Decameron di Giovanni Boccaccio Settima Giornata Novella 3.
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Addivenne non guari poi, che che si fosse la ragione, che Rinaldo si rendé frate, e chente che egli trovasse la pastura egli perseverò in quello. E avvegna che egli alquanto, di que' tempi che frate si fece, avesse dall'un de' lati posto l'amore che alla sua comar portava e certe altre sue vanità, pure in processo di tempo, senza lasciar l'abito, se le riprese; e cominciò a dilettarsi d'apparere e di vestir di buon panni e d'essere in tutte le sue cose leggiadretto e ornato e a fare delle canzoni e de' sonetti e delle ballate e a cantare, e tutto pieno d'altre cose a queste simili. Ma che dico io di frate Rinaldo nostro di cui parliamo? Quali son quegli che cosí non facciano? Ahi vitupero del guasto mondo! Essi non si vergognano d'apparir grassi, d'apparir coloriti nel viso, d'apparir morbidi ne' vestimenti e in tutte le cose loro, e non come colombi ma come galli tronfi colla cresta levata pettoruti procedono: e che è peggio (lasciamo stare d'aver le lor celle piene d'alberelli di lattovari e d'unguenti colmi, di scatole di varii confetti piene, d'ampolle e di guastadette con acque lavorate e con oli, di bottacci di malvagia e di greco e d'altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto che non celle di frati ma botteghe di speziali o d'unguentarii appaiono piú tosto a' riguardanti) essi non si vergognano che altri sappia loro esser gottosi, e credonsi che altri non conosca e sappia che i digiuni assai, le vivande grosse e poche e il viver sobriamente faccia gli uomini magri e sottili e il piú sani; e se pure infermi ne fanno, non almeno di gotte gl'infermano, alle quali si suole per medicina dare la castità e ogn'altra cosa a vita di modesto frate appartenente. E credonsi che altri non conosca, oltra la sottil vita, le vigilie lunghe, l'orare e il disciplinarsi dover gli uomini pallidi e afflitti rendere, e che né san Domenico né san Francesco, senza aver quatro cappe per uno, non di tintillani né d'altri panni gentili ma di lana grossa fatti e di natural colore, a cacciare il freddo e non a apparere si vestissero. Alle quali cose Iddio provega, come all'anime de' semplici che gli nutricano fa bisogno. Cosí adunque ritornato frate Rinaldo ne' primi appetiti, cominciò a visitare
molto spesso la comare; e cresciutagli baldanza, con piú instanzia che prima non
faceva la cominciò a sollicitare a quello che egli di lei disiderava. La buona
donna, veggendosi molto sollicitare e parendole frate Rinaldo forse piú bello
che non pareva, essendo un dí molto da lui infestata a quello ricorse che fanno
tutte quelle che voglia hanno di concedere quello che è addimandato, e disse:
«Come, frate Rinaldo, o fanno cosí fatte cose i frati?» La donna fece bocca da ridere e disse: «Oimè trista! voi siete mio compare come si farebbe questo? Egli sarebbe troppo gran male, e io ho molte volte udito che egli è troppo gran peccato: e per certo, se ciò non fosse, io farei ciò che voi voleste». A cui frate Rinaldo disse: «Voi siete una sciocca se per questo lasciate. Io non dico che non sia peccato, ma de' maggiori perdona Iddio a chi si pente. Ma ditemi: chi è piú parente del vostro figliuolo, o io che il tenni a battesimo o vostro marito che il generò?» La donna rispose: «E' piú suo parente mio marito». «E voi dite il vero,» disse il frate «e vostro marito non si giace con voi?» «Mai sí» rispose la donna. «Adunque» disse il frate «e io, che son men parente di vostro figliuolo che non è vostro marito, cosí mi debbo poter giacere con voi come vostro marito». La donna, che loica non sapeva e di piccola levatura aveva bisogno, o credette o fece vista di credere che il frate dicesse vero, e rispose: «Chi saprebbe rispondere alle vostre savie parole?»; e appresso, non obstante il comparatico, si recò a dover fare i suoi piaceri. Né incominciarono per una volta ma sotto la coverta del comparatico avendo