr, giunti al compimento del loro desiderio, godettero delle delizie del matrimonio, e per più mesi il re della Cina non desistette dal manifestare la sua gioia con continue feste. In mezzo a tanti piaceri, il principe sognò una notte il re Shahzamàn in punto di morte, che diceva: «Questo figlio, nato da me, che ho amato così teneramente, questo figlio mi ha abbandonato, ed è causa della mia morte!». A questo punto il principe si svegliò, sospirando: si svegliò anche la principessa, la quale gli domandò perché sospirasse in quel modo: «Ohimè!», rispose il principe, «forse in questo stesso momento il re mio padre non vive più!», e le raccontò il motivo di quel triste pensiero. La principessa senza dirgli nulla dell'idea che le era venuta in seguito a questo racconto, e nella speranza di compiacerlo, il giorno stesso ne parlò in segreto al re della Cina. «Sire», gli disse, baciandogli la mano, «ho da chiedervi una grazia. Ma perché non crediate che l'idea mi è stata suggerita dal principe mio marito, premetto anzitutto che egli non ne sa nulla. Vi chiedo di concedermi di andare con lui a far visita al re Shahzamàn mio suocero.» «Figlia mia, anche se la tua partenza mi procura dolore, io non posso disapprovare questa risoluzione che è degna di te, ad onta della fatica di un sì lungo viaggio. Andate, io lo permetto, anche se ciò ti costerà fatica, ma metto come condizione che non restiate più d'un anno alla corte del re Shahzamàn. Egli consentirà, spero, a che rivediamo a turno, egli suo figlio e sua nuora, e io mio figlia e mio genero.» La principessa comunicò il consenso del re al principe che ne provò grandissima gioia, e la ringraziò di cuore di questa nuova prova d'amore. Il re della Cina ordinò i preparativi per il viaggio e quando tutto fu pronto, partì con loro accompagnandoli per alcune giornate. La separazione avvenne con molte lacrime da ambo le parti. Il re li abbracciò teneramente, e, dopo aver pregato il principe di amare sempre la principessa sua figlia come egli l'amava, ritornò nella capitale, lasciandoli continuare il viaggio da soli. Il principe e la principessa, non appena si furono asciugate le lacrime, non pensarono ad altro se non alla gioia che il re Shahzamàn avrebbe provato nel rivederli, ed a quella che avrebbero provato essi stessi a riabbracciarlo. Dopo circa un mese di viaggio giunsero ad una prateria vastissima, dove sorgevano di tratto in tratto dei grandi alberi, che spandevano un'ombra piacevolissima. Poiché quel giorno il calore era eccessivo, il principe giudicò che fosse opportuno fermarsi, e ne parlò alla principessa, che di buon grado acconsentì. Scesero a terra, in un luogo piacevole, e non appena fu innalzata la tenda, la principessa Budùr vi entrò, mentre il principe dava gli ordini per attrezzare il resto dell'accampamento. Per stare più comoda, si fece togliere la cintura, che le sue ancelle deposero vicino a lei; essendo assai stanca, si addormentò, e le donne la lasciarono sola. Quando tutto fu sistemato nel campo, il principe entrò nella tenda e vedendo che la principessa dormiva, si sedette accanto a lei senza far rumore. Aspettando d'addormentarsi, prese la cintura della principessa, guardò uno dopo l'altro i diamanti e i rubini che l'ornavano e scorse una piccola borsa cucita sotto la fodera e legata con un cordoncino. Toccandola, sentì che conteneva qualche cosa. Curioso di sapere che cosa vi fosse nascosto, aprì la borsa e ne trasse una corniola su cui erano scolpite figure e segni a lui sconosciuti. «Questa corniola», disse tra sé, «dev'essere qualche cosa di prezioso, altrimenti la principessa non la porterebbe con sé con tanta cura per timore di perderla.» Difatti era un talismano che la regina della Cina aveva donato alla principessa sua figlia, e che l'avrebbe resa felice, così diceva, finché l'avesse portata. Per meglio vederlo il principe uscì dalla tenda, tenendolo sul palmo della mano; ma un uccello scese improvvisamente dall'alto e glielo portò via. E' facile immaginare lo stupore e il dolore di Qamar az-Zamàn quando l'uccello gli ebbe tolto il talismano di mano. Dopo questo doloroso caso, avvenuto per una curiosità intempestiva, che privava la principessa d'una cosa preziosa, Qamar az-Zamàn restò immobile per alcuni momenti. L'uccello, dopo quanto aveva fatto, s'era posato a terra a poca distanza col talismano nel becco. Il principe avanzò nella speranza che lo lasciasse cadere a terra ma quando fu vicino, l'uccello si alzò in volo, per tornare a posarsi un po' più in là. Il principe continuò a seguirlo. L'uccello, dopo avere inghiottito il talismano, si posò ancor più lontano. Il principe, che era molto destro, sperò allora di ucciderlo con un colpo di pietra, e lo seguì. Più l'uccello si allontanava da lui, più lui si ostinava a seguirlo e a non perderlo di vista. Di valle in collina, e di collina in valle, l'uccello trasse dietro a sé il principe Qamar az-Zamàn, allontanandolo sempre più dalla principessa e a sera invece di posarsi su un cespuglio dove avrebbe potuto sorprenderlo nell'oscurità, salì sulla cima di un grande albero dov'era fuori di portata. Il principe, disperato d'avere inutilmente fatto tanta fatica, decise di ritornarsene al campo. «Ma», disse fra sé, «per dove ritornerò? Risalirò, ridiscenderò per le colline e per le valli da dove sono venuto? Non mi perderò nelle tenebre e le mie forze me lo permetteranno? E quand'anche lo potessi, come potrò presentarmi alla principessa senza il suo talismano?» Oppresso da questi desolanti pensieri, dalla fatica, dalla fame e dalla sete si coricò e passò la notte ai piedi dell'albero. L'indomani, Qamar az-Zamàn si svegliò prima che l'uccello avesse lasciato l'albero, e non appena l'ebbe veduto prendere il volo, lo seguì ancora per tutta la giornata, con poco successo come il giorno precedente, nutrendosi di erba e di frutta, che trovava lungo la strada. E così fece per dieci giorni, seguendo l'uccello senza mai perderlo di vista, durante il giorno e passando la notte ai piedi dell'albero, su cui l'uccello si posava. L'undicesimo giorno, l'uccello con Qamar az-Zamàn, sempre al suo inseguimento, giunse volando a una grande città. Quando l'uccello fu presso alle mura, prese il volo e disparve agli occhi di Qamar az-Zamàn, che perse la speranza di rivederlo, e di recuperare il talismano della principessa Budùr. Afflitto oltre ogni dire, entrò nella città che sorgeva sulle rive del mare e aveva un bellissimo porto. Camminò a lungo nelle strade, senza sapere dove fermarsi e arrivò al porto. Qui, più incerto ancora sul da farsi, camminò lungo il molo fino alla porta di un giardino che trovò aperta. Il giardiniere, che era un buon vecchio occupato a lavorare, non appena lo vide, intuì che egli era straniero e musulmano, e l'invitò ad entrare, e chiudere la porta dietro di sé. Qamar az-Zamàn entrò, chiuse la porta, e, avvicinatosi al giardiniere, gli chiese perché gli avesse raccomandata quella precauzione. «Perché», rispose il giardiniere, «voi siete uno straniero da poco arrivato, e musulmano, e questa città è abitata per la maggior parte da idolatri, mortali nemici dei musulmani. Voi senza dubbio lo ignorate, mentre io ritengo che sia quasi miracoloso che abbiate potuto giungere sin qui senza aver fatto cattivi incontri. Infatti questi idolatri restano a osservare i musulmani stranieri che giungono qui, per trarli in qualche agguato, se sono ignari della loro malvagità. Io ringrazio il cielo d'avervi potuto salvare.» Qamar az-Zamàn ringraziò quel buon uomo con molta riconoscenza per l'asilo che gli offriva così generosamente per metterlo in salvo da qualunque inganno, e avrebbe continuato a ringraziare, se il giardiniere non l'avesse interrotto: «Lasciamo stare i complimenti: voi siete stanco e dovete avere bisogno di mangiare; venite dunque a ristorarvi». E lo condusse in una piccola casa, dove, dopo che il principe ebbe mangiato ciò che egli gli offriva, con una cordialità meravigliosa, lo pregò di dirgli la ragione per cui era venuto fin là. Qamar az-Zamàn raccontò tutto al giardiniere, e quando ebbe finito la sua storia, gli chiese a sua volta per quale strada avrebbe potuto ritornare agli stati del re suo padre. «Perché ormai», soggiunse, «è inutile pensare di andare a raggiungere la principessa non sapendo dove trovarla dopo undici giorni che mi sono allontanato in modo così straordinario. Non so nemmeno se sia ancora viva.» A questo pensiero, non poté continuare e cominciò a piangere. In risposta a quel che Qamar az-Zamàn chiedeva, il giardiniere gli disse che dalla città dove si trovava ci voleva un anno di cammino per giungere ai paesi abitati dai musulmani, ma che per mare si arrivava all'isola d'Ebena in molto minor tempo, e che di là era agevole passare all'isola dei Figli di Kaledan; lo informò anche che ogni anno una nave mercantile andava all'isola d'Ebena e che avrebbe potuto profittare di quella opportunità per ritornare al suo paese. Cartina dell'Iraq«Se foste arrivato alcuni giorni fa», soggiunse, «vi sareste imbarcato sopra quella che ha fatto vela quest'anno. Intanto, attendendo quella che partirà per l'anno venturo, se volete restare con me, io vi offro volentieri ospitalità.» Il principe Qamar az-Zamàn si stimò felice d'aver trovato tale asilo in un luogo dove non conosceva nessuno, e dove non aveva nessun desiderio di fare delle conoscenze per cui accettò l'offerta e restò col giardiniere. Aspettando la partenza della nave mercantile per l'isola d'Ebena, il giorno si occupava di lavorare la terra e passava la notte pensando alla cara principessa Budùr con molti sospiri e lacrime. Lo lasceremo qui, per ritornare alla principessa Budùr, che abbiamo lasciata addormentata sotto la sua tenda. La principessa dormì lungo tempo, e destandosi si meravigliò di non vedere accanto a sé il principe. Chiamò le sue ancelle e chiese loro dove fosse: e mentre quelle l'assicuravano di averlo visto entrare ma non uscire, ella prese la sua cintura, la piccola borsa era aperta, e il talismano era sparito. Pensò allora che Qamar az-Zamàn l'avesse preso per guardarlo, e quindi riportarglielo: ma vedendo che, sebbene fosse già notte avanzata, egli non tornava, ne provò un'afflizione inesprimibile, maledicendo mille volte il talismano e chi l'aveva fatto: e se il rispetto non l'avesse trattenuta, avrebbe imprecato anche contro la regina sua madre, che le aveva fatto un dono tanto funesto. Desolata di tale avvenimento, tanto più triste in quanto non sapeva in qual modo il talismano avesse potuto esser causa della separazione dal principe, non perse la testa, anzi prese una decisione poco comune alle persone del suo sesso. Nel campo c'erano soltanto la principessa e le sue ancelle, che sapessero della scomparsa di Qamar az-Zamàn, poiché le sue genti riposavano o dormivano già sotto le loro tende. Temendo che la tradissero, se avessero saputo che era sola, moderò il suo dolore e proibì alle due donne di dire, o di fare qualche cosa che potesse destare il minimo sospetto. Poi si tolse il vestito che portava, e ne indossò uno di Qamar az-Zamàn e, poiché gli assomigliava molto, i suoi servi la presero per lui quando la videro. Impose loro di far fagotto e porsi in cammino. Allorché tutto fu pronto, fece entrare una delle sue donne nella lettiga, poi salì a cavallo e si posero in cammino. Dopo un viaggio di più mesi per terra e per mare la principessa, la quale aveva continuato la strada sotto il nome di Qamar az-Zamàn per andare all'isola dei Figli di Kaledan, giunse alla capitale dell'isola d'Ebena, il cui sovrano si chiamava Armanùs. Tosto si sparse la voce che il vascello allora giunto portava il principe Qamar az-Zamàn di ritorno da un lungo viaggio e la notizia giunse fino al re, il quale accompagnato da gran parte della sua corte, andò subito incontro alla principessa e la trovò sul punto di sbarcare. Egli la ricevette come figlio di un re suo amico, con cui era andato sempre d'accordo e la condusse al suo palazzo, dove diede alloggio a lei e a tutte le sue genti, senza aver riguardo alla preghiera che ella gli faceva di lasciarla abitare separatamente. Le fece d'altra parte tutti gli onori immaginabili, e la trattò per tre giorni con una straordinaria magnificenza. Quando i tre giorni furono passati, il re Armanùs vedendo che la principessa, che egli credeva fosse il principe Qamar az-Zamàn, parlava di imbarcarsi e di continuare il suo viaggio, preso d'affetto per un principe così bello, la chiamò in disparte e le disse: «Principe, io sono ormai vecchio, come vedete e ho poca speranza di vivere ancora lungo tempo. Ma non ho un figlio cui lasciare il mio regno. Il cielo m'ha dato solamente un'unica figlia d'una bellezza sorprendente, che non potrebbe desiderare di meglio di un principe così bello, così nobile, e così cortese come voi. Invece di far ritorno al vostro regno, accettatela con la mia corona, di cui mi spoglio sin d'ora per voi, e restate qui». La principessa Budùr provò grande angustia a questa offerta generosa del re dell'isola d'Ebena che voleva darle in sposa la sua unica figlia e cederle i suoi stati. Dichiarare al re di non essere il principe Qamar az-Zamàn ma la sua consorte, era indegno di una principessa come lei perché avrebbe dovuto ammettere di aver mentito dopo avergli detto di essere questo principe ed averne così ben sostenuto la parte fino allora. D'altra parte, rifiutando, aveva timore che il re, che aveva dimostrato grande desiderio di concludere simili nozze, cambiasse la sua benevolenza in avversione e odio e attentasse alla sua vita: e oltre a ciò non sapeva se avrebbe trovato il principe Qamar az-Zamàn, presso il re suo padre. Queste considerazioni unite a quella di acquistare un regno al principe suo marito, nel caso lo ritrovasse, determinarono la principessa ad accettare il partito propostole da Armanùs. Così dopo essere rimasta alcuni momenti senza parlare, col viso in fiamme, che il re attribuì alla sua modestia, rispose: «Sire, sono infinitamente obbligato a vostra maestà della buona opinione che ha di me, dell'onore che mi fa, e d'un sì gran favore che non merito, ma che non oso ricusare: io accetto peraltro questa grande alleanza solo a condizione che vostra maestà mi assista coi suoi consigli, e che io non faccia nulla senza la sua approvazione». Le nozze così, essendo state stabilite, la cerimonia ne fu fissata al giorno dopo. La principessa Budùr intanto avvertì i suoi servi che ancora la credevano il principe di quanto doveva avvenire, affinché non ne rimanessero meravigliati, assicurandoli che la principessa Budùr aveva dato il suo consenso: e ne parlò anche alle sue donne, imponendo loro di continuare a custodire il segreto. Il re dell'isola d'Ebena, lieto d'aver acquistato un genero che gli era già caro, riunì il suo consiglio e dichiarò che dava la principessa sua figlia in moglie al principe Qamar az-Zamàn, che gli stava seduto accanto e che gli cedeva la sua corona; ingiunse loro quindi di riconoscerlo per re e di rendergli gli omaggi. Ciò detto, discese dal trono, vi fece sedere la principessa Budùr la quale ricevette il giuramento di fedeltà e gli omaggi dei signori più potenti. Al termine del consiglio, la proclamazione del nuovo re fu resa nota solennemente in tutta la città; furono indette feste che sarebbero state celebrate per parecchi giorni e furono mandati corrieri per tutto il regno per ordinare le stesse cerimonie e le stesse dimostrazioni di gioia. La sera il palazzo fu in festa, e la principessa Hayàt an-Nufùs, (così si chiamava la principessa dell'isola d'Ebena) fu condotta con lusso regale dalla principessa Budùr, che tutti credevano fosse un uomo. Terminate le cerimonie, furono lasciate sole, e si coricarono. L'indomani, mentre la principessa Budùr