CULTURA - LETTERATURA - L'OTTOCENTO

FRANCESCO DE SANCTIS

Francesco De Sanctis, con la sua Storia della letteratura italiana, pubblicata nel 1870-1, chiudeva un periodo della cultura italiana e ne apriva un altro. Quell'opera (che veniva a coronare, riassumendoli, gli studi e le ricerche di oltre vent'anni, dalle lezioni della prima scuola napoletana del 1848 ai Saggi critici del 1866 e ai nuovi Saggi critici, editi nel 1872) era, non solo la sintesi del pensiero desanctisiano, ma anche il capolavoro storico dello spirito italiano del Risorgimento. L'idea madre di quella interpretazione romantica della nostra letteratura era questa: che la poesia può nascere solamente dalla pienezza della vita interiore e che, laddove manchi una coscienza nazionale e morale, la poesia viene sostituita dalla retorica, dall'Arcadia, dalla letteratura. Il libro, rifacendo la storia intima d'Italia, mostra come al primo tentativo di cultura nazionale, con Federico II, corrispose la semplicità dei primissimi poeti siciliani, come l'intensità della fede religiosa e politica di Dante s'incarnò nella meravigliosa architettura della Commedia, come già s'avvertano nell'elegiaco Petrarca e nel sensuale Boccaccio i primi germi di quel distacco tra vita e letteratura che, aggravatosi nel Rinascimento, dovrà condurre alla decomposizione della vita morale e dell'anima letteraria, quale appare nel barocchismo e nell'Arcadia, come infine col Parini e coll'Alfieri, col Foscolo, col Manzoni e col Leopardi si effettui la rinascita dell'uomo e del poeta. E in esso il giudizio critico fa sempre tutt'uno con la valutazione morale e storica.
Era questa una vera e propria rivoluzione nel campo della critica e della storiografia. Rivoluzione, non solo rispetto ai vecchi metodi critici del Quadrio, del Tiraboschi, del Ginguené, ecc., o alle indagini grammaticali e lessicografiche dei puristi, che il De Sanctis, educato alla scuola del Puoti, ben conosceva, ma rivoluzione anche nei confronti degli altri storici romantici, del Settembrini, del Tommaseo, del Cantù, dell'Emiliani Giudici, i quali, irretiti da pregiudizi morali e politici di varia natura, assai di rado seppero giungere alle altezze desanctisiane. Per la prima volta in Italia, e forse in Europa, la poesia veniva studiata, non come un'esercitazione di bello stile o come ornamento del vero o come documento biografico, ma come l'espressione superiore dell'anima individuale dello scrittore e dell'anima collettiva della nazione. Ancor oggi i grandi poeti nostri ci appaiono quali apparvero al De Sanctis: l'indagine diligente degli studiosi e dei critici ha potuto modificare di ben poco le linee granitiche delle sue interpretazioni.
Abbiamo chiamata romantica la critica desanctisiana, ma dando all'aggettivo un senso assai vago e ideale. Poiché il De Sanctis, così come in giovinezza s'era liberato del purismo linguistico e grammaticale del Puoti, non tardò a sciogliersi dalle pastoie del romanticismo. Egli era l'uomo nuovo del Risorgimento, che, dopo avere scosso la polvere dei vecchi libri ingialliti e aver fugato le nebbie del sentimentalismo di moda, cercava la vita e la verità nel mondo reale e osservava l'Italia, ancora malata di quei mali, che egli aveva uccisi in se stesso, con l'occhio del medico che fa una diagnosi e che suggerisce la terapia. Perciò non esitò a porre da canto i prediletti studi letterari, una prima volta nel 1848 per correre sulle barricate e, più tardi, per accettare tre volte il potere politico. Egli portò nella sua interpretazione politica lo stesso anelito di vita morale ed educativa che aveva espresso nei saggi letterari, Poiché i mali e gli avversari da combattere non erano mutati. E così come la sua critica letteraria era apparsa troppo nutrita di storia e di idee a puristi ed eruditi, il suo pensiero politico sembrò troppo poetico e letterario ai politicanti. L'uomo che saliva, trasognato e assorto, le scale del suo ministero e sdegnava le meschine consorterie e parlava delle cose d'Italia con la pacata lungimiranza dello storico, che cosa poteva avere in comune con il mondo politico che, allora come sempre, faceva consistere il non plus ultra dell'arte politica nell'accorto e furbesco gioco parlamentare e nel distinguersi in partiti e nel confondere le distinzioni?
Il De Sanctis non fu soltanto un maestro nel campo critico, politico e pedagogico, fu anche il creatore della nuova prosa italiana, della prosa che dice cose e non parole, della sola prosa, dopo quella del Manzoni e del Leopardi e prima di quella del Verga, che abbia dato all'Ottocento un grande scrittore. E' già stato sufficientemente notato il valore dell'arte della «Storia» il libro che narra il romanzo della vita d'Italia, ne rappresenta a vivo il dramma e ne canta la lirica, la grande lirica di aspirazione al rinnovamento spirituale (1) ed è stato mostrato come la prosa critica desanctisiana, apparentemente compatta e disadorna, sia intimamente poetica e immaginosa. A noi piace porre l'accento sul De Sanctis narratore, sul descrittore di uomini e cose del proprio tempo. Il De Sanctis fu il primo a porre in atto le sue teorie sulla nuova arte realista:

«L'artista cercherà e si approprierà tutto quel tesoro di immagini, di movenze, di proverbi, di Sentenze, tutta quella maniera accorciata, viva, spigliata, rapida ch'è nei dialetti».

Negli anni della vecchiaia egli riscoprì nella realtà e nella fantasia, il paese nativo, il paese della giovinezza e lo descrisse in due libri pittorescamente vivaci: Un viaggio elettorale e La Giovinezza. Più realistico e amaro il primo, che narra le vicende di una campagna elettorale sostenuta dallo stesso De Sanctis, più commosso e poetico il secondo.
L'uomo, che aveva tracciato indimenticabili ritratti di Dante e di Petrarca, di Alfieri e di Leopardi, conserva intatte le proprie virtù d'interprete quando, sulla scorta dei propri ricordi, ritrae e scolpisce a vivo, con brio e colore di commozione, tipi e ambienti della Napoli della sua giovinezza. «La Giovinezza» s'inizia con questo ritratto della nonna:

«Ho sessantaquattro anni, e mi ricordo mia nonna come morta pur ieri. Me la ricordo in cucina, vicino al foco, con le mani stese a scaldarsi, accostando un po' lo scanno, sul quale era seduta... Era il capo della casa, e teneva la bilancia eguale fra le due famiglie, e si faceva ubbidire».

Ecco il vivace schizzo di un abate:

«L'abate ci ricevette nella stanza da scuola, e ci fece molte carezze, e ci diede dei confetti. Era un bell'ometto, vestito di nero, con cravatta nera, tutto bene spolverato. Parlava spedito, e accompagnava le parole col sorriso e col gesto elegante. Non c'era ancora il laico, ma non c'era più il prete».

Ecco, in tre righe, il contrasto tra il carattere del padre e quello, già svagato, del fanciullo:

«Parlavo poco, avevo la faccia malinconica - Sempre con questo libro in mano! - gridava papà, che era uomo allegro e turbolento, e spesso si mescolava coi fanciulli a fare il chiasso».

Con eguale felicità sono scolpiti sul vivo altri mille personaggi, i compagni di scuola, i maestri, i parenti, il Puoti, le prime giovinette che turbano i sogni e fanno scrivere versi leopardiani. Ma su tutti sovrasta il ritratto dello scrittore, sempre distratto e ingenuo, distratto fino al punto di dimenticare il mangiare leggendo, e ingenuo fino a parlare di studi e di arte alle sue amorose. L'indefinibile poesia di quella rievocazione nasce da questo: si sente che il vecchio De Sanctis è rimasto qual'era, costantemente giovane, se è vero che la fede nella poesia, l'amore, l'onestà, il disdegno dei compromessi pratici, sono il patrimonio ideale di tutte le giovinezze.

