Le Mille e Una Notte Storia del Facchino di Bagdad.

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LE MILLE E UNA NOTTE - STORIA DEL FACCHINO DI BAGDAD

Sire - cominciò Shahrazàd, rivolgendosi al sultano - sotto il regno del califfo Harùn-ar-Rashìd, viveva a Bagdàd un facchino, che malgrado il suo faticoso mestiere, era un uomo spiritoso e allegro.

Un bel mattino mentre si trovava come al solito con una grande cesta in una piazza aspettando che qualcuno avesse bisogno dei suoi servizi, una signora di bell'aspetto, coperta con un gran velo di mussola, gli si avvicinò e gli disse con grazia:

"Su facchino, prendi la tua cesta e seguimi".

Il facchino, meravigliato dalle parole pronunciate così dolcemente, prese subito la cesta, se la mise in capo, e seguì la donna, dicendo:

"O giorno fortunato! O incontro felice!".

Dapprima la donna si fermò davanti a una porta e bussò.

Un cristiano, dalla venerabile barba lunga e bianca, aprì, ed ella gli mise del denaro nelle mani senza dirgli parola.

Ma il cristiano, che sapeva ciò che lei voleva, rientrò e poco dopo portò una grossa brocca di vino eccellente.

"Prendi questa brocca", disse la signora al facchino, "e mettila nella tua cesta".

Fatto ciò, gli comandò di seguirla, e il facchino ubbidì, continuando a ripetere:

"O giorno fortunato! O incontro felice!".

La signora si fermò alla bottega di un venditore di frutta e di fiori, scelse mele, albicocche, pesche, cotogne, limoni, cedri, aranci, mirto, basilico, gelsomini e ogni qualità di fiori e di piante profumate, e disse al facchino di metter tutto nella cesta e di seguirla.

Passando davanti alla bottega di un macellaio, si fece pesare venticinque libbre della più bella carne che avesse, e il facchino, per suo ordine la pose nella cesta.

In un'altra bottega prese dei capperi, della serpentaria, dei cetriolini, della sassifraga e altre erbe sott'aceto:

in un'altra pistacchi, mandorle, noci, nocciole, pinoli e altri frutti simili;

in un'altra ancora comprò ogni sorta di pasta di mandorle.

Il facchino, mettendo tutte queste cose nella sua cesta, e osservando che si riempiva disse:

"Bisognava avvertirmi che avreste fatto tante provviste, gentile signora;

avrei preso un cavallo o, meglio, un cammello per portarle.

Se comprerete altro, non ce la farò più a portare tutto!".

La signora rise di questo scherzo, e gli ordinò nuovamente di seguirla.

Entrò da un droghiere e comprò ogni sorta di profumi, dei chiodi di garofano, della noce moscata, del pepe, grossi pezzi d'ambra grigia e molte altre spezie delle Indie.

Tutti questi acquisti finirono di riempire la cesta del facchino, e lei gli disse ancora di seguirla.

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Camminarono, fino a che giunsero a una villa magnifica, la cui facciata era ornata di belle colonne e che aveva una porta d'avorio.

Si fermarono e la signora bussò leggermente.

Mentre la giovane signora aspettava che aprissero la porta della villa, il facchino faceva molte riflessioni.

Era meravigliato che una signora come quella facesse da sé le provviste, perché, vedendole un aspetto così nobile, lui aveva intuito che non era una schiava ma anzi una persona di riguardo.

Le avrebbe fatto volentieri delle domande per scoprire chi fosse, ma mentre si disponeva a parlare, vide un'altra donna, venuta ad aprire la porta, così bella, che ne rimase attonito;

fu così colpito dallo splendore della sua grazia che poco mancò non lasciasse cadere la cesta con tutto quello che vi si trovava, perché non aveva mai visto una bellezza simile a quella.

La signora, che aveva ingaggiato il facchino, si accorse dell'emozione di lui e ne indovinò la causa.

Godette della scoperta e si divertì a esaminare il contegno del facchino, senza pensare che la porta era aperta.

"Entra dunque, sorella", le disse la bella portinaia, "non vedi che questo pover'uomo è così carico, che non ne può più?"

Come fu entrata col facchino, la signora che aveva aperto l'uscio, lo richiuse, e tutti e tre, dopo aver attraversato un bel vestibolo, passarono in un cortile spaziosissimo, circondato da una loggia che metteva in molti magnifici appartamenti a pian terreno.

C'era, nel fondo di questo cortile, un sofà riccamente ornato, e nel mezzo un trono di ambra, sostenuto da quattro colonne d'ebano, incrostate di diamanti e di perle di una grossezza straordinaria, e ornate di raso rosso con un ricamo d'oro delle Indie, di meravigliosa fattura.

Nel centro del cortile c'era una gran fontana di marmo bianco, la cui acqua chiarissima zampillava da una bocca di leone di bronzo dorato.

Il facchino, pur essendo molto carico, non tralasciava di ammirare le bellezze che lo circondavano. La sua attenzione fu soprattutto attirata da una terza signora, che stava seduta sul trono.