riceveva in una assemblea generale i complimenti di tutta la corte per le sue nozze e per la sua nuova nomina, re Armanùs e la regina madre andarono nell'appartamento della nuova regina loro figlia, e le chiesero come avesse passata la notte. Invece di rispondere, ella chinò gli occhi, e la tristezza che le apparve sul viso rivelò chiaramente il suo sgomento. Per consolarla, Armanùs le disse: «Figlia mia, ciò non deve addolorarti. Il principe Qamar az-Zamàn approdando qui, pensava solo ad andare il più presto possibile da re Shahzamàn suo padre. Noi l'abbiamo costretto a rimaner qui con un mezzo di cui è certamente contento, ma dobbiamo pensare che egli è molto spiacente di essere privato della speranza di rivedere la sua famiglia. Devi dunque attendere che questo desiderio di tornare a casa sua diminuisca di forza, e allora egli si comporterà da buon marito!». La principessa Budùr, sotto il nome di Qamar az-Zamàn e di re dell'isola d'Ebena, trascorse tutta la giornata non solo a ricevere gli omaggi della sua corte, ma anche a passare in rassegna le truppe ed a fare molti altri doveri propri alla sua nuova posizione con una dignità e una capacità, che le ottenne la approvazione di quanti ne furono testimoni. Era notte quando ritornò nell'appartamento della regina Hayàt an-Nufùs; si accorse benissimo, dalla freddezza con cui quella principessa l'accolse, che era delusa per la notte precedente, e tentò di dissipare quel dispiacere con un lungo colloquio, nel quale adoperò tutta l'astuzia di cui era dotata - e ne aveva molta - per persuaderla che l'amava immensamente. La lasciò poi coricare, e durante l'intervallo fece la sua preghiera, e la fece così lunga, che la regina Hayàt an-Nufùs s'addormentò. Allora cessò di pregare e si coricò, senza destarla, addolorata di dover rappresentare una parte che non le conveniva, e soprattutto di essere separata dal suo caro Qamar az-Zamàn, per la cui assenza non cessava di sospirare. Il giorno seguente si alzò all'alba, prima che Hayàt an-Nufùs si fosse svegliata, e andò al consiglio indossando l'abito reale. Il re Armanùs non tralasciò di tornare a visitare la regina sua figlia, e la trovò che piangeva; non ebbe bisogno di chiederle quale fosse il motivo della sua afflizione. Sdegnato da un contegno che giudicava causato da disprezzo, e non potendo comprendere il motivo, si rivolse alla figlia: «Figlia mia», le disse, «pazienta ancora fino alla notte prossima; ho fatto sedere tuo marito sul mio trono ma saprò ben farlo discendere e scacciarlo vergognosamente, se non ti dà la soddisfazione a cui hai diritto. Sono così sdegnato nel vederti trattare indegnamente che non so se mi contenterò di un castigo tanto mite. Non è solo a te, ma anche a me, che egli fa quest'oltraggio mortale». Quel giorno la principessa Budùr tornò assai tardi da Hayàt an-Nufùs: come la sera precedente, conversò un poco con lei, e stava per fare la preghiera mentre ella si coricava quando Hayàt an-Nufùs la trattenne, e l'obbligò a sedersi. «Come?», ella disse. «Voi pretendete dunque, di trattarmi anche questa notte come nelle due precedenti? Ditemi, ve ne supplico, in che cosa ho potuto dispiacervi. Io non solo vi amo, ma vi adoro, e mi stimo la più felice di tutte le principesse del mio grado, per avere un principe così amabile per marito. Un'altra, tranne me, non dico offesa, ma oltraggiata in questo modo, avrebbe una bella occasione di vendicarsi abbandonandovi al vostro destino. Peraltro, anche se non vi amassi come vi amo, io che mi commuovo per le sciagure anche delle persone che mi sono indifferenti, non potrei non avvertirvi che il re mio padre è assai sdegnato per il vostro comportamento, e se voi continuate in tal modo vi farà provare fin da domani gli effetti della sua giusta collera. Fatemi la grazia di non spingere alla disperazione una principessa che non può a meno di amarvi!» Questo discorso imbarazzò profondamente la principessa Budùr. Ella non dubitava della sincerità di Hayàt an-Nufùs, perché dalla freddezza che il re Armanùs le aveva mostrata quel giorno, aveva intuito il suo malcontento. L'unico mezzo per giustificare la sua condotta era di confidare la situazione a Hayàt an-Nufùs: ma, benché avesse previsto che sarebbe stata costretta una volta o l'altra a fare questa rivelazione, ora tremava per l'ansia di sapere come l'avrebbe presa la principessa. Infine, considerando che se il principe Qamar az-Zamàn era ancora vivo, sarebbe certamente venuto all'isola d'Ebena per andare nel regno del re suo padre, e che essa doveva conservarsi per lui, né poteva farlo, senza rivelare tutto alla principessa Hayàt an-Nufùs, si decise a tentare questo mezzo. Siccome la principessa Budùr era rimasta silenziosa, Hayàt an-Nufùs continuò il suo discorso, ma ella l'interruppe, dicendole: «Amabile e troppo leggiadra principessa, io ho torto, lo confesso e mi accuso ma spero che terrete il segreto che sto per rivelarvi per giustificarmi presso di voi». «Guardatemi, principessa», si aprì la veste, «se una donna come me non merita di essere perdonata. Sono persuasa che lo farete di buon grado quando vi avrò narrata la mia storia, e la terribile sciagura che mi ha costretta a rappresentare la parte di cui siete testimone.» Quando la principessa Budùr si fu fatta conoscere interamente alla principessa dell'isola d'Ebena, la supplicò una seconda volta di mantenere il segreto fino all'arrivo del principe Qamar az-Zamàn, che sperava di rivedere presto. «Principessa», rispose Hayàt an-Nufùs, «sarebbe davvero triste che un matrimonio felice come il vostro dovesse essere così breve, dopo un amore pieno di meraviglie. Prego che il cielo vi riunisca subito con vostro marito. Intanto io vi prometto di mantenere religiosamente il segreto che mi avete confidato: e provo il più gran piacere d'essere la sola a conoscerlo nel gran regno dell'isola di Ebena, mentre continuerete degnamente a governare, come avete cominciato a fare. Io vi chiedevo amore, ma ora mi dichiaro felicissima se vorrete darmi la vostra amicizia!» Ciò detto, le due principesse s'abbracciarono teneramente, e dopo mille dimostrazioni di reciproca amicizia si coricarono. L'indomani il re Armanùs andò nuovamente dalla figlia e avendola trovata felice, credette che i suoi voti fossero stati soddisfatti. E Hayàt an-Nufùs con liete parole glielo confermò, così che il buon vecchio ingannato ridonò il suo affetto alla principessa Budùr, la quale continuò a governare tranquillamente, con grande soddisfazione del re e di tutti i suoi sudditi. Torniamo ora al principe Qamar az-Zamàn che era sempre nella città degli idolatri, in casa del giardiniere. Un giorno, di buon mattino, mentre il principe si preparava a lavorare nel giardino secondo il solito, il buon giardiniere glielo impedì, dicendogli: «Gli idolatri fanno oggi una gran festa, ed i musulmani per procacciarsi la loro amicizia assistono ai loro spettacoli, che d'altra parte meritano d'essere veduti. Oggi dovete riposarvi. Io vi lascio qui, e siccome s'avvicina il tempo in cui la nave mercantile di cui v'ho parlato deve fare il tragitto di qui all'isola d'Ebena, vado a far visita ad alcuni amici per avere notizia del giorno in cui scioglierà le vele e in pari tempo contratterò il vostro passaggio». Ciò detto, il giardiniere indossò il più bell'abito che aveva, e uscì. Quando il principe si vide solo, invece di partecipare alla gioia pubblica rimase a pensare con intensità maggiore alla sua cara principessa. Assorto in quel pensiero, sospirava e gemeva, passeggiando nel giardino, quando il baccano che facevano due uccelli sopra un albero, l'obbligò ad alzare la testa. Vide con sorpresa che essi combattevano crudelmente a colpi di becco, finché l'uno dei due cadde morto ai piedi dell'albero, mentre il vincitore si alzò in volo e disparve. In quel punto altri due uccelli più grossi, che avevano osservato il combattimento da lontano, arrivarono da un altro lato, si collocarono l'uno ai piedi e l'altro alla testa del morto, lo guardarono per un po' di tempo muovendo la testa in segno di dolore, e gli scavarono una fossa con le loro zampe; poi lo seppellirono. Assolto tale compito pietoso i due uccelli disparvero, ritornando poco dopo: essi portarono col becco, l'uno per l'ala e l'altro per un piede, l'uccello assassino, il quale mandava spaventevoli grida e faceva sforzi per sfuggire; ma gli altri due lo portarono sul sepolcro del morto e lì, per vendicarsi dell'assassinio commesso lo sacrificarono a colpi di becco. Quando fu morto, gli apersero il ventre ne strapparono le interiora, e lasciando lì il corpo, fuggirono. Qamar az-Zamàn restò grandemente stupito da tale spettacolo. Si avvicinò all'albero dove era avvenuta la scena e, guardando le interiora dell'uccello sparse sul terreno scorse per caso qualche cosa di rosso nello stomaco, abbandonato dagli uccelli vendicatori. Raccolse lo stomaco e ne estrasse quella cosa rossa che aveva attratto la sua attenzione; si accorse allora che si trattava del talismano della principessa Budùr. «Crudele», esclamò guardando l'uccello, «eccomi vendicato del male che mi hai fatto!» Non è possibile esprimere la gioia del principe Qamar az-Zamàn. «Cara principessa, questo momento fortunato, in cui mi viene reso quanto avevate di più prezioso, è senza dubbio un presagio che vi ritroverò, e forse più presto di quanto non pensi. Sia benedetto il cielo che mi concede tale felicità.» Ciò detto, baciò il talismano, lo avvolse accuratamente e se lo legò al braccio. Nella sua estrema afflizione egli aveva passato tutte le notti a tormentarsi e senza chiudere occhio: ma quella notte dormì tranquillamente. L'indomani, appena fu giorno, indossò il suo abito da lavoro, e andò a prendere ordini dal giardiniere, che lo pregò di abbattere e sradicare un vecchio albero sterile. Qamar az-Zamàn prese una scure, e pose mano all'opera, ma tagliando una radice urtò contro qualche cosa di resistente, producendo gran rumore. Togliendo la terra, scoprì una gran piastra di bronzo sotto cui c'era una scala di dieci gradini. Egli si affrettò a scendere, e quando fu giunto in fondo vide una caverna in cui erano cinquanta grandi vasi di bronzo disposti con ordine e coperti, ciascuno, da un coperchio. Li aprì uno dopo l'altro e li trovò tutti pieni di polvere d'oro. Uscì dalla caverna, lieto della scoperta di quel ricco tesoro; ripose la piastra sulla scala, e finì di sradicare l'albero aspettando il ritorno del giardiniere. Questi aveva saputo il giorno innanzi che la nave sarebbe partita di lì a pochi giorni, ma nessuno gli aveva potuto dire il giorno preciso, e lo avevano invitato a ripassare il giorno dopo per avere la risposta. Egli vi andò e ritornò con volto allegro. «Figlio mio», gli disse, «rallegratevi e preparatevi a partire fra tre giorni. La nave farà vela quel giorno e ho fissato il posto per voi.» «Nello stato in cui sono», disse Qamar az-Zamàn, «non potevate annunciarmi nulla di più gradevole; e io in cambio ho da annunciarvi una notizia quanto mai consolante. Abbiate la bontà di venire con me, e vedrete la fortuna che il cielo vi manda.» Condusse il giardiniere nel luogo dove aveva sradicato l'albero, lo fece scendere nella caverna. Quando gli ebbe mostrato la quantità di vasi pieni di polvere d'oro, gli manifestò la sua gioia nel vedere che Dio ricompensava la sua virtù, e tutte le pene che egli sopportava da tanti anni. «Che intendete dire?», rispose il giardiniere. «Voi v'ingannate, io non voglio appropriarmi di questo tesoro; esso vi appartiene, e io non ho nessun diritto su di esso, poiché da ottant'anni, dacché è morto mio padre, non ho fatto altro che muovere la terra di questo giardino senza mai scoprirlo, e questo prova che esso era destinato a voi, poiché Dio ve l'ha fatto trovare. Oltre a ciò esso è più adatto a un principe come voi che a me; trovandomi sull'orlo della tomba non ho bisogno di niente. Dio ve l'invia proprio quando state per andare negli stati che devono appartenervi, e dove ne farete buon uso.» Il principe non volendo essere inferiore in generosità al giardiniere, ebbe una lunga discussione su ciò, protestando da ultimo che non avrebbe preso nulla assolutamente se egli non ne avesse tenuta Ia metà per sé: il giardiniere acconsentì ed essi si divisero i cinquanta vasi. «L'operazione è fatta!», disse il giardiniere a Qamar az-Zamàn, «figlio mio, si tratta ora di imbarcare queste ricchezze sulla nave, e di farlo segretamente perché nessuno ne abbia sentore. Altrimenti correte rischio di perderle. All'isola d'Ebena non vi si trovano olive, e quelle che vi si portano di qui fanno grande smercio. Poiché, come sapete, io ne ho una grande provvista, occorre prendere cinquanta vasi e riempirli metà di polvere d'oro e di colmarli per l'altra metà di olive facendoli portare alla nave quando vi imbarcherete.» Qamar az-Zamàn seguì questo buon consiglio, adoperando cinquanta vasi e, siccome temeva di perdere di nuovo il talismano della principessa, che portava legato al braccio, ebbe la precauzione di metterlo in uno di quei vasi e di farvi un segno per riconoscerlo. Quando ebbe terminato di metterli in condizione di essere trasportati, siccome si avvicinava la notte, si ritirò col giardiniere e gli raccontò il combattimento dei due uccelli, e come avesse recuperato il talismano della principessa Budùr; il giardiniere udendo ciò, fu sorpreso e lietissimo. Forse per la sua avanzata età, o per la stanchezza di quel giorno, il giardiniere passò una cattiva notte; il male aumentò e alla mattina del terzo giorno era molto malato. Il capitano della nave e alcuni marinai, andarono alla porta del giardino e chiesero a Qamar az-Zamàn chi fosse il passeggero che doveva imbarcarsi sulla loro nave. «Sono io!», rispose, «Il giardiniere che ha noleggiato il posto per me, è infermo e non può parlarvi, ma entrate e portate a bordo questi vasi d'olive, insieme ai miei bagagli: vi seguirò appena avrò preso congedo da lui.» I marinai caricarono i vasi e i bagagli e il capitano andandosene disse a Qamar az-Zamàn: «Non mancate di venire subito, perché il vento è buono ed io aspetto solo voi per partire». Appena il capitano e i marinai se ne furono andati, Qamar az-Zamàn entrò dal giardiniere per prendere commiato da lui e per ringraziarlo di tutti i favori che gli aveva fatti, ma lo trovò agonizzante e di lì a poco lo vide spirare. Nella necessità in cui era il principe d'andare ad imbarcarsi, si dette tutta la cura possibile per rendere gli ultimi onori al defunto. Lavò il suo corpo, lo seppellì e, dopo avergli scavata una fossa nel giardino, lo sotterrò. Poi, senza por tempo in mezzo, partì per andare ad imbarcarsi, portando con sé anche la chiave del giardino, con l'intenzione di consegnarla a qualche persona di fiducia in presenza di testimoni. Ma, arrivato al porto, seppe che la nave aveva levato l'àncora da circa tre ore. Il principe, com'è facile immaginare, rimase estremamente afflitto, vedendosi costretto a restare ancora in un paese dove non aveva e non voleva nessuna conoscenza, aspettando un altro anno per ricevere l'occasione che si era lasciata sfuggire. Quello che più lo desolava era di essersi separato ancora dal talismano della principessa Budùr che ormai credeva perduto per sempre. Intanto non poté fare altro che ritornare nel giardino, di prenderlo in affitto dal proprietario cui apparteneva, e di continuare a coltivarlo, deplorando la sua sciagura e la sua avversa fortuna. Non potendo coltivarlo da solo, prese a salario un servo, e per non perdere l'altra parte del tesoro, che per la morte del giardiniere che non aveva eredi ritornava a lui, mise la polvere d'oro, in cinquanta altri vasi che riempì nella parte alta di olive, per imbarcarli seco, quando gliene sarebbe venuto il destro. Mentre