VITA E LETTERATURA IN ITALIA DOPO IL 1860

L'atteggiamento desanctisiano di fronte all'Italia sorta dal travaglio del Risorgimento e di fronte alla nuova letteratura che indicava la mutata disposizione degli animi era assai complesso. Non era il De Sanctis un lavdator temporis acti che tornando con la memoria agli anni dell'esilio, delle lotte, delle romantiche vicissitudini ne ricreava l'indefinibile poesia per contrapporla alla meschina «prosa» dei tempi nuovi (stato d'animo questo dominante in molti dei contemporanei), ma non era neppure un soddisfatto del presente. Al suo occhio acutissimo non poteva sfuggire quanta debolezza e quale superficialità fosse nella classe dirigente dell'Italia appena unita. E poi era veramente unita una Italia in cui le tradizioni storiche e le condizioni economiche e sociali delle varie regioni anziché fondersi in armonia nazionale contrastavano violentemente? Una Italia che per la sua stessa configurazione geografica, stretta, allungata e accidentata, pareva respingere qualsiasi fusione spirituale di correnti e di tradizioni e che pur tuttavia veniva sottoposta al meno operante degli accertamenti, quello burocratico?
«Fatta l'Italia restavano da fare gli Italiani» aveva ammonito il D'Azeglio. Ma di ciò non parvero preoccuparsi gli uomini politici del tempo, i quali per effetto degli anni di esilio e di lotta, avevano acquistato nobiltà di sentimenti e grande potere oratorio ma scarsa e nulla preparazione pratica e andavano dietro a problemi contingenti, che pur avendo la loro importanza erano, specie per i criteri con i quali venivano risolti, avulsi dalla vita intima della nazione. La più grossa preoccupazione dei governi era quella di far la lesina per giungere al famoso pareggio del bilancio, ottenuto con un rigido ed ingiustamente ripartito sistema tributario. Ma né la questione meridionale né l'impreparazione politica delle masse (il popolo era estraneo se non ostile alla vita pubblica, essendo il suffragio ristretto - per censo - a poche centinaia di migliaia di elettori) s'imponevano durevolmente all'attenzione della classe dirigente.

Quella vita intima che sfuggiva ai governi dell'epoca venne invece colta dalla letteratura, la quale, dopo vari ondeggiamenti, si diede a ricercare nella regione e nel popolo gli argomenti e le aspirazioni. Quell'arte nuova si chiamò genericamente realismo, verismo, ed ebbe forme e caratteristiche assai varie. In Piemonte e Lombardia fu un realismo poetico disordinato e antiborghese mentre nella prosa assunse la forma di un realismo manzoniano e borghese. Fu un realismo idealistico e sentimentale nel cattolicissimo Veneto. In Toscana e in Emilia il realismo ebbe un carattere letterario di reazione al romanticismo ed assunse in poesia i due caratteri opposti del carduccianesimo (vale a dire della ricerca della realtà nella storia) e dello stecchettismo. A Roma, con Cossa e Pascarella, il realismo cercò un terreno sodo nella natura e nella storia.
Ma alcune di queste varie forme di realismo si rivelano, ad una più approfondita indagine, come degenerazioni esterne del romanticismo. Al De Sanctis ciò non sfuggì.

«E' una reazione. Perciò è presente nello spirito la cosa contro la quale si reagisce; è una reazione di dispetto, di elementi negativi. E perciò appunto voi, miei signori, non avete ancora cancellato dal vostro petto la forma antica, e siete come ribelli che fremono e si dibattono e si esasperano, e cercano e non trovano ancora la via. Perciò voi siete contorti e convulsi, e cercate forza all'assenzio e novità alle forme mancando la novità delle cose, e, per dirla con le frasi vostre, voi siete affetti da erotismo nervoso»

A questo realismo malato di romanticismo, egli contrapponeva il suo realismo:

«Il realismo in arte oggi ha il carattere di una creazione sfrenata. E' un fenomeno di poca durata, il buon senso verrà. Il mio realismo lo esprimo in poche parole. La sostanza è questa: che nell'arte bisogna dare una più larga parte alle forze naturali e animali dell'uomo, cacciare il rêve e sostituirvi l'azione, se vogliamo ritornare giovani, formare la volontà, ritemprare la fibra. Il realismo che somiglia ad un'orgia, è poesia di vecchi impotenti e viziosi, non è restaurazione di gioventù».

E concludeva:

«Per una razza fantastica, amica delle frasi e delle pompe, educata nell'arcadia e nella rettorica, come generalmente è la nostra, il realismo è un eccellente antidoto»

Questo sano realismo auspicato dal De Sanctis trovò i suoi accenti più genuini ed artistici nel meridione d'Italia dove esso non fu fatto letterario e una reazione di dispetto ma un bagno nelle fonti dell'ispirazione popolare e nell'espressione nuda e immediata perché qui veramente gli scrittori espressero un grande ideale che sostituiva gli scomparsi ideali romantici: aiutare coloro che soffrono, penetrare nei tuguri ed illuminarli con la comprensione e la pietà. Cosi il meridione, travagliato dalla miseria delle plebi rurali, dalla camorra, dalla mafia, dal brigantaggio, privo di strade, di ferrovie, d'industrie, feudalisticamente diviso in «galantuomini» e «cafoni», ebbe in Verga e in altri i suoi commossi poeti.
Con il fiorire di quella che potremmo chiamare «Arte provinciale» si sperava, almeno apparentemente, un capovolgimento della nostra storia letteraria. Quando l'Italia era divisa in decine di staterelli, la letteratura si era preoccupata di cementare idealmente le più varie tradizioni e di porre in non cale le differenze economiche, sociali e culturali tra Nord e Sud. Ora, ad unità avvenuta, gli scrittori ricercavano le memorie regionali e ne coglievano il respiro. V'era tuttavia una continuità ideale in quella contraddizione: il mutato atteggiamento degli animi poteva paragonarsi alla delusione che suol seguire a tutte le cueillaisons du rêve, quando nella cosa ardentemente bramata si cominciano a notare difetti e pecche e l'amore cieco si muta in tenero e compassionevole affetto. In realtà il romanticismo, come l'amore, non moriva ma si trasformava.

GLI ULTIMI ROMANTICI: PRATI, ALEARDI, NIEVO

Intorno al 1860 s'andò spegnendo nel pubblico l'interesse per i poeti che nel decennio 1848-1858 erano stati i cantori delle lotte nazionali e gli interpreti del languore romantico di moda: il trentino Giovanni Prati e il veronese Aleardo Aleardi.
Era stato il Prati uno spirito poco complesso, facile alla commozione e all'entusiasmo, aperto ad ogni sentimento nobile e puro ma privo di una potente personalità interiore. Aveva fatto mirabilie nell'esprimere in ballate polimetriche, in poemi byroniani, in versi ora teneri ora sonanti il più vieto ciarpame romantico con fanciulle evanescenti, sognatori pallidi e foschi, convegni di spiriti ecc. non rifuggendo persino dal leopardianeggiare sulla mesta intelligenza della vita e sulla vanità della gloria umana. Venne, per queste fantasie romantiche e per le molte canzoni patriottiche divenute ben presto popolari, in gran favore presso il pubblico e presso parte della critica, sì che trascurò di porre i freni alla sua naturale fecondità e non prestò orecchio alla severa analisi che della sua poesia faceva, già nel 1855, il De Sanctis.

«Prati ha una viva immaginazione e per questa qualità è forse il primo poeta di secondo ordine che sia oggi in Italia. Egli non sa accomodarsi alla povertà; e quando alcuna cosa gli esce un po' gretta, in luogo di rifarsi sul fondo e lavorarlo, si travaglia intorno alla frase, sì che ella riesca splendida e magnifica. Quella pienezza di epiteti, quel simbolo di suoni, quello splendore di elocuzione lo abbaglia e lo appaga e gli nasconde la sua aridità».

Tale giudizio fu dal critico ribadito una decina d'anni dopo, nel 1868 a proposito del poema Armando nel quale il Prati narrava il caso di un triste sognator, con la poco fondata fiducia di osservare una malattia e di indicarne la terapia.

«Ohimè! Prati, non ti adirare. Noi siamo tutti malati, in tutt'i cuori, anche nel tuo, ci è un po' d'Armando; e il medico che dee guarire la malattia non appartiene alla nostra generazione. No. In questo libro non trovo quel sentimento vivo e presente della bella natura e della storia, quella coscienza della gioventù, della forza, della fede operosa, quell'entusiasmo e quasi tripudio di una vita rigogliosa, quella fresca onda d'impressioni giovani e pure, che prenunzia le grandi cose... Il poeta è ancora più profondamente malato di Armando: perché Armando si sente malato e il poeta si crede sano».

