FRANCESCO DE SANCTIS
Francesco De Sanctis,
con la sua Storia della letteratura italiana, pubblicata nel 1870-1, chiudeva un
periodo della cultura italiana e ne apriva un altro. Quell'opera (che veniva a
coronare, riassumendoli, gli studi e le ricerche di oltre vent'anni, dalle
lezioni della prima scuola napoletana del 1848 ai Saggi critici del 1866 e ai
nuovi Saggi critici, editi nel 1872) era, non solo la sintesi del pensiero
desanctisiano, ma anche il capolavoro storico dello spirito italiano del
Risorgimento. L'idea madre di quella interpretazione romantica della nostra
letteratura era questa: che la poesia può nascere solamente dalla
pienezza della vita interiore e che, laddove manchi una coscienza nazionale e
morale, la poesia viene sostituita dalla retorica, dall'Arcadia, dalla
letteratura. Il libro, rifacendo la storia intima d'Italia, mostra come al primo
tentativo di cultura nazionale, con Federico II, corrispose la semplicità
dei primissimi poeti siciliani, come l'intensità della fede religiosa e
politica di Dante s'incarnò nella meravigliosa architettura della
Commedia, come già s'avvertano nell'elegiaco Petrarca e nel sensuale
Boccaccio i primi germi di quel distacco tra vita e letteratura che, aggravatosi
nel Rinascimento, dovrà condurre alla decomposizione della vita morale e
dell'anima letteraria, quale appare nel barocchismo e nell'Arcadia, come infine
col Parini e coll'Alfieri, col Foscolo, col Manzoni e col Leopardi si effettui
la rinascita dell'uomo e del poeta. E in esso il giudizio critico fa sempre
tutt'uno con la valutazione morale e storica.
Era questa una vera e
propria rivoluzione nel campo della critica e della storiografia. Rivoluzione,
non solo rispetto ai vecchi metodi critici del Quadrio, del Tiraboschi, del
Ginguené, ecc., o alle indagini grammaticali e lessicografiche dei
puristi, che il De Sanctis, educato alla scuola del Puoti, ben conosceva, ma
rivoluzione anche nei confronti degli altri storici romantici, del Settembrini,
del Tommaseo, del Cantù, dell'Emiliani Giudici, i quali, irretiti da
pregiudizi morali e politici di varia natura, assai di rado seppero giungere
alle altezze desanctisiane. Per la prima volta in Italia, e forse in Europa, la
poesia veniva studiata, non come un'esercitazione di bello stile o come
ornamento del vero o come documento biografico, ma come l'espressione superiore
dell'anima individuale dello scrittore e dell'anima collettiva della nazione.
Ancor oggi i grandi poeti nostri ci appaiono quali apparvero al De Sanctis:
l'indagine diligente degli studiosi e dei critici ha potuto modificare di ben
poco le linee granitiche delle sue interpretazioni.
Abbiamo chiamata
romantica la critica desanctisiana, ma dando all'aggettivo un senso assai vago e
ideale. Poiché il De Sanctis, così come in giovinezza s'era
liberato del purismo linguistico e grammaticale del Puoti, non tardò a
sciogliersi dalle pastoie del romanticismo. Egli era l'uomo nuovo del
Risorgimento, che, dopo avere scosso la polvere dei vecchi libri ingialliti e
aver fugato le nebbie del sentimentalismo di moda, cercava la vita e la
verità nel mondo reale e osservava l'Italia, ancora malata di quei mali,
che egli aveva uccisi in se stesso, con l'occhio del medico che fa una diagnosi
e che suggerisce la terapia. Perciò non esitò a porre da canto i
prediletti studi letterari, una prima volta nel 1848 per correre sulle barricate
e, più tardi, per accettare tre volte il potere politico. Egli
portò nella sua interpretazione politica lo stesso anelito di vita morale
ed educativa che aveva espresso nei saggi letterari, Poiché i mali e gli
avversari da combattere non erano mutati. E così come la sua critica
letteraria era apparsa troppo nutrita di storia e di idee a puristi ed eruditi,
il suo pensiero politico sembrò troppo poetico e letterario ai
politicanti. L'uomo che saliva, trasognato e assorto, le scale del suo ministero
e sdegnava le meschine consorterie e parlava delle cose d'Italia con la pacata
lungimiranza dello storico, che cosa poteva avere in comune con il mondo
politico che, allora come sempre, faceva consistere il non plus ultra dell'arte
politica nell'accorto e furbesco gioco parlamentare e nel distinguersi in
partiti e nel confondere le distinzioni?
Il De Sanctis non fu soltanto un
maestro nel campo critico, politico e pedagogico, fu anche il creatore della
nuova prosa italiana, della prosa che dice cose e non parole, della sola prosa,
dopo quella del Manzoni e del Leopardi e prima di quella del Verga, che abbia
dato all'Ottocento un grande scrittore. E' già stato sufficientemente
notato il valore dell'arte della «Storia» il libro che narra il
romanzo della vita d'Italia, ne rappresenta a vivo il dramma e ne canta la
lirica, la grande lirica di aspirazione al rinnovamento spirituale (1) ed
è stato mostrato come la prosa critica desanctisiana, apparentemente
compatta e disadorna, sia intimamente poetica e immaginosa. A noi piace porre
l'accento sul De Sanctis narratore, sul descrittore di uomini e cose del proprio
tempo. Il De Sanctis fu il primo a porre in atto le sue teorie sulla nuova arte
realista:
«L'artista cercherà e si approprierà
tutto quel tesoro di immagini, di movenze, di proverbi, di Sentenze, tutta
quella maniera accorciata, viva, spigliata, rapida ch'è nei
dialetti».
Negli anni della vecchiaia egli riscoprì
nella realtà e nella fantasia, il paese nativo, il paese della giovinezza
e lo descrisse in due libri pittorescamente vivaci: Un viaggio elettorale e La
Giovinezza. Più realistico e amaro il primo, che narra le vicende di una
campagna elettorale sostenuta dallo stesso De Sanctis, più commosso e
poetico il secondo.
L'uomo, che aveva tracciato indimenticabili ritratti di
Dante e di Petrarca, di Alfieri e di Leopardi, conserva intatte le proprie
virtù d'interprete quando, sulla scorta dei propri ricordi, ritrae e
scolpisce a vivo, con brio e colore di commozione, tipi e ambienti della Napoli
della sua giovinezza. «La Giovinezza» s'inizia con questo ritratto
della nonna:
«Ho sessantaquattro anni, e mi ricordo mia nonna
come morta pur ieri. Me la ricordo in cucina, vicino al foco, con le mani stese
a scaldarsi, accostando un po' lo scanno, sul quale era seduta... Era il capo
della casa, e teneva la bilancia eguale fra le due famiglie, e si faceva
ubbidire».
Ecco il vivace schizzo di un abate:
«L'abate ci ricevette nella stanza da scuola, e ci fece molte
carezze, e ci diede dei confetti. Era un bell'ometto, vestito di nero, con
cravatta nera, tutto bene spolverato. Parlava spedito, e accompagnava le parole
col sorriso e col gesto elegante. Non c'era ancora il laico, ma non c'era
più il prete».
Ecco, in tre righe, il contrasto tra il
carattere del padre e quello, già svagato, del fanciullo:
«Parlavo poco, avevo la faccia malinconica - Sempre con questo
libro in mano! - gridava papà, che era uomo allegro e turbolento, e
spesso si mescolava coi fanciulli a fare il chiasso».
Con eguale
felicità sono scolpiti sul vivo altri mille personaggi, i compagni di
scuola, i maestri, i parenti, il Puoti, le prime giovinette che turbano i sogni
e fanno scrivere versi leopardiani. Ma su tutti sovrasta il ritratto dello
scrittore, sempre distratto e ingenuo, distratto fino al punto di dimenticare il
mangiare leggendo, e ingenuo fino a parlare di studi e di arte alle sue amorose.
L'indefinibile poesia di quella rievocazione nasce da questo: si sente che il
vecchio De Sanctis è rimasto qual'era, costantemente giovane, se è
vero che la fede nella poesia, l'amore, l'onestà, il disdegno dei
compromessi pratici, sono il patrimonio ideale di tutte le giovinezze.
VITA E LETTERATURA IN ITALIA DOPO IL 1860
L'atteggiamento desanctisiano di fronte
all'Italia sorta dal travaglio del Risorgimento e di fronte alla nuova
letteratura che indicava la mutata disposizione degli animi era assai complesso.
Non era il De Sanctis un lavdator temporis acti che tornando con la memoria agli
anni dell'esilio, delle lotte, delle romantiche vicissitudini ne ricreava
l'indefinibile poesia per contrapporla alla meschina «prosa» dei tempi
nuovi (stato d'animo questo dominante in molti dei contemporanei), ma non era
neppure un soddisfatto del presente. Al suo occhio acutissimo non poteva
sfuggire quanta debolezza e quale superficialità fosse nella classe
dirigente dell'Italia appena unita. E poi era veramente unita una Italia in cui
le tradizioni storiche e le condizioni economiche e sociali delle varie regioni
anziché fondersi in armonia nazionale contrastavano violentemente? Una
Italia che per la sua stessa configurazione geografica, stretta, allungata e
accidentata, pareva respingere qualsiasi fusione spirituale di correnti e di
tradizioni e che pur tuttavia veniva sottoposta al meno operante degli
accertamenti, quello burocratico?
«Fatta l'Italia restavano da fare
gli Italiani» aveva ammonito il D'Azeglio. Ma di ciò non parvero
preoccuparsi gli uomini politici del tempo, i quali per effetto degli anni di
esilio e di lotta, avevano acquistato nobiltà di sentimenti e grande
potere oratorio ma scarsa e nulla preparazione pratica e andavano dietro a
problemi contingenti, che pur avendo la loro importanza erano, specie per i
criteri con i quali venivano risolti, avulsi dalla vita intima della nazione. La
più grossa preoccupazione dei governi era quella di far la lesina per
giungere al famoso pareggio del bilancio, ottenuto con un rigido ed
ingiustamente ripartito sistema tributario. Ma né la questione
meridionale né l'impreparazione politica delle masse (il popolo era
estraneo se non ostile alla vita pubblica, essendo il suffragio ristretto - per
censo - a poche centinaia di migliaia di elettori) s'imponevano durevolmente
all'attenzione della classe dirigente.
Quella vita intima che
sfuggiva ai governi dell'epoca venne invece colta dalla letteratura, la quale,
dopo vari ondeggiamenti, si diede a ricercare nella regione e nel popolo gli
argomenti e le aspirazioni. Quell'arte nuova si chiamò genericamente
realismo, verismo, ed ebbe forme e caratteristiche assai varie. In Piemonte e
Lombardia fu un realismo poetico disordinato e antiborghese mentre nella prosa
assunse la forma di un realismo manzoniano e borghese. Fu un realismo
idealistico e sentimentale nel cattolicissimo Veneto. In Toscana e in Emilia il
realismo ebbe un carattere letterario di reazione al romanticismo ed assunse in
poesia i due caratteri opposti del carduccianesimo (vale a dire della ricerca
della realtà nella storia) e dello stecchettismo. A Roma, con Cossa e
Pascarella, il realismo cercò un terreno sodo nella natura e nella
storia.
Ma alcune di queste varie forme di realismo si rivelano, ad una
più approfondita indagine, come degenerazioni esterne del romanticismo.
Al De Sanctis ciò non sfuggì.
«E' una reazione.
Perciò è presente nello spirito la cosa contro la quale si
reagisce; è una reazione di dispetto, di elementi negativi. E
perciò appunto voi, miei signori, non avete ancora cancellato dal vostro
petto la forma antica, e siete come ribelli che fremono e si dibattono e si
esasperano, e cercano e non trovano ancora la via. Perciò voi siete
contorti e convulsi, e cercate forza all'assenzio e novità alle forme
mancando la novità delle cose, e, per dirla con le frasi vostre, voi
siete affetti da erotismo nervoso»
A questo realismo malato di
romanticismo, egli contrapponeva il suo realismo:
«Il realismo
in arte oggi ha il carattere di una creazione sfrenata. E' un fenomeno di poca
durata, il buon senso verrà. Il mio realismo lo esprimo in poche parole.
La sostanza è questa: che nell'arte bisogna dare una più larga
parte alle forze naturali e animali dell'uomo, cacciare il rêve e
sostituirvi l'azione, se vogliamo ritornare giovani, formare la volontà,
ritemprare la fibra. Il realismo che somiglia ad un'orgia, è poesia di
vecchi impotenti e viziosi, non è restaurazione di
gioventù».
