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LA DIVINA COMMEDIA di Dante Alighieri (INFERNO) - CANTO XIV
Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende'le a colui, ch'era già fioco. (3)
Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte. (6)
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove. (9)
La dolorosa selva l'è ghirlanda
intorno, come 'l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa. (12)
Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d'altra foggia fatta che colei
che fu da' piè di Caton già soppressa. (15)
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi mei! (18)
D'anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge. (21)
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continuamente. (24)
Quella che giva 'ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta. (27)
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Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento. (30)
Quali Alessandro in quelle parti calde
d'Indïa vide sopra 'l suo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde, (33)
per ch'ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch'era solo: (36)
tale scendeva l'etternale ardore;
onde la rena s'accendea, com' esca
sotto focile, a doppiar lo dolore. (39)
Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l'arsura fresca. (42)
I' cominciai: «Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ' demon duri
ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci, (45)
chi è quel grande che non par che curi
lo 'ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che 'l marturi?». (48)
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E quel medesmo, che si fu accorto
ch'io domandava il mio duca di lui,
gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto. (51)
Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l'ultimo dl percosso fui; (54)
o s'elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!", (57)
sì com' el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra». (60)
Allora il duca mio parlò di forza
tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito:
«O Capaneo, in ciò che non s'ammorza (63)
la tua superbia, se' tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito». (66)
Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: «Quei fu l'un d'i sette regi
ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia (69)
Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi;
ma, com' io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi. (72)
Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti». (75)
Tacendo divenimmo là 've spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia. (78)
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello. (81)
Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt' era 'n pietra, e ' margini da lato;
per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici. (84)
«Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogIiare a nessuno è negato, (87)
cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com' è 'l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta». (90)
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Queste parole fuor del duca mio;
per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto
di cui largito m'avëa il disio. (93)
«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss' elli allora , «che s'appella Creta,
sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto. (96)
Una montagna v'è che già fu lieta
d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta. (99)
Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida. (102)
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte la spalle inver' Dammiata
e Roma guarda come suo speglio. (105)
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e 'l petto,
poi è di rame infino a la forcata; (108)
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che 'l destro piede è terra cotta;
e sta 'n su quel, più che 'n su l'altro, eretto. (111)
Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta
d'una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta. (114)
Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia, (117)
infin, là dove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta». (120)
E io a lui: «Se 'l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?». (123)
Ed elli a me: «Tu sai che 'l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo, (126)
non se' ancor per tutto 'l cerchio vòlto;
per che, se cosa n'apparisce nova,
non de' addur maraviglia al tuo volto». (129)
E io ancor: «Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de l'un taci,
e l'altro di' che si fa d'esta piova». (132)
«In tutte tue question certo mi piaci»,
rispuose, «ma 'l bollor de l'acqua rossa
dovea ben solver l'una che tu faci. (135)
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l'anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa». (138)
Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,
e sopra loro ogne vapor si spegne». (142)
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NOTE AL CANTO XIV
(2-6) «raunai al cesto suo» (Buti); le fronde sparte: «per l'impeto delle
cagne, le quali aveano lacerato Giacomo da Santo Andrea» (B.); a colui: «a
quello spirito rilegato in quel bronco» (B.); fioco: «arrocato per lo molto
gridare; e forse allegorizza il rinnovar che il poeta fece della fama di lui» (Buti);
fine: termine. «Orribil arte, a horrible form» (Lf.). «Graunvolles Walten» (Bl.).
(10-12) l'è ghirlanda: «cigne questa pianura, intorno, come 'l fosso
tristo, Flegeton, ch'è nel primo girone, cigne intorno la selva» (Buti); a randa
a randa: «in su l'estrema parte della selva e in su il principio della rena»
(B.). «Sur la lisière» (Ls.). «Dict am Rande» (Bl.).
(13-15) Lo spazzo: il suolo; non d'altra foggia: «fatta come quella di
Libia, per la quale passò Cato con quella gente che desideravano libertade,
morto Pompeo. Lucano, libro IX» (O.); colei: quella rena; soppressa: calcata.
(16) O vendetta di Dio: «O giustizia di Dio: imperò che vendetta è
propiamente sacramento d'ira, et in Dio non è ira, e però si dee intendere
giustizia» (Buti).