E tuttavia il De Sanctis concludeva rammaricandosi che non si fosse prestata al lavoro del vecchio poeta l'attenzione che esso meritava.
Ma il pubblico aveva ormai mutato voglie e gusti, tendenze e abitudini. Si tratta di un fenomeno di tutti i tempi: i valori spirituali vengono capovolti, ciò che era pregiato un tempo è adesso negletto, ciò che piaceva non piace più ed il poeta che ebbe voce per tutti non ne ha più per nessuno. Il secol si rinnova e lo scrittore dovrebbe deformare la propria personalità e «aggiornarsi» come si dice in linguaggio corrente. Le generazioni nuove sono sempre diverse dalle vecchie e le correnti d'arte si sovrappongono e le produzioni dell'ingegno umano divergono. Sono i corsi e ricorsi della storia che governano pure il mondo dell'arte e della cultura. Il Prati assai si amareggiò della sua sorte di poeta fuori moda finché stanco di ascoltare un tempo che più non lo ascoltava, ripiegò su se stesso e si compiacque di esprimere, spesso nel breve giro di un sonetto, un più personale romanticismo: la vanità dei sogni troppo vasti, la vita delle umili creature (il grillo, la rondine; la cinciallegra, i monelli, le fanciulline, ecc.) le prime memorie, la tristezza di una giornata d'inverno, ecc. Taluno ha parlato, a questo punto, di un mutamento di motivi e di forme ma non ha colto nel segno. Il mondo poetico del vecchio Prati, espresso nei volumi Iside e Psiche si ritrova per intero nella giovanile Passeggiate solitarie e in altre opere, mentre non mancano negli ultimi libri fantasie medioevali, canti patriottici e persino un nostalgico lamento per il nativo verde Tirolo rimasto soggetto all'Austria. E non v'era neppure un mutamento di forme. Le malinconie dell'età matura e la placida contemplazione della vita quotidiana venivano espresse a fior di pelle, senza dramma e senza strazio. Prati non era certo Leopardi. Ma ciò non significa che non debba esser letto, almeno nelle sue cose migliori, in quel piccolo «libro d'oro» che il Carducci non disperava di poter trarre dalla sovrabbondante opera del poeta trentino.
Anche ALEARDO ALEARDI conobbe un periodo di esagerata fama seguito da un non meno ingiusto oblio. Aveva, come il Prati, cantato «l'amor, la morte, la natura, il dolor, gl'innumerati, i mondi e la patria miseranda» in versi modulati con languore e con accoramento. Ed era stato il maggior rappresentante del romanticismo veneto, di un romanticismo, vale a dire, che rifuggiva dalle intemperanze, dal chiasso, dagli impeti sregolati. I romantici veneti, tra i quali sono degni di menzione il Carrer e Cesare Betteloni, se accettarono il mondo nordico delle leggende e delle fantasia, ebbero a disdegno l'espressione ora stravagante ora sciamannata dei romantici lombardi e sempre si preoccuparono della pacatezza delle riflessioni e del garbo delle forme. Tale carattere moderato del romanticismo veneto si avverte soprattutto nell'Aleardi, il quale fu poeta accurato e corretto e non alieno dai particolari precisi e realistici. Questo nostro giudizio contrasta con l'opinione comune che fa dell'Aleardi un verseggiatore vaporoso e nebuloso, opinione che si fonda su una confessione dello stesso Aleardi il quale accusò il proprio stile di artifizio, di sconnessione e di imprecisione, e sulla nota stroncatura che della poesia aleardiana fece l'Imbriani. Ma l'Aleardi non era né trascurato né incolto né privo di senso critico, come è dimostrato dalla stessa esiguità della sua opera letteraria, tutta raccolta in un solo volume (Canti), e dalle numerose letture classiche e scientifiche che costituivano il nutrimento primo della sua poesia. I difetti dell'Aleardi nascevano non da trascuratezza, ma dalla ineluttabilità della propria ispirazione sempre mesta e sfumata, un'ispirazione che sembrava sorgere dalla indefinibile tristezza delle pianure veronesi

«Coi praticelli morbidi tagliati a mo' di panno da bigliardo, coll'Adige in mezzo che non si vede ma s'indovina coll'immenso orizzonte lontano, velato di vapori come l'idea dell'infinito».

L'Aleardi non fu mai un sonante bardo quarantottesco. Il suo inno per sbocciare dal cuore aveva necessità di pianto. Ma, a differenza di quello del Prati, il suo mondo romantico non era né convenzionale né di moda. La tristezza dei mietitori che scendevano dai monti d'Abruzzo nelle desolate campagne del Lazio; la tragica fine del biondo Corradino di Svezia; la sorte del prigioniero politico della «Comune» parigina, condannato a languire nella Guiana;

«dove la vita è simile
a un lento funerale;
dove lo cinga un lutto
perpetuo come il flutto;
dove il pensiero libero
con penosa virtù
rivoli ad una patria
ch'ei non vedrà mai più».

la vanità delle feroci lotte umane; gli sguardi dei moribondi ed altri innumerevoli motivi di canto rivelano nell'Aleardi un sincero e sensibilissimo temperamento elegiaco.
Mentre il Prati e l'Aleardi venivano scadendo nella considerazione del pubblico, scompariva misteriosamente, in seguito ad un naufragio, un altro tipico rappresentante della generazione romantica: il patavino IPPOLITO NIEVO. La morte, che lo aveva risparmiato sui campi di battaglia di Lombardia, del Veneto e della Sicilia, lo ghermì appena trentenne, quando aveva da poco compito di getto in otto mesi quel notevolissimo romanzo che è Le confessioni di un ottuagenario. Che cosa sarebbe divenuto il Nievo se fosse vissuto ancora? Sarebbe stato travolto, come gli altri romantici, dal disinteresse del pubblico o si sarebbe evoluto in senso verista e paesano? Più plausibile appare questa seconda ipotesi. Il Nievo, che assai semplicisticamente venne definito un manzoniano e per questo aspetto paragonato al ROVANI, autore di un romanzo storico alquanto farraginoso (I cento anni), sta in realtà a cavaliere tra il romanticismo e il realismo provinciale. Romantico era il Nievo per quel suo amore per un'esistenza eroicamente vissuta, per quella sua concezione filosofica che superando cattolicismo e pessimismo tendeva a una nuova fede e a una nuova morale, per quel suo incentrare il mondo poetico attorno alla figura di una donna, la Pisana delle Confessioni, per quel suo riandare alle memorie dell'infanzia e per il suo continuo meditare sulla decadenza veneta. Ma per altri aspetti il Nievo precorreva il verismo e la letteratura provinciale. Egli fu il primo scrittore di novelle campagnole e di studi rusticani. Il Friuli e il Veneto, dove il Nievo abitò più lungamente, sono quasi sempre presenti nelle Confessioni; e quando essi mancano, la narrazione si fa più scolorita e scialba.
Dall'incrocio tra romanticismo e provincialismo nasce il tono particolare dell'umorismo del Nievo. Rievocare memorie giovanili, affetti, passioni e sottoporle, nello stesso tempo, ad una bonaria e compatevole ironia è una prova ardua che dà la misura di un ingegno. Il Nievo, pur lavorando di lena e ininterrottamente, non riuscì a mantenere l'unità di tono per tutta l'opera, che, nella sua seconda parte, è diseguale e debole. Le Confessioni non sono un capolavoro ma contengono tuttavia pagine gustose e non periture.

ROMANTICISMO E NATURALISMO IN LIGURIA E IN PIEMONTE

Nella Liguria e nel Piemonte, vale a dire nelle regioni che avevano costituito il nucleo originario del Regno d'Italia, il romanticismo si era preoccupato, col Pellico, col d'Azeglio e con altri, di esortare gli animi all'unità nazionale e di persuadere gli italiani, attraverso la rievocazione della storia sabauda, sulla necessità della supremazia piemontese; era stato perciò più un'arma di battaglia e di polemica che un'ispirazione artistica. Ad unità avvenuta gli scrittori liguro-piemontesi mutarono stile ed argomento. Allarmati per gli screzi che andavano sorgendo tra le varie regioni italiane, vennero osservando con ispirito moraleggiante la vita del tempo e proposero come rimedio la vecchia ricetta della devozione alla patria, alla dinastia, ai sentimenti del buon tempo antico. Il piemontese non smise mai l'abito del moralista, del patrista e del pedagogo, di un pedagogo, si badi, che teneva a correggere gli uomini col sorriso e con la commozione e non col fiero cipiglio, di un pedagogo che s'illudeva di guidare il proprio uditorio ma che in realtà veniva guidato.
Un tipico educatore fu EDMONDO DE AMICIS che, per certo suo ondeggiare tra l'ispirazione militare e borghese dei suoi primi libri e quella popolare e socialisteggiante degli ultimi, lasciò pensare ad una evoluzione di motivi se non di forme. Ma quella evoluzione, se pur ci fu, avvenne senza strazio e senza travaglio. Il De Amicis andò sempre alla ricerca dell'argomento e del pubblico e ne fu ricompensato dal non mai sentito favore popolare. I suoi libri di viaggio (La Spagna, L'Olanda, Il Marocco, Sull'Oceano) sparivano in quel tempo dalle biblioteche circolanti, e il Cuore girava nelle scuole e nelle famiglie e La vita militare nelle caserme e Il romanzo di un maestro faceva intenerire gli insegnanti e persino le sue poesie, così ingenue e semplici, commuovevano i giovanetti ginnasiali.
Sarebbe facile oggi riesaminare tutti quei libri e notarne ad uno ad uno i gravissimi difetti, e il sentimentalismo di maniera, e la piacevole superficialità, e il pedagogismo impoetico. Ma perché farlo? Tali indagini critiche, che sono utili quando è necessario ricondurre ai giusti limiti scrittori presuntuosi e «montati», non si addicono al De Amicis il quale non si lasciò mai stordire dagli applausi del proprio pubblico e che spesso confessò, scoraggiato, di essere nato più per fare il maestro di scuola in un villaggio che per comporre libri. Per umiliare se stesso scrisse:

«Che cosa è questo favore di pubblico? Che cosa prova? Chi non ottiene un po' di questo favore, scrivendo, purché abbia cuore e non offenda alcuna classe della società e segua l'andazzo del tempo, e scriva cose che la maggior parte sentono o pensano o non hanno interesse di negare?»