E concludeva:
«Per una razza
fantastica, amica delle frasi e delle pompe, educata nell'arcadia e nella
rettorica, come generalmente è la nostra, il realismo è un
eccellente antidoto»
Questo sano realismo auspicato dal De
Sanctis trovò i suoi accenti più genuini ed artistici nel
meridione d'Italia dove esso non fu fatto letterario e una reazione di dispetto
ma un bagno nelle fonti dell'ispirazione popolare e nell'espressione nuda e
immediata perché qui veramente gli scrittori espressero un grande ideale
che sostituiva gli scomparsi ideali romantici: aiutare coloro che soffrono,
penetrare nei tuguri ed illuminarli con la comprensione e la pietà. Cosi
il meridione, travagliato dalla miseria delle plebi rurali, dalla camorra, dalla
mafia, dal brigantaggio, privo di strade, di ferrovie, d'industrie,
feudalisticamente diviso in «galantuomini» e «cafoni», ebbe
in Verga e in altri i suoi commossi poeti.
Con il fiorire di quella che
potremmo chiamare «Arte provinciale» si sperava, almeno
apparentemente, un capovolgimento della nostra storia letteraria. Quando
l'Italia era divisa in decine di staterelli, la letteratura si era preoccupata
di cementare idealmente le più varie tradizioni e di porre in non cale le
differenze economiche, sociali e culturali tra Nord e Sud. Ora, ad unità
avvenuta, gli scrittori ricercavano le memorie regionali e ne coglievano il
respiro. V'era tuttavia una continuità ideale in quella contraddizione:
il mutato atteggiamento degli animi poteva paragonarsi alla delusione che suol
seguire a tutte le cueillaisons du rêve, quando nella cosa ardentemente
bramata si cominciano a notare difetti e pecche e l'amore cieco si muta in
tenero e compassionevole affetto. In realtà il romanticismo, come
l'amore, non moriva ma si trasformava.
GLI ULTIMI ROMANTICI: PRATI, ALEARDI, NIEVO
Intorno al 1860 s'andò spegnendo nel
pubblico l'interesse per i poeti che nel decennio 1848-1858 erano stati i
cantori delle lotte nazionali e gli interpreti del languore romantico di moda:
il trentino Giovanni Prati e il veronese Aleardo Aleardi.
Era stato il
Prati uno spirito poco complesso, facile alla commozione e all'entusiasmo,
aperto ad ogni sentimento nobile e puro ma privo di una potente
personalità interiore. Aveva fatto mirabilie nell'esprimere in ballate
polimetriche, in poemi byroniani, in versi ora teneri ora sonanti il più
vieto ciarpame romantico con fanciulle evanescenti, sognatori pallidi e foschi,
convegni di spiriti ecc. non rifuggendo persino dal leopardianeggiare sulla
mesta intelligenza della vita e sulla vanità della gloria umana. Venne,
per queste fantasie romantiche e per le molte canzoni patriottiche divenute ben
presto popolari, in gran favore presso il pubblico e presso parte della critica,
sì che trascurò di porre i freni alla sua naturale
fecondità e non prestò orecchio alla severa analisi che della sua
poesia faceva, già nel 1855, il De Sanctis.
«Prati ha una
viva immaginazione e per questa qualità è forse il primo poeta di
secondo ordine che sia oggi in Italia. Egli non sa accomodarsi alla
povertà; e quando alcuna cosa gli esce un po' gretta, in luogo di rifarsi
sul fondo e lavorarlo, si travaglia intorno alla frase, sì che ella
riesca splendida e magnifica. Quella pienezza di epiteti, quel simbolo di suoni,
quello splendore di elocuzione lo abbaglia e lo appaga e gli nasconde la sua
aridità».
Tale giudizio fu dal critico ribadito una
decina d'anni dopo, nel 1868 a proposito del poema Armando nel quale il Prati
narrava il caso di un triste sognator, con la poco fondata fiducia di osservare
una malattia e di indicarne la terapia.
«Ohimè! Prati,
non ti adirare. Noi siamo tutti malati, in tutt'i cuori, anche nel tuo, ci
è un po' d'Armando; e il medico che dee guarire la malattia non
appartiene alla nostra generazione. No. In questo libro non trovo quel
sentimento vivo e presente della bella natura e della storia, quella coscienza
della gioventù, della forza, della fede operosa, quell'entusiasmo e quasi
tripudio di una vita rigogliosa, quella fresca onda d'impressioni giovani e
pure, che prenunzia le grandi cose... Il poeta è ancora più
profondamente malato di Armando: perché Armando si sente malato e il
poeta si crede sano».
E tuttavia il De Sanctis concludeva
rammaricandosi che non si fosse prestata al lavoro del vecchio poeta
l'attenzione che esso meritava.
Ma il pubblico aveva ormai mutato voglie e
gusti, tendenze e abitudini. Si tratta di un fenomeno di tutti i tempi: i valori
spirituali vengono capovolti, ciò che era pregiato un tempo è
adesso negletto, ciò che piaceva non piace più ed il poeta che
ebbe voce per tutti non ne ha più per nessuno. Il secol si rinnova e lo
scrittore dovrebbe deformare la propria personalità e
«aggiornarsi» come si dice in linguaggio corrente. Le generazioni
nuove sono sempre diverse dalle vecchie e le correnti d'arte si sovrappongono e
le produzioni dell'ingegno umano divergono. Sono i corsi e ricorsi della storia
che governano pure il mondo dell'arte e della cultura. Il Prati assai si
amareggiò della sua sorte di poeta fuori moda finché stanco di
ascoltare un tempo che più non lo ascoltava, ripiegò su se stesso
e si compiacque di esprimere, spesso nel breve giro di un sonetto, un più
personale romanticismo: la vanità dei sogni troppo vasti, la vita delle
umili creature (il grillo, la rondine; la cinciallegra, i monelli, le
fanciulline, ecc.) le prime memorie, la tristezza di una giornata d'inverno,
ecc. Taluno ha parlato, a questo punto, di un mutamento di motivi e di forme ma
non ha colto nel segno. Il mondo poetico del vecchio Prati, espresso nei volumi
Iside e Psiche si ritrova per intero nella giovanile Passeggiate solitarie e in
altre opere, mentre non mancano negli ultimi libri fantasie medioevali, canti
patriottici e persino un nostalgico lamento per il nativo verde Tirolo rimasto
soggetto all'Austria. E non v'era neppure un mutamento di forme. Le malinconie
dell'età matura e la placida contemplazione della vita quotidiana
venivano espresse a fior di pelle, senza dramma e senza strazio. Prati non era
certo Leopardi. Ma ciò non significa che non debba esser letto, almeno
nelle sue cose migliori, in quel piccolo «libro d'oro» che il Carducci
non disperava di poter trarre dalla sovrabbondante opera del poeta
trentino.
Anche ALEARDO ALEARDI conobbe un periodo di esagerata fama
seguito da un non meno ingiusto oblio. Aveva, come il Prati, cantato
«l'amor, la morte, la natura, il dolor, gl'innumerati, i mondi e la patria
miseranda» in versi modulati con languore e con accoramento. Ed era stato
il maggior rappresentante del romanticismo veneto, di un romanticismo, vale a
dire, che rifuggiva dalle intemperanze, dal chiasso, dagli impeti sregolati. I
romantici veneti, tra i quali sono degni di menzione il Carrer e Cesare
Betteloni, se accettarono il mondo nordico delle leggende e delle fantasia,
ebbero a disdegno l'espressione ora stravagante ora sciamannata dei romantici
lombardi e sempre si preoccuparono della pacatezza delle riflessioni e del garbo
delle forme. Tale carattere moderato del romanticismo veneto si avverte
soprattutto nell'Aleardi, il quale fu poeta accurato e corretto e non alieno dai
particolari precisi e realistici. Questo nostro giudizio contrasta con
l'opinione comune che fa dell'Aleardi un verseggiatore vaporoso e nebuloso,
opinione che si fonda su una confessione dello stesso Aleardi il quale
accusò il proprio stile di artifizio, di sconnessione e di imprecisione,
e sulla nota stroncatura che della poesia aleardiana fece l'Imbriani. Ma
l'Aleardi non era né trascurato né incolto né privo di
senso critico, come è dimostrato dalla stessa esiguità della sua
opera letteraria, tutta raccolta in un solo volume (Canti), e dalle numerose
letture classiche e scientifiche che costituivano il nutrimento primo della sua
poesia. I difetti dell'Aleardi nascevano non da trascuratezza, ma dalla
ineluttabilità della propria ispirazione sempre mesta e sfumata,
un'ispirazione che sembrava sorgere dalla indefinibile tristezza delle pianure
veronesi
«Coi praticelli morbidi tagliati a mo' di panno da
bigliardo, coll'Adige in mezzo che non si vede ma s'indovina coll'immenso
orizzonte lontano, velato di vapori come l'idea
dell'infinito».
L'Aleardi non fu mai un sonante bardo
quarantottesco. Il suo inno per sbocciare dal cuore aveva necessità di
pianto. Ma, a differenza di quello del Prati, il suo mondo romantico non era
né convenzionale né di moda. La tristezza dei mietitori che
scendevano dai monti d'Abruzzo nelle desolate campagne del Lazio; la tragica
fine del biondo Corradino di Svezia; la sorte del prigioniero politico della
«Comune» parigina, condannato a languire nella Guiana;
«dove la vita è simile
a un lento
funerale;
dove lo cinga un lutto
perpetuo come il flutto;
dove
il pensiero libero
con penosa virtù
rivoli ad una patria
ch'ei non vedrà mai più».
la vanità
delle feroci lotte umane; gli sguardi dei moribondi ed altri innumerevoli motivi
di canto rivelano nell'Aleardi un sincero e sensibilissimo temperamento
elegiaco.
Mentre il Prati e l'Aleardi venivano scadendo nella
considerazione del pubblico, scompariva misteriosamente, in seguito ad un
naufragio, un altro tipico rappresentante della generazione romantica: il
patavino IPPOLITO NIEVO. La morte, che lo aveva risparmiato sui campi di
battaglia di Lombardia, del Veneto e della Sicilia, lo ghermì appena
trentenne, quando aveva da poco compito di getto in otto mesi quel notevolissimo
romanzo che è Le confessioni di un ottuagenario. Che cosa sarebbe
divenuto il Nievo se fosse vissuto ancora? Sarebbe stato travolto, come gli
altri romantici, dal disinteresse del pubblico o si sarebbe evoluto in senso
verista e paesano? Più plausibile appare questa seconda ipotesi. Il
Nievo, che assai semplicisticamente venne definito un manzoniano e per questo
aspetto paragonato al ROVANI, autore di un romanzo storico alquanto farraginoso
(I cento anni), sta in realtà a cavaliere tra il romanticismo e il
realismo provinciale. Romantico era il Nievo per quel suo amore per un'esistenza
eroicamente vissuta, per quella sua concezione filosofica che superando
cattolicismo e pessimismo tendeva a una nuova fede e a una nuova morale, per
quel suo incentrare il mondo poetico attorno alla figura di una donna, la Pisana
delle Confessioni, per quel suo riandare alle memorie dell'infanzia e per il suo
continuo meditare sulla decadenza veneta. Ma per altri aspetti il Nievo
precorreva il verismo e la letteratura provinciale. Egli fu il primo scrittore
di novelle campagnole e di studi rusticani. Il Friuli e il Veneto, dove il Nievo
abitò più lungamente, sono quasi sempre presenti nelle
Confessioni; e quando essi mancano, la narrazione si fa più scolorita e
scialba.
Dall'incrocio tra romanticismo e provincialismo nasce il tono
particolare dell'umorismo del Nievo. Rievocare memorie giovanili, affetti,
passioni e sottoporle, nello stesso tempo, ad una bonaria e compatevole ironia
è una prova ardua che dà la misura di un ingegno. Il Nievo, pur
lavorando di lena e ininterrottamente, non riuscì a mantenere
l'unità di tono per tutta l'opera, che, nella sua seconda parte, è
diseguale e debole. Le Confessioni non sono un capolavoro ma contengono tuttavia
pagine gustose e non periture.
ROMANTICISMO E NATURALISMO IN LIGURIA E IN PIEMONTE
Nella Liguria e nel Piemonte, vale a dire nelle
regioni che avevano costituito il nucleo originario del Regno d'Italia, il
romanticismo si era preoccupato, col Pellico, col d'Azeglio e con altri, di
esortare gli animi all'unità nazionale e di persuadere gli italiani,
attraverso la rievocazione della storia sabauda, sulla necessità della
supremazia piemontese; era stato perciò più un'arma di battaglia e
di polemica che un'ispirazione artistica. Ad unità avvenuta gli scrittori
liguro-piemontesi mutarono stile ed argomento. Allarmati per gli screzi che
andavano sorgendo tra le varie regioni italiane, vennero osservando con ispirito
moraleggiante la vita del tempo e proposero come rimedio la vecchia ricetta
della devozione alla patria, alla dinastia, ai sentimenti del buon tempo antico.
Il piemontese non smise mai l'abito del moralista, del patrista e del pedagogo,
di un pedagogo, si badi, che teneva a correggere gli uomini col sorriso e con la
commozione e non col fiero cipiglio, di un pedagogo che s'illudeva di guidare il
proprio uditorio ma che in realtà veniva guidato.