Non appena vide le due altre signore, si alzò per andare loro incontro.

Il facchino, notando i riguardi che le altre avevano per lei, pensò che fosse la più importante.

Non s'ingannava.

Questa signora si chiamava Zobeida, quella che aveva aperta la porta si chiamava Sofia, e quella che aveva fatte le provviste, Amina.

Zobeida disse alle due donne, avvicinandosi:

"Sorelle mie, non vedete che questo buon uomo è stanco del fardello che porta?".

Allora Amina e Sofia presero la cesta, una per parte;

Zobeida dette anche lei una mano, e tutte e tre la posarono a terra.

Cominciarono a vuotarla e, ciò fatto, la graziosa Amina prese del denaro, e pagò il facchino, con generosità.

Il facchino molto soddisfatto del denaro avuto, avrebbe dovuto prendersi la cesta e ritirarsi:

ma non poté risolversi a farlo, sentendosi trattenuto dal piacere di ammirare tre bellezze così rare, che gli parevano egualmente incantevoli;

infatti Amina si era tolto il velo e ora non gli sembrava meno bella delle altre.

Egli non poteva capire come mai là dentro non si vedesse nessun uomo, mentre la maggior parte delle provviste portate, come la frutta secca e le differenti specie di dolciumi, facevano pensare a gente che volesse bere e divertirsi.

Zobeida credette dapprima che il facchino si fosse fermato per prender fiato;

ma vedendo che non se ne andava, disse:

"Che aspetti? Non sei stato pagato a sufficienza?", soggiunse, e volgendosi ad Amina, "dategli ancora qualcosa, perché se ne vada contento".

"Signora", rispose il facchino, "non è questo che mi trattiene; sono stato pagato fin troppo per la mia fatica.

Vedo bene che ho commesso una indelicatezza rimanendo qui, più del dovuto:

ma spero che avrete la bontà di perdonare la sorpresa che mi provoca il fatto di non vedere alcun uomo in compagnia di tre donne di una bellezza così poco comune. Una compagnia di donne senza uomini è triste, quanto una compagnia di uomini senza donne."

A questo discorso aggiunse molte cose piacevoli per provare quello che asseriva.

Non dimenticò di citare il proverbio di Bagdàd, che non si sta bene a tavola se non si è in quattro:

e concluse dicendo che, essendo in tre, avevano bisogno del quarto.

Le donne risero del ragionamento del facchino;

poi Zobeida gli disse seriamente:

"Amico, sei un po' troppo indiscreto;

ma benché non meriti alcuna spiegazione, ti dirò che noi siamo tre sorelle e che facciamo così segretamente i fatti nostri che nessuno ne sa nulla.

Abbiamo timore di farne parte agli indiscreti, ed un buon autore da noi letto dice:

"Tieni il tuo segreto e non dirlo ad alcuno:

perché chi lo rivela, non ne è più il padrone!

Se tu non puoi mantenere il tuo segreto, come potrà mantenerlo quello cui l'avrai confidato?".

"Signore mie", riprese a dire il facchino, "avevo giudicato dal vostro contegno che eravate persone di rarissimo merito, e ora mi accorgo che non mi sono ingannato.

Quantunque la fortuna non mi abbia dato ingegno per elevarmi a una professione al disopra della mia, non ho mancato di coltivarmi lo spirito, per quanto ho potuto, con la lettura di libri di scienze e di storia:

e mi permetterete di dirvi che ho letto in un altro autore una massima che ho sempre praticata con successo ed è questa:

"Nascondi il tuo segreto a a gente indiscreta, che abuserebbe della tua fiducia;

ma non temere di rivelarlo a chi è saggio, perché saprà mantenerlo".

Il segreto in me è tanto sicuro, come se fosse chiuso in una stanza, la cui chiave fosse perduta e la porta sigillata."

Zobeida riconobbe che non mancava di spirito, ma pensando che avesse desiderio di partecipare al divertimento, che volevano pigliarsi, gli ripeté sorridendo:

"Tu sai che ci prepariamo a divertirci:

ma sai anche che abbiamo fatto una spesa considerevole, e non è giusto che vi partecipi senza contribuirvi".

La bella Sofia appoggiò il suggerimento della sorella e disse al facchino:

"Amico, non sai ciò che si dice comunemente?

"Se porti qualche cosa, sarai qualche cosa tra noi: se non porti niente, ritirati con niente".

Il facchino malgrado la sua parlantina, sarebbe forse stato obbligato a ritirarsi confuso, se Amina prendendo caldamente la sua difesa, non avesse detto a Zobeida e a Sofia:

"Mie care sorelle, vi scongiuro di permettergli di restare con noi.

Non c'è bisogno di dirvi che ci divertirà:

vi assicuro che senza la sua cortesia, la sua sveltezza ed il suo coraggio, non avrei potuto fare tante compere in così poco tempo:

peraltro se vi ripetessi tutte le cose divertenti che mi ha dette in cammino, non sareste meravigliate della mia difesa".