Questa modestia, questo candore, questa sincerità finiscono col riconciliarci con lo scrittore. Dell'opera di Edmondo De Amicis resta ancora quel grande respiro di bontà e di nobiltà che ci faceva sentire nel letterato l'uomo. Egli ebbe il merito di creare in Italia quel genere letterario da cui sorse, poi, la letteratura giornalistica delle corrispondenze di viaggio. Ma, sopratutto, formò l'anima e il carattere delle generazioni dell'ultimo Ottocento e del primo Novecento. Egli ebbe una funzione educativa intensa; risaldò nei cuori il germe di due grandi affetti: la Madre e la Patria. Col Carducci fu il preparatore spirituale degli italiani che fecero la guerra. De Amicis parlò alla giovinezza, Carducci agli adulti. Da queste due voci di timbro diverso - l'una gentile, l'altra forte - i giovani del tempo attinsero la fede dell'amore, del sacrificio, dell'eroismo. Il piemontese GIUSEPPE GIACOSA, per dolcezza d'animo e mitezza di carattere può essere accostato al De Amicis, del quale fu intimissimo. Né si fermano qui le analogie tra i due scrittori. In entrambi era una eguale intenzione didascalica, una versatilità diretta a secondare i gusti del pubblico, una facilità a mettere su volumi da «Biblioteca amena».
L'attività del Giacosa (ove si eccettui un libro di prose ispirate alla Val d'Aosta, Novelle e paesi valdostani, che forse costituisce il meglio dell'opera sua) si svolse quasi esclusivamente nel campo teatrale e procurò allo scrittore una nomea non inferiore a quella che il De Amicis andava cogliendo coi suoi volumi in prosa. I sonori e romantici martelliani della Partita a scacchi, gli endecasillabi ad intonazione verista del Conte Rosso, i problemi psicologici proposti dai Diritti dell'anima, da Come le foglie, da Tristi amori fecero il giro dei teatri italiani suscitando calore di consenso e di simpatia. Ebbe il Giacosa doti di abile manipolatore di motivi respirati nell'aria e di influenze letterarie sicché la sua opera, apparentemente divisa in evocazione di leggende e storie piemontesi (che con un più autentico respiro poetico furono anche tentate da un narratore meritevole di menzione, EDOARDO CALANDRA), in drammi naturalistici alla Becque e in drammi psicologici alla Ibsen, finì col riflettere gli ondeggiamenti e le contrastanti aspirazioni dell'anima borghese del tempo. L'equilibrio tra le varie maniere del Giacosa - la romantica, la naturalistica, l'etico-sociale - viene raggiunto in Come le foglie, storia di una famiglia che si sgretola e si corrompe per effetto della miseria. Si respira in questo dramma, sobrio ed efficacemente delineato, la stessa malinconia che sale da altre storie di famiglie in rovina, dai Malavoglia di Verga, poniamo, o dalle Miserie d' monssù Travet, la fortunata commedia di un altro scrittore piemontese, VITTORIO BERSEZIO.
Passando dal campo del racconto e del teatro in quello della poesia si avverte un forte prevalere degli elementi romantici su quelli naturalistici o socialisti e decadentistici. Il mondo dei poeti piemontesi fu dominato dal pessimismo, dall'angoscia, dalla disperazione e si espresse in versi gelidi e chiari, laboriosamente tormentati.
Il casalese GIOVANNI CAMERANA è stato talvolta collocato tra gli scapigliati, per le sue relazioni di amicizia col Praga e col Boito. Ma non era in lui l'intento letterario e beffardo dei cantori dell'assenzio. Spirito serio e meditativo, il Camerana scrisse pochi ma limitatissimi versi nei quali foschi paesaggi venivano evocati ad esprimere il mistero della vita, e, dopo avere cercato pace nella natura o nella fede, finì suicida nel 1905.
ARTURO GRAF, nato ad Atene da padre tedesco e da madre italiana, ma vissuto quasi sempre in Piemonte, ebbe in comune col Camerana la visione tragica del dolore e della morte e la preoccupazione del labor limae. Nutrito di letture filosofiche e scientifiche oltre che poetiche, inclinò per effetto di esperienze di vita e di influenze libresche ad un disperato pessimismo che assai tardi parve temperarsi per effetto dell'interpretazione dei socialismo come simbolo di redenzione morale. I volumi dei versi del Graf, dalle Danaidi alle Rime della selva lasciano trasparire dal loro desolato grigiore una debole ma nobile luce intellettuale e catartica. Negli scrittori liguro-piemontesi è sempre avvertibile un substrato etico.

TRADIZIONE E RIVOLUZIONE

La letteratura lombarda del secolo decimonono si propose di frantumare il secolare dominio dell'Arcadia e della Accademia mediante l'introduzione di nuovi spiriti e di nuove forme. Fu essa una letteratura tipicamente antiletteraria che alla gelida prosa dei puristi sostituì una espressione semplice e immediata anche se talora trascurata, e che i frusti motivi arcadici (poesie per nozze, per monacazione, ecc.) collocò definitivamente in soffitta. Il secolo venne proponendo nuovi temi e ispirazioni: l'amor di patria, la santa lotta per il riscatto nazionale, il ritorno agli ideali religiosi, la pacata contemplazione del dolore umano, e poi, dopo il '60 e in conseguenza della crescente industrializzazione della regione lombarda e del fiorire di un proletariato e di una intristita piccola borghesia, la pietà per le classi sociali meno progredite o meno fortunate, la ribellione contro la mostruosa forza del capitale, il ripiegare in una zona solitaria di malinconia o di ebbrezza malata. I motivi del primo romanticismo lombardo si erano composti nella prosa armonica e limpida di un Manzoni, miracoloso equilibrio di estro e di cultura, di modernità e di classicità.
Tuttavia - tale è il peso delle tradizioni letterarie e così difficile il rinvenimento di una originalità profonda - proprio dal capolavoro manzoniano aveva origine una nuova tradizione, quella del romanzo storico e del romanzo con venature sentimentali e ironiche. Naturalmente come accade sempre agli imitatori, i manzoniani videro nel loro modello quanto vi era di transeunte e di meccanico. Il Grossi e il Cantù si attardarono in un'analisi storica superficiale per eccesso di patriottismo, il Carcano in un impoetico sentimentaleggiare e il Bini e il Rovani in un gusto capillare dell'umorismo e della macchietta. Ma tutti si lasciarono sfuggire il succo dell'arte manzoniana, quello scavare nella vita degli umili per illuminarla con la pietà e la serena parola.
Questa profonda lezione d'arte e di vita fu invece assorbita da taluno degli scrittori lombardi della seconda metà dell'Ottocento, da un De Marchi, ad esempio, e persino da un Praga, che pur non risparmiò contro il vecchio pontefice del romanticismo acerbissimi strali. Accadeva così un fenomeno che solo apparentemente era paradossale: i romanzieri storici alla Manzoni si allontanavano irrimediabilmente dall'arte mentre chi, stanco dei vasti orizzonti e dei grandi ideali del romanticismo si volgeva a guardare la vita di tutti i giorni e le passioni mediocri o confessava, con accenti ora accorati ora spavaldi, la propria decadenza ideale, faceva arte umana e sincera, vale a dire manzoniana. E' questa una prova di più che le definizioni critiche sono sempre da accettare cum grano salis e che romanticismo, realismo, verismo, ecc., sono termini vaghi che acquistano tanti significati diversi quante sono le personalità artistiche che nelle formule imprimono il suggello di un'emozione di vita. Se ad esempio esaminiamo il mondo poetico di un De Marchi, di un Praga, di un Dossi, di un Lucini, vi scorgiamo un fluttuare di elementi romantici e di elementi realistici. Ma in definitiva è il temperamento dell'artista quello che dà respiro; consistenza e timbro all'arte, onde lo stesso metallo rende squilli diversi ed è nel modo della lega il segreto di ogni perfezione.
Al Manzoni, come a maestro di vita e di stile, guardò costantemente EMILIO DE MARCHI, il cui cristianesimo non si conclude però con la pace e l'armonia ma con lo strazio e l'angoscia. Era il De Marchi uno scrittore candido e onesto. Per certa sua predilezione per i sentimenti elementari e per il carattere antiletterario e dialettale della sua prosa, fu anche accostato al Verga. E di umili «vinti» è piena l'arte demarchiana, da Demetrio Pianelli, il pover'uomo che tenta invano l'evasione dall'angolo di ombra e di scherno in cui vive prigioniero, ad Arabella, la buona creatura che sacrifica se stessa agli altri. E, come nelle migliori cose del Verga, nel De Marchi l'indagine pedagogica si estrinseca nel paesaggio, in un paesaggio lombardo nebbioso e malinconico. Col Verga il De Marchi ebbe in comune la sorte letteraria. Anch'egli, sul finire del secolo, fu travolto dal trionfo dell'arte dannunziana. A chi allora l'esortò a rinnovare il proprio mondo in senso estetico-decadente lo scrittore rispose bonariamente che il suo mondo era e restava quello della povera gente che stenta nella grigia atmosfera degli uffici pubblici e dei poveri per i quali il problema del pane quotidiano rappresenta l'incubo più tormentoso. La vera poesia non ubbidisce al capriccio della moda chiassosa. Quando non si ha più nulla da dire o non si è ascoltati, il partito più dignitoso è quello di tacere.
Pessimista e sentimentale fu anche CARLO DOSSI, la cui arte non ebbe però né la pacata ironia demarchiana né preoccupazioni di problemi etico-sociali. Spirito bizzarro, il Dossi volle contrapporre alla buona prosa lombarda di manzoniano sapore un suo terremotato linguaggio irto di voci dialettali e poetiche. Tuttavia non sta qui la sua importanza di scrittore. Essa è dovuta ad alcune delicate miniature di scene infantili, a talune felici evocazioni della adolescenza e della giovinezza in Vita di Alberto Pisani e a talune descrizioni di paesaggio lombardo. L'ispirazione regionale del Dossi è stata posta in luce nell'Ora topica di Carlo Dossi da un altro bizzarro scrittore, finito miseramente ai primi del secolo ventesimo, GIAMPIETRO LUCINI, che nelle sue opere esalò la nostalgia di una non mai posseduta nobiltà ideale.
Col Lucini entriamo in un altro campo dell'antiletteratura lombarda, e idealmente potremmo collegarlo a distanza con quel movimento che prese il nome di «Scapigliatura» e che si propose di reagire al manzonismo e al patriotticume della seconda epoca romantica (che in Lombardia aveva nel Cavallotti un tardo quanto rumoroso epigono) con una poesia audace e realistica, forte e satanica. Ma anche qui le intenzioni degli artisti contarono ben poco. Gli scapigliati furono dei giovani precocemente invecchiati e tarati da un tragico destino. Il Lucini fu dissolto dalla tubercolosi ossea, il Pinchetti e l'Uberti finirono, come il Camerana suicidi, Emilio Praga morì non ancora quarantenne. Fu una macabra scapigliatura di malati e di moribondi.
La poesia degli scapigliati oscillò tra i poli della compiaciuta confessione della irrimediabile decadenza spirituale e l'anelito verso il sereno mondo manzoniano degli ideali calati nel reale. All'incertezza dell'ispirazione si accompagnò l'incertezza della forma, sì che l'espressione degli scapigliati fu talora sonante e superficialmente canora (come può osservarsi specialmente nel Boito e nel Pinchetti), mentre talora seppe tradurre un facile impressionismo emotivo in versi umani e semplici. Ci riferiamo qui a talune delle liriche di EMILIO PRAGA.
Il Praga fu tra gli scapigliati il più genuino temperamento di poeta. Chi guardi oltre la scorsa del suo satanismo e del suo antimanzonianismo troverà un timbro e un accorato risentimento che formano il lievito morale di una poesia profondamente umana e sentirà la voce viva e commossa di un padre, il tormento di un uomo che non riuscì ad armonizzare le varie corde del proprio mondo affettivo, l'angoscia di uno scrittore che sa di alternare momenti di spontaneità a larghe zone opache, ma vi scorgerà raramente l'insincerità e il dilettantismo.