Un tipico
educatore fu EDMONDO DE AMICIS che, per certo suo ondeggiare tra l'ispirazione
militare e borghese dei suoi primi libri e quella popolare e socialisteggiante
degli ultimi, lasciò pensare ad una evoluzione di motivi se non di forme.
Ma quella evoluzione, se pur ci fu, avvenne senza strazio e senza travaglio. Il
De Amicis andò sempre alla ricerca dell'argomento e del pubblico e ne fu
ricompensato dal non mai sentito favore popolare. I suoi libri di viaggio (La
Spagna, L'Olanda, Il Marocco, Sull'Oceano) sparivano in quel tempo dalle
biblioteche circolanti, e il Cuore girava nelle scuole e nelle famiglie e La
vita militare nelle caserme e Il romanzo di un maestro faceva intenerire gli
insegnanti e persino le sue poesie, così ingenue e semplici, commuovevano
i giovanetti ginnasiali.
Sarebbe facile oggi riesaminare tutti quei libri e
notarne ad uno ad uno i gravissimi difetti, e il sentimentalismo di maniera, e
la piacevole superficialità, e il pedagogismo impoetico. Ma perché
farlo? Tali indagini critiche, che sono utili quando è necessario
ricondurre ai giusti limiti scrittori presuntuosi e «montati», non si
addicono al De Amicis il quale non si lasciò mai stordire dagli applausi
del proprio pubblico e che spesso confessò, scoraggiato, di essere nato
più per fare il maestro di scuola in un villaggio che per comporre libri.
Per umiliare se stesso scrisse:
«Che cosa è questo favore
di pubblico? Che cosa prova? Chi non ottiene un po' di questo favore, scrivendo,
purché abbia cuore e non offenda alcuna classe della società e
segua l'andazzo del tempo, e scriva cose che la maggior parte sentono o pensano
o non hanno interesse di negare?»
Questa modestia, questo
candore, questa sincerità finiscono col riconciliarci con lo scrittore.
Dell'opera di Edmondo De Amicis resta ancora quel grande respiro di bontà
e di nobiltà che ci faceva sentire nel letterato l'uomo. Egli ebbe il
merito di creare in Italia quel genere letterario da cui sorse, poi, la
letteratura giornalistica delle corrispondenze di viaggio. Ma, sopratutto,
formò l'anima e il carattere delle generazioni dell'ultimo Ottocento e
del primo Novecento. Egli ebbe una funzione educativa intensa; risaldò
nei cuori il germe di due grandi affetti: la Madre e la Patria. Col Carducci fu
il preparatore spirituale degli italiani che fecero la guerra. De Amicis
parlò alla giovinezza, Carducci agli adulti. Da queste due voci di timbro
diverso - l'una gentile, l'altra forte - i giovani del tempo attinsero la fede
dell'amore, del sacrificio, dell'eroismo. Il piemontese GIUSEPPE GIACOSA, per
dolcezza d'animo e mitezza di carattere può essere accostato al De
Amicis, del quale fu intimissimo. Né si fermano qui le analogie tra i due
scrittori. In entrambi era una eguale intenzione didascalica, una
versatilità diretta a secondare i gusti del pubblico, una facilità
a mettere su volumi da «Biblioteca amena».
L'attività del
Giacosa (ove si eccettui un libro di prose ispirate alla Val d'Aosta, Novelle e
paesi valdostani, che forse costituisce il meglio dell'opera sua) si svolse
quasi esclusivamente nel campo teatrale e procurò allo scrittore una
nomea non inferiore a quella che il De Amicis andava cogliendo coi suoi volumi
in prosa. I sonori e romantici martelliani della Partita a scacchi, gli
endecasillabi ad intonazione verista del Conte Rosso, i problemi psicologici
proposti dai Diritti dell'anima, da Come le foglie, da Tristi amori fecero il
giro dei teatri italiani suscitando calore di consenso e di simpatia. Ebbe il
Giacosa doti di abile manipolatore di motivi respirati nell'aria e di influenze
letterarie sicché la sua opera, apparentemente divisa in evocazione di
leggende e storie piemontesi (che con un più autentico respiro poetico
furono anche tentate da un narratore meritevole di menzione, EDOARDO CALANDRA),
in drammi naturalistici alla Becque e in drammi psicologici alla Ibsen,
finì col riflettere gli ondeggiamenti e le contrastanti aspirazioni
dell'anima borghese del tempo. L'equilibrio tra le varie maniere del Giacosa -
la romantica, la naturalistica, l'etico-sociale - viene raggiunto in Come le
foglie, storia di una famiglia che si sgretola e si corrompe per effetto della
miseria. Si respira in questo dramma, sobrio ed efficacemente delineato, la
stessa malinconia che sale da altre storie di famiglie in rovina, dai Malavoglia
di Verga, poniamo, o dalle Miserie d' monssù Travet, la fortunata
commedia di un altro scrittore piemontese, VITTORIO BERSEZIO.
Passando dal
campo del racconto e del teatro in quello della poesia si avverte un forte
prevalere degli elementi romantici su quelli naturalistici o socialisti e
decadentistici. Il mondo dei poeti piemontesi fu dominato dal pessimismo,
dall'angoscia, dalla disperazione e si espresse in versi gelidi e chiari,
laboriosamente tormentati.
Il casalese GIOVANNI CAMERANA è stato
talvolta collocato tra gli scapigliati, per le sue relazioni di amicizia col
Praga e col Boito. Ma non era in lui l'intento letterario e beffardo dei cantori
dell'assenzio. Spirito serio e meditativo, il Camerana scrisse pochi ma
limitatissimi versi nei quali foschi paesaggi venivano evocati ad esprimere il
mistero della vita, e, dopo avere cercato pace nella natura o nella fede,
finì suicida nel 1905.
ARTURO GRAF, nato ad Atene da padre tedesco e
da madre italiana, ma vissuto quasi sempre in Piemonte, ebbe in comune col
Camerana la visione tragica del dolore e della morte e la preoccupazione del
labor limae. Nutrito di letture filosofiche e scientifiche oltre che poetiche,
inclinò per effetto di esperienze di vita e di influenze libresche ad un
disperato pessimismo che assai tardi parve temperarsi per effetto
dell'interpretazione dei socialismo come simbolo di redenzione morale. I volumi
dei versi del Graf, dalle Danaidi alle Rime della selva lasciano trasparire dal
loro desolato grigiore una debole ma nobile luce intellettuale e catartica.
Negli scrittori liguro-piemontesi è sempre avvertibile un substrato
etico.
TRADIZIONE E RIVOLUZIONE
La letteratura lombarda del secolo decimonono si
propose di frantumare il secolare dominio dell'Arcadia e della Accademia
mediante l'introduzione di nuovi spiriti e di nuove forme. Fu essa una
letteratura tipicamente antiletteraria che alla gelida prosa dei puristi
sostituì una espressione semplice e immediata anche se talora trascurata,
e che i frusti motivi arcadici (poesie per nozze, per monacazione, ecc.)
collocò definitivamente in soffitta. Il secolo venne proponendo nuovi
temi e ispirazioni: l'amor di patria, la santa lotta per il riscatto nazionale,
il ritorno agli ideali religiosi, la pacata contemplazione del dolore umano, e
poi, dopo il '60 e in conseguenza della crescente industrializzazione della
regione lombarda e del fiorire di un proletariato e di una intristita piccola
borghesia, la pietà per le classi sociali meno progredite o meno
fortunate, la ribellione contro la mostruosa forza del capitale, il ripiegare in
una zona solitaria di malinconia o di ebbrezza malata. I motivi del primo
romanticismo lombardo si erano composti nella prosa armonica e limpida di un
Manzoni, miracoloso equilibrio di estro e di cultura, di modernità e di
classicità.
Tuttavia - tale è il peso delle tradizioni
letterarie e così difficile il rinvenimento di una originalità
profonda - proprio dal capolavoro manzoniano aveva origine una nuova tradizione,
quella del romanzo storico e del romanzo con venature sentimentali e ironiche.
Naturalmente come accade sempre agli imitatori, i manzoniani videro nel loro
modello quanto vi era di transeunte e di meccanico. Il Grossi e il Cantù
si attardarono in un'analisi storica superficiale per eccesso di patriottismo,
il Carcano in un impoetico sentimentaleggiare e il Bini e il Rovani in un gusto
capillare dell'umorismo e della macchietta. Ma tutti si lasciarono sfuggire il
succo dell'arte manzoniana, quello scavare nella vita degli umili per
illuminarla con la pietà e la serena parola.
Questa profonda lezione
d'arte e di vita fu invece assorbita da taluno degli scrittori lombardi della
seconda metà dell'Ottocento, da un De Marchi, ad esempio, e persino da un
Praga, che pur non risparmiò contro il vecchio pontefice del romanticismo
acerbissimi strali. Accadeva così un fenomeno che solo apparentemente era
paradossale: i romanzieri storici alla Manzoni si allontanavano
irrimediabilmente dall'arte mentre chi, stanco dei vasti orizzonti e dei grandi
ideali del romanticismo si volgeva a guardare la vita di tutti i giorni e le
passioni mediocri o confessava, con accenti ora accorati ora spavaldi, la
propria decadenza ideale, faceva arte umana e sincera, vale a dire manzoniana.
E' questa una prova di più che le definizioni critiche sono sempre da
accettare cum grano salis e che romanticismo, realismo, verismo, ecc., sono
termini vaghi che acquistano tanti significati diversi quante sono le
personalità artistiche che nelle formule imprimono il suggello di
un'emozione di vita. Se ad esempio esaminiamo il mondo poetico di un De Marchi,
di un Praga, di un Dossi, di un Lucini, vi scorgiamo un fluttuare di elementi
romantici e di elementi realistici. Ma in definitiva è il temperamento
dell'artista quello che dà respiro; consistenza e timbro all'arte, onde
lo stesso metallo rende squilli diversi ed è nel modo della lega il
segreto di ogni perfezione.
Al Manzoni, come a maestro di vita e di stile,
guardò costantemente EMILIO DE MARCHI, il cui cristianesimo non si
conclude però con la pace e l'armonia ma con lo strazio e l'angoscia. Era
il De Marchi uno scrittore candido e onesto. Per certa sua predilezione per i
sentimenti elementari e per il carattere antiletterario e dialettale della sua
prosa, fu anche accostato al Verga. E di umili «vinti» è piena
l'arte demarchiana, da Demetrio Pianelli, il pover'uomo che tenta invano
l'evasione dall'angolo di ombra e di scherno in cui vive prigioniero, ad
Arabella, la buona creatura che sacrifica se stessa agli altri. E, come nelle
migliori cose del Verga, nel De Marchi l'indagine pedagogica si estrinseca nel
paesaggio, in un paesaggio lombardo nebbioso e malinconico. Col Verga il De
Marchi ebbe in comune la sorte letteraria. Anch'egli, sul finire del secolo, fu
travolto dal trionfo dell'arte dannunziana. A chi allora l'esortò a
rinnovare il proprio mondo in senso estetico-decadente lo scrittore rispose
bonariamente che il suo mondo era e restava quello della povera gente che stenta
nella grigia atmosfera degli uffici pubblici e dei poveri per i quali il
problema del pane quotidiano rappresenta l'incubo più tormentoso. La vera
poesia non ubbidisce al capriccio della moda chiassosa. Quando non si ha
più nulla da dire o non si è ascoltati, il partito più
dignitoso è quello di tacere.
Pessimista e sentimentale fu anche
CARLO DOSSI, la cui arte non ebbe però né la pacata ironia
demarchiana né preoccupazioni di problemi etico-sociali. Spirito
bizzarro, il Dossi volle contrapporre alla buona prosa lombarda di manzoniano
sapore un suo terremotato linguaggio irto di voci dialettali e poetiche.
Tuttavia non sta qui la sua importanza di scrittore. Essa è dovuta ad
alcune delicate miniature di scene infantili, a talune felici evocazioni della
adolescenza e della giovinezza in Vita di Alberto Pisani e a talune descrizioni
di paesaggio lombardo. L'ispirazione regionale del Dossi è stata posta in
luce nell'Ora topica di Carlo Dossi da un altro bizzarro scrittore, finito
miseramente ai primi del secolo ventesimo, GIAMPIETRO LUCINI, che nelle sue
opere esalò la nostalgia di una non mai posseduta nobiltà
ideale.
Col Lucini entriamo in un altro campo dell'antiletteratura
lombarda, e idealmente potremmo collegarlo a distanza con quel movimento che
prese il nome di «Scapigliatura» e che si propose di reagire al
manzonismo e al patriotticume della seconda epoca romantica (che in Lombardia
aveva nel Cavallotti un tardo quanto rumoroso epigono) con una poesia audace e
realistica, forte e satanica. Ma anche qui le intenzioni degli artisti contarono
ben poco. Gli scapigliati furono dei giovani precocemente invecchiati e tarati
da un tragico destino. Il Lucini fu dissolto dalla tubercolosi ossea, il
Pinchetti e l'Uberti finirono, come il Camerana suicidi, Emilio Praga
morì non ancora quarantenne. Fu una macabra scapigliatura di malati e di
moribondi.