A queste parole di Amina il facchino, trasportato dalla gioia, si lasciò cadere in ginocchio e baciò la terra ai piedi di quella graziosa signora, e rialzandosi disse:

"Amabile signora, quest'oggi grazie a voi è cominciata la mia felicità, e ora generosamente la colmate.

Non posso esprimervi a sufficienza la mia riconoscenza".

E volgendosi alla tre sorelle, soggiunse:

"Del resto, signore mie, giacché mi fate grande onore, non temete che ne abusi, e mi consideri come un uomo che lo merita: no, io mi considererò sempre come il più umile dei vostri schiavi".

Terminando queste parole, voleva restituire il denaro ricevuto; ma Zobeida gli ordinò di tenerlo.

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"Ciò che è uscito dalle nostre mani",

disse,

"per compensare quelli che ci hanno reso dei favori, non vi ritorna più!..."

Zobeida dunque, non volle riprendere il denaro del facchino, e invece gli disse:

"Amico mio, accettando di tenerti con noi, ti avverto che pretendiamo non solo che serbi il segreto, ma soprattutto che osservi esattamente le regole della cortesia".

Mentre teneva questo discorso, la vezzosa Amina, lasciato il suo abito di città, rialzò la veste per muoversi con più libertà e preparare la tavola.

Apparecchiò molte specie di vivande e sopra una credenza pose delle bottiglie di vino e delle tazze d'oro.

Fatto ciò, le donne si sedettero, e fecero sedere accanto a loro il facchino, soddisfatto al di là di quanto si possa dire nel vedersi a tavola con tre donne d'una bellezza straordinaria.

Dopo i primi bocconi, Amina, che s'era sistemata vicino alla credenza, prese una bottiglia e una tazza, e si mise a mescere, e bevve per prima, secondo il costume degli arabi.

Versò in seguito alle sorelle, che bevvero l'una dopo l'altra:

poi, riempiendo per la quarta volta la stessa tazza, la presentò al facchino che, ricevendola, baciò la mano d'Amina e cantò, prima di bere, una canzone che diceva che, come il vento porta con sé il buon odore dei luoghi profumati per cui è passato, così il vino, che stava per bere, venendo dalle mani di lei, riceveva un gusto più squisito di quello che aveva naturalmente.

Questa canzone rallegrò le signore, che cantarono a loro volta.

Insomma la compagnia fu lietissima durante il pasto, che durò molto tempo, e fu accompagnato da tutto ciò che poteva renderlo piacevole.

Il giorno finiva quando Sofia, parlando in nome di tutte e tre, disse al facchino: "Alzati, ora e vattene, perché è ora che ti ritiri". Il facchino, non potendosi risolvere a lasciarle, rispose: "Care signore, dove volete che vada nello stato in cui sono? Sono fuori di me a forza di bere e di vedervi. Non troverò certo la via di casa. Lasciatemi una notte per rimettermi; la passerò dove vorrete, ma non posso in minor tempo ritornare nello stato in cui ero quando sono entrato qui. E dubito, malgrado ciò, di lasciarvi la parte migliore di me".

Amina prese una seconda volta la parte del facchino, e disse: "Sorelle, ha ragione: gli sono molto grata della domanda che ci fa. Egli ci ha divertite; se volete credermi, o piuttosto se mi amate quanto ne sono persuasa, lasciamo che passi la sera con noi". "Sorella", disse Zobeida, "non possiamo rifiutare nulla alla tua preghiera." E rivolgendosi al facchino, disse: "Vogliamo farti questa grazia: ma poniamo una nuova condizione: qualunque cosa faremo in tua presenza, guardati bene dall'aprire la bocca per domandarne la ragione; poiché, facendoci domande su cose che non ti riguardano per nulla, potresti sapere cose che non ti piacerebbero. Guardati dall'essere troppo curioso, volendo approfondire i motivi delle nostre azioni". "Signore", riprese il facchino, "vi prometto di osservare esattamente queste condizioni, di non darvi motivo di rimproverarmi, e di punirmi se sarò indiscreto. La mia lingua in questa occasione sarà immobile ed i miei occhi saranno come uno specchio che non ritiene nulla delle immagini ricevute." "Per mostrarvi", rispose Zobeida molto seriamente, "che non è una novità ciò che ti domandiamo, alzati e va' a leggere ciò che sta scritto al disopra della nostra porta inferiore." Il facchino andò fin là e lesse queste parole scritte a caratteri d'oro: "Chi parla di cose che non lo riguardano, sente ciò che non gli piace". Ritornò presso le tre sorelle, e disse loro: "Signore mie vi giuro che non mi sentirete parlare di cose che non mi riguardano, e in cui possiate essere interessate". Terminata questa conversazione, Amina portò la cena, e, quando ebbe rischiarato la sala con molti lumi di legno d'aloe e ambra grigia, che spargevano un odore piacevole e insieme illuminavano benissimo, si sedette a tavola con le sorelle e il facchino. Cominciarono a mangiare, a bere, a cantare e a recitar versi.