il principe ricominciava un altro anno di pene, di dolori e d'impazienza, la nave continuava a navigare con un vento favorevolissimo, giungendo felicemente all'isola d'Ebena. Siccome il palazzo era sulle rive del mare, il nuovo re o piuttosto la principessa Budùr, vedendo la nave che stava per entrare nel porto con tutte le vele spiegate, domandò che nave fosse, e le fu risposto che veniva ogni anno dalla città degli idolatri nella stessa stagione, ordinariamente carico di ricche mercanzie. La principessa, sempre presa dal pensiero di Qamàr az-Zamàn anche in mezzo al lusso, pensò che egli potesse esservi imbarcato, e le venne il pensiero di andargli incontro, non per farsi riconoscere da lui - perché ragionevolmente pensava che non l'avrebbe riconosciuta - ma per vederlo e per prendere quei provvedimenti che giudicava utili per il loro reciproco riconoscimento. Con il pretesto di prendere di persona conoscenza delle mercanzie, per scegliere le più preziose, comandò di condurle un cavallo sul quale andò al porto, accompagnata da molti ufficiali, e vi giunse quando il capitano era in procinto di sbarcare. Essa lo fece condurre al suo cospetto, e gli chiese da dove venisse, da quanto tempo fosse partito, se avesse avuto incontri buoni o cattivi durante la navigazione, se conduceva persone ragguardevoli e soprattutto quali mercanzie portasse. Il capitano soddisfece a tutte le domande; in quanto ai passeggeri assicurò di avere solo mercanti, i quali erano forniti di ricche stoffe di differenti paesi, di tele finissime dipinte e no, di gioie, muschio, ambra grigia, canfora, droghe, olive e diverse altre cose. La principessa Budùr amava le olive appassionatamente, tanto che non appena ne ebbe sentito parlare, disse al capitano: «Io compro tutte quelle che avete; fatele sbarcare subito, mentre ci accordiamo sul prezzo. Quanto alle altre mercanzie, avvertite i mercanti di portarmi ciò che hanno di più bello, prima di farlo vedere ad altri». «Sire», rispose il capitano, che la prendeva per il re d'Ebena, come lo era di fatto per l'abito che vestiva, «ve ne sono cinquanta vasi molto grandi che appartengono a un mercante, che è rimasto a terra, benché lo avessi io stesso avvertito e atteso a lungo: ma quando vidi che non veniva e che il suo ritardo mi impediva di profittare del buon vento, persi la pazienza e sciolsi le vele.» «Non tralasciate di farle sbarcare», disse la principessa, «questo non impedisce di convenire il prezzo.» Il capitano mandò la scialuppa alla nave, ed essa ritornò ben presto carica dei vasi d'olive. La principessa chiese quanto potessero valere i cinquanta vasi nell'isola d'Ebena, e il capitano rispose: «Sire, il mercante è assai povero, e vostra maestà gli farà una grandissima grazia, pagandogliele mille piastre d'argento!». «Perché egli sia contento, e in considerazione di quanto mi dite della sua povertà, vi saranno contate mille piastre d'oro, che voi stesso avrete cura di dargli.» La principessa diede tutte le disposizioni, poi ritornò al palazzo. Siccome la notte era vicina, Budùr si ritirò nell'appartamento della principessa Hayàt an-Nufùs; si fece portare i cinquanta vasi d'olive, ne aprì uno per assaggiarne e darne ad altri, e le versò in un piatto. Restò assai meravigliata nel vedere le olive mischiate alla polvere d'oro, ed esclamò: «Quale avventura! Quale meraviglia!». Fece poi aprire e vuotare gli altri vasi, in sua presenza dalle ancelle di Hayàt an-Nufùs, e sempre più aumentava la sua meraviglia, vedendo che le olive di ciascun vaso erano mischiate alla polvere d'oro. Ma quando si venne a vuotare quello in cui Qamar az-Zamàn aveva posto il suo talismano, ella lo vide e ne fu tanto sorpresa, che svenne. La principessa Hayàt an-Nufùs e le sue ancelle soccorsero Budùr, e la fecero rinvenire gettandole dell'acqua sul viso. Quand'ebbe recuperato i sensi, prese il talismano e lo baciò più volte; poi non volendo dir nulla davanti alle ancelle della principessa, le accomiatò: «Principessa», disse ad Hayàt an-Nufùs, appena furono sole, «dopo quanto vi ho raccontato della mia storia, avrete senza dubbio capito perché allo scorgere questo talismano sono svenuta. Esso fu la causa che mi ha strappato dal principe mio marito. Esso è stato la causa d'una dolorosa separazione per l'uno e per l'altra: e diverrà, ne sono persuasa, quella della nostra prossima riunione». Il giorno dopo di buon'ora la principessa mandò a chiamare il capitano del vascello, e quando le venne condotto davanti, gli disse: «Datemi maggiori notizie sul mercante al quale appartenevano le olive che comprai ieri. Voi mi diceste, mi sembra, che l'avevate lasciato a terra nella città degli idolatri; potete dirmi ciò che vi faceva?». «Sire», rispose il capitano, «posso darne notizia alla maestà vostra perché è una cosa che ho veduto io stesso. Io avevo preso accordi per il suo imbarco con un giardiniere assai vecchio, il quale mi disse che l'avrei trovato nel suo giardino e m'insegnò il luogo dove lavorava sotto di lui; per questo ho detto a vostra maestà che era povero; sono andato a cercarlo ed avvertirlo io stesso in quel giardino di venire ad imbarcarsi e gli ho parlato.» «Se la cosa è come dite», soggiunse la principessa Budùr, «è necessario che ripartiate subito e ritorniate alla città degli idolatri e che mi conduciate qui quel giovane giardiniere che è mio debitore; altrimenti vi dichiaro che non solo confischerò le vostre mercanzie che vi appartengono e quelle dei mercanti venuti con voi, ma prenderò la vostra vita e quella dei mercanti. In questo momento si stanno mettendo per mio ordine dei suggelli ai magazzini dove sono, e non saranno tolti se non quando m'avrete consegnato l'uomo che vi chiedo. Questo è quanto avevo da dirvi: andate e fate quel che vi comando!» Il capitano non ebbe nulla da replicare a simile comando, perché disubbidendo avrebbe arrecato grandissimo danno ai suoi affari e a quelli dei mercanti; egli lo comunicò loro ed essi non furono meno solleciti di lui a far imbarcare subito viveri e acqua di cui avevano bisogno per il viaggio. Tutto ciò fu fatto con tanta sollecitudine che il capitano poté partire lo stesso giorno. La nave ebbe una felicissima traversata, e il capitano prese così bene le sue disposizioni da giungere di notte davanti alla città degli idolatri: non fece gettare l'ancora e, mentre la nave era ferma sbarcò con la sua scialuppa in un luogo poco discosto dal porto, andando subito al giardino di Qamar az-Zamàn, con sei marinai dei più risoluti. Qamar az-Zamàn non dormiva. La sua separazione dalla bella principessa della Cina, sua moglie, l'affliggeva ancora e malediceva il momento in cui si era lasciato tentare dalla curiosità, e aveva preso la cintura. Egli era immerso in tali pensieri, quando sentì bussare alla porta del giardino. Andò, mezzo svestito, ad aprire. Senza dirgli nulla il capitano e i marinai s'impadronirono di lui: lo condussero alla scialuppa per forza, e lo trascinarono a bordo della nave. Qamar az-Zamàn, il quale aveva taciuto fino allora, chiese al capitano che aveva riconosciuto, per quale ragione l'avesse rapito con tanta violenza. «Non siete forse debitore del re dell'isola d'Ebena?», gli chiese a sua volta il capitano. «Io debitore del re dell'isola d'Ebena?», soggiunse Qamar az-Zamàn assai meravigliato, «non lo conosco neppure, non ho mai avuto affari con lui, e non ho mai messo il piede nel suo regno.» «Questo lo potete sapere voi meglio di me», rispose il capitano, «gli parlerete voi stesso; intanto abbiate la pazienza di restare qui.» La nave ebbe un viaggio felice mentre portava Qamar az-Zamàn all'isola d'Ebena, non meno di quando era diretta alla città degli idolatri. Era già notte quando entrò nel porto, ma il capitano si fece premura di sbarcare subito e di condurre subito il principe al palazzo, ove, appena giunto, chiese di essere presentato al re. La principessa Budùr, che già si era ritirata nel palazzo interno, fu avvertita del ritorno del capitano e dell'arrivo di Qamar az-Zamàn e subito uscì per parlargli. Non appena ebbe visto il principe, per cui aveva versato tante lacrime dopo la loro separazione, lo riconobbe malgrado il suo abito umile. Il principe, che tremava davanti al re, col quale credeva di dover discutere per un debito immaginario, non fu neppure sfiorato dal pensiero che potesse essere quella tanto ardentemente desiderata. Se la principessa avesse seguito l'impulso del suo cuore, sarebbe corsa a lui, e si sarebbe fatta riconoscere, abbracciandolo: ma si trattenne dal farlo, e ritenne necessario per l'uno e per l'altra sostenere ancora per un po' il personaggio di re, prima di scoprirsi, e si contentò di raccomandarlo a un ufficiale, incaricandolo di prender cura di lui, e di trattarlo bene fino al giorno dopo. Quando la principessa Budùr, ebbe provveduto a quanto riguardava il principe si occupò del capitano, per ricompensarlo del favore. Incaricò un altro ufficiale di andare subito a levare il suggello apposto alle sue mercanzie e a quelle dei mercanti, e l'accomiatò col dono di un ricco diamante, che lo risarcì abbondantemente dei danni del viaggio. Gli disse anche di tenersi le mille piastre d'oro che gli aveva versate per i vasi di olive, e che si sarebbe poi accordata personalmente col mercante. Finalmente si ritirò nell'appartamento della principessa dell'isola d'Ebena, cui partecipò la sua gioia, pregandola nondimeno di mantenere ancora il segreto, e confidandole gli espedienti che giudicava di dover adottare prima di farsi riconoscere dal principe e di rivelare a tutti chi egli fosse. «C'è», soggiunse, «una grande distanza tra un giardiniere e un grande principe qual egli è, e sarebbe pericoloso farlo passare istantaneamente da una posizione così umile a un così alto grado, anche se sarebbe giusto.» La principessa d'Ebena approvò il suo disegno, assicurandola che avrebbe collaborato con lei con grandissimo piacere, e che non aveva che da dirle che cosa dovesse fare. L'indomani la principessa della Cina, sempre col nome, l'abito e l'autorità di re dell'isola d'Ebena, prese cura di far condurre il principe la mattina prestissimo al bagno e di fargli vestire un abito da emiro, lo fece poi condurre nella sala del consiglio, dove si accattivò l'ammirazione di tutti i signori che erano presenti per il suo bell'aspetto e per il suo portamento regale. Anche la principessa Budùr rimase soddisfatta vedendolo così bello come era solita vederlo nel passato, e ciò la spinse a farne l'elogio in pieno consiglio. Dopo avergli ordinato di sedersi fra gli emiri, ella disse rivolgendosi a loro: «Signori, Qamar az-Zamàn, che oggi vi do per collega, non è indegno del posto che occupa fra voi: io l'ho conosciuto sufficientemente durante i miei viaggi per rispondere di lui, e posso assicurarvi che si distinguerà anche qui per il suo valore e per le mille altre qualità, oltre che per la grandezza del suo genio». Qamar az-Zamàn restò assai meravigliato quando udì queste parole del re dell'isola d'Ebena, perché era ben lontano dal pensare che fosse una donna e tanto meno la sua cara principessa. Egli era stupito che assicurasse di conoscerlo, mentre era certo di non averlo mai incontrato: e lo fu maggiormente per le eccessive lodi che gli faceva. Per altro tali lodi, pronunciate da una bocca piena di maestà, non lo sconcertarono punto, anzi le ricevette con modestia mostrando che le meritava, ma che non ne traeva motivo di vanità. Si prostrò davanti al trono del re, e rialzandosi: «Sire», gli disse, «io non trovo parole per ringraziare la maestà vostra di questo grande onore e della bontà di cui mi colma. Io farò quanto mi è possibile per mostrarmene degno». Uscendo dal consiglio, il principe fu condotto da un ufficiale in un grande appartamento che la principessa Budùr aveva fatto preparare per lui e vi trovò ufficiali e servitori pronti a ricevere i suoi ordini; egli aveva a disposizione una scuderia fornita di bellissimi cavalli, e tutto ciò che gli era necessario per la dignità d'emiro che gli era stata conferita. Quando si fu ritirato nel suo studio, il suo intendente gli presentò un forziere pieno d'oro per le sue spese. Quanto meno capiva da dove gli venisse tanta fortuna, tanto più rimaneva meravigliato, ma mai sospettò che potesse esserne causa la principessa della Cina. Dopo due o tre giorni, la principessa Budùr, per dare al principe la possibilità di stare vicino a lei, e insieme per fargli godere maggior prestigio, gli conferì l'incarico di gran tesoriere. Egli adempì ai suoi doveri con tanta integrità, senza peraltro scontentare nessuno, che si acquistò non solo l'amicizia dei signori della corte, ma si guadagnò anche il cuore di tutto il popolo con la sua probità e con la sua generosità. Qamar az-Zamàn vedendosi tanto favorito da quel re straniero, e amato da tutti ogni giorno di più, sarebbe stato il più felice degli uomini, se avesse potuto avere accanto a sé la sua principessa. Malgrado la sua felicità, egli infatti non cessava di affliggersi perché non aveva potuto avere nessuna notizia di lei in quel paese, dove avrebbe dovuto invece giungere, dopo la loro dolorosa separazione. Avrebbe potuto dubitare di qualche cosa, se la principessa Budùr avesse conservato il nome di Qamar az-Zamàn, ma lei l'aveva cambiato, ascendendo al trono, in quello d'Armanùs, in onore dell'antico re suo suocero. Per questo motivo era chiamata sempre e soltanto col nome di re Armanùs, il giovane, e solo pochi cortigiani ricordavano il nome di Qamar az-Zamàn che portava arrivando alla corte del re dell'isola d'Ebena. Qamar az-Zamàn non aveva abbastanza contatti con loro per venirne informato, ma poteva accadere. Allora nel timore che ciò avvenisse, la principessa, volendo che il principe fosse a lei sola debitore del suo riconoscimento, decise di por fine ai suoi propri tormenti e a quelli che lui soffriva: d'altra parte l'amicizia dei signori, l'affezione del popolo, tutto contribuiva a far sì che egli diventasse senza ostacoli re dell'isola d'Ebena. La principessa Budùr, non appena ebbe presa questa decisione d'accordo con la principessa Hayàt an-Nufùs, chiamò in disparte il principe dicendogli: «Qamar az-Zamàn, devo parlarvi d'un affare di grande importanza su cui ho bisogno di consultarvi: e siccome non vedo quando potremmo farlo più comodamente che di notte, venite questa sera e lasciate detto di non attendervi, perché penserò io a darvi un letto». Qamar az-Zamàn non mancò d'andare al palazzo all'ora indicata dalla principessa. Ella lo fece entrare nel palazzo interno, e dopo aver detto al capo degli eunuchi che non aveva bisogno dei suoi servizi, e che tenesse solamente la porta chiusa, lo condusse in un appartamento, diverso da quello della principessa Hayàt an-Nufùs, dove era solita coricarsi. Quando il principe e la principessa furono nella camera da letto, e la porta fu chiusa, la principessa trasse il talismano da una cassetta e lo mostrò a Qamar az-Zamàn dicendogli: «Non molto tempo fa un astrologo mi ha donato questo talismano; poiché siete esperto in tutto, potreste dirmi a che serve?». Qamar az-Zamàn prese il talismano e lo avvicinò a una candela per esaminarlo: ma non appena l'ebbe riconosciuto, con una sorpresa che fece piacere alla principessa, esclamò: «Sire, vostra maestà mi chiede a che serve questo talismano; ohimè! Serve a farmi morire di dolore, se non trovo subito la più leggiadra e amabile principessa dell'universo, cui ha appartenuto, e che ho perso a causa di questo talismano! Tutto ciò mi accadde per una strana avventura il cui racconto susciterà la compassione di vostra maestà per un marito sciagurato quale io sono, se vuole avere la pazienza d'ascoltarmi». «Me ne parlerete un'altra volta», rispose la principessa, «perché ho il piacere di dirvi