La poesia degli scapigliati oscillò tra i poli della
compiaciuta confessione della irrimediabile decadenza spirituale e l'anelito
verso il sereno mondo manzoniano degli ideali calati nel reale. All'incertezza
dell'ispirazione si accompagnò l'incertezza della forma, sì che
l'espressione degli scapigliati fu talora sonante e superficialmente canora
(come può osservarsi specialmente nel Boito e nel Pinchetti), mentre
talora seppe tradurre un facile impressionismo emotivo in versi umani e
semplici. Ci riferiamo qui a talune delle liriche di EMILIO PRAGA.
Il Praga
fu tra gli scapigliati il più genuino temperamento di poeta. Chi guardi
oltre la scorsa del suo satanismo e del suo antimanzonianismo troverà un
timbro e un accorato risentimento che formano il lievito morale di una poesia
profondamente umana e sentirà la voce viva e commossa di un padre, il
tormento di un uomo che non riuscì ad armonizzare le varie corde del
proprio mondo affettivo, l'angoscia di uno scrittore che sa di alternare momenti
di spontaneità a larghe zone opache, ma vi scorgerà raramente
l'insincerità e il dilettantismo.
L'IDEALISMO VENETO
Mentre in Lombardia gli ultimi romantici e gli
scapigliati precorrevano quella disarmonia spirituale che sarà propria
delle generazioni del Novecento, la letteratura seguiva nel Veneto altre strade,
ben più agevoli e piane. Il carattere costantemente tradizionalista e
moderato dell'arte veneta è stato da un critico spiegato col secolare e
oculato dominio della Serenissima, che unitamente alla prevalente educazione
seminarista nelle scuole, educò gli animi al rispetto delle forme.
Comunque sia, rimane accertato che, anche quando gli scrittori veneti vollero
essere originalissimi e rivoluzionari non riuscirono mai a liberarsi del tutto
delle incrostazioni letterarie, come può osservarsi, per esempio, nel
veronese VITTORIO BETTELONI che diede vita, nei volumi In primavera, Nuovi Versi
e Crisantemi, ad un mondo poetico romantico e famigliare espresso in forme
semplici e tenui, dimessi fino ad arieggiare l'andamento della prosa. Il
tentativo era senza dubbio interessante - e vedremo che esso sarà ripreso
con ben altra voce poetica dai crepuscolari - ma mancò al Betteloni il
dono dell'equilibrio tra l'antico e il moderno, tra la poesia e la prosa, tra il
serio e il faceto.
Pure, l'anelito del Betteloni ad un rinnovamento delle
forme non ebbe seguito. Il maggiore poeta veneto del tempo, il vicentino GIACOMO
ZANELLA, fu, per innata predilezione e per peso di studi, un fautore di un
nitido ed elegante e tradizionale formalismo. Sacerdote pio e colto, attento
alle voci e agli umori del tempo lo Zanella prese ad argomento dei suo canto i
progressi scientifici e sociali del secolo, e, più tardi, la crescente
miseria delle plebi rurali e la delusione del tanto conclamato progresso.
Purtroppo lo Zanella non riuscì a conciliare né il dissidio tra la
fede e la scienza, tra l'ossequio al papato e l'amore all'Italia, né
quello tra il contenuto e la forma. Vi è una lirica famosissima in cui si
può studiare chiaramente il difetto principale dello Zanella, e
cioè l'assoluta discordanza tra la serietà e la gravità
dell'argomento e la canora superficialità delle strofe, assai tornite e
levigate. Alludiamo alla Ode su una conchiglia fossile di cui basterà
rileggere, con animo sgombro dalla scolastica ammirazione, i versi più
noti per scorgervi l'intonazione assolutamente sbagliata da canzonetta
metastasiana.
Sui tumuli il piede,
nei cieli lo sguardo,
all'ombra procede
di santo stendardo.
per goli reconditi,
per vergini lande
ardente si spande.
Non una frase, non
un verso che crei immagini nuove e concrete, che fermi stati d'animo e non
atteggiamenti statuari. Meglio lo Zanella riuscì quando si limitò
ad esprimere un'arcadica contemplazione della natura nella collana dei sonetti
che egli dedicò all'Astichello, il fiumiciattolo che scorreva attorno ad
una sua villetta di campagna.
«Tu povero Astichel, solo sei
vivo,
tu che scorrendo e dileguando insegni
come tutto nel mondo
è fuggitivo».
Dallo Zanella ebbe consigli e
incoraggiamenti la patavina VITTORIA AGANOR POMPILJ, la cui poesia d'amore non
sempre trovò accenti caldi e immediati, dato che la maggiore
preoccupazione della scrittrice fu costituita dall'aspirazione ad una letteraria
compostezza della frase.
Fermamente ancorato alla tradizione fu, nel
Veneto, anche il teatro. In questo campo la tradizione non aveva che un nome:
Goldoni. E goldoniani furono i due maggiori drammaturghi veneziani, il Selvatico
e il Gallina, i quali usarono a preferenza il dialetto.
RICCARDO SELVATICO
introdusse nella sana comicità d'origine goldoniana una delicatissima
vena di poesia. La rappresentazione dei costumi popolari veneti e delle anime
primitive e semplici trovò in La bozeta de l'oio e in I recinti da festa
accenti umani ed efficacissimi. La sua arte precorre quella di GIACINTO GALLINA,
il quale, nutritosi esclusivamente del Goldoni dei Rusteghi, de La casa nova, de
Le baruffe chiozzotte, ecc., volle rendere gli aspetti comici e sentimentali
della Vita borghese e popolana di Venezia. Una tenue e commossa vena di poesia
crepuscolare serpeggia ne La famegia del santolo, ne Il moroso de la nona e in
Serrenissima e in tante altre commedie nelle quali il decadere, il trasformarsi
e il rinascere dei ceti sociali veneziani sono osservati con occhi lucidi di
pianto.
Nel campo nella narrativa - (fatto cenno di GEROLAMO ROVETTA, nato
a Brescia ma vissuto a lungo nel Veneto, il quale oscillò senza intimo
convincimento tra le idealità patriottiche, morali e civili, e un
convenzionale realismo) - ci si presenta un grande nome: ANTONIO FOGAZZARO.
Vicentino, come lo Zanella, il Fogazzaro ebbe qualche affinità con il
cantore della «Conchiglia fossile». Anch'egli, innamorato della fede e
rispettoso della scienza, fu, per tutta la vita, tormentato da uno sforzo
romantico di conciliazione fra il dramma del pensiero e quello dell'anima, fra
il contrasto della ragione e quello della fede, tra l'urto del sentimento e
quello della coscienza, tra i moti dell'intelletto e quelli del cuore. Tale
sforzo, fallito dal punto di vista filosofico e storicistico, fu artisticamente
reso. Si può dire, anzi, che è proprio in questo fallimento il
pathos avvivante della tragedia dei personaggi fogazzariani, che, precisamente,
in questa mancata conciliazione e nella catarsi purificatrice a cui essi
pervengono, quando non soccombono, è l'ictus di una narrativa che non
vuole essere fine a se stessa, ma vuol conquistare un contenuto altamente etico,
religioso e sociale.
Non vi è dubbio che Piccolo mondo antico
raggiunga l'equilibrio stabile, di tutti gli elementi creativi del vicentino, ma
anche nel Piccolo mondo moderno, nel Santo, nel Mistero del poeta, in Leila, il
Fogazzaro ci fa assistere all'evoluzione del suo cosmo ideale e artistico, con
alti e bassi ombre e luci, costruzioni e impasti di varia esperienza e vasto
ciclo; anche in quei romanzi ci dà paesaggi e creature indimenticabili.
Le famose donne del Fogazzaro non sono mai falsate, né snaturate,
né letterarie. Sono donne vive di un mondo romantico, espressioni di un
tormento e di una crisi sociale che investe la natura femminile, in quella
singolare zona in cui le ha poste lo scrittore. Gli eroi dei romanzi
fogazzariani, Daniele Cortis, Benedetto Maironi, ecc. non sono, né
astratti, né avulsi dalla vita. Essi slittano oltre la realtà,
perché sono sognatori in azione e perseguono, in campi di versi, una loro
idea praticamente inattuabile. Appaiono, a volte, sfocate queste figure; a
volte, la tesi ha il sopravvento; le costruzioni, a volte, mostrano la costura;
lo stile non sempre si identifica con la rappresentazione, l'umorismo è
limitato alla macchietta. E' vero. Ma di fronte a codeste inefficienze stanno
creature fissate nel calco del tempo. Uno scrittore che ha saputo plasmare la
sensibile trepida vita di Ombretta, la dolorosa e umana figura di Luisa, e i
volti vividissimi di tutta una folla di secondo e terzo piano nella Valsolda e
incidere nel dramma spirituale di Pietro e di Franco Maironi e dar colore nuovo
e pur vero ai quadri della natura, merita di essere studiato con attenzione e
simpatia.
Quanto, poi, al Fogazzaro pensatore, che apparve agli occhi dei
suoi coetanei così vacillante nel tentativo di conciliare la fede e la
scienza, ci sórge, invece, e non del tutto infondato, il sospetto, come
da molti segni si avverte, che egli abbia, piuttosto, precorso i tempi.
IL REALISMO IN TOSCANA
L'arte toscana - e ci riferiamo non solamente
alla letteratura del secolo Ottocento, ma anche a quella dei nostri giorni - ha
caratteristiche inconfondibili rispetto alle altre letterature
regionali.
Gli scrittori toscani, anche quando non scavano nel fondo della
verità e della sapienza, hanno un loro saporoso modo di esporre e una
vivacità drastica nel presentare la vita e nel cogliere, con arguta
prontezza, i lati salienti tanto drammatici che comici. E' nella natura del
popolo fiorentino, infatti, la sagacia, il frizzo e quel sottile senso caustico
che nasce da una grande conoscenza dell'anima umana e delle umane vicissitudini
nei riflessi della realtà e del sogno, della verità e delle
illusioni di un popolo che ha espresso i più grandi artisti della
fantasia e del colore, la cui lingua si nutre quotidianamente dall'esperienza
atavica, la cui sensibilità nobilissima trova nella parola le vibrazioni
più armoniche e più profonde, senza quello sforzo ricostruttivo,
sintattico e vocabolaristico che si richiede da chi è costretto a rifare
sul proprio dialetto il congegno dello stile e il tessuto del pensiero. Per
questa felicità d'ambiente e di tradizione gli scrittori toscani si
trovano certo in vantaggio rispetto agli altri. Essi hanno in casa, sin dalla
nascita, quella ricchezza idiomatica e quella concinnità espressiva che
costituiscono già in gran parte gli elementi fondamentali e basilari
dell'arte narrativa. D'altro canto essi corrono il rischio di congestionare il
loro stile e di agghindarlo in modo che la prosa dia alla fine un tono manierato
e letterario, anche quando scavano in bassifondi popolari e traggono dalla viva
voce delle masse il materiale grezzo delle loro creazioni.
La prosa
famigliare e semplice, la grazia del dire, la cultura umanistica, costituiscono
i pregi della narrativa di FERDINANDO MARTINI. Scrittore piacevole, arguto,
enciclopedico e versatile, ricco di spirito e di intelligenza, ii Martini
qualche volta seppe andare oltre l'ornato e sereno conversare come può
osservarsi nel suo maggior libro, e cioè Nell'Africa Italiana, in cui le
pagine evocative e ricostruttive del continente nero sono pervase da un
sotterraneo elemento lirico che costituisce l'humus interno della
vitalità dell'opera.
La cordialità umana e la
semplicità dello stile non furono invece sufficienti a dare un valore non
transeunte ad altri letterati toscani della seconda metà dell'Ottocento,
quali il MAZZONI, il NENCIONI e il CHIARINI. Tutti e tre critici e poeti, colti
di letteratura italiana e straniera, quando vollero far poesia, si attardarono
in un impressionismo sentimentale, e, quando si volsero alla critica, rimasero
impigliati nelle maglie di un metodo che li portava a lodare
indiscriminatamente.
Di altri letterati toscani è inutile far cenno.
Il Guerrini e il Ricci, nella loro gustosa parodia del «Giobbe»
rapisardiano ebbero voce profetica quando, rivolgendosi agli accademici e ai
poetuncoli fiorentini, sentenziarono:
«Tutti cadrete nell'oblio che
copre i clamori d'un giorno. Un sol di voi vivrà. Vivrà colui che
non stimate giungervi alla caviglia: il più modesto, il migliore fra voi.
Vivrà il Fucini.»