Le signore si divertivano a ubriacare il facchino, col pretesto di farlo bere alla loro salute. Le buone parole non furono risparmiate; insomma erano allegrissime, quando sentirono picchiare alla porta... Le dame, sentendo bussare, si alzarono tutte a un tempo per andare ad aprire: ma Sofia, ch'era addetta particolarmente a questo, fu la più rapida: le altre, vedendosi prevenute, aspettarono per sapere chi potesse venire così tardi. Sofia tornò e disse: "Sorelle, si offre un'occasione di passare lietamente gran parte della notte, e se siete del mio parere, non ce la lasceremo sfuggire. Vi sono alla nostra porta tre monaci, o almeno all'abito sembrano tali! Ma ciò che di certo vi sorprenderà è che tutti e tre sono ciechi dell'occhio destro e hanno la testa rasata e ugualmente la barba e le sopracciglia. Dicono di esser giunti or ora a Bagdàd ove non sono mai venuti, e siccome per la notte non sanno dove alloggiare, hanno bussato a caso alla nostra porta, e ci pregano per l'amor di Dio di avere la carità di riceverli. Si contentano d'una scuderia. Sono giovani, gentili, sembra che abbiano molto spirito.

Ma non posso pensare senza ridere alla loro figura ridicola". Qui Sofia s'interruppe con uno scroscio di risa tale, che le sorelle e il facchino non poterono a meno di fare lo stesso. "Sorelle", riprese, "vogliamo farli entrare? Ci divertiranno senza nostro incomodo, perché chiedono il ricovero per questa sola notte, avendo intenzione di lasciarci appena fatto giorno." Zobeida ed Amina opposero delle difficoltà alla richiesta di Sofia e lei ne sapeva bene il perché. Ma mostrò tanto desiderio di ottenere questo favore, che le altre non poterono rifiutarglielo. "Va', dunque", disse Zobeida, "e falli entrare. Ma avverti di non parlare di ciò che non li riguarda, e fa che leggano quanto sta scritto sulla porta." Allora Sofia corse lieta ad aprire, e poi tornò coi tre monaci. Essi, entrando, s'inchinarono profondamente alle dame, che s'erano alzate per riceverli e dar loro il benvenuto, e che dichiararono di essere contente di aver occasione di render loro servigio e di ristorarli della fatica del viaggio. Alla fine li invitarono a sedersi vicino a loro. La magnificenza del luogo e la gentilezza delle dame diedero ai monaci un grande concetto delle loro ospiti, ma prima di sedersi, avendo per caso guardato il facchino, e vedendolo vestito pressappoco come un altro ordine di monaci, dai quali differivano in molti punti di disciplina, e che non si radevano la barba e le sopracciglia, uno di loro disse: "Ecco in apparenza uno dei nostri fratelli arabi riformati". Il facchino che aveva la testa scaldata dal vino, si credette offeso da queste parole, e senza muoversi rispose ai monaci, guardandoli fissamente: "Sedetevi, e non vi mischiate in ciò che non vi riguarda. Non avete letto l'iscrizione che è sulla porta? Non pretendete che tutti vivano secondo il vostro costume, vivete piuttosto voi secondo il nostro!". "Buon uomo", riprese il monaco che aveva parlato, "non andate in collera; saremmo dolenti di avervene dato il motivo, e siamo pronti a ricevere i vostri ordini." La disputa avrebbe potuto continuare, ma le signore, frapponendosi, misero pace. Quando i monaci furono seduti a tavola, le signore offrirono loro da mangiare, e la graziosa Sofia si prese la cura particolare di versare da bere.

Dopo che ebbero bevuto e mangiato a volontà, si offersero di fare un concerto, se avevano strumenti e volevano farli portare. Liete le signore accettarono, e la bella Sofia si alzò per andarli a cercare. Tornò subito e presentò loro un flauto del paese, un altro persiano ed un tamburo basco. Ogni monaco ricevette uno strumento e cominciarono tutti e tre a suonare un'aria. Le donne che sapevano le parole di quell'aria dolcissima, l'accompagnarono con la voce, ma di tratto in tratto s'interrompevano con gradi scoppi di risa, per il significato di quelle parole. Sul più bello del divertimento, quando la compagnia era nella massima gioia, bussarono alla porta. Sofia cessò di cantare, e andò a vedere chi fosse. A questo punto sarà bene dire come mai qualcuno bussasse così tardi alla porta di quelle donne; la ragione è questa. Il califfo Harùn ar-Rashìd usava andare in giro in incognito la notte, per sapere se tutto fosse tranquillo nella città, se vi si commettessero disordini; in quella notte era uscito di buon'ora accompagnato da Giàafar, suo gran visir, e da Masrùr, capo degli eunuchi di palazzo, tutti e tre travestiti da mercanti. Passando per la strada dove sorgeva la villa delle tre donne, il principe, udendo il suono degli strumenti e delle voci, e gli scrosci di risa, disse al visir: "Bussate a quella casa, ove si fa tanto rumore; voglio entrare per saperne la causa".