che ne so già qualche cosa. Per ora abbiate la bontà di aspettarmi un momento: ritorno subito.» Ciò detto, la principessa Budùr entrò in un salottino, dove si tolse il turbante reale, e in pochi minuti indossò una veste da donna, con la cintura che aveva nel giorno della loro separazione. Poi rientrò nella camera. Il principe riconobbe subito la sua cara principessa e corse a lei, abbracciandola teneramente esclamando: «Ah! quanto sono obbligato al re d'avermi così piacevolmente sorpreso!». «Non aspettate di rivedere il re», disse la principessa, abbracciandolo a sua volta con le lacrime agli occhi, «vedendo me, voi vedete il re. Sediamoci, affinché io vi spieghi l'enigma.» Si sedettero, e la principessa raccontò al principe la decisione che aveva preso nella prateria dove avevano fatto sosta insieme per l'ultima volta, quando si era accorta che egli non sarebbe ritornato. Gli narrò in quale modo essa l'aveva attuata fino al suo arrivo all'isola d'Ebena, dove era stata costretta a sposare la principessa Hayàt an-Nufùs, e ad accettare la corona che il re Armanùs le aveva offerta in conseguenza del suo matrimonio; come la principessa, di cui ella gli esagerò il merito, avesse accolto la rivelazione del segreto: e da ultimo gli raccontò l'avventura del talismano che aveva trovato in un vaso di olive e di polvere d'oro, che l'aveva spinta a mandarlo a prendere nella città degli idolatri. Quando la principessa ebbe terminato, volle che il principe le narrasse per quale avventura il talismano era stato causa della loro separazione e egli l'accontentò, poi si dolse con cortesia della sua crudeltà nel farlo languire per tanto tempo. Ella gliene espose le ragioni di cui abbiamo parlato: poi, siccome era molto tardi, andarono a dormire. La principessa e il principe si alzarono appena fu giorno. Ma la principessa aveva ormai smesso l'abito reale per ripigliare le sue vesti femminili, e quando fu vestita, mandò il capo degli eunuchi a pregare il re Armanùs suo suocero, di compiacersi di andare nel suo appartamento. Quando il re Armanùs vi giunse, fu assai meravigliato di vedere una donna sconosciuta, e il gran tesoriere, cui non era permesso di entrare nel palazzo interno, come a tutti gli altri signori della corte. Sedendosi chiese ove fosse il re. «Sire», rispose la principessa, «ieri io ero re, ma oggi sono la principessa della Cina, moglie del vero principe Qamar az-Zamàn, legittimo figlio del re Shahzamàn. Se la maestà vostra vuol avere la pazienza di ascoltare la nostra storia, spero non mi condannerà per averlo innocentemente ingannato.» Il re Armanùs rimase ad ascoltare con meraviglia dal principio alla fine ciò che ella gli narrò. «Sire», ella concluse alla fine, «benché nella nostra religione le donne siano poco contente della libertà che hanno i loro mariti di prendere più mogli, nondimeno se la maestà vostra consente di dare la principessa Hayàt an-Nufùs, sua figlia, in sposa al principe Qamar az-Zamàn, io volentieri le cedo il grado e la qualità di regina che per diritto le appartiene, e mi contento del secondo grado. Anche quando questa preferenza non le fosse dovuta, io gliela cederei, dopo tutto quello che le devo per aver mantenuto il mio segreto con tanta generosità. Se la maestà vostra vuol chiedere il suo consenso, io l'ho già interrogata a questo proposito e mi faccio garante della approvazione di lei.» Il re Armanùs ascoltò il discorso della principessa con ammirazione, e quando ella ebbe terminato, si rivolse al principe e gli disse: «Figlio mio, poiché la principessa vostra consorte, che io ho creduta finora mio genero, per un inganno di cui non posso lagnarmi, mi assicura di essere contenta di dividere il vostro letto con la mia figlia, non mi resta più che da sapere se voi volete sposarla, e se volete accettare la corona che la principessa meriterebbe di portare per tutta la vita, se non preferisse spogliarsene per amor vostro». «Sire», rispose il principe, «sebbene sia vivissimo il desiderio di rivedere mio padre, il debito di riconoscenza che ho sia verso la maestà vostra, che verso la principessa Hayàt an-Nufùs è tanto grande, che non posso rifiutarvi nulla.» Qamar az-Zamàn fu proclamato re e maritato lo stesso giorno con grande magnificenza, restando soddisfattissimo della bellezza, dello spirito, e dell'amore della principessa Hayàt an-Nufùs. In seguito le due regine continuarono a vivere insieme con la stessa amicizia e la stessa unione di prima, paghe dell'uguaglianza con cui le trattava il principe. Esse gli dettero ciascuna un figlio, nello stesso anno, quasi nello stesso giorno, e la nascita dei due principini fu celebrata con grandi feste. Qamar az-Zamàn impose il nome di Amgiad al primo, che la regina Budùr aveva partorito, e di Assad a quello che la regina Hayàt an-Nufùs aveva messo alla luce. I due principi furono allevati con grande cura e quando furono più grandi ebbero lo stesso precettore e i medesimi maestri nelle scienze, nelle arti, e in ogni esercizio. La grande amicizia che nutrivano l'uno per l'altro fin dalla loro prima infanzia aumentò sempre più. Infatti, quando furono in età di avere ciascuno una casa separata, erano così strettamente uniti che supplicarono il re loro padre di concederne loro una sola per tutti e due, e l'ottennero. Ebbene anche gli stessi ufficiali, gli stessi servitori, gli stessi equipaggi, lo stesso appartamento e la stessa tavola. Qamar az-Zamàn aveva posto una così grande fiducia nelle loro capacità e nella loro probità, che, quando raggiunsero l'età di diciotto anni, fece loro presiedere il consiglio alternativamente, ogni volta ch'egli andava a caccia per più giorni. Poiché i due principi erano ugualmente belli, le due regine avevano per entrambi un'incredibile tenerezza; anzi la principessa Budùr aveva una certa preferenza per Assad, figlio della regina Hayàt an-Nufùs, invece che per Amgiad suo figlio; viceversa la regina Hayàt an-Nufùs ne aveva più per Amgiad, che per Assad. Le regine ebbero dapprima tale preferenza solo a causa dell'amicizia che esse conservarono l'una per l'altra: ma, a mano a mano che i principini avanzavano in età, essa si trasformò a poco a poco in un forte affetto e poi in un amore che esse finirono col rimanerne accecate. Tutta l'infamia della loro passione era loro nota: e fecero anche grandi sforzi per resistervi, ma la confidenza con cui li vedevano ogni giorno e l'abitudine di ammirarli fin dalla loro infanzia, di lodarli, di accarezzarli, tolse loro ogni possibilità di difendersi. Esse si innamorarono a tal punto che perdettero il sonno e l'appetito. Per loro sventura e quella dei principi stessi, questi, abituati alle loro maniere, non ebbero il minimo sospetto della loro detestabile fiamma. Le due regine, non si nascosero la loro passione e, non avendo il coraggio di dichiararla apertamente ai principi, convennero di rivelarla per mezzo d'un biglietto: e per mettere in atto il loro orribile proposito profittarono dell'assenza del re Qamar az-Zamàn per una caccia di tre o quattro giorni. Il giorno della partenza del re, il principe Amgiad, presiedette al consiglio, e amministrò la giustizia fino a due o tre ore dopo mezzogiorno. All'uscita dal consiglio, mentre rientrava nel palazzo, un eunuco lo prese in disparte e gli consegnò un biglietto da parte della regina Hayàt an-Nufùs, che Amgiad prese e lesse con orrore. «Come, perfido», disse all'eunuco, «è questa la fedeltà che serbi al tuo padrone, al tuo re?» Ciò detto, gli tagliò la testa. Poi Amgiad incollerito andò dalla regina Budùr, sua madre, con un volto che mostrava il suo risentimento, le presentò il biglietto, e gliene rivelò il contenuto, dopo averle letto da chi veniva. Invece di ascoltarlo la regina Budùr si sdegnò contro di lui dicendogli: «Figlio mio, quanto mi narri è una calunnia, e un'impostura! La regina Hayàt an-Nufùs è molto saggia e trovo che sei ben audace a parlarmi contro di lei così insolentemente!». A queste parole il principe si sdegnò a sua volta contro la regina sua madre, dicendole: «Voi donne siete tutte l'una più abbietta dell'altra, e se non fossi trattenuto dal rispetto che debbo al re mio padre, questo giorno sarebbe l'ultimo della vita di Hayàt an-Nufùs!». La regina Budùr comprese, vedendo l'ira di suo figlio Amgiad, che il principe Assad, il quale non era meno virtuoso, non avrebbe ricevuto più favorevolmente la sua dichiarazione. Ciò peraltro non la trattenne dal suo proposito abominevole e l'indomani gli scrisse un biglietto, che affidò a una vecchia che aveva accesso al palazzo. La vecchia colse anch'essa l'occasione per dare il biglietto al principe Assad quando usciva dal consiglio, dopo che aveva finito di presiederlo. Il principe lo prese, e nel leggerlo si lasciò talmente trasportare dallo sdegno che, senza finire di leggere, estrasse la sciabola e punì la vecchia. Corse poi nell'appartamento della regina Hayàt an-Nufùs, sua madre col biglietto in mano, per mostrarglielo: ma lei non gli lasciò nemmeno il tempo di parlare. «Io so quello che vuoi dirmi; sei un impertinente come tuo fratello Amgiad: vattene, ritirati e non comparirmi mai più davanti.» Assad rimase interdetto a tali parole che non si aspettava e si ritirò senza replicare, per timore di lasciarsi sfuggire qualche espressione indegna della sua nobile grandezza d'animo. Poiché il principe Amgiad aveva avuto vergogna di parlargli del biglietto ricevuto il giorno prima mentre, da quanto la regina sua madre gli aveva detto, aveva compreso che ella non era meno colpevole della regina Budùr, andò a fargli un cortese rimprovero della sua discrezione e a confondere il proprio dolore col suo. Le due regine, disperate di aver trovato nei due principi tanta virtù, invece di rientrare in sé, rinunciarono ad ogni sentimento materno e si accordarono per farli morire. A questo scopo dettero a intendere alle loro donne che i principi avevano voluto violentarle e improvvisarono una scena di lacrime, grida e maledizioni; poi si coricarono nello stesso letto come se fossero ridotte agli estremi delle loro forze. L'indomani il re, al suo ritorno dalla caccia, meravigliato di vederle coricate insieme in uno stato che esse seppero ben fingere, e che lo mosse a compassione, chiese cosa fosse accaduto. A questa domanda, le due regine raddoppiarono i loro gemiti ed i loro singhiozzi, finché dopo molte insistenze da parte del re la regina Budùr prese alfine la parola, dicendogli: «Sire, per il giusto dolore da cui siamo oppresse, non dovremmo vedere la luce dopo l'oltraggio che i principi vostri figli ci hanno fatto con una brutalità senza esempio. Con un complotto indegno della loro nascita, essi, durante la vostra assenza, hanno avuto l'ardire e l'audacia di attentare al nostro onore. La maestà vostra ci dispensi dal dire altro, poiché la nostra afflizione dovrebbe essere sufficiente a farle comprendere il rimanente». Il re fece chiamare i due principi, ed avrebbe loro tolto la vita di sua mano, se il vecchio Armanùs, suo suocero, che era presente, non gli avesse trattenuto il braccio, dicendogli: «Figlio mio che fate? Volete macchiare le vostre mani ed il palazzo col vostro proprio sangue? Vi sono altri mezzi per punirli, se è vero che sono colpevoli». Riuscì finalmente a placarlo e lo pregò di esaminare attentamente i fatti per accertare se avessero commesso il delitto di cui venivano accusati. Qamar az-Zamàn seppe padroneggiarsi per non essere il carnefice dei suoi figli, ma dopo averli fatti imprigionare, fece venire verso sera un emiro chiamato Giondàr, cui ordinò di andare a ucciderli fuori dalla città e di non tornare senza portargli i loro abiti come prova della loro morte. Giondàr camminò tutta la notte, e il giorno appresso, sceso da cavallo, comunicò ai principi con le lacrime agli occhi l'ordine che aveva ricevuto. «Principi», disse loro, «questo ordine è assai crudele, ed è per me mortificante di essere stato scelto per eseguirlo. Piacesse a Dio che potessi dispensarmene!» «Fate il vostro dovere», risposero i principi, «siamo certi che non siete voi la cagione della nostra morte e vi perdoniamo di tutto cuore.» Ciò detto, si abbracciarono, e si dettero l'estremo addio con tanta tenerezza, che rimasero a lungo uniti. Il principe Assad per primo si offrì alla morte, dicendo a Giondàr: «Cominciate da me, affinché non abbia il dolore di veder morire il mio caro fratello Amgiad». Amgiad vi si oppose, e Giondàr non poté assistere a questa gara senza versare lacrime, commosso dalla loro amicizia sincera e perfetta. Finalmente conclusero la scena commovente, pregando Giondàr di legarli insieme, e di metterli in modo da poter dare loro il colpo di morte nello stesso momento. Poi dissero: «Non rifiutate la consolazione di morire insieme a due fratelli sfortunati, i quali hanno tutto in comune fin dalla nascita, perfino la loro innocenza». Giondàr concesse ai due principi quanto desideravano, e, dopo averli collocati nel modo che ritenne più adatto per tagliare loro il capo con un solo colpo, li legò e domandò loro se avevano qualche cosa da comandargli prima di morire. «Vi preghiamo solo di una cosa», risposero i principi, «cioè di ripetere al re nostro padre, al vostro ritorno, che moriamo innocenti, ma che non lo accusiamo per aver versato il nostro sangue. Difatti noi sappiamo che egli non sa la verità sul delitto di cui siamo accusati!» Giondàr, dopo aver loro promesso di obbedirli, trasse fuori la sciabola. Allora il suo cavallo spaventato dal gesto e dal luccicare della lama, ruppe la briglia, e fuggì mettendosi a correre con quanta lena aveva per la campagna. Era un cavallo di gran prezzo e riccamente bardato che Giondàr non voleva perdere a nessun costo, perciò, turbato da questo incidente, invece di tagliare la testa ai principi, gettò la sciabola, e gli corse dietro per afferrarlo. Il cavallo, che era vigoroso, galoppava davanti a Giondàr, e giunse fino ad un bosco e Giondàr lo seguì; ma i nitriti del cavallo avevano svegliato un leone, che accorse, e invece di andare verso il cavallo, andò dritto su Giondàr. Questi appena l'ebbe veduto, non pensò più al cavallo, ma solo a salvarsi la vita, evitando l'assalto del leone che non lo perdeva mai di vista, e che lo seguiva da vicino attraverso gli alberi. «Iddio non mi manderebbe questo castigo», disse tra sé, «se i principi, che devo uccidere non fossero innocenti. Per mia maggior sciagura non ho nemmeno la sciabola per difendermi!» Mentre Giondàr era lontano, ai due principi venne una sete ardente cagionata dallo spavento della morte, nonostante la loro generosa risoluzione di sottomettersi all'ordine crudele del re loro padre. Il principe Amgiad fece osservare al principe suo fratello una sorgente d'acqua poco discosta e gli propose di sciogliersi e di andare a bere. «Fratello mio», rispose il principe Assad, «per il poco tempo che ci rimane ancora da vivere non vale la pena di estinguere la sete, che dovremo sopportare per qualche momento solamente.» Senza badare a questa rimostranza, Amgiad si sciolse e sciolse anche il principe suo fratello, suo malgrado: poi andarono alla sorgente, dove, dopo essersi rinfrescati, udirono nel bosco il ruggito del leone, e grandi grida. Amgiad prese subito la sciabola che Giondàr aveva gettato, e disse al fratello: «Assad, corriamo in soccorso dello sciagurato Giondàr: forse arriveremo in tempo per liberarlo dal pericolo che lo sovrasta». I due principi non persero tempo e arrivarono, mentre la belva atterrava Giondàr. Il leone, vedendo il principe Amgiad avanzare verso di lui con la sciabola alzata, lasciò la sua preda e gli andò furiosamente incontro: ma il principe lo ricevette con coraggio, e gli dette un colpo con tanta forza e destrezza, che lo fece cadere morto. Appena Giondàr capì che doveva la