RENATO FUCINI, o Neri Tanfucio, nacque
a Monterotondo Marittimo, nella maremma grossetana. Spirito buono e affettuoso,
arguto conversatore, il Fucini, seguendo la corrente del trionfante naturalismo,
diede alla sua arte un sano impulso regionale e ritrasse in sapidissimi Sonetti
e nei bozzetti de Le Veglie di Neri aspetti e figure della campagna toscana. La
sua arte, pur entro i limiti del quadretto e della macchia, riesce a cogliere
con realistica evidenza l'elemento paesistico e l'elemento umano. Il Matto delle
giuncaie, la strana creatura che vive in una palude, sola con un vecchio cane,
le povere famiglie che coll'inverno emigrano dalla montagna, snidate dal rigore
della stagione e della fame, e si allontanano nel folto di una bufera di neve,
lo spaccapietre che, per ottanta centesimi al giorno, lavora indemoniato sotto
la canicola estiva, queste e tante altre figure semplici e selvagge sono
descritte con un pathos malinconico e amaro che richiama il grande afflato del
mondo verghiano. Ben sintetizzò Renato Serra le caratteristiche dell'arte
del Fucini.
«Voltandoci indietro, come per salutare, ci vien
fatto di rivedere una figura più mezzana (del Verga) cara alla nostra
fanciullezza, in cacciatora di fustagno, e con la pipa in bocca, un viso un po'
invecchiato, una brunitura di sole e di campagna, e un riflesso deliziosamente
toscano, bonario e arguto nel riso e negli occhi sempre vivi, Fucini, che ha
scritto delle cosette sentimentali e comuni con una vivacità da
macchiaiolo e una limpidezza di artista.»
GIOSUE' CARDUCCI
Maremmano fu anche il più grande poeta del
secondo Ottocento, GIOSUE' CARDUCCI.
«Dolce paese, onde portai
conforme
l'abito fiero e lo sdegnoso canto
e il petto ov'odio e amor
mai non s'addorme»
cantava il poeta nel 1885, alla vista dei
cari, selvaggi colli.
Giosuè Carducci ritratto tra parentiI paesaggi, i luoghi, la natura ebbero una profonda influenza
nell'arte di Giosuè Carducci, entrarono a far parte delle sue fantasie e
delle sue creazioni, gli fornirono materia d'ispirazione, si fusero coi suoi
fantasmi, crearono uno sfondo adeguato ai suoi sogni, furono scenario di
bellezza e di solennità anche alle sue grandiose ricostruzioni storiche.
Non v'è infatti componimenti, sia di natura puramente lirica, sia di
carattere epico, sia culturale o filosofico o mitologico o patriottico o civile,
in cui non intervenga immediatamente il senso della natura a far da quadro e
cornice alle sue visioni e ai suoi pensieri.
Ed ecco il poeta sui banchi
della scuola alzare il capo dalle letture omeriche ed osservare dalla finestra
aperta il sorriso azzurro del cielo; ecco il «pio bove» che riflette
nel «grave occhio glauco il divino del pian silenzio verde», ecco
Lidia che porge al taglio secco della guardia la tessera mentre i fanali
s'inseguono accidiosi nelle brume d'autunno, ecco dietro l'ombra di Napoleone
Eugenio sorgere la solitaria casa di Aiaccio
«Cui verdi e grandi
le querce ombreggiano»,
ecco i cipressi di San Guido svettare
sulle memorie dell'infanzia, ecco le tante figure della storia, della leggenda e
dell'arte inquadrate sempre dentro le scene e gli spettacoli del creato. Persino
nella prosa, persino durante il processo severo delle sue indagini culturali, il
Carducci si lasciava distrarre dalle dolci visioni del paesaggio romagnolo o
toscano. Ricordate le belle lavandaie di Desenzano che si presentano alla vista
del poeta e lo distolgono dall'accanimento polemico? E le cicale di S. Miniato
al Tedesco? Mare, cielo, montagne, fiumi, alberi, aurore, tramonti, allegrano o
infoschiano i personaggi, il dramma e gli stati d'animo carducciani. Ecco,
Sennuccio del Bene, che ricorda S. Maria del Fiore la quale s'innalza serena
«tra le negre torri», ecco Teodorico che
«guarda il
sole sfolgorante
e il chiaro Adige che scorre,
guarda un falco
roteante
sovra i merli della torre,
guarda i monti da cui scese
la sua forte gioventù
ed il bel verde paese
che da lui
conquiso fu».
Ecco, ancora la tragica sorte di Massimiliano
istoriarsi sul castello di Miramare «dalle bianche torri attediate per lo
ciel piovorno», ecco
«I freschi pini, per l'aura grande di
Roma
fremere accanto all'urna di Shelley»
ecco «la
villa del Douro sola e cheta in mezzo dei castagni» albergare, nella
indifferente calma, il dolore di Carlo Alberto, ecco il Cadore di Pietro Calvi
dove «lento nel pallido candor della giovane luna stendesi il murmure degli
abeti», ecco il dolore del figlioletto morto inacerbirsi alla vista del
«verde melograno dai bei vermigli fior». Si avverte subito che il
poeta è vissuto sempre in contatto con la natura, ne ha sentito sin
dall'infanzia la possente bellezza e l'infinito mistero, ne ha portato nel
cuore, anche dentro le chiuse aule delle biblioteche e della scuola e nei fondi
abissi della sua cultura, il respiro e il calore.
Il Carducci che ha
ricordato le case, le ville, il paesaggio di quasi tutte le grandi figure
storiche della sua fantasia, non dimenticò la propria casa natale e la
meravigliosa Versilia. Ritornano esse infatti nel suo canto con un senso di
nostalgia e di chiuso ardore appena l'estro lo sospinge verso il tema
dell'infanzia.
«E al cor nel fiso mite fulgore
di quella
placida fata Morgana
riaffacciavasi la prima età,
senza
memoria senza dolore,
pur come un'isola verde, lontana,
entro una
pallida serenità».
Oppure è la favella toscana dal
mesto accento a destargli nell'anima il ricordo della
Versilia:
«Canora discendea, col mesto accento
della
Versilia che nel cuor mi sta
come da un sirventese del Trecento,
pieno di forza e di soavità».
E alla Versilia,
ancora cessate le battaglie letterarie e composti i suoi spirituali dissidi, il
poeta rivolgerà pensieri ed affetti. E quando, asceso sulle soglie della
gloria, si persuaderà di avere perduto il verde e malinconico rifugio del
paese natale, allora sentirà una grande tristezza pungergli la memoria e
domanderà agli uccelli un messaggio d'amore da portare alla fedele natura
che sorrise agli anni suoi primi e affiderà alle trasmigranti vite
dell'aria il suo tenero ed affettuoso saluto, quando esse sosteranno sulla terra
«bianca di marmi e bruna d'oliveti».
Crediamo di avere
individuato nella persistenza lirica del paesaggio toscano e romagnolo il nucleo
vitale della poesia carducciana. Tuttavia è ben lontana da noi
l'intenzione di impicciolire nei limiti di un impressionismo pittorico la
portata di tutta l'arte del Carducci, il quale volle essere soprattutto il vate
della nuova Italia.
Osserva giustamente il Croce che per il Carducci
«nella lirica, doveva riversarsi la storia: il passato gli parve la sola
degna materia che restasse nei tempi moderni ai poeta. Volle, dunque, atteggiare
a rappresentazione artistica i ricordi storici della terra italiana, le figure
degli eroi e le leggende, e nutrire il verso di ogni sorta di reminiscenza. Ebbe
sempre in dispregio più o meno secreto l'artista umile e ingenuo e gli
preferì quello dotto e sapiente. Insieme con le allusioni storiche, la
sua forma poetica si venne corroborando di allusioni e comparazioni mitologiche
e si svolse in una fraseologia che segue le movenze dei maggiori poeti italiani
e latini».
Per la sua classicità e per la sua prevalente natura
storico-politico-letteraria l'opera del Carducci parve ad alcuni professorale
nel senso meccanico e deteriore della parola e fu, invece, espressione sincera e
vivida di una grande anima. Nei momenti migliori la cultura, la storia, il
pensiero, la mitologia non restarono allo stato di sovrapposizione ideologica.
Il poeta assorbì, dai libri e dal clima meraviglioso ed eterno dei
classici, non solo il gusto delle forme e dello stile, ma anche il polline di
tutta una concezione epica, grandiosa e sublime dell'esistenza, non fine a se
stessa, sibbene attività operante del pensiero e a servizio di un ideale.
Questo ideale fu per il Carducci soprattutto la Patria. Non fu un'idea
scolastica e libresca: fu febbre, alimento, luce della sua vita spirituale.
L'uomo che era vissuto in contatto col mondo eroico di Grecia e di Roma e che,
per tendenza naturale, era portato ad ammirarne e comprenderne la storia, la
civiltà, l'arte, doveva ben chiaramente agognare che l'Italietta
umbertina si specchiasse sulla storia del suo passato.
All'Italia dopo il
1870 era venuta meno ogni comunità idealistica di ispirazione e di
interessi. Compiuta quasi con la presa di Roma, la sospirata unità,
soffocate, per necessità diplomatiche, le velleità irredentiste,
passata la generazione che aveva sacrificato se stessa e assistito alla gloriosa
ascensione della Patria, l'anima italiana vedeva farsi più lontano il
miraggio della finale liberazione delle terre che erano rimaste sotto il grave
giogo d'Asburgo, e acquietatasi in una vita di serena attività civile, si
volgeva a nuovi e più ristretti orizzonti. Si guardarono, siì con
occhi luminosi di gratitudine le figure del nostro Risorgimento, si seguirono
col pensiero i loro supremi miraggi non ancora del tutto realizzati, si ebbe la
cognizione, sebbene non la convinzione, che un obbligo morale aveva l'Italia
verso i suoi figli e verso se stessa: il completamento della grandiosa opera,
iniziata e in massima parte compiuta, dell'unità. Ma tutto ciò
come una cosa lontana nel passato e difficile nell'avvenire.
Ben altra
disposizione spirituale muoveva il Carducci, il quale svolse la sua opera di
educatore e di poeta con religione e con amore, infaticabile e attivo sempre.
«Non potendo operare - scrisse il Croce - come gli antichi poeti greci, si
proponeva di meditare i cantici delle memorie e dei desideri; si giurava sacro
alla Patria in ogni suo verso; si vagheggiava sulle tombe degli eroi come
Sofocle sul trofeo di Salamina».
Grazie a queste sue idealità
alte e sublimi poté il Carducci risuscitare la morta poesia nostra,
fustigando gli arcadici isterismi dell'ultimo romanticismo che, rigermogliato
timidamente come un pollone malaticcio sul tronco di un albero disseccato veniva
estenuandosi in un languido sentimentalismo.
Né vanno trascurati i
meriti del Carducci critico, polemista e prosatore. Nel campo della critica egli
diede un fondamento scientifico, al cosiddetto metodo storico, rinvigorì
ed innovò gli studi di compilazione, di raffronti e di ricerche, che
vennero via via perfezionandosi (pur cadendo in eccessi e perdendo in
raffinatezza estetica ciò che guadagnavano in diligenza e
minuziosità esegetica) col Graf, col D'Ancona e infine, col
Barbi.
Vero è che, tutto compreso del suo metodo critico, il
Carducci ebbe il torto di non aver saputo apprezzare nel suo giusto valore, la
produzione geniale del De Sanctis, tuttavia è innegabile che, come
elemento rigeneratore di studi, la sua opera sia stata valida. Non piccolo
né lieve fu l'incremento che lo scrittore diede alla prosa italiana del
suo tempo, innervandola allo stile classico e ciceroniano dell'andatura,
rinsanguandola di modernismo schietto e robusto, dandole una concinnità
garbata, un respiro ampio, dignitoso, solenne, e, nello stesso tempo,
infondendole una vitalità nuova e potente per gli scatti e rapidi
trapassi di tono, dal cattedratico all'umoristico, al polemico, all'oratorio, al
descrittivo, al lirico.
In definitiva Giosuè Carducci
irrobustì e rifece l'arte italiana e le diede un contenuto vivo e vitale,
una forza interiore efficace e intensa, una forma dignitosa e
nobile.
SCRITTORI ROMAGNOLI
Attorno al Carducci venne formandosi, a Bologna,
una corte di imitatori, di discepoli o semplicemente di scrittori che nel poeta
di Maremma riconoscevano un maestro. Si è parlato, a questo proposito, di
una scuola carducciana, che comprenderebbe tra le sue figure più
significative, il Guerrini, il Panzacchi, il Marradi e Severino Ferrari. Ma ad
uno sguardo più approfondito si osserva chiaramente come l'influenza
carducciana abbia inciso assai poco su tali poeti che, quando ebbero accenti
seri e duraturi (il che accade loro di rado) si trovarono agli antipodi del
virile patriottismo dell'autore delle «Odi barbare».