Invano il visir gli disse che quelle erano donne che si divertivano e che il vino aveva probabilmente scaldata loro la testa, che non doveva esporsi a un insulto, che non era quella l'ora opportuna, e che non conveniva turbare il loro divertimento. "Non importa", rispose il califfo, "vi ordino di bussare." Giàafar obbedì. Sofia aprì, e il visir, osservando alla luce della candela che era una donna bellissima, sostenne molto bene la sua parte, le fece una profonda riverenza, e le disse rispettosamente: "Signora, noi siamo tre mercanti di Mussul, arrivati da circa dieci giorni con ricche mercanzie; abbiamo un magazzino dentro un albergo ove siamo alloggiati. Siamo stati oggi da un mercante di questa città, il quale ci ha invitati cortesemente a far colazione; messi in allegria dal vino generoso, il padrone ha fatto venire un drappello di danzatrici. Era già notte e mentre si suonavano gli strumenti, le danzatrici ballavano e la compagnia faceva gran fracasso, passò la guardia e comandò di aprire la porta. Alcuni della brigata furono arrestati, ma noi per fortuna ci salvammo scavalcando un muro". "Ma", soggiunse il visir, "siccome siamo stranieri e un poco ubriachi, temiamo d'incontrare un'altra squadra di guardie o la stessa, prima d'arrivare al nostro klan, che è lontano da qui. Inoltre vi andremmo inutilmente, perché la porta è ormai chiusa fino a domattina; poiché passando abbiamo udito voci e strumenti, abbiamo giudicato che in casa vostra non si riposasse ancora, e ci siamo presi la libertà di bussare per pregarvi di darci ricovero fino a giorno. Se vi sembra che siamo degni di far parte del vostro divertimento, procureremo di contribuire per quanto è in noi e di riparare all'interruzione che vi abbiamo cagionato.

Se no, fateci la grazia di lasciarci trascorrere la notte al coperto, sotto il vostro atrio." Durante il discorso di Giàafar, la bella Sofia ebbe il tempo di esaminare colui che le parlava e le due persone che diceva mercanti come lui: e giudicando dalla fisionomia che non erano persone volgari, disse loro che non era la padrona, ma che se volevano aspettare un momento, sarebbe tornata a portare la risposta. Sofia andò a fare questo rapporto alle sorelle, che esitarono alquanto sul partito da prendere: ma essendo gentili per natura e avendo già fatto la stessa grazia ai monaci, risolvettero di farli entrare. Il califfo, il suo gran visir ed il capo dei suoi eunuchi, introdotti dalla bella Sofia, salutarono le dame e i monaci molto cortesemente. Le dame corrisposero egualmente, credendoli mercanti, e Zobeida, che era la maggiore, disse loro con tono grave e serio, come le si conveniva: "Siate i benvenuti! Ma prima di tutto non abbiatevene a male se vi domandiamo un favore". "Dite pure", rispose il visir. "Si può forse rifiutare qualche cosa a delle signore così belle?" "Vi chiedo", disse Zobeida, "di avere occhi e non lingua; di non farci domande su quello che vedrete, e di non parlare di ciò che non vi riguarda, per evitare di sentire quello che può non esservi gradito." "Sarete obbedita, signora", riprese il visir. "Noi non siamo censori, né curiosi indiscreti: abbiamo abbastanza da pensare a ciò che ci riguarda per non curarci d'altro." A tali parole ciascuno si sedette, la conversazione proseguì e si cominciò a bere in onore dei nuovi venuti. Mentre il visir Giàafar intratteneva le dame, il califfo non si stancava d'ammirarne la bellezza straordinaria, la buona grazia, il buon umore e lo spirito. D'altra parte nulla gli sembrava più singolare dei monaci tutti e tre ciechi dall'occhio destro, e ben volentieri si sarebbe informato di quella singolarità, se la condizione imposta a lui e ai suoi compagni, non gli avesse impedito di fare domande. Ad onta di questo, però, osservando la ricchezza delle masserizie, e la bellezza della casa, non poteva persuadersi che non vi fosse qualche incantesimo in quel luogo. La conversazione essendo caduta sui divertimenti e sui diversi generi di divertimenti, i monaci si alzarono e ballarono una danza, che accrebbe nelle dame il buon concetto che avevano di loro, e che attirò la stima del califfo e della sua compagnia. Terminata la danza, Zobeida si alzò, e prendendo Amina per la mano le disse: "Sorella, alzati; alla brigata non dispiacerà se non cambiamo le nostre abitudini, e la loro presenza non s'opporrà a ciò che siamo solite fare". Amina, che comprese ciò che voleva dire sua sorella, si alzò e tolse i piatti, la tavola, le bottiglie, le tazze e gli strumenti suonati dai monaci.