(19-24) nude: «perché noiasse loro lo fuoco» (Buti); gregge: «brigate,
schiere» (B.); Supin, ecc.: avv., col viso volto in su. «Alcuni giacevano
supini, e questi sono li bestemmiatori; alcuni sedeano, e questi sono gli
usurai; alcuni andavano del continovo, e questi sono soddomiti» (O.); gente: Qui
per schiera. Con senso ancor più particolare nelle Rime: "Tu rassomigli alla
voce ben lui, Ma la figura ne par d'altra gente"; raccolta: «con le gambe
raccolte sotto l'anche» (B.). «Ramassées en soi» (Ls.). «In sich gekauert» (Bl.).
(27) sciolta: spedita. «Loosed» (Lf.).
(28-30) sabbion: «è rena grossa e piena di pietrelle piccoline; ma quella
era rena sottile e senza pietre; ma è usanza delli autori di transumere i
vocaboli» (Buti); come di neve, ecc.: «come nevica la neve a falde nell'alpi,
quando non è vento» (Buti); in alpe: «im Gebirg» (Bl.).
(31-36) parti: regioni. Vita Nuova: «Mi convenne ire verso quelle parti
ov'era la gentil donna». E in senso stretto, Vita Nuova: «Passando per alcuna
parte, mi negò il suo dolcissimo salutare». Ivi: «Venni in parte ove molte donne
gentili erano adunate». Ivi: «Amore mi apparisse da lunga parte (da lungi)»;
stuolo: esercito; salde: «non si spegnevano in quelle parti calde, come per lo
umido della terra avviene tra noi» (Buti); scalpitar: «scalcare, scalpicciare;
ond'elli provvide che l'esercito le scalpitasse, acciocché non pigliassono
vigore» (Buti); mei si stingeva, ecc.: «meglio si spegneva prima che con l'altre
parti accese si congiugnesse» (B.). «Ce fait, que ne raconte aucun historien, se
trouve dans la lettre apocryphe d'Alexandre à Aristote. Il y est dit, non pas qu'il
fit fouler le sol par ses soldats, "mais qu'il opposa au feu leurs vetêments".
Il pourrait être question du simoun, dont on atténuait les effets en s'enveloppant
le corps et la tête» (Ls.). «Appare che Dante conoscesse la lettera, ma ne
usasse alla libera, mutando a ragione l'essenza della leggenda. Imperocché
premere co' piedi le fiamme, mentre ancora cadevano ad una ad una, fu certo il
solo partito convenevole a scemare il danno, e togliere che tutte insieme non
divampassero in incendio inestinguibile» (Bl.). «Nel vecchlo romanzo metrico
inglese di Alessandro (Romance of Alexander) si trova il piover del fuoco e il
cader della neve; ma i soldati scalpitano la neve, non il fuoco. E così nella
traduzione francese» (Lf.).
(39) focile: «strumento d'acciaio a dovere delle pietre focaie fare
percotendole uscir faville di fuoco» (B.). L'acciarino.
(40-42) la tresca, ecc.: «E' la tresca una maniera di ballare, la quale
si fa di mani e di piedi, a similitudine della quale vuol qui che noi intendiamo
i peccatori quivi le mani menare» (B.). Benv.: «Et heic nota, ut bene videas, si
Auctor venatus fuit ubique quidquid faciebat ad suum propositum, quod Trescha
est quadam Danza, sive genus tripudii, quod fit Neapoli artificialiter valde.
Nam est Ludus nimis intricatus. Stant enim plures sibi invicem oppositi. Et unus
elevabit manum ad unam partem, et subito alii, intenti, facient idem. Deinde
movebit manum ad aliam partem, et ita facient ceteri. Et aliquando ambas manus
simul: aliquando vertetur ad unam partem, aliquando ad aliam: et ad omnes motus
ceteri habent respondere proportionabiliter. Unde est mirabile videre tantam
dimicationem manuum et omnium membrorum»; l'arsura fresca: «il fuoco che
continuamente di nuovo piovea» (B.).
(43-44) «vinci - tutte le cose, quelle che per umano intelletto e potenza
si possono vincere, fuor che' demon duri, li quali non si possono vincere per
umana possa; ma bisògnavi la grazia di Dio, siccome l'Angelo all'entrata di
Dite» (O.).