L'IDEALISMO VENETO

Mentre in Lombardia gli ultimi romantici e gli scapigliati precorrevano quella disarmonia spirituale che sarà propria delle generazioni del Novecento, la letteratura seguiva nel Veneto altre strade, ben più agevoli e piane. Il carattere costantemente tradizionalista e moderato dell'arte veneta è stato da un critico spiegato col secolare e oculato dominio della Serenissima, che unitamente alla prevalente educazione seminarista nelle scuole, educò gli animi al rispetto delle forme. Comunque sia, rimane accertato che, anche quando gli scrittori veneti vollero essere originalissimi e rivoluzionari non riuscirono mai a liberarsi del tutto delle incrostazioni letterarie, come può osservarsi, per esempio, nel veronese VITTORIO BETTELONI che diede vita, nei volumi In primavera, Nuovi Versi e Crisantemi, ad un mondo poetico romantico e famigliare espresso in forme semplici e tenui, dimessi fino ad arieggiare l'andamento della prosa. Il tentativo era senza dubbio interessante - e vedremo che esso sarà ripreso con ben altra voce poetica dai crepuscolari - ma mancò al Betteloni il dono dell'equilibrio tra l'antico e il moderno, tra la poesia e la prosa, tra il serio e il faceto.
Pure, l'anelito del Betteloni ad un rinnovamento delle forme non ebbe seguito. Il maggiore poeta veneto del tempo, il vicentino GIACOMO ZANELLA, fu, per innata predilezione e per peso di studi, un fautore di un nitido ed elegante e tradizionale formalismo. Sacerdote pio e colto, attento alle voci e agli umori del tempo lo Zanella prese ad argomento dei suo canto i progressi scientifici e sociali del secolo, e, più tardi, la crescente miseria delle plebi rurali e la delusione del tanto conclamato progresso. Purtroppo lo Zanella non riuscì a conciliare né il dissidio tra la fede e la scienza, tra l'ossequio al papato e l'amore all'Italia, né quello tra il contenuto e la forma. Vi è una lirica famosissima in cui si può studiare chiaramente il difetto principale dello Zanella, e cioè l'assoluta discordanza tra la serietà e la gravità dell'argomento e la canora superficialità delle strofe, assai tornite e levigate. Alludiamo alla Ode su una conchiglia fossile di cui basterà rileggere, con animo sgombro dalla scolastica ammirazione, i versi più noti per scorgervi l'intonazione assolutamente sbagliata da canzonetta metastasiana.

Sui tumuli il piede,
nei cieli lo sguardo,
all'ombra procede
di santo stendardo.
per goli reconditi,
per vergini lande
ardente si spande.

Non una frase, non un verso che crei immagini nuove e concrete, che fermi stati d'animo e non atteggiamenti statuari. Meglio lo Zanella riuscì quando si limitò ad esprimere un'arcadica contemplazione della natura nella collana dei sonetti che egli dedicò all'Astichello, il fiumiciattolo che scorreva attorno ad una sua villetta di campagna.

«Tu povero Astichel, solo sei vivo,
tu che scorrendo e dileguando insegni
come tutto nel mondo è fuggitivo».

Dallo Zanella ebbe consigli e incoraggiamenti la patavina VITTORIA AGANOR POMPILJ, la cui poesia d'amore non sempre trovò accenti caldi e immediati, dato che la maggiore preoccupazione della scrittrice fu costituita dall'aspirazione ad una letteraria compostezza della frase.
Fermamente ancorato alla tradizione fu, nel Veneto, anche il teatro. In questo campo la tradizione non aveva che un nome: Goldoni. E goldoniani furono i due maggiori drammaturghi veneziani, il Selvatico e il Gallina, i quali usarono a preferenza il dialetto.
RICCARDO SELVATICO introdusse nella sana comicità d'origine goldoniana una delicatissima vena di poesia. La rappresentazione dei costumi popolari veneti e delle anime primitive e semplici trovò in La bozeta de l'oio e in I recinti da festa accenti umani ed efficacissimi. La sua arte precorre quella di GIACINTO GALLINA, il quale, nutritosi esclusivamente del Goldoni dei Rusteghi, de La casa nova, de Le baruffe chiozzotte, ecc., volle rendere gli aspetti comici e sentimentali della Vita borghese e popolana di Venezia. Una tenue e commossa vena di poesia crepuscolare serpeggia ne La famegia del santolo, ne Il moroso de la nona e in Serrenissima e in tante altre commedie nelle quali il decadere, il trasformarsi e il rinascere dei ceti sociali veneziani sono osservati con occhi lucidi di pianto.
Nel campo nella narrativa - (fatto cenno di GEROLAMO ROVETTA, nato a Brescia ma vissuto a lungo nel Veneto, il quale oscillò senza intimo convincimento tra le idealità patriottiche, morali e civili, e un convenzionale realismo) - ci si presenta un grande nome: ANTONIO FOGAZZARO. Vicentino, come lo Zanella, il Fogazzaro ebbe qualche affinità con il cantore della «Conchiglia fossile». Anch'egli, innamorato della fede e rispettoso della scienza, fu, per tutta la vita, tormentato da uno sforzo romantico di conciliazione fra il dramma del pensiero e quello dell'anima, fra il contrasto della ragione e quello della fede, tra l'urto del sentimento e quello della coscienza, tra i moti dell'intelletto e quelli del cuore. Tale sforzo, fallito dal punto di vista filosofico e storicistico, fu artisticamente reso. Si può dire, anzi, che è proprio in questo fallimento il pathos avvivante della tragedia dei personaggi fogazzariani, che, precisamente, in questa mancata conciliazione e nella catarsi purificatrice a cui essi pervengono, quando non soccombono, è l'ictus di una narrativa che non vuole essere fine a se stessa, ma vuol conquistare un contenuto altamente etico, religioso e sociale.
Non vi è dubbio che Piccolo mondo antico raggiunga l'equilibrio stabile, di tutti gli elementi creativi del vicentino, ma anche nel Piccolo mondo moderno, nel Santo, nel Mistero del poeta, in Leila, il Fogazzaro ci fa assistere all'evoluzione del suo cosmo ideale e artistico, con alti e bassi ombre e luci, costruzioni e impasti di varia esperienza e vasto ciclo; anche in quei romanzi ci dà paesaggi e creature indimenticabili. Le famose donne del Fogazzaro non sono mai falsate, né snaturate, né letterarie. Sono donne vive di un mondo romantico, espressioni di un tormento e di una crisi sociale che investe la natura femminile, in quella singolare zona in cui le ha poste lo scrittore. Gli eroi dei romanzi fogazzariani, Daniele Cortis, Benedetto Maironi, ecc. non sono, né astratti, né avulsi dalla vita. Essi slittano oltre la realtà, perché sono sognatori in azione e perseguono, in campi di versi, una loro idea praticamente inattuabile. Appaiono, a volte, sfocate queste figure; a volte, la tesi ha il sopravvento; le costruzioni, a volte, mostrano la costura; lo stile non sempre si identifica con la rappresentazione, l'umorismo è limitato alla macchietta. E' vero. Ma di fronte a codeste inefficienze stanno creature fissate nel calco del tempo. Uno scrittore che ha saputo plasmare la sensibile trepida vita di Ombretta, la dolorosa e umana figura di Luisa, e i volti vividissimi di tutta una folla di secondo e terzo piano nella Valsolda e incidere nel dramma spirituale di Pietro e di Franco Maironi e dar colore nuovo e pur vero ai quadri della natura, merita di essere studiato con attenzione e simpatia.
Quanto, poi, al Fogazzaro pensatore, che apparve agli occhi dei suoi coetanei così vacillante nel tentativo di conciliare la fede e la scienza, ci sórge, invece, e non del tutto infondato, il sospetto, come da molti segni si avverte, che egli abbia, piuttosto, precorso i tempi.