vita ai due principi, si gettò ai loro piedi, e li ringraziò con parole che dimostravano la sua riconoscenza. «Principi», disse alzandosi e baciando loro le mani con le lacrime agli occhi, «Dio non voglia che io attenti alla vostra vita dopo il grandissimo aiuto che mi avete dato! Non si potrà mai rimproverare all'emiro Giondàr d'esser stato capace di tanta ingratitudine!» «Il favore che vi abbiamo fatto», risposero i principi, «non deve farvi trasgredire l'ordine ricevuto: ma riprendiamo prima il vostro cavallo, e poi ritorneremo al luogo dove ci avevate lasciati.» Non durarono molta fatica a riprendere il cavallo che per la stanchezza si era fermato: ma quando furono di ritorno alla sorgente, non poterono persuadere l'emiro a toglier loro la vita. «La sola cosa che vi chiedo», disse loro, «è di adattarvi alla meglio con quello che vi posso dare del mio abito, e di darmi ciascuno il vostro; poi andate a vivere in paesi lontani, in modo che il re vostro padre non senta mai più parlare di voi.» I principi fecero quanto voleva, e, dopo avergli dato ciascuno il proprio abito ed essersi coperti con quanto egli diede loro insieme all'oro e all'argento che aveva indosso, si separarono da Giondàr. Allora questi bagnò i loro abiti nel sangue del leone, e continuò il suo cammino fino alla capitale dell'isola d'Ebena. Al suo arrivo il re gli chiese se avesse fedelmente eseguito l'ordine. «Sire», rispose Giondàr, presentandogli gli abiti dei due principi, «eccovi le prove.» «Ditemi», soggiunse il re, «in qual modo hanno ricevuto il mio castigo?» «Sire, con ammirabile fermezza e con somma rassegnazione, al volere di Dio, ciò che mostra la sincerità con cui professavano la loro religione: ma particolarmente con gran rispetto alla maestà vostra, e con una sottomissione straordinaria! "Noi moriamo innocenti", dicevano "ma non ci lamentiamo e riceviamo la nostra morte dalla mano di Dio; perdoniamo al re nostro padre, poiché siamo certi non ha saputo la verità!".» Qamar az-Zamàn sensibilmente commosso dal racconto dell'emiro Giondàr, volle frugare nelle tasche degli abiti dei due principi, cominciando da quello d'Amgiad, nel quale trovò un biglietto che aprì e lesse. Come ebbe compreso che era stato scritto dalla regina Hayàt an-Nufùs non solo dal carattere ma anche da una piccola ciocca di capelli unita al biglietto, fremette. Poi frugò in quello d'Assad e trovò il biglietto della regina Budùr; questa scoperta gli cagionò uno stupore così grande che svenne. Nessun dolore fu eguale a quello che manifestò non appena ricuperò i sensi. «Che hai fatto, o barbaro padre», esclamò, «hai ucciso i tuoi figli innocenti! La loro saggezza, la loro modestia, la loro obbedienza, la loro sottomissione a tutte le tue volontà, la loro virtù, non testimoniavano forse in loro difesa? Cieco padre, non meriti più che la terra ti nutra, dopo un simile delitto! Io mi sono gettato in questa abominevole azione, ed è questo il castigo con cui Dio mi punisce per non aver persistito nell'avversione contro le donne. Io non laverò il vostro delitto col sangue, come meritereste, detestabili donne, perché siete indegne della mia collera; ma che il cielo mi fulmini se vi rivedrò!» Il re tenne religiosamente fede al suo giuramento. Fece accompagnare le due regine in quello stesso giorno in un appartamento separato, dove restarono sotto buona guardia, e per tutta la vita non le avvicinò più. Mentre il re si affliggeva in tal modo per la perdita dei principi suoi figli, essi erravano nei deserti, evitando di avvicinarsi ai luoghi abitati, e d'incontrare ogni specie di persone, e vivendo d'erba e di frutta selvatiche, bevendo acqua piovana, che trovavano nelle fessure delle rocce. Durante la notte, per premunirsi contro le bestie feroci, mentre uno dormiva, l'altro vegliava. In capo ad un mese giunsero ai piedi d'una spaventevole montagna, tutta di pietre nere, e inaccessibile. Ciò nonostante scoprirono un cammino battuto, ma lo trovarono tanto stretto e difficile che non osarono intraprenderne la salita. Sperando di trovarne uno migliore, continuarono a costeggiare la montagna e camminarono per cinque giorni; ma la fatica fu inutile e dovettero ritornare alla strada abbandonata; allora si fecero coraggio e cominciarono a salire. Più avanzavano, più il monte sembrava alto e scosceso, e furono più volte tentati di desistere dalla loro impresa. Li sorprese la notte, ed il principe Assad era così stanco e spossato, che non poteva più muoversi, per cui disse al principe Amgiad: «Fratello mio, io non ne posso più e sono vicino a morire». «Riposiamo finché ti piacerà», rispose Amgiad, fermandosi con lui «e fatti coraggio; non ci resta molto da salire, e la luna ci favorisce.» Dopo mezz'ora di riposo, Assad fece un nuovo sforzo, e arrivarono finalmente sulla cima della montagna, dove fecero un'altra sosta. Amgiad si alzò, ed avanzando, scorse un albero a poca distanza, e gli si accostò; vide allora che era un melograno carico di grossi frutti e che poco distante c'era anche una fontana. Corse ad annunciare la buona notizia ad Assad, e lo condusse sotto l'albero, vicino alla fontana, dove si rinfrescarono mangiando ciascuno una melagrana: dopo di che si addormentarono. Il giorno dopo, quando i principi si svegliarono, Amgiad disse ad Assad: «Andiamo, fratello mio, proseguiamo il nostro cammino; vedo che la montagna è meno aspra da questa parte che dall'altra, e ora non dobbiamo che discendere». Ma Assad era talmente stanco del giorno precedente, che gli abbisognarono tre giorni per rimettersi. Essi li passarono conversando - come già avevano fatto più volte - del disonesto amore delle loro madri. Dicevano: «Dio si è dichiarato in nostro favore in maniera tanto visibile, che dobbiamo sopportare i nostri mali con pazienza, e consolarci con la speranza che presto li farà cessare». Passati i tre giorni, i due fratelli si rimisero in cammino, e siccome la montagna era assai elevata da quella parte, impiegarono cinque giorni per giungere al piano. Finalmente scoprirono con immensa gioia una gran città. «Fratello mio», disse allora Amgiad ad Assad, «se sei d'accordo, potresti restare in qualche luogo, dove verrò a ritrovarti, mentre io andrò ad informarmi come si chiama questa città, e in che paese siamo. Ritornando ti porterò dei viveri.» «Io approvo molto volentieri il tuo piano», rispose Assad, «perché è saggio e prudente: ma non ammetto che sia tu ad andare, quindi permetti che me ne incarichi io. Pensa al mio dolore se ti accadesse qualche sventura?» «Ma fratello», soggiunse Amgiad, «quanto temi per me, anch'io temo per te! Ti supplico quindi di lasciarmi fare e di aspettarmi con pazienza.» «Non lo permetterò mai!», replicò Assad. «Se mi accade qualche cosa, avrò almeno la consolazione di saperti salvo.» Amgiad fu obbligato a cedere, e si fermò sotto gli alberi alle falde della montagna. Il principe Assad prese del denaro dalla borsa comune, e continuò a camminare fino alla città. Appena entrato nella prima strada, vide un venerabile vecchio ben vestito e con un bastone in mano. Egli lo chiamò dicendogli: «Signore, vi supplico d'insegnarmi per dove si va alla piazza pubblica.» Il vecchio guardò il principe sorridendo, e quindi gli rispose: «Figlio mio, a quanto pare, voi siete straniero; perché se non lo foste non mi fareste questa domanda». «Sì signore, sono straniero», soggiunse Assad. «Siate il benvenuto», continuò il vecchio. «Il nostro paese si ritiene molto onorato se un giovane come voi si prende la pena di venirlo a vedere. Ditemi, quali affari avete sulla piazza pubblica?» «Signore», rispose Assad, «sono quasi due mesi che mio fratello ed io siamo partiti da un paese assai lontano di qui e senza mai interrompere il nostro cammino siamo arrivati oggi soltanto. Mio fratello, stanco del lungo viaggio, è rimasto alle falde della montagna, mentre io sono venuto a cercare dei viveri per me e per lui.» «Figlio mio», continuò il vecchio, «voi siete giunto molto opportunamente, e ne godo per voi e per vostro fratello. Io ho dato oggi un gran pranzo a parecchi miei amici, ed è avanzata una grande quantità di vivande non toccate da nessuno; venite con me; ve ne darò finché sarete sazio, e quando avrete mangiato ve ne darò dell'altro per voi e per vostro fratello, così da poter vivere più giorni. Non vi prendete dunque l'incomodo d'andare a spendere il vostro denaro in piazza tanto più che i viaggiatori non ne hanno mai troppo. Inoltre, mentre voi mangerete io v'informerò sulla nostra città meglio d'ogni altro, perché una persona che come me, è passata per tutti i più alti uffici, non può ignorare nulla. Voi dovete essere contentissimo d'esservi rivolto a me anziché ad altri, perché non tutti i nostri cittadini son ospitali come me; ve ne sono anzi di quelli assai cattivi. Venite dunque, vi voglio dimostrare quanta differenza c'è fra un onest'uomo come me, e molta gente che si vanta soltanto di esserlo.» «Io vi sono infinitamente obbligato», rispose il principe Assad, «della vostra bontà, e poiché ho fiducia in voi, sono pronto a venire ovunque vi piacerà.» Il vecchio, continuando a camminare con Assad a fianco, rideva tra sé, e, per timore che egli se ne accorgesse, gli diceva molte cose, per mantenerlo nella buona opinione che aveva di lui: e tra le altre gli diceva: «Ringrazio il cielo che mi abbiate incontrato e ne saprete la ragione quando sarete in casa mia!». Il vecchio arrivò finalmente a casa, e introdusse Assad in una grande sala, dove erano quaranta altri vecchi intorno a un gran fuoco, che essi adoravano. A tale spettacolo il principe Assad provò un grande orrore di trovarsi tra gente così incivile da adorare il fuoco e insieme ebbe timore, nel trovarsi in un simile luogo. Mentre era immobile per lo stupore, lo scaltro vecchio salutò i quaranta compagni dicendo: «Devoti adoratori del fuoco, ecco un giorno felicissimo per noi». E aggiunse: «Dov'è Ghadbàn? Lo si faccia venire». A queste parole, un nero, che aveva udito, apparve, si avvicinò ad Assad, lo gettò a terra con uno schiaffo, lo legò per le braccia con una meravigliosa destrezza e quando ebbe terminato: «Conducilo là in basso», gli comandò il vecchio, «e non mancare di dire alle mie figlie Bostàn e Cavàm di bastonarlo ogni giorno, dandogli solo un pane la mattina e un altro la sera per nutrimento: basterà per farlo vivere fino alla partenza della nave per il Mare azzurro e la Montagna del fuoco, dove lo sacrificheremo alla nostra divinità!». Appena il vecchio ebbe dato l'ordine crudele, Ghadbàn afferrò Assad, lo fece scendere sotto la sala e dopo averlo fatto passare per più porte, lo cacciò in un carcere, a cui si giungeva con venti gradini, e lo attaccò per i piedi ad una catena molto grossa e pesante. Quando ebbe fatto ciò, andò ad avvertire le figlie del vecchio: ma questi l'aveva prevenuto, e stava dicendo loro: «Figlie mie, scendete là dabbasso e bastonate il musulmano che ho fatto prigioniero, senza risparmiarlo, mostrando così di esser buone adoratrici del fuoco». Bostàn e Cavàm piene d'odio contro tutti i musulmani, ricevettero quell'ordine con gioia e recatesi immediatamente nel carcere, spogliarono Assad e lo bastonarono spietatamente, fino a che fu tutto insanguinato e perse i sensi. Dopo un'esecuzione così barbara, gli posero vicino un pane con una brocca d'acqua e si ritirarono, Assad non recuperò i sensi se non molto tempo dopo, e allora cominciò a piangere disperatamente deplorando la sua miseria: era però consolato perché la sua sciagura era stata risparmiata al fratello Amgiad. Il principe Amgiad attese suo fratello Assad fino a sera alle falde della montagna con grande impazienza: ma quando vide che erano trascorse, due, tre e quattro ore della notte e che egli non era ritornato si abbandonò alla disperazione. Passò la notte in una inquietudine desolante e quando spuntò il giorno s'incamminò verso la città. Fu dapprima meravigliato di vedere solo pochissimi musulmani, fermò il primo che incontrò, pregandolo di dirgli come si chiamasse la città. Gli rispose che era la città dei magi, così detta perché era abitata in gran numero dai magi, adoratori del fuoco, mentre vi erano solo pochi musulmani. Amgiad domandò pure quanto fosse distante di là l'isola d'Ebena, e seppe che vi erano quattro mesi di navigazione e un anno di viaggio per terra. Quello cui s'era rivolto lo lasciò dopo aver risposto a queste domande, e continuò il suo cammino andando in gran fretta. Amgiad, che aveva impiegato circa sei settimane soltanto a venire dall'isola d'Ebena, con suo fratello Assad, non poteva capire come avessero fatto tanto cammino in così poco tempo, a meno che non fosse stato per un incantesimo, o che la via della montagna per dove erano venuti fosse un cammino più corto ma non praticato a causa delle sue difficoltà. Percorrendo la città si fermò davanti alla bottega di un sarto che identificò per musulmano dal suo abito, come aveva riconosciuto prima quello a cui aveva parlato: entrandovi si sedette vicino a lui, dopo averlo salutato, e gli raccontò la ragione del dolore da cui era oppresso. Quando il principe Amgiad ebbe terminato, il sarto gli rispose: «Se vostro fratello è caduto nelle mani di qualche mago, potete rassegnarvi a non rivederlo mai più. Egli è perduto senz'altro: e io vi consiglio di consolarvene, e di preservarvi da una simile disgrazia. Però se volete, potete restare con me, e io vi insegnerò tutte le astuzie di questi magi, perché possiate guardarvene quando uscirete». Amgiad, afflittissimo d'aver perduto il suo fratello Assad, accettò l'offerta, e ringraziò mille volte il sarto della bontà che aveva per lui. Il principe Amgiad non uscì in città se non in compagnia del sarto per tutto un mese, ma finalmente si arrischiò ad andare solo fino al bagno. Al ritorno, passando per una strada dove non c'era nessuno, vide una signora che gli veniva incontro, la quale nello scorgere un giovane di bell'aspetto, alzò il velo e gli domandò con volto ridente e con sguardo carezzevole dove andasse. Amgiad non poté resistere alla sua grazia e le rispose: «Signora, io posso andare a casa mia, o a casa vostra; a voi la scelta». «Giovanotto», soggiunse la donna con un piacevole sorriso, «le signore par mio non conducono uomini in casa loro!» Amgiad restò molto imbarazzato a questa risposta che non s'aspettava. Egli non osava prendere l'iniziativa di portarla dal suo ospite, che avrebbe potuto scandalizzarsene e togliergli la sua protezione, mentre ne aveva tanto bisogno. D'altra parte non sapeva dove condurla, né voleva perdere una occasione così allettante. In questa incertezza si affidò al caso, e, senza rispondere alla signora, si mise a camminare davanti e la dama lo seguì. Il principe Amgiad la condusse a lungo di strada in strada, di viottolo in viottolo, ed erano l'uno e l'altra stanchi di camminare, quando giunse in una strada al cui termine era una casa di bell'apparenza con una gran porta chiusa e con due sedili, l'uno da un lato, e l'altro dalla parte opposta. Amgiad si sedette, come se volesse riprendere fiato, e la signora, più stanca di lui, si sedette sull'altro sedile. Quando la signora si fu seduta, disse al principe Amgiad: «E' questa dunque la vostra casa?». «Voi lo vedete, signora», rispose il principe. «Perché dunque non aprite», soggiunse, «che aspettate?» «Bella mia», replicò Amgiad, «non ho la chiave. L'ho data al mio schiavo, che ho mandato a fare una commissione. Gli ho detto, anche di andare, prima di tornare, a comprare il necessario per preparare un buon pranzo; temo quindi che dovremo aspettarlo per molto tempo.» Egli era già pentito di questa avventura, che presentava tanta difficoltà e sperava che la signora, obbligata ad attendere, si sentisse offesa e lo lasciasse, per cercare fortuna