(46-48) non par che curi - lo 'ncendio, ecc.: Capaneo, uno dei sette re
greci, confederati con Polinice contro Tebe, fulminato da Giove. Stazio lo
chiama Superum contemptor et aequi. Eschilo, nei Sette a Tebe, ne fa una pittura
mirabile, che Dante divinò dalle fiacchezze della Tebaide: «Superbia autem ejus
ultra hominem sese extollit - Deo enim volente urbem se eversurum - et nolente
proedicat neque Jovis - aemulantem iram (fulmen) in terram demissam sibi
impedimento futuram; - fulgura vero fulmineosque ictus - meridianis caloribus
comparavit». Alle quali parole del messaggiere, risponde Eteocle: «linguamque
exercens - inani laetitia, mortalis quum sit, in coelum - ad Jovem superba
aestuantia verba effundit - Confido autem fore ut in illum merito igniferum -
fulmen ruat nullo modo simile - meridianis solis caloribus». Euripide, nelle
Fenicie, ne descrive la morte così: «Già su su pe' gradi - Va della scala, e
delle mura i merli - Soverchia già; ma scoppia in quella, e il fiede - La
folgore di Giove: ne rimbomba - La terra, e tutti tremano: slanciate, - Qual da
fionda, le membra andâr divulse - L'une dall'altre; ne volâr le chiome - Vêr
l'Olimpo; giù in terra il sangue piovve; - Le man e i piè, qual d'Ission la
rota, - Si rigirâr per l'aere; su 'l campo - Arso il tronco piombò»; 'l maturi:
l'aumilii. Altri, men bene: marturi. Il Blanc: «Per maturi stiamo pur noi. La
metafora è tolta dalle frutte, le quali prima diconsi acerbe, e per la vampa del
sole (qui pioggia di fuoco) divengon mature».
(51-54) Qual io fui vivo, ecc.: «com'io fu' superbo e violento vivo, così
son morto» (Buti); l'ultimo dì: della mia vita.
(55-57) stanchi: insino all'ultimo della lor forza fatichi; a muta a
muta: «facendogli, poiché alcuni stanchi ne fieno, fabbricar gli altri, e così
que' medesimi, poiché riposati fieno; né altro facciano che folgori per ferirmi»
(B.). «By turns» (Lf.); in Mongibello: «Il monte Etna, sotto al quale Vulcano,
co' suoi Ciclopi, fabbricava i fulmini a Giove» (Lf.); aiuta, aiuta: «a fare
vendetta di questo violento» (Buti).
(58-60) pugna di Flegra: «(valle di Tessaglia), nella quale Giove fulminò
i Giganti» (B.); allegra: «che il saziasse: però che io non mi mostrerei mai di
curarmene, et a lui non mi arrenderei» (Buti).
(61-63) di forza: sforzatamente; udito ancora parlare; non s'ammorza:
«non si rimorde» (Buti). «Non s'attuta per martirio che tu abbi» (B.).
(66) compito: «sufficiente e debito» (Buti). «Adequato» (B. B.).
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(67-72) con miglior labbia: aspetto. «Parlando più mansuetamente» (Buti).
Nelle Rime: «Vedendo la mia labbia tramortita - Qualora davanti Vedetevi la mia
labbia dolente»; assiser: assediarono; li suoi dispetti: «i suoi dispregi
ch'elli fa di Dio» (Buti); fregi: «Come il fregio si pone al petto per
adornamento della persona virtuosa, così il vizio è in confusione della persona
viziosa» (Buti). «Come la lettera rossa di Hawthorne, fregio e pena ad un tempo»
(Lf.).
(75) stretti: accostati. «Dicht am Walde» (Bl.).
(76-78) divenimmo: altri: ne venimmo; spiccia: esce con impeto, sgorga;
ancor mi raccapriccia: «raccordandomene, ancor me ne viene orrore; et
accapricciare è levare li capelli ritti, come avviene per paura, cioè
caporicciare; e però si dice: io ebbi un grande raccapriccio, cioè uno
arricciamento de' capelli del capo, che significa la paura» (Buti).
(79-81) Quale del Bulicame, ecc.: «La quale acqua per lo suo fumo
sulfureo (fondo solforico; Lanèo), poi per lo calore, si è in colore rossetta e
fuma continuo; così per la rena dell'Inferno n'andava quello e rosso e fumoso»
(O.). «Bulicame che va per le case delle meretrici, partito a ciascuna casa per
loro lavamento, sì come un bagno» (Buti). «L'edificio a ciò destinato pare sia
stato il gran Bagno, ora diroccato, dì ser Paolo Benigno, posto tra il Bulicame
e Viterbo. Circa mezzo miglio fuori della porta di Faule, che conduce a
Toscanella, si dà in una strada detta Riello, e di poi si arriva a
quell'edificio, che riceveva l'acqua del Bulicame per via di doccie, e fu
creduto il Bagno di cui tocca Dante» (Barlow). «Non v'ha dubbio che non fossero
meretrici, le quali avevano fermato stanza presso de' bagni, o per fare il loro
mestiere, o per servirsi dell'acqua come di medicamento, egualmente che i
lebbrosi, i quali erano in grande copia, e dovevano vivere a sparte dagli altri.