IL REALISMO IN TOSCANA

L'arte toscana - e ci riferiamo non solamente alla letteratura del secolo Ottocento, ma anche a quella dei nostri giorni - ha caratteristiche inconfondibili rispetto alle altre letterature regionali.
Gli scrittori toscani, anche quando non scavano nel fondo della verità e della sapienza, hanno un loro saporoso modo di esporre e una vivacità drastica nel presentare la vita e nel cogliere, con arguta prontezza, i lati salienti tanto drammatici che comici. E' nella natura del popolo fiorentino, infatti, la sagacia, il frizzo e quel sottile senso caustico che nasce da una grande conoscenza dell'anima umana e delle umane vicissitudini nei riflessi della realtà e del sogno, della verità e delle illusioni di un popolo che ha espresso i più grandi artisti della fantasia e del colore, la cui lingua si nutre quotidianamente dall'esperienza atavica, la cui sensibilità nobilissima trova nella parola le vibrazioni più armoniche e più profonde, senza quello sforzo ricostruttivo, sintattico e vocabolaristico che si richiede da chi è costretto a rifare sul proprio dialetto il congegno dello stile e il tessuto del pensiero. Per questa felicità d'ambiente e di tradizione gli scrittori toscani si trovano certo in vantaggio rispetto agli altri. Essi hanno in casa, sin dalla nascita, quella ricchezza idiomatica e quella concinnità espressiva che costituiscono già in gran parte gli elementi fondamentali e basilari dell'arte narrativa. D'altro canto essi corrono il rischio di congestionare il loro stile e di agghindarlo in modo che la prosa dia alla fine un tono manierato e letterario, anche quando scavano in bassifondi popolari e traggono dalla viva voce delle masse il materiale grezzo delle loro creazioni.
La prosa famigliare e semplice, la grazia del dire, la cultura umanistica, costituiscono i pregi della narrativa di FERDINANDO MARTINI. Scrittore piacevole, arguto, enciclopedico e versatile, ricco di spirito e di intelligenza, ii Martini qualche volta seppe andare oltre l'ornato e sereno conversare come può osservarsi nel suo maggior libro, e cioè Nell'Africa Italiana, in cui le pagine evocative e ricostruttive del continente nero sono pervase da un sotterraneo elemento lirico che costituisce l'humus interno della vitalità dell'opera.
La cordialità umana e la semplicità dello stile non furono invece sufficienti a dare un valore non transeunte ad altri letterati toscani della seconda metà dell'Ottocento, quali il MAZZONI, il NENCIONI e il CHIARINI. Tutti e tre critici e poeti, colti di letteratura italiana e straniera, quando vollero far poesia, si attardarono in un impressionismo sentimentale, e, quando si volsero alla critica, rimasero impigliati nelle maglie di un metodo che li portava a lodare indiscriminatamente.
Di altri letterati toscani è inutile far cenno. Il Guerrini e il Ricci, nella loro gustosa parodia del «Giobbe» rapisardiano ebbero voce profetica quando, rivolgendosi agli accademici e ai poetuncoli fiorentini, sentenziarono:
«Tutti cadrete nell'oblio che copre i clamori d'un giorno. Un sol di voi vivrà. Vivrà colui che non stimate giungervi alla caviglia: il più modesto, il migliore fra voi. Vivrà il Fucini.»

RENATO FUCINI, o Neri Tanfucio, nacque a Monterotondo Marittimo, nella maremma grossetana. Spirito buono e affettuoso, arguto conversatore, il Fucini, seguendo la corrente del trionfante naturalismo, diede alla sua arte un sano impulso regionale e ritrasse in sapidissimi Sonetti e nei bozzetti de Le Veglie di Neri aspetti e figure della campagna toscana. La sua arte, pur entro i limiti del quadretto e della macchia, riesce a cogliere con realistica evidenza l'elemento paesistico e l'elemento umano. Il Matto delle giuncaie, la strana creatura che vive in una palude, sola con un vecchio cane, le povere famiglie che coll'inverno emigrano dalla montagna, snidate dal rigore della stagione e della fame, e si allontanano nel folto di una bufera di neve, lo spaccapietre che, per ottanta centesimi al giorno, lavora indemoniato sotto la canicola estiva, queste e tante altre figure semplici e selvagge sono descritte con un pathos malinconico e amaro che richiama il grande afflato del mondo verghiano. Ben sintetizzò Renato Serra le caratteristiche dell'arte del Fucini.

«Voltandoci indietro, come per salutare, ci vien fatto di rivedere una figura più mezzana (del Verga) cara alla nostra fanciullezza, in cacciatora di fustagno, e con la pipa in bocca, un viso un po' invecchiato, una brunitura di sole e di campagna, e un riflesso deliziosamente toscano, bonario e arguto nel riso e negli occhi sempre vivi, Fucini, che ha scritto delle cosette sentimentali e comuni con una vivacità da macchiaiolo e una limpidezza di artista.»

GIOSUE' CARDUCCI

Maremmano fu anche il più grande poeta del secondo Ottocento, GIOSUE' CARDUCCI.

«Dolce paese, onde portai conforme
l'abito fiero e lo sdegnoso canto
e il petto ov'odio e amor mai non s'addorme»

cantava il poeta nel 1885, alla vista dei cari, selvaggi colli.
Giosuè Carducci ritratto tra parenti

I paesaggi, i luoghi, la natura ebbero una profonda influenza nell'arte di Giosuè Carducci, entrarono a far parte delle sue fantasie e delle sue creazioni, gli fornirono materia d'ispirazione, si fusero coi suoi fantasmi, crearono uno sfondo adeguato ai suoi sogni, furono scenario di bellezza e di solennità anche alle sue grandiose ricostruzioni storiche. Non v'è infatti componimenti, sia di natura puramente lirica, sia di carattere epico, sia culturale o filosofico o mitologico o patriottico o civile, in cui non intervenga immediatamente il senso della natura a far da quadro e cornice alle sue visioni e ai suoi pensieri.
Ed ecco il poeta sui banchi della scuola alzare il capo dalle letture omeriche ed osservare dalla finestra aperta il sorriso azzurro del cielo; ecco il «pio bove» che riflette nel «grave occhio glauco il divino del pian silenzio verde», ecco Lidia che porge al taglio secco della guardia la tessera mentre i fanali s'inseguono accidiosi nelle brume d'autunno, ecco dietro l'ombra di Napoleone Eugenio sorgere la solitaria casa di Aiaccio

«Cui verdi e grandi le querce ombreggiano»,

ecco i cipressi di San Guido svettare sulle memorie dell'infanzia, ecco le tante figure della storia, della leggenda e dell'arte inquadrate sempre dentro le scene e gli spettacoli del creato. Persino nella prosa, persino durante il processo severo delle sue indagini culturali, il Carducci si lasciava distrarre dalle dolci visioni del paesaggio romagnolo o toscano. Ricordate le belle lavandaie di Desenzano che si presentano alla vista del poeta e lo distolgono dall'accanimento polemico? E le cicale di S. Miniato al Tedesco? Mare, cielo, montagne, fiumi, alberi, aurore, tramonti, allegrano o infoschiano i personaggi, il dramma e gli stati d'animo carducciani. Ecco, Sennuccio del Bene, che ricorda S. Maria del Fiore la quale s'innalza serena «tra le negre torri», ecco Teodorico che

«guarda il sole sfolgorante
e il chiaro Adige che scorre,
guarda un falco roteante
sovra i merli della torre,
guarda i monti da cui scese
la sua forte gioventù
ed il bel verde paese
che da lui conquiso fu».