Sofia non stette senza far nulla. Spazzò la sala, rimise a posto ogni cosa, smoccolò i lumi, vi mise altro legno d'aloe e altra ambra grigia. Ciò fatto, pregò i tre monaci di sedersi sul sofà da un lato ed il califfo dall'altro coi suoi compagni. Al facchino disse: "Alzati, e preparati a darci un aiuto in quel che faremo; un uomo di casa, come sei ormai, non deve starsene inoperoso". Il facchino, avendo già alquanto smaltito il suo vino, si alzò subito, e, dopo essersi attaccato alla cintura il lembo della veste, disse: "Eccomi pronto, di che si tratta?". "Bene", rispose Sofia, "aspetta che ti si parli: non starai molto con le braccia incrociate." Poco dopo si vide comparire Amina con un sedile, che posò in mezzo alla sala, andò poi alla porta di un salottino, e apertala fece segno al facchino di appressarsi e gli disse: "Vieni ad aiutarmi". Lui obbedì, ed essendo entrato con lei, uscì un momento dopo seguito da due cagne nere col guinzaglio attaccato a una catena che lui teneva; parevano trattate a colpi di frusta. Lui avanzò fin nel mezzo della sala. Allora Zobeida andò con gravità dov'era il facchino. "Ora", disse, mandando un gran sospiro, "facciamo il nostro dovere." Si scoprì le braccia fino al gomito, e, dopo aver preso una frusta che le presentò Sofia, disse: "Facchino, dà una di queste cagne ad Amina, e avvicinati a me con l'altra".

Il facchino eseguì l'ordine, e quando fu presso Zobeida, la cagna cominciò a guaire, e si volse a lei alzando la testa in modo supplichevole: ma Zobeida, senza curarsi della cagna che faceva pietà, né dei guaiti che riempivano tutta la casa, la frustò finché fu stanca, poi gettò la frusta per terra; allora, tolse la catena dalle mani del facchino, alzò la cagna per le zampe, e guardandosi con aria triste e commovente, cominciarono a piangere entrambe.

Finalmente Zobeida trasse il fazzoletto, asciugò le lacrime della cagna, e restituendo la catena al facchino, gli disse: "Va, riconducila dove l'hai presa, e portami l'altra". Il facchino ricondusse la cagna frustata nel salottino, e ritornando prese l'altra dalle mani di Amina e la presentò a Zobeida che l'aspettava. "Tienila come la prima", gli disse. Poi, avendo ripigliata la frusta, la maltrattò nello stesso modo. Pianse in seguito con lei, asciugò le sue lacrime, la baciò, e la diede al facchino, a cui la graziosa Amina risparmiò la pena di riportarla nel salottino, perché se ne incaricò personalmente. Intanto i tre monaci, il califfo e la sua compagnia se ne stavano meravigliati, e non potendo comprendere perché Zobeida, dopo aver frustato con tanta furia le cagne (animali immondi secondo la religione musulmana), piangesse poi con loro, asciugando le loro lacrime e baciandole, ne mormoravano fra loro. Il califfo soprattutto, più impaziente degli altri moriva dal desiderio di conoscere la ragione di una cosa che gii sembrava molto strana, e non cessava di far segno al visir d'informarsene. Ma il visir volgeva da un altro lato la testa, fino a che, ripetendosi i segni del suo signore, rispose con altri segni che non era tempo di appagare la sua curiosità. Zobeida restò per qualche tempo ferma in mezzo alla sala per rimettersi della fatica. "Cara sorella", le disse Sofia, "non vuoi tornare al tuo posto, in modo che io possa svolgere a mia volta il mio compito?" "Sì", rispose Zobeida. Così dicendo, andò a sedersi sul sofà; aveva alla sua destra il califfo, Giàafar e Masrùr, e a sinistra i tre monaci e il facchino. Zobeida prese il suo posto e tutta la compagnia stette in silenzio. Infine Sofia, che era seduta sul sedile in mezzo alla sala, disse alla sorella Amina: "Cara sorella, alzati, te ne scongiuro; tu capisci ciò che voglio dire". Amina si alzò, ed andò in un salottino differente da quello dove erano le cagne. Tornò, tenendo un astuccio guarnito di raso giallo, abbellito di un ricco ricamo d'oro e di seta verde. Si avvicinò a Sofia e aprì l'astuccio, donde trasse un liuto e glielo presentò. Essa lo prese, e dopo aver impiegato qualche tempo per accordarlo, cominciò a suonarlo accompagnandolo con la sua voce: cantò una canzone sui tormenti dell'assenza, con tanta dolcezza, che il califfo e tutti gli altri ne furono incantati. Quando ebbe terminato, siccome aveva cantato con molto sentimento e insieme con molta forza, disse alla graziosa Amina: "Tieni, sorella, non ne posso più e mi manca la voce: diverti tu la compagnia, suonando e cantando in mia vece". "Volentieri", rispose Amina appressandosi a Sofia, che le porse il liuto cedendole il posto.