Sui bagni di Baden, nella Svizzera, scrisse il Poggio, fiorentino, al tempo del
Concilio di Costanza, quindi intorno a 100 anni dopo di Dante: "Persaepe
existimo et Venerem ex Cypro et quicquid ubique est deliciarum ad haec balnea
commigrasse; ita illius instituta servantur, ita ad unguem ejus mores et
lasciviam repraesentant"; aggiungendo sulla moralità del clero: "hic quoque
virgines vestales vel (ut verius loquar) florales, hic abbates, monachi, fratres
et sacerdotes majori licentia quam caeteri vivunt"» (Bl.). «Bulicami, in Toscana
lagoni, che con sotterraneo gorgoglio e bulicamento balzano a scatti dal suolo
fangoso, e levano un fumo che par da lontano una nuvola bianca» (T.).
(82-84) pendici: «le ripe, le quali per ciò chiama pendici perché pendono
verso l'acqua» (B.); fatt'eran pietra: «come nel Bulicame di Viterbo le sponde
eran impietrate: e così fa l'Elsa in Toscana (Purg., XXXIII), in Tivoli
l'Aniène» (T.). «Per la qualità dell'acque si pietrificarono, come, p. e., la
sorgente di Carlsbad forma degli stalattiti» (Bl.); e' margini: «i dorsi delle
sponde» (B. B.); lici: lì.
(87-90) sogliare: soglia; negato: altri, men bene: serrato; notabile:
altri: notabil, com'è 'l presente rio; ammorta: spegne.
(92-93) mi largisse il pasto, ecc.: «che mi desse quel cibo di cui mi
aveva fatto venir voglia» (F.). «Platone: "estiasas ton lógon", convitando di
ragionamento, dando il pasto di discorsi» (Salvini). Vita Nuova: «E' degno e
ragionevole che a loro sia maggior licenza largita di parlare».
(95-99) Creta: la combattuta isola del Mediterraneo. «Oggi - diceva il
Boccaccio poco amico a Venezia - la tengono i Veneziani tirannescamente, e hanno
di quella cacciati molti antichi paesani, e gran parte d'essa, il cui terreno è
ottimo e fruttifero, fan star sodo e per pasture, e per tener magri quelli della
contrada»; casto: «regnante Saturno fu il mondo o non corrotto o men corrotto
alle lascivie che poi stato non è» (B.). «Senza vizio di cupidigia» (Lan.);
vieta: «vecchia e guasta» (B.). «Wie ein verlassner Ort» (Bl.).
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(100-102) Rea: moglie di Saturno e madre di Giove; per cuna fida: «per
fedele allevamento» (Buti); fida: sicura; le grida: «Aveva ordinato che,
piangendo il fanciullo, vi si facesse rumore da coloro alli quali raccomandato
l'avea, acciocché il pianto del fanciullo da alcuno circunstante non fosse
udito, né conosciuto» (B.). Apollodoro: «At Curetes in antro (Dictaeo) armati
infantem asservantes hastilibus scuta, ne vagientis pueri vocem Saturnus audiret,
concutiebant. Rhea vero involutum fasciis lapidem pro nato patri filio
devorandum dedit».
(103-108) un gran veglio: «E' chiaro che l'immagine del veglio dentro dal
monte in Creta, è tratta dal sogno di Nabucco nel libro di Daniele; ed è chiaro
inoltre che D. se la spiega ad altro modo. Non trattasi qui di parecchie
monarchie succedentisi l'una all'altra, ma della storia generale del genere
umano; e come appresso gli antichi occorre la tradizione dell'età dell'oro,
d'argento, ecc., così in Dante il peggiorare de' metalli dinota il peggioramento
degli uomini. Egli locò in Creta la statua, tra per l'antica tradizione che
quivi fiorisse l'età dell'oro sotto Saturno, e per essere quell'isola, secondo
le cognizioni d'allora, proprio nel mezzo alle tre parti del mondo conosciute,
onde poté essere considerata quale centro e principio del genere umano. La
statua volge le spalle a Damiata (città d'Egitto sul Nilo), e la faccia a Roma,
o ad indicare in generale il processo della storia, che sorta dall'oriente passò
all'occidente, o, meglio forse, l'avanzamento della coltura, che dalla rozza
idolatria egiziana si levò alla cristiana verità, la quale in Roma si accentra.