Ecco, ancora la tragica sorte di Massimiliano istoriarsi sul castello di Miramare «dalle bianche torri attediate per lo ciel piovorno», ecco

«I freschi pini, per l'aura grande di Roma
fremere accanto all'urna di Shelley»

ecco «la villa del Douro sola e cheta in mezzo dei castagni» albergare, nella indifferente calma, il dolore di Carlo Alberto, ecco il Cadore di Pietro Calvi dove «lento nel pallido candor della giovane luna stendesi il murmure degli abeti», ecco il dolore del figlioletto morto inacerbirsi alla vista del «verde melograno dai bei vermigli fior». Si avverte subito che il poeta è vissuto sempre in contatto con la natura, ne ha sentito sin dall'infanzia la possente bellezza e l'infinito mistero, ne ha portato nel cuore, anche dentro le chiuse aule delle biblioteche e della scuola e nei fondi abissi della sua cultura, il respiro e il calore.
Il Carducci che ha ricordato le case, le ville, il paesaggio di quasi tutte le grandi figure storiche della sua fantasia, non dimenticò la propria casa natale e la meravigliosa Versilia. Ritornano esse infatti nel suo canto con un senso di nostalgia e di chiuso ardore appena l'estro lo sospinge verso il tema dell'infanzia.

«E al cor nel fiso mite fulgore
di quella placida fata Morgana
riaffacciavasi la prima età,
senza memoria senza dolore,
pur come un'isola verde, lontana,
entro una pallida serenità».

Oppure è la favella toscana dal mesto accento a destargli nell'anima il ricordo della Versilia:

«Canora discendea, col mesto accento
della Versilia che nel cuor mi sta
come da un sirventese del Trecento,
pieno di forza e di soavità».

E alla Versilia, ancora cessate le battaglie letterarie e composti i suoi spirituali dissidi, il poeta rivolgerà pensieri ed affetti. E quando, asceso sulle soglie della gloria, si persuaderà di avere perduto il verde e malinconico rifugio del paese natale, allora sentirà una grande tristezza pungergli la memoria e domanderà agli uccelli un messaggio d'amore da portare alla fedele natura che sorrise agli anni suoi primi e affiderà alle trasmigranti vite dell'aria il suo tenero ed affettuoso saluto, quando esse sosteranno sulla terra «bianca di marmi e bruna d'oliveti».
Crediamo di avere individuato nella persistenza lirica del paesaggio toscano e romagnolo il nucleo vitale della poesia carducciana. Tuttavia è ben lontana da noi l'intenzione di impicciolire nei limiti di un impressionismo pittorico la portata di tutta l'arte del Carducci, il quale volle essere soprattutto il vate della nuova Italia.
Osserva giustamente il Croce che per il Carducci «nella lirica, doveva riversarsi la storia: il passato gli parve la sola degna materia che restasse nei tempi moderni ai poeta. Volle, dunque, atteggiare a rappresentazione artistica i ricordi storici della terra italiana, le figure degli eroi e le leggende, e nutrire il verso di ogni sorta di reminiscenza. Ebbe sempre in dispregio più o meno secreto l'artista umile e ingenuo e gli preferì quello dotto e sapiente. Insieme con le allusioni storiche, la sua forma poetica si venne corroborando di allusioni e comparazioni mitologiche e si svolse in una fraseologia che segue le movenze dei maggiori poeti italiani e latini».
Per la sua classicità e per la sua prevalente natura storico-politico-letteraria l'opera del Carducci parve ad alcuni professorale nel senso meccanico e deteriore della parola e fu, invece, espressione sincera e vivida di una grande anima. Nei momenti migliori la cultura, la storia, il pensiero, la mitologia non restarono allo stato di sovrapposizione ideologica. Il poeta assorbì, dai libri e dal clima meraviglioso ed eterno dei classici, non solo il gusto delle forme e dello stile, ma anche il polline di tutta una concezione epica, grandiosa e sublime dell'esistenza, non fine a se stessa, sibbene attività operante del pensiero e a servizio di un ideale. Questo ideale fu per il Carducci soprattutto la Patria. Non fu un'idea scolastica e libresca: fu febbre, alimento, luce della sua vita spirituale. L'uomo che era vissuto in contatto col mondo eroico di Grecia e di Roma e che, per tendenza naturale, era portato ad ammirarne e comprenderne la storia, la civiltà, l'arte, doveva ben chiaramente agognare che l'Italietta umbertina si specchiasse sulla storia del suo passato.
All'Italia dopo il 1870 era venuta meno ogni comunità idealistica di ispirazione e di interessi. Compiuta quasi con la presa di Roma, la sospirata unità, soffocate, per necessità diplomatiche, le velleità irredentiste, passata la generazione che aveva sacrificato se stessa e assistito alla gloriosa ascensione della Patria, l'anima italiana vedeva farsi più lontano il miraggio della finale liberazione delle terre che erano rimaste sotto il grave giogo d'Asburgo, e acquietatasi in una vita di serena attività civile, si volgeva a nuovi e più ristretti orizzonti. Si guardarono, siì con occhi luminosi di gratitudine le figure del nostro Risorgimento, si seguirono col pensiero i loro supremi miraggi non ancora del tutto realizzati, si ebbe la cognizione, sebbene non la convinzione, che un obbligo morale aveva l'Italia verso i suoi figli e verso se stessa: il completamento della grandiosa opera, iniziata e in massima parte compiuta, dell'unità. Ma tutto ciò come una cosa lontana nel passato e difficile nell'avvenire.
Ben altra disposizione spirituale muoveva il Carducci, il quale svolse la sua opera di educatore e di poeta con religione e con amore, infaticabile e attivo sempre. «Non potendo operare - scrisse il Croce - come gli antichi poeti greci, si proponeva di meditare i cantici delle memorie e dei desideri; si giurava sacro alla Patria in ogni suo verso; si vagheggiava sulle tombe degli eroi come Sofocle sul trofeo di Salamina».
Grazie a queste sue idealità alte e sublimi poté il Carducci risuscitare la morta poesia nostra, fustigando gli arcadici isterismi dell'ultimo romanticismo che, rigermogliato timidamente come un pollone malaticcio sul tronco di un albero disseccato veniva estenuandosi in un languido sentimentalismo.
Né vanno trascurati i meriti del Carducci critico, polemista e prosatore. Nel campo della critica egli diede un fondamento scientifico, al cosiddetto metodo storico, rinvigorì ed innovò gli studi di compilazione, di raffronti e di ricerche, che vennero via via perfezionandosi (pur cadendo in eccessi e perdendo in raffinatezza estetica ciò che guadagnavano in diligenza e minuziosità esegetica) col Graf, col D'Ancona e infine, col Barbi.
Vero è che, tutto compreso del suo metodo critico, il Carducci ebbe il torto di non aver saputo apprezzare nel suo giusto valore, la produzione geniale del De Sanctis, tuttavia è innegabile che, come elemento rigeneratore di studi, la sua opera sia stata valida. Non piccolo né lieve fu l'incremento che lo scrittore diede alla prosa italiana del suo tempo, innervandola allo stile classico e ciceroniano dell'andatura, rinsanguandola di modernismo schietto e robusto, dandole una concinnità garbata, un respiro ampio, dignitoso, solenne, e, nello stesso tempo, infondendole una vitalità nuova e potente per gli scatti e rapidi trapassi di tono, dal cattedratico all'umoristico, al polemico, all'oratorio, al descrittivo, al lirico.
In definitiva Giosuè Carducci irrobustì e rifece l'arte italiana e le diede un contenuto vivo e vitale, una forza interiore efficace e intensa, una forma dignitosa e nobile.