piú agio, perché la sospezione era minore, piú e piú volte si ritrovarono insieme. Ma tra l'altre una avvenne che, essendo frate Rinaldo venuto a casa la donna e vedendo quivi niuna persona essere altri che una fanticella della donna, assai bella e piacevoletta, mandato il compagno suo con essolei nel palco de' colombi a insegnarle il paternostro, egli colla donna, che il fanciullin suo avea per mano, se n'entrarono nella camera e dentro serratisi sopra un lettuccio da sedere, che in quella era, s'incominciarono a trastullare. E in questa guisa dimorando, avvenne che il compar tornò e, senza esser sentito da alcuno, fu all'uscio della camera e picchiò e chiamò la donna. Madonna Agnesa, questo sentendo, disse: «Io son morta, ché ecco il marito mio: ora si pure avvedrà egli qual sia la cagione della nostra dimestichezza». Era frate Rinaldo spogliato, cioè senza cappa e senza scapolare, in tonicella; il quale questo udendo disse: «Voi dite vero: se io fossi pur vestito, qualche modo ci avrebbe; ma se voi gli aprite e egli mi truovi cosí, niuna scusa ci potrà essere». La donna, da subito consiglio aiutata, disse: «Or vi vestite; e vestito che voi siete, recatevi in braccio vostro figlioccio e ascolterete bene ciò che io gli dirò, sí che le vostre parole poi s'accordino colle mie: e lasciate fare a me». Il buono uomo non era ancora ristato di picchiare, che la moglie rispose «Io vengo a te», e levatasi, con un buon viso se n'andò all'uscio della camera e aperselo e disse: «Marito mio, ben ti dico che frate Rinaldo nostro compare ci si venne, e Iddio il ci mandò; ché per certo, se venuto non ci fosse, noi avremmo oggi perduto il fanciul nostro». Quando il bescio sanctio udí questo, tutto svenne e disse: «Come?» «O marido mio,» disse la donna «e' gli venne dianzi di subito uno sfinimento, che io mi credetti ch'e' fosse morto e non sapeva né che mi far né che mi dire, se non che frate Rinaldo nostro compare ci venne in quella e recatoselo in collo disse: 'Comare, questi son vermini che egli ha in corpo, gli quali gli s'appressano al cuore e ucciderebbolo troppo bene; ma non abbiate paura, ché io gl'incanterò e farogli morir tutti, e innanzi che io mi parta di qui voi vederete il fanciul sano come voi vedeste mai'. E per ciò che tu ci bisognavi per dir certe orazioni, e non ti seppe trovar la fante, sí le fece dire al compagno suo nel piú alto luogo della nostra casa, e egli e io qua entro ce n'entrammo. E per ciò che altri che la madre del fanciullo non può essere a cosí fatto servigio, perché altri non c'impacciasse, qui ci serrammo; e ancora l'ha egli in braccio, e credom'io che egli non aspetti se non che il compagno suo abbia compiuto di dire l'orazioni, e sarebbe fatto, per ciò che il fanciullo è già tutto tornato in sé». Il santoccio credendo queste cose, tanto l'affezion del figliuol lo strinse, che egli non pose l'animo allo 'nganno fattogli dalla moglie ma gittato un gran sospiro disse: «Io il voglio andare a vedere». Disse la donna: «Non andare, ché tu guasteresti ciò che s'è fatto; aspettati, io voglio vedere se tu vi puoi andare e chiamerotti». Frate Rinaldo, che ogni cosa udito avea e erasi rivestito a bello agio e
avevasi recato il fanciullo in braccio, come ebbe disposte le cose a suo modo,
chiamò: «O comare, non sent'io di costà il compare?» «Adunque» disse frate Rinaldo «venite qua»; il santoccio andò là, al quale frate Rinaldo disse: «Tenete il vostro figliuolo per la grazia di Dio sano, dove io credetti, ora fu', che voi nol vedeste vivo a vespro; e farete di far porre una statua di cera della sua grandezza a laude di Dio dinanzi alla figura di messer santo Ambruogio, per li meriti del quale Idio ve n'ha fatta grazia». Il fanciullo, veggendo il padre, corse a lui e fecegli festa come i fanciulli piccoli fanno; il quale recatoselo in braccio, lagrimando non altramenti che della fossa il traesse, il cominciò a basciare e a render grazie al suo compare che guerito gliele avea. Il compagno