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Amina dopo un breve preludio per vedere se lo strumento era accordato, suonò e cantò sul medesimo soggetto, ma con tanta veemenza (poiché era molto agitata, anzi penetrata dal senso delle parole che cantava) che terminando le vennero meno le forze. Zobeida volle esprimerle la sua soddisfazione, e le disse: "Sorella, sei stata bravissima. Si vede che senti davvero quello che canti". Amina non ebbe tempo di rispondere a questa cortesia. Essa si sentiva il cuore così angustiato, che si aprì le vesti per poter respirare meglio, lasciando vedere a tutta la compagnia un seno, non bianco quale avrebbe dovuto averlo una donna come lei, ma tutto pieno di cicatrici: questa vista produsse una specie d'orrore nell'animo degli spettatori. Ciò non le diede alcun sollievo, né le impedì di svenire... Zobeida e Sofia corsero a soccorrere la sorella, e uno dei monaci non poté trattenersi dal dire: "Avremmo preferito dormire all'aperto, anziché entrar qui a vedere simili spettacoli". Il califfo lo udì e chiese: "Che vuol dire ciò?". Quegli che aveva parlato rispose: "Signore, non lo sappiamo neppure noi". "Come", riprese il califfo, "voi non siete della casa? E non potete dirci nulla di quelle due cagne nere, così indegnamente maltrattate, e di quella donna svenuta?" "Signore", risposero i monaci, "giuriamo sulla nostra vita che siamo venuti in questa casa solo qualche momento prima di voi." Ciò accrebbe la meraviglia del califfo. "Forse", replicò, "quest'uomo che è con voi, ne sa qualche cosa?" Uno dei monaci fece segno al facchino di avvicinarsi e gli domandò se sapesse perché le cagne nere erano state frustate e perché il seno di Amina sembrava lacerato. "Signore", disse il facchino, "posso giurare davanti a Dio vivente, che se voi non sapete nulla di ciò, non ne so più degli altri. E' vero che io sono di questa città, ma sono entrato qui oggi soltanto e se siete meravigliati di vedermici, anch'io lo sono di trovarmi in vostra compagnia.

Quel che accresce la mia sorpresa è di non aver trovato nessun uomo con queste donne!" Il califfo, la sua compagnia e i monaci avevano creduto che il facchino fosse di casa e che potesse informarli su quanto desideravano sapere. Il califfo, risoluto ad appagare la sua curiosità a qualunque costo, disse agli altri: "Ascoltate: poiché siamo sette uomini di fronte a tre donne, obblighiamole a darci i chiarimenti che desideriamo: se mai si opponessero siamo in grado di costringerle". Il gran visir Giàafar si oppose a questo consiglio, e ne mostrò al califfo le conseguenze, senza però rivelare l'identità del principe ai monaci. "Considerate, signore, vi prego, che noi dobbiamo conservare la nostra reputazione. Voi sapete a quali condizioni ci hanno ricevuto queste donne, e noi abbiamo accettato. Che si direbbe di noi, se non mantenessimo il patto?" Indi il visir tirò da parte il califfo, e parlandogli sommessamente gli disse: "Signore, vostra maestà abbia un poco di pazienza, perché la notte non durerà molto tempo. Domattina verrò a prendere queste donne, le trascinerò dinanzi al trono, e saprete da loro quanto vi piacerà". Quantunque questo consiglio fosse molto saggio, il califfo lo respinse, e fece tacere il visir perché voleva all'istante la spiegazione di quel mistero. Il califfo cercò di far parlare prima i monaci; ma essi se ne scusarono. Infine convennero tutti che parlasse il facchino. Questi si preparava a fare la domanda fatale, quando Zobeida, dopo aver soccorso Amina, che era rinvenuta dallo svenimento, si avvicinò a loro, e poiché li aveva sentiti discutere, chiese: "Signori, di che parlate? Qual è il motivo della vostra disputa?".

Il facchino allora parlò: "Signora", disse, "questi signori vi supplicano di voler loro spiegare perché, dopo aver maltrattate le vostre due cagne, avete pianto con loro; e perché la donna svenuta ha il seno coperto di cicatrici. Questo è quanto sono incaricato di domandarvi, a loro nome". Zobeida prese a queste parole un atteggiamento fiero e disse: "Signori, è vero che lo avete incaricato di fare questa domanda?". Tutti risposero di sì, eccettuato il visir Giàafar che non disse parola. A questa confessione ella soggiunse con ira che mostrava quanto fosse offesa: "Prima di accordarvi la grazia di ricevervi, allo scopo di prevenire ogni causa di scontento, vi abbiamo posto la condizione di non parlare di ciò che non vi riguardava, per paura di udire quel che non vi piacerebbe. Dopo essere stati trattati nel miglior modo possibile, voi avete mancato alla parola; il vostro modo di agire non è gentile". Dette queste parole, batté tre volte coi piedi e con le mani e gridò: "Presto, venite!". Allora si aprì una porta, e sette schiavi negri, forti e robusti, entrarono colle sciabole in mano, presero uno per uno i sette uomini della compagnia, li gettarono a terra, li tennero in mezzo alla sala, e si prepararono a decapitarli. E' facile immaginare quale fosse lo spavento del califfo. Si pentì allora, ma troppo tardi, di non aver voluto seguire i consigli del suo visir. Intanto uno degli schiavi disse a Zobeida e alle sorelle: "Alte, potenti e rispettabili signore, mi comandate di tagliar loro la testa?". "Aspettate", disse Zobeida, "bisogna che prima li interroghi." "Signora", interruppe spaventato il facchino, "in nome di Dio, non mi fate morire per un delitto altrui: io sono innocente, sono loro i colpevoli. Ahimè", continuò piangendo, "noi passavamo il tempo così dolcemente! Questi monaci guerci sono la cagione di tale sventura: non vi è città che non cada in rovina con gente di cattivo augurio. Signora, vi supplico, di non confondere il primo con l'ultimo: e pensate che è meglio perdonare a un miserabile come io sono, privo d'ogni soccorso, anziché opprimerlo col vostro potere e sacrificarlo per il vostro risentimento." Zobeida, ad onta della collera, non poté trattenere il riso ai lamenti del facchino, ma senza arrestarsi, rivolse la parola agli altri una seconda volta, e disse: "Rispondete e ditemi chi siete: altrimenti vi resta soltanto un momento di vita.