L'un de' piedi ha di ferro, l'altro di creta, e in su questo più che sull'altro
par che si posi. La dichiarazione più ovvia sarebbe certo, che il peggiorare
della razza umana fosse lì per toccare l'estremo; ma gli è del pari assai
verosimile che in siffatti piedi debbasi cercare un altro riscontro nascoso: nel
piè di ferro, come pensan pure parecchi degli interpreti più antichi, l'impero,
e in quel di terra cotta, la Chiesa; con questa sola differenza che il Buti,
perché è detto: la statua sta eretta 'n su quel (di creta), più che 'n su
l'altro, stima simboleggiarvisi apertamente la preponderanza della Chiesa, e il
dare all'ingiù della potenza imperiale, il che non conviene colla fragilità del
piede onde si rappresenta la Chiesa; dove al contrario L'Ottimo e il Guiniforto,
e senza dubbio più aggiustatamente alle idee di Dante, veggono nel piede di
creta il sommo decadimento della Chiesa. I moderni non fan parola di cotali
interpretazioni, e non iscoprono nella allegoria che il decadimento degli uomini
in generale» (Bl.); infino a la forcata: «infino al punto ove termina il busto e
comincian le coscie» (F.).
(109) da indi in giuso: dalla inforcatura insino ai piedi; ferro eletto:
cioè senza alcuna mistura d'altro metallo.
(113-114) lagrime goccia: «Virgilio, nel descrivere l'origine de' fiumi
infernali, li deriva dalle lagrime che gocciano dalle fessure de' metalli
declinanti a bassezza, a dimostrare che il peccato genera da sé la sua pena...
Le lagrime si raccolgono, e foran la crosta della terra per penetrare giù giù
nell'Inferno; quivi appariscono per la prima volta sotto forma di Acheronte, che
accerchia l'orlo superiore dell'Inferno. Questo poi scorre sotterraneo, ne nasce
Stige, che cinge alla sua volta la città di Dite (VIII, 76), e poi passa via via
sotterra, finché riappare (XIV, 76) qual Flegetonte, e accompagna i poeti fino
all'abisso, dove si precipita, per accogliere, col nome di Cocito, tutte le
acque infernali» (Bl.).
(115-116) si diroccia: «va cadendo di roccia in roccia; cioè di balzo in
balzo, per i quali, di cerchio in cerchio, si discende al profondo dell'Inferno»
(B.). Milton, nel II del Paradiso perduto: «Il crudo Stige - Ch'odio esala;
Acheronte atro e profondo - Che gonfi di dolore i flutti volve; - Cocito che di
mezzo a' gorghi suoi - Manda gemiti e strida, ond'ebbe il nome; - E Flegetonte,
che fremendo, aggira - Di fiamma e foco rapidissim'onde - Rabbia spiranti. Il
lento e cheto Lete, - Lungi da questi, in tortuosi giri - Move il torpido umor,
del qual chi bee - Ogni memoria de' trascorsi tempi, - E di sé stesso e gioie e
affanni oblia» (Lf.).
(117-118) doccia: «canale, condotto» (F.); ove più non si dismonta: «infino
al centro della terra» (B.).
(121-123) rigagno: «piccolo rivo» (F.); vivagno: propriamente estremità
del panno; l'usa per estremità in genere.
(127-129) vòlto: «non hai ancor compiuto di dar la volta intorno» (Buti).
«Non hai per anche col tuo girare compito il cerchio. Dante, avendo immaginato
nove cerchj infernali, nel visitarli percorre la nona parte di ciascuno,
dimodoché, andando sempre a sinistra, quando sarà giunto al termine della nona
parte dell'estremo circolo, allora avrà girato tutto il tondo. Ond'è che non
poteva avere prima d'ora incontrato il Flegetonte, dirocciantesi da quel lato
manco che non era ancora stato tutto trascorso» (B. B.).
(132-136) d'esta piova: «delle lagrime uscenti dalle fessure della
statua» (B.); 'l bollor de l'acqua rossa, ecc.: «A riconoscere Flegetonte nel
ruscello bollente non bisognava quella notizia di greco, che par certo D. non
avesse; bastava sapere il verso di Virgilio: "Quae rapidus flammis ambit
torrentibus amnis Tartareus Phlegeton"» (Bl.); Letè vedrai, ma fuor di questa
fossa: «dell'Inferno, imperò che finge nel Purg. che sia uno fiumicello
all'entrata del paradiso terrestre, ch'esce d'una fonte con un altro che si
chiama Eunoe, sicché quel che descende di verso mano sinistra si chiama Lete, e
quel che descende da mano destra si chiama Eunoe» (Buti). Vedi Purg., XXVIII.
(138) la colpa pentuta, ecc.: «scontata per penitenza» (B. B.).
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