di frate Rinaldo, che non un paternostro ma forse piú di quatro n'aveva insegnati alla fanticella e donatale una borsetta di refe bianco la quale a lui aveva donata una monaca e fattala sua divota, avendo udito il santoccio alla camera della moglie chiamare, pianamente era venuto in parte della quale e vedere e udire ciò che vi si facesse poteva; veggendo la cosa in buoni termini, se ne venne giuso e entrato nella camera disse: «Frate Rinaldo, quelle quatro orazioni che m'imponeste, io l'ho dette tutte». A cui frate Rinaldo disse: «Fratel mio, tu hai buona lena e hai fatto bene. Io per me, quando mio compar venne, no' n'aveva dette che due, ma Domenedio tra per la tua fatica e per la mia ci ha fatta grazia che il fanciullo è guerito». Il santoccio fece venire di buon vini e di confetti e fece onore al suo compare e al compagno di ciò che essi avevano maggior bisogno che d'altro; poi, con loro insieme uscito di casa, gli accomandò a Dio, e senza alcuno indugio fatta fare la imagine di cera, la mandò a appiccare coll'altre dinanzi alla figura di santo Ambruogio, ma non a quel di Melano. Pittore italiano. Venne soprannominato Andrein degli impiccati per aver dipinto nel 1440, sulla facciata esterna del palazzo del Podestà a Firenze, la scena dell'impiccagione dei ribelli dopo la battaglia di Anghiari. Nel 1444 disegnò il cartone di una Deposizione per un'occhio del tamburo della cupola di S. Maria del Fiore; fra il 1445 e il 1450, affrescò il refettorio del convento di S. Apollonia con Crocifissione, Deposizione di Cristo, Resurrezione e Ultima Cena. Si contrappongono così un esterno e un interno, in cui sempre domina la figura umana, definita da linee precise, vigorosa ed eroica. La prospettiva dell'Ultima Cena, pure esatta, lascia risaltare l'individualità degli Apostoli, sottolineata dalla linea bianchissima della tovaglia. Anche la decorazione di una loggia della Villa Pandolfini, tutta di figure umane, si vale del gioco cromatico non per creare profondità, ma per sbalzare verso l'esterno i personaggi e i loro gesti. Questo ciclo, di ispirazione compiutamente umanista anche per la scelta dei soggetti, tutti di ambito storico letterario, si può accostare all'affresco col Monumento equestre a Niccolò Tolentino, anch'esso giocato in una ricerca in funzione del movimento. Anche se la critica recente ha stabilito una sua conoscenza di Paolo Uccello, pure la sua pittura indica che guardò molto a Masaccio e Donatello, accentuandone il plasticismo dei corpi e rivelando un'esplicita fedeltà al realismo dell'Umanesimo. Nella sua pittura predomina, infatti, la ricerca degli effetti plastici e della rigorosa prospettiva lineare. Vasari propagò la leggenda che avesse ucciso un suo compagno di lavoro, Domenico Veneziano, dopo avergli carpito il segreto della pittura a olio. Ma, oltre al fatto che le sue opere non rivelano la conoscenza della tecnica oleare, recenti documenti provano che Domenico morì quattro anni dopo di lui (Castagno del Mugello 1421 - Firenze 1457). Andrea del Castagno: “Niccolò da Tolentino” (Firenze, S. Maria del Fiore) Andrea del Castagno: “Cristo e San Giuliano”(Firenze, SS. Annunziata) Andrea del Castagno: “La Sibilla Cumana” (Firenze, Cenacolo di S. Appollonia) Enciclopedia termini lemmi con iniziale a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Storia Antica dizionario lemmi a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Dizionario di Storia Moderna e Contemporanea a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w y z Lemmi Storia Antica Lemmi Storia Moderna e Contemporanea Dizionario Egizio Dizionario di storia antica e medievale Prima Seconda Terza Parte Storia Antica e Medievale Storia Moderna e Contemporanea Dizionario di matematica iniziale: a b c d e f g i k l m n o p q r s t u v z Dizionario faunistico df1 df2 df3 df4 df5 df6 df7 df8 df9 Dizionario di botanica a b c d e f g h i l m n o p q r s t u v z |
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