altrove. Ma si sbagliava. La signora infatti esclamò: «Ecco uno schiavo impertinente; lo castigherò io stessa, come merita, se non lo farete voi, appena sarà di ritorno. Ma non è conveniente che io resti sola davanti ad una porta con un uomo!». Ciò detto, s'alzò e prese una pietra per rompere la serratura che era di legno, e assai debole, secondo l'uso del paese. Amgiad disperato vi si oppose, dicendole: «Signora mia, che volete fare? Di grazia abbiate ancora un po' di pazienza». «Che mai temete?», rispose, «la casa non è forse vostra? Non è un gran danno una serratura di legno rotta, e soprattutto quando è così facile rimetterne un'altra.» Ciò detto, la ruppe, ed entrò. Amgiad si ritenne perso quando vide la porta sfondata. Rimase dubbioso se dovesse entrare o fuggire per liberarsi dal pericolo che credeva inevitabile, e stava già per andarsene, quando la signora voltandosi, e vedendo che non entrava, gli disse: «Che avete?». «Signora», rispose, «sto guardando se il mio schiavo torna.» «Entrate», aggiunse, «lo attenderemo meglio dentro, anziché fuori.» Il principe Amgiad entrò assai malvolentieri in una corte spaziosa e magnificamente selciata. Dalla corte salì ad un gran vestibolo, dal quale videro una gran camera aperta e molto ben addobbata, dove c'erano una mensa su cui erano apprestate squisite vivande, e un'altra carica di bottiglie di vino. Quando Amgiad vide quei preparativi non dubitò di essere perduto, e disse tra sé: «E' finita per te, povero Amgiad, tu non sopravviverai a lungo al tuo caro fratello Assad». La signora, al contrario, rapita da quel piacevole spettacolo, esclamò: «Eh, signore, il vostro schiavo ha fatto più di quanto immaginavate. Ma se non m'inganno, questi preparativi sono per ben altra signora: ma non importa; venga pure questa signora, io vi prometto di non esserne gelosa. La grazia che vi chiedo è di lasciare che io serva lei e voi». Amgiad non poté trattenersi dal ridere della facezia della donna ad onta dell'afflizione che sentiva. «Signora», rispose, «vi assicuro che non c'è nulla di vero in quello che immaginate; questo è il mio solito semplicemente.» Poiché non poteva risolversi a sedersi a una tavola che non era stata preparata per lui, voleva sedersi su un sofà; la signora glielo impedì, dicendogli: «Che fate? Dovete aver fame dopo il bagno: mettiamoci a tavola, e godiamone». Amgiad fu costretto a fare quello che la donna voleva; si misero quindi a tavola e mangiarono. Dopo i primi bocconi, la signora prese un bicchiere ed una bottiglia, si versò da bere e bevve alla salute d'Amgiad. Quando ebbe bevuto, riempì il bicchiere, e glielo presentò ed egli rese il complimento. Più Amgiad considerava la sua avventura, più si meravigliava vedendo che il padrone non compariva e che non c'erano servi in giro, malgrado il lusso della casa. «La mia fortuna sarebbe straordinaria», diceva tra sé, «se il padrone venisse dopo che mi sono sbrigato da questa faccenda.» Mentre era assorto in tali pensieri, la signora continuava a mangiare ed a bere, obbligandolo a fare lo stesso. Erano alla frutta quando giunse il padrone di casa che era il grande scudiero del re dei magi, e si chiamava Bahader. La casa gli apparteneva, ma ne aveva un'altra dove abitava di solito. Questa non gli serviva se non per divertirsi con tre o quattro amici scelti, facendovi portare tutto, come aveva fatto quel giorno, da alcuni suoi servi, i quali se n'erano andati, poco prima dell'arrivo d'Amgiad con la dama. Bahader giunse senza seguito e travestito, come ordinariamente faceva, e rimase non poco sorpreso di trovare la porta della sua casa forzata. Entrò senza far rumore, e avendo sentito parlare nella camera, camminò rasente il muro, facendo capolino alla porta per vedere chi vi fosse là dentro. Come ebbe veduto che c'erano un giovane e una signora, che mangiavano alla tavola preparata per lui e per i suoi amici, essendosi assicurato che non c'era niente di male, mentre prima lo aveva temuto, decise di divertirsi un po'. La signora, stando con le spalle voltate, non poteva vedere il grande scudiero: ma Amgiad lo scorse subito; impallidì nel vederlo, e guardò fisso Bahader, che gli fece segno di non dir parola e di andare a parlargli. Amgiad si alzò e la signora gli chiese: «Dove andate?». «Signora», le rispose, «restate qui, vi prego, torno subito: una piccola necessità mi obbliga ad uscire.» Bahader lo condusse nella corte per parlargli senza essere udito dalla signora. Quando Bahader e il principe Amgiad furono nella corte, Bahader chiese al principe come mai si trovasse in casa sua con la signora, e perché ne avesse forzata la porta. «Signore», rispose Amgiad, «debbo sembrare assai colpevole ai vostri occhi, ma se volete avere la pazienza di ascoltarmi, spero che riconoscete la mia innocenza.» Continuò il suo discorso e gli raccontò in poche parole come stesse la cosa, senza nascondergli nulla: e per persuaderlo che non era capace di un'azione tanto indegna quanto quella di forzare una porta, gli disse di essere un principe, e gli rivelò pure la cagione per cui si trovava nella città dei magi. Bahader, che amava gli stranieri, fu contento di aver trovato l'occasione di farsene amico uno della qualità e del grado d'Amgiad. Difatti vedendo le sue maniere cortesi, il suo modo di esprimersi scelto, non dubitò della sua sincerità. Gli disse: «Principe, provo una grande gioia di potervi essere utile in una occasione così galante, come quella che m'avete raccontata. Non turberò la festa, ma avrò grandissimo piacere di contribuire alla vostra soddisfazione. Prima di comunicarvi quel che penso a tale proposito, ho l'onore di dirvi che sono grande scudiero del re, e mi chiamo Bahader. Ho una casa dove abito di solito e vengo qui solo qualche volta per stare con più libertà coi miei amici. Voi avete fatto credere alla vostra bella di avere uno schiavo, quantunque non l'abbiate; ora io fingerò di essere questo schiavo, e ciò non vi metta in imbarazzo e non scusatevene perché voglio farlo assolutamente, e ne saprete subito la ragione. Andate intanto a rimettervi al vostro posto, e quando verrò fra poco in abito da schiavo, sgridatemi e battetemi; vi servirò per tutto il tempo che sarete a tavola e per tutta la notte, poiché potrete restare a dormire in casa mia, voi e la signora, e domani mattina la congederete onorevolmente. Dopo di ciò sarà mia premura di rendervi dei favori di maggior peso. Intanto per ora andate, e non perdete tempo». Amgiad voleva andar via: ma il grande scudiero non lo permise e lo costrinse ad andare dalla dama. Non appena Amgiad rientrò nella camera, giunsero gli amici del grande scudiero, ma egli li pregò cortesemente di volerlo scusare se non li riceveva quel giorno, dicendo loro che ne avrebbero approvato il motivo, quando il giorno successivo li avrebbe informati. Appena se ne furono andati, uscì e corse a mettersi un abito da schiavo. Il principe Amgiad raggiunse la signora, contentissimo che la sorte l'avesse condotto nella casa di un uomo tanto distinto, che l'aveva trattato così cortesemente. Rimettendosi a tavola, disse alla signora: «Vi chiedo perdono della mia scortesia, e della collera che provo per l'assenza del mio schiavo: ma il birbante me la pagherà, e gli farò vedere che non deve star fuori tanto tempo!». «Ciò non deve inquietarvi!», soggiunse la signora. «Tanto peggio per lui: se avrà commesso qualche colpa la pagherà! Intanto non badiamo a lui, ma pensiamo a divertirci.» Essi dunque continuarono a stare a tavola con maggior piacere, tanto più che Amgiad non era più inquieto su quanto sarebbe accaduto, per l'indiscrezione commessa dalla donna, forzando la porta. Perciò stette allegro con la signora, e si dissero mille sciocchezze bevendo e mangiando fino all'arrivo di Bahader travestito da schiavo. Egli, appena entrato, si gettò ai suoi piedi baciando la terra per implorare la sua clemenza. «Furfante», gli disse Amgiad, con sguardo e tono irato, «dimmi, se c'è al mondo uno schiavo peggiore di te?» «Signore, vi chiedo perdono», rispose Bahader, «non credevo che sareste tornato a casa così presto!» «Tu sei un briccone», ripigliò Amgiad, «e ti ammazzerò di botte per insegnarti a non mentire, e a non mancare al tuo dovere!» Ciò detto s'alzò, prese un bastone e gli diede due o tre colpi assai leggeri, dopo di che si rimise a tavola. La signora, non contenta di simile castigo, si alzò, prese il bastone e gli diede una gran quantità di legnate. Amgiad, scandalizzato di veder maltrattare in quel modo un ufficiale del re, aveva un bel gridare che si fermasse; ella batteva sempre dicendo: «Lasciatemi fare, voglio sfogarmi e insegnargli a non assentarsi per tanto tempo un'altra volta». E così dicendo, continuava a menar colpi con tanta furia che Amgiad fu costretto ad alzarsi e a strapparle il bastone: ma essa non potendo più batterlo, gli gridò mille ingiurie, mentre si sedeva di nuovo al suo posto. Bahader si asciugò le lacrime, e rimase in piedi per versar loro da bere; poi quando vide che avevano finito, sparecchiò la tavola, spazzò la sala, rimise ogni cosa al suo posto, e, quando fu notte, accese le candele. Ogni volta che usciva o entrava, la dama non mancava d'ingiuriarlo e minacciarlo, con gran malcontento d'Amgiad, che avrebbe voluto chiedergli scusa e non osava dirgli nulla. Quando fu l'ora di coricarsi, Bahader preparò un letto sul sofà e si ritirò in una camera di fronte, dove si addormentò subito, stanco di tante fatiche. Amgiad e la dama conversarono ancora per una buona mezz'ora e prima di andare a letto la dama uscì un momento. Passando sotto il vestibolo, udì russare Bahader, e ricordandosi d'aver veduto una sciabola nella sala, nel rientrarvi disse ad Amgiad: «Signore, vi prego di fare una cosa per amor mio.» «Di che si tratta, ed in che posso farvi piacere?», rispose Amgiad. «Fatemi la grazia di prendere questa sciabola», soggiunse, «e di andare a tagliare la testa al vostro schiavo.» «Signora, lasciamo stare il mio schiavo; non merita che voi pensiate a lui; io l'ho castigato, voi lo avete fatto ancor più di me, e ciò basta; d'altra parte sono assai contento di lui.» «Io non mi accontento di ciò», riprese la dama, «voglio che questo briccone muoia, e se non muore per vostra mano, morirà per la mia.» Ciò detto prese la sciabola, la sguainò, e fuggì per eseguire il suo disegno delittuoso. Amgiad la raggiunse sotto il vestibolo, e le disse: «Signora, vi accontenterò, poiché lo desiderate; datemi la sciabola». E, quando ella gli ebbe consegnato l'arma, aggiunse: «Venite, seguitemi senza far rumore, perché non si desti». Entrarono nella camera dove era Bahader, ma invece di ferire lui, Amgiad colpì la dama e le tagliò la testa, che rotolò su Bahader. Il gran scudiero, svegliatosi di soprassalto, si meravigliò di vedere Amgiad con la sciabola insanguinata, mentre il corpo della dama giaceva decapitato per terra e gliene chiese il motivo. Amgiad gli raccontò come fosse andata la cosa, terminando così il suo discorso: «Per impedire a questa pazza di togliervi la vita, non ho trovato altro mezzo che quello di ucciderla». «Signore», rispose Bahader pieno di riconoscenza, «le persone del vostro grado e generose come voi non sono capaci di favorire azioni così inique. Voi siete il mio liberatore, e io non potrò mai ringraziarvene abbastanza.» Dopo averlo abbracciato per dimostrargli quanto gli fosse grato, gli disse: «Prima che faccia giorno occorre trasportare questo cadavere fuori di qui e lo farò subito». Amgiad vi si oppose, dicendo che toccava a lui farlo, poiché aveva commesso l'omicidio: ma Bahader soggiunse: «Un nuovo venuto in questa città, come voi non vi riuscirebbe. Lasciate fare a me e restate qui a riposarvi. Se non torno prima di giorno è segno che!a pattuglia mi ha sorpreso: e in questa evenienza vi faccio per Iscritto una donazione della casa e di tutte le suppellettili». Appena Bahader ebbe scritta la donazione la consegnò al principe Amgiad, poi pose il corpo della dama e la testa in un sacco, che si caricò sulle spalle. Cominciò allora a camminare di strada in strada, prendendo la via del mare. Non aveva fatto che pochi passi, quando s'imbatté nel giudice di polizia, il quale faceva di persona la sua ronda. Le genti del giudice l'arrestarono ed aprirono il sacco, nel quale rinvennero il corpo della dama uccisa e la sua testa. Il giudice, riconoscendo il grande scudiero ad onta del suo travestimento, lo condusse a casa, e non osando ucciderlo senza parlarne al re a causa della sua posizione lo portò nella reggia la mattina del giorno seguente. Il re, non appena seppe, dal rapporto del giudice, l'azione iniqua commessa, così infatti appariva dagli indizi, lo coperse di ingiurie, esclamando: «In tal modo uccidi i miei sudditi per saccheggiarli, e ne getti il corpo in mare per nascondere la tua malvagità? Che lo si impicchi all'istante, per liberare la città da simile mostro!». Sebbene Bahader fosse innocente, ricevette la sentenza di morte con tutta la rassegnazione possibile, senza dire nemmeno una parola per difendersi. Il giudice lo condusse e, mentre veniva preparata la forca, mandò ad annunciare pubblicamente per tutta la città la giustizia che si stava per fare a mezzogiorno, di un omicidio commesso dal grande scudiero. Il principe Amgiad, avendo inutilmente atteso il grande scudiero, fu costernato in modo inimmaginabile quando intese quel bando dalla casa in cui era, e disse tra sé: «Se qualcuno deve morire per l'uccisione di una simile donna, sono io, e non il grande scudiero: e io non permetterò mai che l'innocente paghi per il colpevole». Uscì e andò subito nella piazza, dove si doveva fare l'esecuzione. Appena Amgiad vide comparire il giudice, che conduceva Bahader alla forca, andò a presentarsi a lui e gli disse: «Signore, io vengo a dichiararvi e ad assicurarvi che il grande scudiero è innocente dell'uccisione di quella donna. Sono io che ho commesso il delitto, se delitto può dirsi l'aver tolto la vita ad una detestabile donna, che voleva toglierla ad un grande scudiero: ed ecco come è andata la cosa». Quando il principe Amgiad ebbe detto al giudice in qual modo s'era incontrato con la donna all'uscire dal bagno, come ella l'avesse spinto a entrare nella casa di piacere del grande scudiero, e quanto era accaduto fino al momento cui era stato costretto a tagliarle la testa per salvare la vita al grande scudiero, il giudice sospese l'esecuzione e lo accompagnò dal re con quest'ultimo. Il re volle essere informato della cosa dallo stesso Amgiad, che per fargli meglio comprendere la sua innocenza e quella del grande scudiero, profittò dell'occasione per narrargli la sua storia e quella di suo fratello Assad, dal principio, fino al punto in cui gli parlava. Quando il principe ebbe terminato, il re gli disse: «Principe, sono felice che questa occasione mi abbia dato modo di conoscervi, e non solo vi dono la vita con quella del grande scudiero, che lodo per la sua bontà verso di voi, e che ripristino nella sua carica, ma vi nomino anche mio gran visir per compensarvi dell'ingiusto trattamento che vostro padre vi ha fatto subire, anche se egli non ne è colpevole. Riguardo al principe Assad, vi permetto di usare tutta l'autorità che vi ho concessa per ritrovarlo». Dopo che Amgiad ebbe ringraziato il re della città e del paese dei magi, prese possesso dell'ufficio del gran visir, e pose in opera tutti gli espedienti immaginabili per trovare il principe suo fratello, facendo altresì promettere dai banditori pubblici, in tutte le contrade della città, una grande ricompensa a chiunque lo avesse condotto da lui, o gliene avesse data notizia. Mandò anche della gente in campagna: ma, ad onta di tutte queste iniziative, non poté averne nessuna notizia. Intanto Assad stava legato