Quale
affinità spirituale correva ad esempio tra il GUERRINI e il Carducci, che
pur si stimarono e si amarono e combatterono insieme delle battaglie letterarie?
Nessuna in realtà. Mentre il Carducci
«cupo, aggrondato
(come lo descrive lo stesso Guerrini) procedeva per le felsinee strade,
strappando dal bruno mento la barba rada e mulinando ruvidi esametri, sognando
l'arte aristocratica»,
il Guerrini, da buon romagnolo, gustava
la vita grassa e tranquilla e canzonatrice della capitale dell'Emilia, e dettava
il manifesto del verismo in poesia, vale a dire di un'arte viva, moderna, libera
di paludamenti classici e di nostalgie patriottiche e
risorgimentali.
«Gli artisti hanno cominciato a capire che il
segreto del trionfo sta nel sapersi ispirare all'ambiente in cui si vive, alla
verità di oggi, non a quella di cinquant'anni addietro. Hanno capito che
in arte bisogna essere del proprio tempo o morire... Vogliamo sentire come i
nostri nervi e il nostro cervello comportano... vogliamo amare come sappiamo
amar noi, non come amarono i nostri nonni. Nel 1860 si poteva, si doveva avere
l'ideale dell'Italia una. Ora che questa unità non è più
né discussa né minacciata, come faremmo ad avere lo stesso ideale
e cantarlo? Il verismo e il borghesismo che cosa sono dunque se non effetti di
uno stato sociale, momenti di un'educazione civile? Oggi la rettorica del
quarantotto ci fa sorridere perché quell'entusiasmo giovanile non
c'è più, e non c'è arte al mondo che lo possa resuscitare
colla sua forza, per quanto grande la si voglia credere.»
In che
cosa consistette il verismo del Guerrini? Dapprima nella Postuma, che il
Guerrini attribuì ad un immaginario poeta morto di etisia, Lorenzo
Stecchetti, l'arte verista si limitò a risciacquare i panni dell'ultimo
romanticismo nelle acque non troppo chiare del baudelairismo di moda in Francia,
poi, dopo scialbi tentativi «socialistici», ripiegò nella
pornografia anticlericale delle rime di Argia Sbolenfi. Non andò mai,
comunque, oltre i ristretti orizzonti della contraffazione e della burla: fu la
poesia più anticarducciana che si potesse immaginare.
Forse la cosa
migliore del Guerrini rimane quell'opera in cui il proposito burlesco è
decisamente svelato. Alludiamo alla gustosa parodia Giobbe (poema alla maniera
rapisardiana) nella quale sono acuti ed arguti giudizi sui letterati del tempo
che vengono esaminati secondo una distinzione per regioni. Notevoli ci sembrano
i ritratti di ENRICO PANZACCHI «dolce cantor di romanze e laudator di prime
donne» e del commediografo modenese PAOLO FERRARI «L'Aristofane
nostro, a cui non ride più la fortuna giovanil de' primi suoi passi, poi
che le serene arguzie per le tesi lasciò».
I limiti
dell'idillico poeta di Ozzano (melodioso e ricco di delicate sfumature
cromatiche e spirituali) e dell'autore di Goldoni e le sue sedici commedie nuove
sono giudiziosamente stabiliti; così come criticamente esatto è il
parere che il Guerrini dà sulla propria poesia:
«Eccoti,
o gran Stecchetti, coi bugiardi
tuoi vizi, imitazion d'imitazione,
che devi la tua fama a un falso morto!
Non è verismo il tuo,
ma vitupero».
Assai lontani dalla grande poesia carducciana
furono anche due altri poeti cui il Carducci non risparmiò elogi ed
incoraggiamenti, SEVERINO FERRARI, e Giovanni Marradi.
«O
Severino dei tuoi canti il nido,
il covo dei tuoi sogni ben lo
so,
cantava il Carducci. Questo covo di sogni era costituito nel
Ferrari da un piccolo mondo di sentimenti teneri e affettuosi espressi con
grazia, delicatezza e sincerità, da un mondo poetico che non si
riallaccia al Carducci ma che, semmai, prelude al Pascoli.
Più vasta
fama ma minore felicità poetica ebbe il MARRADI grazie a raccolte di
versi in cui paesaggi naturali o personaggi storici (Garibaldi, Anita ecc.)
vengono fissati in una letteraria eleganza priva di intimità e di
commozione.
Solitario, rispetto al Carducci e agli altri scrittori
romagnoli, si macerava nella meschinità della vita provinciale il
faentino ALFREDO ORIANI. Reso scontroso da una vita vuota di affetti, deluso
nella sua aspirazione alla gloria, tormentato da una visione macabra e desolata
dell'esistenza, l'Oriani finì col porsi contro, tutti i principi e le
idee del tempo. Fu antisocialista, antidivorzista, nazionalista e imperialista.
Vi era certamente qualcosa di squilibrato e di convulso in quel suo
atteggiamento retorico di ribelle. Dove l'Oriani riuscì efficace e
misurato fu in taluni romanzi di un verismo esasperante eppure umano, in Gelosia
ad esempio, in Vortice, che descrive l'ultima lunghissima giornata di un
suicida, in Olocausto (che ha per argomento la prostituzione di una fanciulla ad
opera di una mezzana) e nella Disfatta. In quest'ultimo romanzo lo scrittore
espresse quanto vi era di più nobile e sconsolato nella sua anima con un
tono malinconico che giunge fino allo strazio. Il protagonista della Disfatta,
il prof. De Nittis, che contemplando la propria vita passata e futura, si
ritrova solo, senza figli, senza gloria, senza speranza, è la
trasfigurazione artistica dello stesso Oriani.
POETI ROMANI
Nel più volte citato poema satirico Giobbe
il Guerrini aveva aspre parole di rampogna contro i cosiddetti poeti della
scuola romana - tutti accademici e classicisti - i quali rimasero estranei alla
rivoluzione spirituale, sia in senso storico che in quello letterario, che
agitò i letterati delle altre regioni d'Italia. Mentre il Carducci
rievocava amorosamente il patrimonio ideale della grande Roma e il De Marchi, il
Fogazzaro, il Verga venivano trasformando documenti umani in pagine d'arte, i
poeti romani - tra i quali sono appena degni di menzione il Revere e il
Giovagnoli - si esercitavano freddamente in poemetti montiani, in sonetti
pratiani e in odi saffiche e asclepiadee.
Naturalmente, così
giudicando, abbiamo mentalmente estratti dalla folla degli scrittori romani, per
dar loro l'alto posto che meritano, due scrittori di notevole valore, il Cossa e
il Pascarella.
L'arte di PIETRO COSSA non derivava né dalla tragedia
alfieriana né dal dramma romantico, ma prendeva le mosse dal verismo e
dal naturalismo francese. Il Cossa spirito anticlericale e liberale,
guardò con predilezione alla storia di Roma, vista però non nei
suoi momenti più alti, solenni ma nei tempi di decadenza, di corruzione e
di brutalità. Fu questa la difesa del Cossa contro il pericolo di cadere
nella retorica delle facili rievocazioni romane. I suoi eroi sono
«personaggi averistici» in cui le luci ed ombre, virtù e
difetti si confondono in un suggestivo e umano impasto. Da ciò il
successo notevole del Nerone, in cui il protagonista non è il fosco
tiranno della tragedia classica ma un uomo crudele e fanciullesco insieme,
ambizioso e vile, ingenuo e raffinato.
Anche il PASCARELLA ebbe rapido e
immediato il successo e il riconoscimento. Il Carducci, in uno di quei
traboccanti impulsi che caratterizzavano gli entusiasmi o i risentimenti della
sua natura, proclamò l'alta epicità di Villa Glori con parole che
raramente ebbe per altri poeti viventi del suo tempo. La fortuna e i consensi
circondarono sempre l'opera e la persona del poeta romano, il quale a dire il
vero, dopo Villa Glori e la scoperta dell'America (altro poemetto che
suscitò l'interesse di quell'epoca letteraria), per un curioso caso di
autocoscienza e di accresciuto senso di responsabilità, sorvegliò
attentamente la sua ispirazione e lavorò faticosamente attorno ai sonetti
di Storia nostra: che uscì postuma e incompiuta.
Per giudicare
serenamente la poesia del Pascarella è necessario svestire il poeta di
Villa Glori dalle intenzioni di Vis epica. Inserite nel campo storico, le
ricostruzioni pascarelliane, le scene e i personaggi, per quanto estratti dalla
realtà, acquistano colori, modi, gesti, che si proiettano in una
atmosfera parabolica, dove l'elemento narrativo ha spesso il sopravvento sulla
sostanza lirica o sullo sviluppo epico e dove lirismo ed epicità sono
assoggettati ad una interpretazione nobilissima in cui il serio e il faceto si
alternano. Il Pascarella porta sempre nella sua materia i riflessi delle sue
predilezioni pittoriche, umoristiche, satiriche. Avvertiamo, ad un dato punto,
che per quanto il protagonista resti sempre sulla scena, non è più
il popolano di Trastevere che parla, ma il poeta. Tutto ciò è
tanto più facilmente reperibile quanto più il racconto passa
dall'epoca antica alla moderna, quanto più fa fulcro insomma verso il
periodo delle lotte per l'unità italiana. Quando si trattava di rievocare
la leggenda e la storia ancora confuse, il poeta aveva un tono giocoso e a volte
comico e i suoi quadri si sfumavano di tinte ironiche e i dialoghi si
infittivano di riflessioni e giudizi e ragionamenti di arguto umorismo. Ma
appena si entra nel Risorgimento, appena balzano fuori le figure degli eroi che
prepararono l'Indipendenza, ecco che il timbro narrativo acquista vibrazioni
insolite e la fantasia del Pascarella si leva a voli impetuosi e commossi.
Allora affiorano motivi inaspettati di delicato impressionismo e si aprono
efficaci squarci di intonazione epico-lirica che testimoniano di una altissima
fede di cittadino nella grandezza dell'Italia e di una superiore nobiltà
di artista.
LA LETTERATURA NAPOLETANA
Il Pascarella risolveva magistralmente il
problema che, sul finire del secolo, si pose agli scrittori di più acuto
sguardo, quello di creare un'arte che, reagendo all'aulica e noiosa tradizione
letteraria nostra, fosse popolare senza essere né sciamannata, né
cantarellante, né legata al quadretto e al bozzetto. Perché la
letteratura italiana non è popolare in Italia? Su questo argomento il
Bonghi dissertò in un lungo articolo scoprendo che il tarlo che rodeva la
nostra arte era il distacco tra la cultura e la storia, tra la letteratura e la
vita. A questa inaderenza della letteratura col popolo influirono, grandemente
ragioni storiche e idiomatiche che dopo la rottura dell'unità italiana,
dal sesto secolo dopo Cristo, determinarono nelle varie regioni il prevalere dei
dialetti. Per questi motivi la lingua italiana rimase sempre più nel
campo letterario, dottrinario e scolastico mentre il dialetto servì ad
esprimere sentimenti e motivi più vicini all'anima popolare e l'arte ebbe
un carattere realistico e regionalistico. Il dialetto, in altri tempi, fu lo
strumento più vivo e caratteristico di un'arte che ebbe radice nei
più profondi sentimenti umani. Tutto questo sino al periodo che precede
la guerra. La guerra opera un movimento di trasfusione e di rifusione e cementa
l'unità italiana: i caratteri particolari delle singole regioni si
scoloriscono gradualmente e si esauriscono quindi le più essenziali fonti
dell'ispirazione popolare che attinge vena e forza soprattutto da un materiale
di natura folcloristica.
A Napoli la rivolta contro la letteratura e
l'arcadia - rivolta che era già osservabile nel Settembrini e nel De
Sanctis - si realizzò attraverso una poesia e un'arte dialettale, o
quanto meno d'ispirazione dialettale. Da un rapido sguardo d'insieme alla poesia
dialettale napoletana sentiamo che affiorano i veri caratteri e la vera natura
di tale poesia giunta sin'ora, a noi in una discorde e tumultuosa orchestrazione
in cui non è facile discernere il formale dal sostanziale, il perentorio
dal durevole il piedigrottesco e il cantabile da ciò che fu vera e pura
poesia dell'anima di un popolo attraverso la voce singolare e inconfondibile dei
suoi poeti. Questi poeti furono Libero Bovio e Rocco Galdieri, che
preannunziarono gli stati d'animo di trasognato stupore e d'infinita stanchezza
che saranno propri dei crepuscolari, e soprattutto SALVATORE DI GIACOMO.