Non posso credere che siate gente civile, né persone di autorità e di distinzione nel vostro paese, qualunque sia. Se ciò fosse, avreste avuto più ritegno e maggiori riguardi". Il califfo, impaziente per natura, soffriva infinitamente più degli altri, vedendo che la sua vita dipendeva da una donna offesa e giustamente irritata: ma cominciò a nutrire qualche speranza, quando vide che lei cercava di sapere chi fossero; pensava infatti che non gli avrebbe tolta la vita quando avesse conosciuta la sua dignità. Perciò disse sottovoce, al visir, che gli era vicino, di dichiarare subito chi egli fosse. Ma il visir, prudente e saggio, volendo salvare l'onore del suo padrone, e non rendere pubblico il grande affronto che si era attirato, rispose soltanto: "Ce lo siamo meritato". Ma anche se, per obbedire al califfo, avesse voluto parlare, Zobeida non gliene avrebbe dato il tempo. Si era già diretta verso i monaci e, vedendoli tutti e tre guerci, domandò loro se fossero fratelli. Uno di essi rispose per tutti: "No, signora, noi non siamo fratelli per sangue, ma lo siamo in quanto monaci, cioè legati alla stessa regola di vita". "Voi", rispose lei parlando a uno solo, "siete nato cieco?" "No, signora", rispose il monaco, "lo sono per un'avventura così sorprendente, che ognuno vorrebbe leggerla, se fosse scritta. Dopo questa sventura mi feci radere la barba e le sopracciglia, e mi feci monaco, prendendo l'abito che indosso." Zobeida fece la stessa domanda ai due altri monaci che diedero la stessa risposta del primo, ma l'ultimo che parlò soggiunse: "Per farvi conoscere, signora, che non siamo persone volgari, e affinché abbiate qualche considerazione per noi, sappiate che siamo figli di re. Quantunque ci siamo incontrati solo questa sera, tuttavia abbiamo avuto tempo di conoscerci a vicenda per quel che siamo, e oso dirvi che i re che ci hanno dato la vita, hanno qualche fama nel mondo". A tale discorso Zobeida moderò la sua collera e disse agli schiavi: "Date loro un poco di libertà: ma restate qui.

A quelli che ci racconteranno la loro storia adducendoci il motivo della loro venuta in questa casa, non farete del male, ma non risparmierete coloro che rifiuteranno di soddisfarci!". Mentre i tre monaci, il califfo, il gran visir Giàafar e l'eunuco Masrùr stavano in mezzo alla sala, seduti sul tappeto steso davanti alle tre donne che erano sul sofà e sorvegliati dagli schiavi, pronti ad eseguire gli ordini delle loro signore, il facchino, avendo capito che si sarebbe salvato, raccontando la sua storia, per liberarsi dal gran pericolo, parlò prima di tutti. "Signora, voi sapete già la mia storia e la causa che mi condusse in casa vostra. Perciò quanto vi debbo ancora raccontare sarà presto detto. La signora vostra sorella mi ha preso stamattina in piazza, mentre aspettavo che qualcuno ricorresse ai miei servizi, per guadagnarmi il pane. L'ho seguita alla bottega di un venditore di erbe, di un venditore di aranci, limoni e cedri; poi a quella di un venditore di mandorle, di avellane e altri frutti; indi da un confettiere e da un droghiere. E con in testa la cesta carica quanto poteva esserlo, venni qui, e voi avete avuto la bontà di trattenermi finora. Questa è una grazia che ricorderò eternamente. Ecco la mia storia." Quando il facchino ebbe terminato, Zobeida soddisfatta gli disse: "Sei salvo: vattene e fa che non ti vediamo mai più!". "Signora", riprese il facchino, "vi supplico di farmi restare ancora. Non sarebbe giusto che, dopo aver dato agli altri il piacere di sentire la mia storia, io non avessi quello di ascoltare la loro." Così dicendo, si sedette all'estremità d'un sofà, lietissimo di vedersi fuori pericolo. Dopo di lui uno dei tre monaci, volgendosi a Zobeida, che era la più importante delle tre dame, e quella che gli aveva comandato di parlare, cominciò a raccontare la sua storia.

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