nel carcere dove era stato chiuso dall'iniquo vecchio e Bostàn e Cavàm, figlie del vecchio, lo maltrattavano ogni giorno con la stessa crudeltà. Essendo prossima la solenne festa degli adoratori del fuoco, si equipaggiò la nave che ordinariamente faceva il viaggio alla Montagna del fuoco. Venne caricata di merci, grazie alle cure di un capitano chiamato Bahràm, zelantissimo nella religione dei magi. Quando la nave fu in condizione di partire, Bahràm vi fece imbarcare Assad in una cassa a metà piena di mercanzie, con molte aperture ai fianchi per permettergli di respirare e fece calare la cassa in fondo alla stiva. Prima che la nave salpasse il gran visir Amgiad, fratello di Assad, fu avvertito che gli adoratori del fuoco avevano l'abitudine di sacrificare ogni anno un musulmano sulla Montagna del fuoco, e, temendo che Assad, caduto nelle loro mani, potesse essere destinato a quella cerimonia cruenta, volle visitare la nave. Fece salire tutti i marinai e tutti i passeggeri sul cassero, mentre le sue genti passavano in rivista la nave, senza però trovare Assad. Terminata la visita, la nave uscì dal porto, e quando fu in alto mare, Bahràm fece tirar fuori il principe Assad dalla cassa e lo legò con una catena per essere sicuro che, sapendo di dover essere sacrificato, non si gettasse in mare. Dopo alcuni giorni di navigazione, il vento mutò direzione e aumentò in modo da suscitare una furiosissima tempesta. La nave non solo perse la rotta, ma Bahràm e il suo pilota non sapevano più dove fossero, e temevano ad ogni momento di andare a cozzare contro qualche scoglio. Nel momento culminante della tempesta scoprirono la terra, e Bahràm riconobbe il regno della regina Margiana, e ne ebbe gran dispiacere, poiché quella regina era musulmana, e quindi mortale nemica degli adoratori del fuoco. Non solo non ne ammetteva nei suoi stati, ma non permetteva neppure che qualche loro nave approdasse ai suoi porti. Intanto non era più in potere di Bahràm evitare di approdare nella capitale di quella regina, a meno d'andare a sbattere contro la costa, circondata da spaventevoli scogli. In questa situazione tenne consiglio col suo pilota e coi suoi marinai, dicendo loro: «Amici, voi vedete la necessità cui siamo ridotti: ora bisogna scegliere tra questi due partiti: o farci inghiottire dai flutti o salvarci nel porto della regina Margiana. Ma tutti conosciamo il suo odio implacabile contro la nostra religione e contro tutti quelli che la professano; ella quindi non mancherà d'impadronirsi della nostra nave, e di far uccidere tutti noi. Io vedo un solo rimedio, che forse ci riuscirà. Sono del parere di levare dalla catena il musulmano e di vestirlo da schiavo. Quando la regina Margiana mi farà chiamare davanti a sé, mi domanderà qual è la mia professione, le risponderò che sono mercante di schiavi, che ho venduto tutti quelli che avevo, tranne uno solo che ho serbato per usarne come segretario, poiché sa leggere e scrivere. Ella vorrà vederlo: e siccome è bello, e d'altra parte è della sua religione, ne avrà compassione e non mancherà di propormi di venderglielo, e a questa condizione ci permetterà forse di rimanere nel suo porto fino al ritorno del buon tempo. Se voi avete qualcosa di meglio da suggerire, ditelo». Il pilota e i marinai applaudirono la sua proposta, che venne adottata. Bahràm fece togliere il principe Assad dalla catena, e lo fece vestire riccamente da schiavo, in modo appropriato al grado di segretario della sua nave, sotto il quale voleva presentarlo alla regina Margiana. Appena questa, la quale aveva il suo palazzo in prossimità del mare, con giardino che si estendeva fino alla sponda, ebbe veduto la nave, mandò ad avvertire il capitano di andare a parlarle, e per soddisfare più presto la sua curiosità, andò ad aspettarlo nel giardino. Bahràm, sbarcò col principe Assad, e, dopo aver avuto da lui la promessa che avrebbe confermato di essere il suo schiavo e il suo segretario, venne condotto davanti alla regina Margiana. Si gettò ai piedi di lei, e dopo averle spiegato il motivo gravissimo che l'aveva obbligato a rifugiarsi nel suo porto, le disse di essere mercante di schiavi. Ora però - aggiunse - gli era rimasto solo Assad, che aveva condotto con sé, ma che voleva serbare per sé perché gli servisse da segretario. Assad era subito piaciuto alla regina ed essa fu lieta di sapere che era uno schiavo. Decisa a comprarlo a qualunque prezzo, chiese ad Assad come si chiamasse. «Grande regina», rispose Assad con le lacrime agli occhi, «mi domandate il nome che portavo prima, o quello che porto ora?» «Come!», soggiunse la regina, «avete due nomi?» «Ohimè, è purtroppo vero», replicò Assad, «io mi chiamavo prima Assad (il gloriosissimo) mentre ora mi chiamo Motar (destinato ad essere sacrificato).» Margiana, non potendo penetrare il vero senso di quella risposta, la riferì al capo dei suoi schiavi, e si accorse in pari tempo che egli aveva molta astuzia. «Poiché voi siete segretario», continuò la regina, «non dubito che sappiate scrivere bene; fatemi vedere la vostra scrittura.» Assad munito dell'occorrente per scrivere, poiché Bahràm non aveva dimenticato quei particolari per persuadere la regina della verità di quanto diceva, si trasse un poco in disparte e scrisse queste frasi che si riferivano alla sua miseria. «Il cieco si allontana dalla fossa in cui il chiaroveggente si lascia cadere. L'ignorante s'innalza alla dignità con discorsi che non dicono nulla. Il sapiente giace nella polvere con la sua eloquenza. Il musulmano è nella più grande miseria con tutte le sue ricchezze. L'infedele trionfa in mezzo ai suoi beni. Non si può dunque sperare che le cose cambino, essendo decreto dell'Onnipotente che rimangano sempre in questo stato.» Assad presentò la carta alla regina Margiana che ammirò la moralità delle sentenze, e la bellezza della calligrafia, e non ci fu bisogno d'altro, per infiammare il suo cuore, e destare in lei una vera compassione per lui. Non appena ebbe finito, si rivolse a Bahràm: «Scegliete tra il vendermi questo schiavo, o donarmelo: forse vi sarà più utile la seconda soluzione». Bahràm rispose insolentemente che non aveva bisogno di fare nessuna scelta, e che aveva bisogno del suo schiavo per sé. La regina Margiana, sdegnata da quest'audacia non volle parlar oltre a Bahràm, ma, preso il principe Assad per il braccio lo fece camminare davanti a sé, lo condusse nel palazzo, mandando a dire a Bahràm che avrebbe fatto confiscare tutte le mercanzie, e mettere il fuoco alla sua nave in mezzo al porto, se vi passava la notte. Bahràm fu costretto a ritornare alla nave tutto confuso, per far preparare ogni cosa per la partenza, quantunque la tempesta non fosse interamente placata. La regina Margiana, dopo aver comandato, entrando nel suo palazzo, che si servisse prontamente la cena, condusse Assad nel suo appartamento, dove lo fece sedere vicino a sé, benché egli volesse esentarsene, dicendo che non era adatto a uno schiavo tale onore. «A uno schiavo?», esclamò la regina, «un momento fa lo eravate, ma ora non lo siete più! Sedetevi vicino a me, vi dico, e raccontatemi la vostra storia; perché quanto avete scritto per farmi vedere la vostra scrittura e l'insolenza di quel mercante, mi fanno immaginare cose straordinarie.» «Potente regina, la maestà vostra non s'inganna; la mia storia è veramente straordinaria, più di quanto potreste immaginare. I mali i tormenti incredibili che ho sofferto, e il genere di morte al quale ero destinato, e da cui mi avete liberato con la vostra generosità regale, vi dimostreranno fino a che punto mi avete beneficiato. Non lo dimenticherò mai. Ma prima di venire a questi particolari orribili vorrete concedermi di parlarvi dell'origine dei miei mali.» Dopo questo preambolo, Assad cominciò ad informarla della sua nascita regale, e di quella di suo fratello Amgiad, della reciproca amicizia, della riprovevole passione delle loro madri, che, trasformandosi in odio acerrimo, aveva dato origine al loro strano destino. Disse poi della collera del re loro padre, del modo quasi miracoloso con cui avevano ottenuta salva la vita; e da ultimo della perdita di suo fratello, della sua prigionia lunga e dolorosa, dalla quale non era uscito se non per essere immolato sulla Montagna del fuoco. Quando Assad ebbe terminato il suo discorso, la regina Margiana, sdegnata più che mai contro gli adoratori del fuoco, gli disse: «Principe, ad onta dell'avversione che ho sempre avuto contro gli adoratori del fuoco, ho sempre cercato di comportarmi con molta umanità: ma dopo il trattamento barbaro che vi hanno fatto subire e l'esecrabile loro disegno di sacrificare come vittima la vostra persona al loro fuoco, io dichiaro loro da questo momento una guerra implacabile!». Voleva continuare su questo argomento, ma vedendo servita la cena, si mise a tavola col principe Assad, lieta di vederlo e sentirlo e già presa per lui da una passione che si riprometteva di fargli conoscere ben presto. «Principe», gli disse, «bisogna ben compensarvi di tanti digiuni e di tanti cattivi pasti che gli spietati adoratori del fuoco vi hanno fatto fare. Voi avete bisogno di nutrimento dopo tante sofferenze.» Nel dirgli queste parole ed altre pressoché simili, gli serviva da mangiare e gli versava da bere senza interruzione. Il pasto durò a lungo, e il principe Assad bevve più di quanto potesse sopportare. Quando la mensa fu tolta, Assad ebbe bisogno di uscire, e colse l'occasione in cui la regina non poté accorgersene, discese nel cortile e vedendo aperta la porta del giardino, vi entrò, attirato dalle sue svariate bellezze, e vi passeggiò per un buon pezzo. Giunto fino ad una fontana che ne era il più bello ornamento, vi si lavò le mani ed il viso per rinfrescarsi, e nel riposarsi sulle zolle da cui la fontana era circondata, vi si addormentò. La notte intanto s'approssimava, e Bahràm, non volendo dar modo alla regina Margiana di eseguire la sua minaccia, aveva già levato l'àncora, assai dolente della perdita fatta di Assad, e di esser restato deluso nella speranza di farne un sacrificio. Cercava però, nonostante tutto, di consolarsi dicendo che la tempesta si era molto calmata. Appena fu fuori dal porto con l'aiuto della sua scialuppa, prima di tirarla a bordo della nave, disse ai marinai: «Amici, aspettate; non risalite ancora: vi farò dare dei barili per prendere dell'acqua e vi aspetterò qui sulla nave». I marinai volevano rifiutare perché non sapevano dove andare: ma poiché Bahràm aveva parlato alla regina nel giardino, e vi aveva notato la fontana, aggiunse: «Andate ad approdare davanti al giardino del palazzo, scalate il muro e troverete da rifornirvi sufficientemente di acqua nella vasca in mezzo al giardino». I marinai andarono a sbarcare dove Bahràm aveva detto loro, e scalarono agevolmente il muro. Avvicinandosi alla fontana, scorsero un uomo addormentato, s'avvicinarono a lui e riconobbero Assad: mentre gli uni prendevano alcuni barili di acqua col minor rumore possibile, gli altri circondavano Assad e gli fecero la guardia, nel caso si svegliasse. Egli ne dette loro tutto il tempo e appena i barili furono pieni, alcuni se li caricarono sulle spalle, mentre gli altri afferrarono Assad e lo condussero con loro e senza dargli il tempo di riconoscerli, l'imbarcarono coi loro barili, trasportandolo sulla nave a forza di remi. Là giunti gridarono festosamente: «Capitano, fate battere i vostri tamburi, vi riconduciamo il vostro schiavo». Bahràm, non potendo capire come i suoi marinai avessero potuto ritrovare e riprendere Assad, attese con impazienza per sapere che cosa volessero dire, ma quando l'ebbe visto non poté trattenere la sua gioia; e senza informarsi su come avessero agito per fare una così bella cattura, lo fece rimettere alla catena, e avendo fatto tirare sollecitamente la scialuppa a bordo, ordinò di partire ripigliando la direzione della Montagna del fuoco. La regina Margiana intanto, quando s'accorse che il principe Assad era uscito, pensando che sarebbe ritornato ben presto, non provò dapprima alcuna inquietudine; ma poi vedendo che non tornava, cominciò ad essere molto angustiata. Comandò allora alle sue donne di andare a vedere dove fosse, ma queste lo cercarono inutilmente. Venne la notte e le donne continuarono le loro ricerche portando dei lumi. Impaziente e addolorata, Margiana andò a cercarlo personalmente, e avendo visto la porta del giardino aperta, vi entrò e lo percorse con le sue donne. Cartina dell'Arabia SauditaPassando vicino alla fontana notò una pantofola sull'erba; la fece raccogliere, e riconobbe una di quelle del principe; ciò la convinse che Bahràm l'aveva fatto rapire; per cui mandò subito a vedere se fosse ancora nel porto. Seppe che egli era salpato verso mezzanotte ma che si era poi fermato qualche tempo presso la spiaggia, mentre una scialuppa era andata a far provvista d'acqua nel giardino. Allora mandò ad avvertire il comandante di dieci navi da guerra, che erano nel porto sempre equipaggiate e pronte a partire al primo cenno, che voleva imbarcarsi di persona all'una del giorno successivo. Il comandante preparò tutto, riunì i capitani, gli altri ufficiali, i marinai e i soldati, e tutto fu pronto per l'ora indicata. Ella s'imbarcò, e quando la flottiglia fu uscita dal porto e cominciò a veleggiare, rivelò le sue intenzioni al comandante, dicendogli: «Voglio che spiegate tutte le vele al vento e inseguite la nave mercantile che è partita dal nostro porto ieri sera. Io ve la dono, se la prenderete, altrimenti ne andrà di mezzo la vostra vita!». Le dieci navi diedero la caccia a quella di Bahràm per due giorni interi, senza vederlo: ma al terzo giorno la scorsero sul fare dell'alba e a mezzogiorno la circondarono. Appena il crudele Bahràm ebbe veduto le dieci navi, immaginò che fosse la flotta della regina Margiana che lo perseguitava. Fece bastonare il principe Assad più del solito: (eppure ogni giorno l'aveva ben bastonato) ma si trovò in grande imbarazzo quando vide che stava per essere circondato; tenere Assad era lo stesso che dichiararsi colpevole; a togliergli la vita, temeva che ne apparisse qualche segno. Finalmente lo fece slegare, e, fattolo salire dal fondo della stiva dove era, comandò che lo conducessero davanti a lui, e gli disse: «Per causa tua sono perseguitato», e dicendo queste parole lo gettò in mare. Il principe Assad sapeva nuotare; si aiutò coi piedi e le mani con tanto coraggio che con l'aiuto della corrente riuscì a raggiungere la terra. Appena giunto a riva ringraziò Dio d'averlo tratto una seconda volta dalle mani degli adoratori del fuoco; poi si spogliò, e dopo aver ben strizzato l'acqua dal suo abito, lo stese su una roccia, dove subito si asciugò. Mentre aspettava, si riposò, deplorando la sua miseria, senza sapere né in che paese fosse, né da che parte dovesse dirigersi. Si rivestì infine e senza allontanarsi troppo dal mare, si mise in cammino fino a che ebbe trovata una strada che seguì per più di dieci giorni errando in un paese disabitato, dove si trovavano solo frutta selvatiche e alcune piante lungo i ruscelli e di questo poco cibo si nutriva. Giunse finalmente vicino a una città che riconobbe: era la città dei magi, la stessa dove era stato tanto maltrattato, e dove suo fratello Amgiad era gran visir. Ne provò molta gioia: ma fece il proposito di non avvicinarsi ad alcun adoratore del fuoco ma solo a qualche musulmano, perché si ricordava di averne osservato qualcuno nella città, la prima volta. Siccome era tardi, e le botteghe erano tutte chiuse, pensò di sostare nel cimitero vicino alla città, dove c'erano alcuni sepolcri a forma di mausolei. Cercando, ne trovò uno aperto e vi entrò, con l'intenzione di passarvi la notte. Torniamo alla nave di Bahràm, che, non