La
caratteristica più saliente dell'arte del Di Giacomo - in un momento in
cui la poesia dialettale in Italia si oggettivava in quadri e scene di sapore
paesano in cui la psicologia era piuttosto pittura e il disegno amore del
particolare con tinta ironica e amara - consiste in un dilatarsi del pensiero
oltre il limite della realtà, in un echeggiare dell'anima oltre il grido
della propria passione, in un riflettersi della natura in noi e delle nostre
illusioni della natura, in un guardare dentro il cuore del mondo e delle persone
attraverso il nostro cuore. Amaro è a volte il canto del Di Giacomo, ma
l'amarezza non è mai sarcastica. Egli avverte, più che il lato
comico degli umani tormenti, il lato tragico. Da questo lo sviluppo che la sua
arte acquista quando dalla lirica pura passa al teatro (Assunta Spina, Mese
mariano, ecc.) dove il nodo dell'azione si scioglie in rapide catastrofi,
più spirituali che cronistiche. Nel duro groviglio dei fatti egli supera
la cruda realtà e coglie le risonanze interiori del dramma. Anche quando
le tinte sono forti e quasi granguignolesche, noi troviamo nel Di Giacomo il
balzo nella zona viva del sentimento. Raramente vi è in lui retorica,
artifizio, preparazione di effetto scenico.
Un'umanità umile,
semplice, eterna, palpita e vive in tutta l'arte di Salvatore Di Giacomo, sia
nei suoi toni lievi, che in quelli violenti. Noi preferiamo il poeta nei toni
lievi nelle sue limpide e fresche comunioni con l'anima della natura, lo
preferiamo nei suoi acquarelli meravigliosi, intrisi di cielo e di mare. Egli ha
il senso rabdomantico delle stagioni proiettate sulla terra, avverte lo stato
d'animo delle cose. In questa trasfusione spirituale ed emotiva tra l'oggetto e
il soggetto, tra la vita e il cuore, è il segreto della poesia di
Salvatore Di Giacomo che non avrebbe potuto acquistare valore universale,
così chiusa com'è entro il piccolo cerchio della sua città
e del suo ambiente, se non avesse avuto queste vibrazioni e questi significati
di carattere profondamente umano che cercano i limiti del luogo e del
tempo.
Mentre il Di Giacomo guardava con animo commosso alla vita della
plebe, MATILDE SERAO esprimeva in romanzi e novelle sentimenti e pregiudizi,
gioie e dolori di quella piccola borghesia napoletana che era appena uscita
dallo stato di plebe. La prosa della Serao, così cordialmente espansiva e
così abbondantemente aggettivata, scavò a fondo - almeno nei primi
volumi (Fantasia, La virtù di Checchina, All'erta sentinella) - nella
psicologia degli umili e nelle passioni della folla. Poi la scrittrice,
abbandonati gli ambiziosi propositi, alla Zola e alla Verga, d'interpretare la
società nei suoi vari strati, dall'infimo al superiore, finì col
ripetersi ricucendo e rimaneggiando, con intenti misticheggianti, gli argomenti
dei suoi primi e più genuini libri.
IL VERISMO IN SICILIA
La letteratura verista trovò nel
mezzogiorno d'Italia un terreno fecondo. Essa germogliò rigogliosamente e
diede i migliori frutti in Sicilia (col Verga, il Capuana e il De Roberto)
mentre trascurabile apparve l'apporto letterario delle altre regioni
meridionali.
Il romanzo verista - che derivava dal romanzo naturalista
francese di Zola e di Flaubert - Si propose di osservare la vita reale con
fotografica fedeltà e con ostentata oggettività. Ma, nei suoi
risultati più notevoli, finì col cadere in contraddizione con se
stesso. Possiamo veramente chiamare fredda, impersonale e obiettiva un'arte, che
quando non ebbe addirittura intenti di propaganda sociale e socialista,
preferì comunque la rappresentazione degli aspetti più dolorosi e
delle classi più umili? In realtà il verismo fu un'espressione
d'arte legata alla vita economica e politica del tempo, e pur facendo parte del
grande movimento positivista europeo, soddisfece al nostro bisogno di liberarci
dai pregiudizi e dalle ingiustizie sociali nella vita, e dall'enfasi aulica e
dalla vuotezza interiore nell'arte.
Il primo cronologicamente a segnare e a
sentire le nuove tendenze, verista nell'arte, fu LUIGI CAPUANA nei volumi di
novelle Le appassionate e Le paesane e nel romanzo Il marchese di
Roccaverdina.
Abbiamo citato i libri più significativi tra i
moltissimi che il Capuana scrisse, sospinto dalla versatilità
dell'ingegno, dalla febbre di curiosità e di ricerca e dalla passione
culturale a disperdersi in diverse attività dello spirito a volte
antitetiche e opposte, dalla poesia al teatro dialettale, dal saggio critico
allo studio scientifico.
Oggi della spaventosa mole di lavoro del Capuana
resta assai poco: alcuni tipi e caratteri delle novelle scolpiti con una vigoria
che anticipa l'arte verghiana, talune intelligenti verità nel campo
critico, dove il Capuana precorse il movimento crociano della sensibilità
intuività contro il processo accademico della critica storica, qualche
limpida pagina di letteratura per l'infanzia. Forse il merito maggiore del
Capuana fu quello di aver spinto il Verga a tornare sui propri passi, ad
abbandonare il genere romantico e salottiero della prima maniera e a ricercare
nelle radici della terra siciliana la sostanza profonda della sua
arte.
VERGA stava aldilà delle dottrine estetiche. Tuttavia in quel
crogiolo teorico e artistico del verismo che fu la Catania dell'ultimo
ottocento, tra le ricerche sistematiche del Capuana e le speculazioni
filosofiche del De Roberto, Verga non poteva restare estraneo a quelle che erano
le correnti polemiche letterarie del tempo e dell'ambiente, che influirono non
poco al colpo del resto della sua produzione giovanile e alla nascita dell'opera
rupestre e terriera onde sorse il capolavoro dell'arte verista in
Italia.
Giovanni VergaSe infatti il Verga che stava
per infranciosarsi nei romanzi della prima maniera non avesse fatto macchina
indietro e non fosse tornato alla sua terra e alla sua vera forza istintiva di
artista di razza e non si fosse rifatto il gusto di prosatore e di novelliere
alle fonti classiche della nostra tradizione e sugli elementi fondamentali della
tecnica manzoniana, oggi ci resterebbero le romanticherie dei Carbonari, della
Peccatrice, della Storia di una Capinera, di Tigre reale, di Eva, o giù
di lì; ma non avremmo La vita dei campi e Le novelle rusticane; non
avremmo sopratutto I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo.
Nei Malavoglia Verga
narra la storia di una povera famiglia di pescatori di Aci Trezza che, per
effetto delle disgrazie e della irrequietezza ambiziosa di uno dei suoi membri,
si sfascia e discende ancora più in basso nella scala sociale.
E'
stato detto che il respiro lirico dei Malavoglia è omerico.
Forse
perché il vero protagonista di questo romanzo, come nell'Odissea,
è il mare. Ma forse ancora, e meglio, perché Verga, come Omero,
nel suo obbiettivismo narrativo condensa i più commossi sensi dell'umano
dolore. La poesia è nelle stesse radici delle cose. Nessun commento
esteriore, nessuna orchestrazione soggettiva degli elementi lirici. Manca la
bella pagina d'effetto, l'astuzia letteraria della sinfonia descrittiva, il tono
compiaciuto dell'esecuzione rara, ricercata e perfetta.
Semplice e chiaro,
scabro e preciso, cupo e desolato, il mondo verghiano è denso
dell'imponderabile mistero della vita, senza accorgimenti e riflessioni di
natura filosofica. Nessuna traccia intellettualistica, nessun residuato di
schematismi ideologici, nudo, integro, compatto, il blocco di questa materia
narrativa ha la incandescenza e la mobilità della vita
cosmica.
Anche Mastro Don Gesualdo, secondo romanzo del ciclo dei Vinti,
è la storia di una disfatta. Un muratore siciliano, Gesualdo Motta,
più fortunato dei Malavoglia, è giunto a conquistare attraverso
sofferenze e avversità, la ricchezza, ma a che gli giova ciò? Egli
finirà col morire quasi abbandonato e le sue ricchezze saranno
scialacquate dalla figlia e dal genero. Rispetto ai Malavoglia, il secondo
romanzo ha più impeto, più drammaticità, maggiore
varietà di ambienti. Esso, per la sua tecnica costruttiva equilibrata e
potente, per il suo linguaggio duttile e incisivo, per la sua intonazione
epico-tragica, dimostra come lo scrittore fosse giunto all'acme della sua forza
creativa.
Eppure proprio in quegli anni il Verga abbandonava l'arte e la
letteratura. Il suo distacco fu improvviso. Doveva completare il ciclo dei Vinti
e lo lasciò incompiuto. Mancavano ancora tre volumi: La duchessa di
Leyra, L'Onorevole Scipioni e L'Uomo di Lusso. Si è pensato ad una crisi
di coscienza d'arte, a un essiccamento di vena, ad una difficoltà della
materia, ad una stanchezza senile. Pare che lo stesso Verga esponesse ad amici
gli ostacoli che si opponevano all'intuizione e alla ricostruzione del mondo
aristocratico, dove il convenzionalismo, sovrapponendosi alla natura impedisce
il fissaggio dei caratteri. E sarà anche vero. Tuttavia si stenta a
credere che un uomo giunto alla maturità e al possesso assoluto dei mezzi
creativi si areni di colpo, dinanzi ad impedimenti di questo genere; e proprio
dinanzi ad un mondo che da giovane (e spesso felicemente) ha reso negli ancor
vivi personaggi di Tigre reale, di Eva, del Marito di Elena; dinanzi ad un
mondo, infine, che è già per certi lati, mirabilmente colto in
alcuni capitoli del Mastro Don Gesualdo.
No, il Verga non voleva confessare
a sé medesimo, le profonde, remote cause, che lo avevano allontanato
dall'arte.
Il senso morboso, della dignità e del riserbo è un
po' nell'antico retaggio della nostra razza. Il siciliano con tutte le varianti
inevitabili è tipicamente cupo, restio, impressionabilissimo,
egocentrico. Sotto le apparenze morbide, cedevoli, remissive, c'è
un'irriducibile fierezza che lo fa muro. Il siciliano è per lo
più, un testardo timido; ed ha dei testardi lo sprezzante silenzio e dei
timidi le audacie inconsulte. Il mondo verghiano è popolato di personaggi
di cosiffatta natura: gente tenace e caparbia, capace di soffrire e tacere.
Anche la rinunzia è la forma di una segreta superbia. I Vinti di Verga
non sono naufraghi abulici della vita, sono invece rudi ed ostinati superstiti
di una battaglia perduta. Questi personaggi riflettono il carattere dello
scrittore. Il siciliano tace ma non dimentica, Verga tacque il suo dolore e il
suo risentimento, quando si vide sacrificato dinanzi alla facile gloria
conquistata da altri (vedi d'Annunzio) con forme e modo, che alla sua esigenza
spirituale e creativa dovevano apparire insinceri e intellettualistici. Verga
non dimenticò l'onta subita quando, dopo un ventennio di silenzio e
d'oblio, l'Italia parve ravvedersi dell'errore. Un nordico, probabilmente,
avrebbe reagito, polemizzato, discusso, il siciliano rientra in se stesso e si
corazza di sdegno. Il fenomeno è maggiormente spiegabile se si considera
che il Verga non fu un letterato, nel senso professionale della parola, sibbene
un artista di nativa e medianica genialità. Il che giustifica meglio il
fatto che egli, abbandonata l'arte non sia rimasto impigliato nel vizio
letterario, come avviene a quegli scrittori in cui, estinto lo stimolo creativo,
permane l'abitudine del mestiere.
Legato da fraterna amicizia al Verga fu
anche FEDERICO DE ROBERTO, nato a Napoli ma vissuto quasi costantemente a
Catania e perciò considerato, a ragione, come siciliano. Ebbe il De
Roberto viva dottrina scientifica e storica e gusto di stilista e di narratore.
Scrupoloso, metodico, esattissimo e geniale ad un tempo, negli argomenti
prescelti portò sino all'inverosimile la paziente precisione dei
documenti e delle ricerche.
L'opera maggiore del De Roberto è il
romanzo I viceré, nel quale è ricostruita fantasiosamente, e in
alcuni dettagli cronisticamente, la vita della Catania delle ultime propaggini
spagnolesche, dell'avvento nuovo che afferma i diritti dell'intelligenza, i
valori dello spirito e il trionfo dell'italianità. E' un'opera d'arte di
colore locale, dove gli elementi etnici e ambientali hanno un tipico rilievo
tutto isolano che dimostra quanto ormai il De Roberto avesse assorbito dalla
terra, dalla storia e dalla natura siciliana.
Mentre nel campo della
narrativa la Sicilia si poneva all'avanguardia del movimento letterario
italiano, in poesia essa rimaneva fermamente ancorata ad una forma classicista o
neoromantica in cui il frequente contenuto naturalistico o addirittura
socialistico non riusciva ad esprimersi efficacemente, come può
osservarsi soprattutto in Giuseppe Aurelio Costanzo e in MARIO RAPISARDI.
Tuttavia sarebbe ingiusto l'affermare che il Rapisardi fu sempre manierato e
prolisso, pomposo e magniloquente, arcaico e arcadico, victorughiano e
frugoniano. Se è vero che la materia scelta e la natura dei poemi e il
tono epico, didascalico e gnomico della sua arte lo ricacciarono nelle antiche
forme e nell'usata fraseologia, non bisogna dimenticare che quando si
ritrovò di fronte alla sua profonda ed intima commozione umana, egli,
esprimendosi con più nuda schiettezza, riuscì a darci un'eco della
sua naturale voce. In molti squarci del Giobbe, in alcune delle Poesie
religiose, e in taluni Poemetti, il mistero della creazione non è
più indagine scientifica, la natura non è semplice sfondo
pittorico, e il canto stesso non è più sonoro rifacimento di altre
musiche ma volo della fantasia nei cieli del finito e dell'infinito e grido
sgomento dell'anima dinanzi agli abissi dell'Inconoscibile.
VOCI DI SARDEGNA
In Sardegna il verismo ebbe uno sviluppo tardo ma
notevolissimo. Le condizioni ancora feudali e patriarcali dell'isola trovarono,
sul finire del secolo i loro poeti efficaci e commossi in Grazia Deledda e
Sebastiano Satta, entrambi di Nuoro.
La DELEDDA, in cui l'intento
letterario non fu mai predominante, non fece del regionalismo per motivi teorici
ma per un senso appassionato di amore alla terra natia e alle sue creature
fosche e selvagge. Nei suoi libri migliori la scrittrice non ambì creare
complesse trame ma si preoccupò di inquadrare e illuminare i personaggi
in un paesaggio suggestivo e severo.
Il mondo poetico della Deledda - che
trovò le migliori realizzazioni nei romanzi: Elias Portolu, L'Edera, La
Madre e Canne al vento - s'infulcrò attorno a sentimenti primordiali e a
forze epiche, quali il sentimento religioso del focolare, il senso della
famiglia e dell'onore. Da questi istinti e da queste forze aveva origine una
sorta di tragica lotta tra il bene e il male, tra la colpa e l'espiazione. La
scrittrice diede il meglio di se stessa quando partecipò intensamente
alla sofferenza dei pastori e dei contadini, dei padroni e dei servi.
Allorché più tardi, essa volle uscire dai temi sardi finì
col fare opera fredda e stanca.
Anche la poesia del SATTA, che nasceva da
esperienze e predilezioni dialettali ebbe un forte sapore isolano. Il verismo e
il socialismo influirono sull'autore dei Canti Barbaricini sospingendolo a
cantare, senza enfasi, il dolore della gente di Barbagia, l'isolamento atavico
della Sardegna, la selvaggia forza delle passioni isolane.
La Deledda e il
Satta sono, anche cronologicamente, le ultime figure della letteratura regionale
e verista. In essi, che pur vissero oltre la grande guerra, è appena
avvertibile, qua e là, il mutamento spirituale che si andava effettuando
nei primi decenni del nuovo secolo.
NOTE
FRANCESCO DE SANCTIS
Nacque a Morra nel
1817, morì nel 1883. Esiliato da Napoli nel 1848, insegnò
letteratura a Torino, a Zurigo e dopo il 1860, a Napoli. Fu anche ministro
dell'istruzione popolare. Opere critiche fondamentali: «Saggio sul
Petrarca», «Saggi critici», «Nuovi saggi critici»,
«Storia della letteratura italiana».
(1) Croce - Lett.
della Nuova Italia.
ALEARDO ALEARDI
Nacque a Verona nel 1812, morì nel 1878.
Soffrì il carcere dall'Austria per i suoi sentimenti patriottici. I suoi
versi sono raccolti nel volume «Canti».
IPPOLITO NIEVO
Nacque a Padova nel 1831, morì nel 1861.
Partecipò alla spedizione dei Mille. Opere: «Lucciole»,
«Amori garibaldini», «Angelo di bontà»,
«Confessioni di un italiano», ecc.
GIUSEPPE ROVANI
Nacque a Milano nel 1818, morì nel 1874.
Il suo nome è legato esclusivamente al romanzo storico
«Centoanni».
EDMONDO DE AMICIS
Nacque ad Oneglia nel 1846, morì nel 1908.
Combatté a Custoza e a Roma, poi abbandonò l'esercito per
dedicarsi alle lettere. Opere principali: «Spagna»,
«Olanda», «Marocco», «Costantinapoli», «La
carrozza di tutti», «La vita militare», «Cuore»
ecc.
GIUSEPPE GIACOSA
Nacque a Ivrea nel 1847. Fu rappresentato con
successo anche all'estero. Le sue principali opere drammatiche sono citate nel
testo.
EDOARDO CALANDRA
Nacque a Torino nel 1852, morì nel 1911.
Opere: «Vecchio Piemonte», «Reliquie», «Bufera»
ecc.
VITTORIO BERSEZIO
Nacque a Cuneo nel 1830, morì nel
1900.
GIOVANNI CAMERANA
Nacque a Casal Monferrato nel 1845. La sua opera
è raccolta in un solo volume «Versi».
ARTURO GRAF
Nacque ad Atene nel 1848, morì a Torino
nel 1913. Insegnò letteratatura italiana all'Università di Torino.
Principali opere di poesia: «Dopo il tramonto», «Le rime della
selva», «Le Danaidi», «Medusa».
EMILIO DE MARCHI
Nacque a Milano nel 1851, morì nel 1901.
Tra i suoi romanzi migliori citiamo: «Demetrio Pianelli»,
«Arabella», «Col fuoco non si scherza», «Il cappello
del prete»
CARLO DOSSI
(Alberto Pisani) nacque a Carteggio nel 1849,
morì nel 1910. Fu anche diplomatico. Opere: «Altr'ieri»,
«Vita di Alberto Pisani», ecc.
GIAMPIETRO LUCINI
Nacque a Milano nel 1867; morì a Breglia
nel 1914. Citiamo di lui il romanzo «Giampietro da Gore» e il volume
di versi «Revolverate».
EMILIO PRAGA
Nacque a Milano nel 1862, morì nel 1875.
Fra le sue raccolte di versi: «Tavolozza», «Penombre»,
«Fiabe e leggende», «Trasparenze», ecc.
VITTORIO BETTELONI
Nacque a Verona nel 1840, morì nel 1910.
Opere: «In primavera», «Nuove Poesie», «Studi»
ecc.
GIACOMO ZANELLA
Nacque a Chiampo (Vicenza) nel 1820, morì
nel 1888. Opere: «Poesie», «Nuove poesie»,
«Studi», ecc.
VITTORIA AGANOOR
Nacque a Padova nel 1868, morì a Roma nel
1910. Fu allieva dello Zanella e moglie di Guido Pompilj che si uccise per
dolore dopo la morte della moglie. Scrisse: «Leggenda eterna»,
«Nuove liriche».
RICCARDO SELVATICO
Nacque a Venezia nel 1849, morì nel 1901.
Tra le sue commedie: «La bozeta de l'ojo», «I recini da
festa», ecc.
GIACINTO GALLINA
Nacque a Venezia nel 1852, morì nel 1897.
Tra le sue numerose commedie citiamo: «Le baruffe in farnegia»
«El moroso de la nona», «Zente refada» «Oci del
cuore», ecc.
GEROLAMO ROVETTA
Nacque a Brescia nel 1851, morì nel 1910.
Opere: «Romanticismo», «Papà Eccellenza», «Due
coscienze», «La baraonda», «Mater dolorosa»,
ecc.
ANTONIO FOGAZZARO
Nacque a Vicenza nel 1842, morì nel 1911.
Opere principali: «Miranda» (poemetto) e i romanzi
«Malombra», «Il mistero del poeta», «Piccolo mondo
antico», «Piccolo mondo moderno», «Il Santo»,
«Leila». Il «Santo» fu messo all'indice dalla
Chiesa.
FERDINANDO MARTINI
Nacque a Monsummano nel 1841, morì nel
1928. Fu poeta, critico, narratore e uomo politico. Opere. «Ricordi»,
«Nell'Africa italiana», ecc.
GUIDO MAZZONI
Nacque a Firenze nel 1852, morì nel 1943.
Opere: «Poesie», «Esperimenti metrici» «Storia della
lett. italiana dell'Ottocento».
ENRICO MENCIONI
Nacque a Firenze nel 1837, morì nel 1896.
Opere: «Poesie», «Medaglioni».
GIUSEPPE CHIARINI
Nacque ad Arezzo nel 1833, morì nel 1908.
Opere: «Ombre e figure», versi: «Lacrimae
rerum».
RENATO FUCINI
Nacque a Monterotondo nel 1843, morì nel
1921. Opere principali: «Cento sonetti», «Le veglie di
Neri», «All'aria aperta», «Napoli a occhio nudo»,
ecc.
GIOSUE' CARDUCCI
Nacque a Val di Castello in Lunigiana, il 27
luglio 1835. Insegnò lett. italiana all'Università di Bologna: Nel
1890 fu nominato senatore, nel 1906 ebbe il premio Nobel. Morì a Bologna
nel 1907. Opere poetiche: «Juvenilia», «Levia Gravia»,
«Giambi ed Epòdi», «Rime nuove», «Odi
Barbare», «Nuove odi Barbare», «Rime e Ritmi». Opere
critiche: «Discorsi storici e letterari», «Dello svolgimento
della letteratura nazionale», «Confessioni e battaglie»,
«Ceneri e faville», «Parini maggiore», «Parini
minore», ecc.
OLINDO GUERRINI
Nacque a Forlì nel 1845, morì nel
1916. Fu bibliotecario alla Università di Bologna. Opere:
«Postuma»,«Nuova polemica», ecc.
ENRICO PANZACCHI
Nacque ad Ozzano nel 1840, morì nel 1904.
Opere: «Donne e poeti», «Lyrica», ecc.
PAOLO FERRARI
Nacque a Modena nel 1822, morì nel 1849.
Opere teatrali: «La satira e Parini», «Il duello»
ecc.
SEVERINO FERRARI
Nacque in S. Pietro Capofiume (Bologna) nel 1856,
morì nel 1905. Opere: «Primavera fiorentina», «Il
Mago», «Versi raccolti e ordinati».
GIOVANNI MARRADI
Nacque a Livorno nel 1852, morì nel 1922.
Notissima la sua «Rapsodia Garibaldina».
ALFREDO ORIANI
Nacque a Faenza nel 1852, morì nel 1909.
Opere principali: «Memorie inutili», «La lotta politica in
Italia», «La rivolta ideale», ecc.
PIETRO COSSA
Nacque a Roma nel 1830, morì nel 1881. Fra
i suoi drammi: «Nerone» «Messalina», «Mario e i
Cimbri», ecc.
CESARE PASCARELLA
Nacque a Roma nel 1858, morì nel 1940.
Esordì come pittore. Opere: «Villa Glori», «La scoperta
dell'America», «Storia nostra», ecc.
SALVATORE DI GIACOMO
Nacque a Napoli nel 1860, morì nel 1934.
Opere principali: «O Munasterio», «A San Francisco»,
«Assunta Spina», «Ariette e Sunette», ecc.
MATILDE SERAO
Nacque a Patrasso (Grecia) nel 1856, morì
a Napoli nel 1927. Tra i suoi romanzi citiamo: «Addio amore»,
«Piccole anime», «La conquista di Roma», il «Paese di
cuccagna», ecc.
LUIGI CAPUANA
Nacque a Mineo nel 1839, morì nel 1915.
Opere: «Giacinta», «Il marchese di Roccaverdina», «Le
appassionate», «Le paesane», «Studi sulla letteratura
contemporanea», ecc.
GIOVANNI VERGA
Nacque a Catania nel 1840, morì nel 1922.
Opere: «Storia di una capinera», «Eva», «Tigre
reale», «Eros», «Vita dei campi», «Novelle
rusticane», «Vagabondaggio», «I Malavoglia»,
«Mastro don Gesualdo», ecc.
FEDERICO DE ROBERTO
Nacque a Napoli nel 1866, morì a Catania
nel 1927. Opere: «Il viceré», «L'illusione»,
«Spasimo», «Documenti umani», «Gli amori»,
«Le donne e i cavalier», ecc.
MARIO RAPISARDI
Nacque a Catania nel 1844, morì nel 1912.
Fu professore di letteratura italiana nell'Università di Catania. Opere:
«Lucifero», «Giobbe», «Poesie religiose»,
«Giustizia», «Poemetti», ecc. Notevoli le sue traduzioni da
Shelley e da Lucrezio.
GRAZIA DELEDDA
Nacque a Nuoro nel 1875, morì a Roma nel
1935. Premio Nobel 1926. Romanzi principali: «Cenere»,
«L'incendio nell'oliveto», «Elias Portolu», «Canne al
vento» ecc.
SEBASTIANO SATTA
Nacque a Nuoro nel 1867, morì nel 1914.
Opere principali: «Canti barbaricini», ecc.