appena Assad fu gettato in mare fu assalito da tutte le parti dalle navi della regina Margiana. Bahràm non essendo in grado di opporre resistenza, fece ammainare le vele per mostrare che si arrendeva. La regina Margiana passò ella medesima sulla nave e chiese a Bahràm dove fosse il segretario, che aveva avuto la temerarietà di rapire, o di far rapire dal suo palazzo. «Regina», rispose Bahràm, «io giuro alla maestà vostra che la persona in questione non è sulla mia nave; può farlo cercare e dovrà riconoscere la mia innocenza.» Margiana fece perlustrare la nave con tutta la scrupolosità possibile, ma non si trovò colui che desiderava tanto appassionatamente sia perché lo amava, sia perché era naturalmente generosa. Fu sul punto di uccidere Bahràm con le sue stesse mani: ma si trattenne, contentandosi di confiscare la nave insieme a tutto il carico, e di rimandare lui per via di terra con tutti i suoi marinai, lasciandogli la scialuppa per sbarcare. Bahràm, accompagnato dai suoi marinai, giunse alla città dei magi nella stessa notte in cui Assad si era fermato nel cimitero, e dormiva nel sepolcro. Siccome la porta della città era chiusa, fu anche egli costretto a cercare nel cimitero qualche tomba per aspettare il giorno. Per disgrazia d'Assad, Bahràm passò davanti a quella dove egli si era rifugiato, e entrandovi, vide un uomo avvolto nel suo mantello. Assad si svegliò al rumore, ed alzando la testa domandò chi fosse. Bahràm subito lo riconobbe, e gli disse: «Ah! ah! Voi siete dunque la causa per cui sono rovinato per tutto il resto della mia vita? Non siete stato sacrificato quest'anno ma non mancherete di esserlo l'anno venturo». Dicendo queste parole, si gettò su lui, gli mise un fazzoletto sulla bocca, per impedirgli di gridare, e lo fece legare dai suoi marinai. L'indomani, appena la porta della città fu aperta, Bahràm ricondusse Assad nella casa del vecchio mago, informandolo della triste ragione del suo ritorno, e della fine sciagurata del suo viaggio. L'iniquo vecchio non dimenticò di raccomandare alle sue due figlie di maltrattare lo sfortunato principe più di prima, se era possibile. Assad fu estremamente sorpreso di ritrovarsi nello stesso luogo dove aveva già tanto sofferto, e, nell'attesa degli stessi tormenti da cui aveva creduto di essere liberato per sempre, piangeva sulla durezza del suo destino, quando vide entrare Bostàn con un bastone, un pane ed un secchio d'acqua. Fremette alla vista di quella spietata e al pensiero dei supplizi giornalieri, che avrebbe dovuto ancora soffrire per un anno intero, per morire poi in un modo così orribile. Bostàn trattò lo sciagurato principe con tanta crudeltà, quanta ne aveva usata durante la sua precedente prigionia. I lamenti, i pianti, le preghiere di Assad, che la supplicava di risparmiarlo, versando molte lacrime, furono tali, che Bostàn non poté non esserne commossa e cominciò a piangere con lui. «Signore», gli disse, ricoprendogli le spalle, «vi domando perdono per la crudeltà con cui vi ho trattato finora! Fino a questo momento non ho potuto disobbedire a un padre ingiustamente sdegnato contro di voi, ed accanito nel volervi perdere: io odio e detesto queste barbarie. Consolatevi, i vostri mali sono finiti e io cercherò di riparare a tutti i miei delitti, di cui conosco l'enormità, trattandovi d'ora in poi in modo diverso! Voi m'avete giudicata finora come una infedele, ma sappiate che sono musulmana, e che in questa religione sono stata istruita per qualche tempo da una schiava; spero che vorrete continuare quanto essa ha incominciato. Per provarvi la mia buona fede, chiedo perdono al vero Dio di tutte le offese che vi ho fatto subire, e nutro la speranza che egli vorrà farmi trovare il mezzo per rimettervi in libertà.» Questo discorso fu di grande consolazione per Assad, che rese grazie a Dio d'aver toccato il cuore di Bostàn, e, dopo averla ringraziata dei buoni sentimenti che nutriva per lui, terminò di istruirla nella religione musulmana, e le narrò la sua storia e tutte le sue disgrazie rivelandole anche l'alto grado della sua nascita. Quando fu definitivamente certo della sua fermezza nella buona risoluzione presa, le domandò come avrebbe fatto per impedire a sua sorella Cavàm di venire a maltrattarlo a sua volta. «Questo non vi inquieti!», rispose Bostàn. «Farò in modo che essa non vi veda più!» Difatti Bostàn seppe sempre prevenire Cavàm ogni qualvolta ella voleva scendere nel nascondiglio, e, vedendo spessissimo il principe Assad, invece di portargli pane ed acqua, gli portava delle buone vivande e del buon vino, facendo preparare questi cibi da dodici schiave musulmane che la servivano. Essa mangiava di quando in quando con lui, e faceva di tutto per consolarlo. Alcuni giorni dopo, mentre Bostàn si trovava sulla soglia di casa, udì un banditore che leggeva pubblicamente il seguente bando ad alta voce: «L'eccellente ed illustre gran visir in persona, cerca il suo fratello, separato da lui da più di un anno! Egli è fatto in tale e tal modo. Se qualcuno lo tiene in casa o sa dove sia, sua eccellenza comanda che glielo conduca o gliene dia avviso, con promessa di un buon compenso. Se qualcuno lo nasconde e non vuole consegnarlo, sua eccellenza dichiara che punirà con la morte lui e la sua famiglia e ne farà demolire la casa!». Bostàn, non appena ebbe udite queste parole, chiuse in fretta la porta e andò a trovare Assad nel suo carcere, dicendogli con gioia: «Principe, le vostre disgrazie sono finite, seguitemi senza por tempo in mezzo!». Assad, al quale aveva tolto la catena fin dal primo giorno in cui era stato ricondotto in quel carcere, la seguì fino in strada. Vi era appena giunta quando essa gridò: «Eccolo! eccolo!». Il gran visir si voltò, e Assad, riconoscendo il fratello, corse a lui, e l'abbracciò. Amgiad, che ugualmente lo riconobbe subito, lo accolse teneramente, lo fece montare sul cavallo di un suo ufficiale, e lo condusse trionfalmente al palazzo, dove lo presentò al re, il quale lo fece tosto visir. Bostàn non aveva voluto rimanere nella casa di suo padre, che peraltro venne demolita lo stesso giorno, e fu mandata nell'appartamento della regina. Il vecchio mago e Bahràm, condotti davanti al re, furono condannati alla decapitazione. Essi si gettarono ai suoi piedi implorando la sua clemenza: ma il re rispose loro: «Non può esserci grazia per voi se non rinunciate all'adorazione del fuoco, e non abbracciate la religione musulmana!». Quelli si salvarono la vita appigliandosi a questo partito, insieme a Cavàm, sorella di Bostàn, e alle loro famiglie. Tenendo conto del fatto che Bahràm si era fatto musulmano, Amgiad, che lo voleva ricompensare della perdita fatta prima di meritare la sua grazia, lo elesse tra i suoi primi ufficiali e l'accolse in casa sua. Bahràm, informato pochi giorni dopo della storia d'Amgiad suo benefattore e d'Assad suo fratello, propose loro di far equipaggiare una nave, e di ricondurli al re Qamar az-Zamàn loro padre, dicendo: «Indubbiamente a quest'ora avrà riconosciuta la vostra innocenza, e desidererà rivedervi: ma se ciò non fosse, non sarà difficile fargliela riconoscere prima di sbarcare; se invece egli persiste nella sua ingiusta prevenzione, non avrete che da ritornare qui». I due fratelli accettarono l'offerta di Bahràm, e ne parlarono al re, il quale accordò la sua approvazione, ordinando di equipaggiare una nave: il che Bahràm fece con tutta la sollecitudine possibile. Quando fu pronto a salpare, i principi andarono a prendere commiato dal re il giorno prima dell'imbarco. Ma, mentre lo salutavano e lo ringraziavano della sua bontà, si udì un gran tumulto in tutta la città, e in pari tempo un ufficiale venne ad annunziare che un grande esercito si avvicinava, e nessuno sapeva darne informazioni. Amgiad prese la parola e disse: «Sire, quantunque io mi sia dimesso dalla dignità di vostro primo ministro, di cui m'avete onorato, pure sono pronto a rendervi servizio; quindi vi supplico di permettermi di andare a vedere chi sia questo nemico che viene ad assalirvi fino dentro la vostra capitale, senza avervi prima dichiarato guerra». Il re contento di questa proposta acconsentì, ed egli partì subito con poco seguito. Il principe Amgiad non dovette faticare molto per scoprire l'esercito: esso gli parve potente e continuava ad avanzare. L'avanguardia che aveva avuto ordini precisi, lo ricevette favorevolmente, e lo condusse davanti a una principessa. Amgiad le fece una profonda riverenza, e le chiese se venisse come amica, o come nemica, e quali motivi di sdegno avesse contro il re suo signore. «Io vengo come amica», rispose la principessa, «e non ho alcun motivo di malcontento contro il re dei magi. Vengo solo a domandare uno schiavo chiamato Assad, che mi fu rapito da un capitano di questa terra chiamato Bahràm, il più insolente tra gli uomini: spero che il vostro re mi farà giustizia, quando saprà che sono la regina Margiana!» «Potente regina», rispose il principe Amgiad, «sono il fratello dello schiavo che voi cercate con tanta premura. Io l'avevo perduto e da poco tempo l'ho ritrovato. Venite, ve lo consegnerò io stesso, e avrò l'onore di raccontarvi il rimanente delle sue avventure. Anche il re mio padrone sarà lieto di vedervi.» Mentre l'esercito della regina Margiana si fermava in quel posto per ordine di lei, il principe Amgiad l'accompagnò alla città e al palazzo. Dopo che l'ebbe presentata al re, il quale l'accolse come meritava, il principe Assad, che era presente e l'aveva subito riconosciuta, le presentò i suoi omaggi. Ella gli dimostrò grande gioia rivedendolo, ma in quel momento vennero a dire al re che un esercito più formidabile del primo si scorgeva da un altro lato della città. Il re dei magi, spaventato ancor più della prima volta, disse ad Amgiad con accento di dolore: «Amgiad, che succede mai? Ecco un secondo esercito che viene ad opprimerci». Amgiad salì subito a cavallo e corse a briglia sciolta incontro a quel nuovo esercito. Chiese ai primi in cui s'imbatté, di parlare a colui che lo comandava, e venne condotto davanti a un re, come poté arguire dalla corona che portava in testa. «Io mi chiamo Ghayùr e sono re della Cina! Il desiderio di avere notizie della mia figlia chiamata Budùr e maritata da diversi anni al principe Qamar az-Zamàn, figlio di Shahzamàn re dell'isola dei Figli di Kaledan, mi ha obbligato ad uscire dai miei stati. Io avevo permesso a quel principe di andare da suo padre, a condizione che sarebbe venuto da me ogni anno con la mia figlia; pure da molti anni non ho più sentito parlare di loro. Il vostro re farebbe un grandissimo favore a un afflitto padre se potesse dargliene qualche notizia o se sapesse dove potrei trovare questo principe. Il principe Amgiad, riconoscendo nel re Ghayùr il suo nonno, gli baciò con tenerezza la mano dicendogli: «Sire la maestà vostra mi perdonerà questa libertà, quando saprà che faccio ciò per rendervi i dovuti omaggi come mio nonno. Io sono figlio di Qamar az-Zamàn, oggi re dell'isola d'Ebena, e della regina Budùr, per cui siete stato tanto in pena. Il re della Cina, lieto di vedere suo nipote, l'abbracciò teneramente, e quest'incontro così inaspettato li fece piangere ambedue. Il re domandò poi ad Amgiad quale fosse la causa che l'aveva condotto in quel paese straniero, e il principe gli raccontò tutta la sua storia e quella d'Assad suo fratello. Quando ebbe terminato il re della Cina soggiunse: «Figlio mio, non è giusto che i principi innocenti come voi siano così maltrattati. Consolatevi, io ricondurrò voi e vostro fratello e vi farò fare la pace. Ritornate al palazzo ed annunziate il mio arrivo a vostro fratello». Mentre il re della Cina faceva accampare il suo esercito nel luogo dove Amgiad l'aveva incontrato, questi tornò a dar la risposta al re dei magi che lo aspettava con grande impazienza, e fu estremamente sorpreso nel sentire che un re così potente come quello della Cina, avesse intrapreso un viaggio tanto lungo e penoso, spinto a questo dal solo desiderio di rivedere sua figlia. Dette subito ordini perché fosse preparato un banchetto e si dispose ad andare personalmente a riceverlo. Nel frattempo si vide alzarsi una gran polvere da un altro lato della città, e si seppe ben presto che era un terzo esercito che arrivava: il che obbligò il re a pregare nuovamente il principe Amgiad di andare a vedere che cosa mai volesse. Amgiad partì e questa volta l'accompagnò anche il principe Assad. Giunti sul luogo, seppero da alcuni esploratori che quello era l'esercito del re Qamar az-Zamàn, che veniva a cercarli. Egli aveva dimostrato un così grande dolore per averli puniti, che alla fine l'emiro Giondàr non aveva potuto fare a meno di confessargli in qual modo avesse loro conservata la vita. Non appena i due principi s'incontrarono col re Qamar az-Zamàn, si fecero subito riconoscere, e quel padre afflitto li abbracciò, versando per la gioia fiumi di lacrime, che posero piacevolmente fine a quelle tristi sparse per tanto tempo. Dopo che ognuno ebbe dato sfogo alla propria gioia, i due principi dissero al padre che nello stesso giorno era giunto il re della Cina suo suocero. Il re Qamar az-Zamàn appena saputo questo si allontanò da loro e con poco seguito andò a fargli visita nel suo campo. Non aveva fatto molto cammino quando scorse un quarto esercito che avanzava in bell'ordine, e sembrava venire dalla Persia. Qamar az-Zamàn disse ai principi suoi figli d'andare a vedere che esercito fosse, mentre egli li attendeva in quel luogo. Essi partirono subito, e al loro arrivo furono presentati al re, a cui l'esercito apparteneva: e dopo averlo profondamente salutato, gli chiesero con quali intenzioni si fosse tanto avvicinato alla capitale del re dei magi. Il gran visir, che era presente, prese la parola e così rispose: «Questo sovrano, è Shahzamàn, re dell'isola dei Figli di Kaledan, che viaggia da molto tempo, cercando il principe Qamar az-Zamàn suo figlio, che è uscito dai suoi stati molti anni or sono. Se voi potete dargliene qualche notizia, gli fareste il più gran piacere». I principi risposero che avrebbero subito portata la risposta, e ritornarono a briglia sciolta ad annunciare a Qamar az-Zamàn che l'esercito giunto allora era quello del re Shahzamàn, e che egli stesso in persona lo comandava. Lo stupore, la sorpresa, la gioia e il dolore d'aver abbandonato suo padre senza prendere commiato da lui, produssero una così viva commozione nell'animo del re Qamar az-Zamàn, che cadde svenuto appena seppe che egli era così vicino. Recuperati finalmente i sensi, per le cure dei principi Amgiad ed Assad, quando si sentì abbastanza in forze, andò a gettarsi ai piedi del re Shahzamàn. Da lungo tempo non s'era veduto un incontro così affettuoso tra padre e figlio! Shahzamàn rimproverò cortesemente il re Qamar az-Zamàn dell'insensibilità che aveva dimostrato nell'allontanarsi da lui in un modo così crudele, e Qamar az-Zamàn mostrò un vero dispiacere per quella colpa che aveva commessa per amore. I tre re e la regina Margiana restarono tre giorni alla corte del re dei magi, che li ospitò con molta magnificenza! In questo tempo avvennero le nozze del principe Assad con la regina Margiana e del principe Amgiad con Bostàn, che se l'era meritato, salvando il principe Assad. Finalmente i tre re e la regina Margiana col suo sposo, si ritirarono ciascuno nel proprio regno. Quanto ad Amgiad, il re dei magi che gli si era affezionato, e che era già molto avanzato in età, gli pose la sua corona sul capo, e Amgiad s'applicò interamente a distruggere il culto del fuoco e a ristabilire la religione musulmana nei suoi stati. Guadagnare navigando! Acquisti prodotti e servizi. Guadagnare acquistando online. Gmap Iraq e ...
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