SCRITTORI ROMAGNOLI

Attorno al Carducci venne formandosi, a Bologna, una corte di imitatori, di discepoli o semplicemente di scrittori che nel poeta di Maremma riconoscevano un maestro. Si è parlato, a questo proposito, di una scuola carducciana, che comprenderebbe tra le sue figure più significative, il Guerrini, il Panzacchi, il Marradi e Severino Ferrari. Ma ad uno sguardo più approfondito si osserva chiaramente come l'influenza carducciana abbia inciso assai poco su tali poeti che, quando ebbero accenti seri e duraturi (il che accade loro di rado) si trovarono agli antipodi del virile patriottismo dell'autore delle «Odi barbare».
Quale affinità spirituale correva ad esempio tra il GUERRINI e il Carducci, che pur si stimarono e si amarono e combatterono insieme delle battaglie letterarie? Nessuna in realtà. Mentre il Carducci

«cupo, aggrondato (come lo descrive lo stesso Guerrini) procedeva per le felsinee strade, strappando dal bruno mento la barba rada e mulinando ruvidi esametri, sognando l'arte aristocratica»,

il Guerrini, da buon romagnolo, gustava la vita grassa e tranquilla e canzonatrice della capitale dell'Emilia, e dettava il manifesto del verismo in poesia, vale a dire di un'arte viva, moderna, libera di paludamenti classici e di nostalgie patriottiche e risorgimentali.

«Gli artisti hanno cominciato a capire che il segreto del trionfo sta nel sapersi ispirare all'ambiente in cui si vive, alla verità di oggi, non a quella di cinquant'anni addietro. Hanno capito che in arte bisogna essere del proprio tempo o morire... Vogliamo sentire come i nostri nervi e il nostro cervello comportano... vogliamo amare come sappiamo amar noi, non come amarono i nostri nonni. Nel 1860 si poteva, si doveva avere l'ideale dell'Italia una. Ora che questa unità non è più né discussa né minacciata, come faremmo ad avere lo stesso ideale e cantarlo? Il verismo e il borghesismo che cosa sono dunque se non effetti di uno stato sociale, momenti di un'educazione civile? Oggi la rettorica del quarantotto ci fa sorridere perché quell'entusiasmo giovanile non c'è più, e non c'è arte al mondo che lo possa resuscitare colla sua forza, per quanto grande la si voglia credere.»

In che cosa consistette il verismo del Guerrini? Dapprima nella Postuma, che il Guerrini attribuì ad un immaginario poeta morto di etisia, Lorenzo Stecchetti, l'arte verista si limitò a risciacquare i panni dell'ultimo romanticismo nelle acque non troppo chiare del baudelairismo di moda in Francia, poi, dopo scialbi tentativi «socialistici», ripiegò nella pornografia anticlericale delle rime di Argia Sbolenfi. Non andò mai, comunque, oltre i ristretti orizzonti della contraffazione e della burla: fu la poesia più anticarducciana che si potesse immaginare.
Forse la cosa migliore del Guerrini rimane quell'opera in cui il proposito burlesco è decisamente svelato. Alludiamo alla gustosa parodia Giobbe (poema alla maniera rapisardiana) nella quale sono acuti ed arguti giudizi sui letterati del tempo che vengono esaminati secondo una distinzione per regioni. Notevoli ci sembrano i ritratti di ENRICO PANZACCHI «dolce cantor di romanze e laudator di prime donne» e del commediografo modenese PAOLO FERRARI «L'Aristofane nostro, a cui non ride più la fortuna giovanil de' primi suoi passi, poi che le serene arguzie per le tesi lasciò».
I limiti dell'idillico poeta di Ozzano (melodioso e ricco di delicate sfumature cromatiche e spirituali) e dell'autore di Goldoni e le sue sedici commedie nuove sono giudiziosamente stabiliti; così come criticamente esatto è il parere che il Guerrini dà sulla propria poesia:

«Eccoti, o gran Stecchetti, coi bugiardi
tuoi vizi, imitazion d'imitazione,
che devi la tua fama a un falso morto!
Non è verismo il tuo, ma vitupero».

Assai lontani dalla grande poesia carducciana furono anche due altri poeti cui il Carducci non risparmiò elogi ed incoraggiamenti, SEVERINO FERRARI, e Giovanni Marradi.

«O Severino dei tuoi canti il nido,
il covo dei tuoi sogni ben lo so,

cantava il Carducci. Questo covo di sogni era costituito nel Ferrari da un piccolo mondo di sentimenti teneri e affettuosi espressi con grazia, delicatezza e sincerità, da un mondo poetico che non si riallaccia al Carducci ma che, semmai, prelude al Pascoli.
Più vasta fama ma minore felicità poetica ebbe il MARRADI grazie a raccolte di versi in cui paesaggi naturali o personaggi storici (Garibaldi, Anita ecc.) vengono fissati in una letteraria eleganza priva di intimità e di commozione.
Solitario, rispetto al Carducci e agli altri scrittori romagnoli, si macerava nella meschinità della vita provinciale il faentino ALFREDO ORIANI. Reso scontroso da una vita vuota di affetti, deluso nella sua aspirazione alla gloria, tormentato da una visione macabra e desolata dell'esistenza, l'Oriani finì col porsi contro, tutti i principi e le idee del tempo. Fu antisocialista, antidivorzista, nazionalista e imperialista. Vi era certamente qualcosa di squilibrato e di convulso in quel suo atteggiamento retorico di ribelle. Dove l'Oriani riuscì efficace e misurato fu in taluni romanzi di un verismo esasperante eppure umano, in Gelosia ad esempio, in Vortice, che descrive l'ultima lunghissima giornata di un suicida, in Olocausto (che ha per argomento la prostituzione di una fanciulla ad opera di una mezzana) e nella Disfatta. In quest'ultimo romanzo lo scrittore espresse quanto vi era di più nobile e sconsolato nella sua anima con un tono malinconico che giunge fino allo strazio. Il protagonista della Disfatta, il prof. De Nittis, che contemplando la propria vita passata e futura, si ritrova solo, senza figli, senza gloria, senza speranza, è la trasfigurazione artistica dello stesso Oriani.

POETI ROMANI

Nel più volte citato poema satirico Giobbe il Guerrini aveva aspre parole di rampogna contro i cosiddetti poeti della scuola romana - tutti accademici e classicisti - i quali rimasero estranei alla rivoluzione spirituale, sia in senso storico che in quello letterario, che agitò i letterati delle altre regioni d'Italia. Mentre il Carducci rievocava amorosamente il patrimonio ideale della grande Roma e il De Marchi, il Fogazzaro, il Verga venivano trasformando documenti umani in pagine d'arte, i poeti romani - tra i quali sono appena degni di menzione il Revere e il Giovagnoli - si esercitavano freddamente in poemetti montiani, in sonetti pratiani e in odi saffiche e asclepiadee.
Naturalmente, così giudicando, abbiamo mentalmente estratti dalla folla degli scrittori romani, per dar loro l'alto posto che meritano, due scrittori di notevole valore, il Cossa e il Pascarella.
L'arte di PIETRO COSSA non derivava né dalla tragedia alfieriana né dal dramma romantico, ma prendeva le mosse dal verismo e dal naturalismo francese. Il Cossa spirito anticlericale e liberale, guardò con predilezione alla storia di Roma, vista però non nei suoi momenti più alti, solenni ma nei tempi di decadenza, di corruzione e di brutalità. Fu questa la difesa del Cossa contro il pericolo di cadere nella retorica delle facili rievocazioni romane. I suoi eroi sono «personaggi averistici» in cui le luci ed ombre, virtù e difetti si confondono in un suggestivo e umano impasto. Da ciò il successo notevole del Nerone, in cui il protagonista non è il fosco tiranno della tragedia classica ma un uomo crudele e fanciullesco insieme, ambizioso e vile, ingenuo e raffinato.
Anche il PASCARELLA ebbe rapido e immediato il successo e il riconoscimento. Il Carducci, in uno di quei traboccanti impulsi che caratterizzavano gli entusiasmi o i risentimenti della sua natura, proclamò l'alta epicità di Villa Glori con parole che raramente ebbe per altri poeti viventi del suo tempo. La fortuna e i consensi circondarono sempre l'opera e la persona del poeta romano, il quale a dire il vero, dopo Villa Glori e la scoperta dell'America (altro poemetto che suscitò l'interesse di quell'epoca letteraria), per un curioso caso di autocoscienza e di accresciuto senso di responsabilità, sorvegliò attentamente la sua ispirazione e lavorò faticosamente attorno ai sonetti di Storia nostra: che uscì postuma e incompiuta.
Per giudicare serenamente la poesia del Pascarella è necessario svestire il poeta di Villa Glori dalle intenzioni di Vis epica. Inserite nel campo storico, le ricostruzioni pascarelliane, le scene e i personaggi, per quanto estratti dalla realtà, acquistano colori, modi, gesti, che si proiettano in una atmosfera parabolica, dove l'elemento narrativo ha spesso il sopravvento sulla sostanza lirica o sullo sviluppo epico e dove lirismo ed epicità sono assoggettati ad una interpretazione nobilissima in cui il serio e il faceto si alternano. Il Pascarella porta sempre nella sua materia i riflessi delle sue predilezioni pittoriche, umoristiche, satiriche. Avvertiamo, ad un dato punto, che per quanto il protagonista resti sempre sulla scena, non è più il popolano di Trastevere che parla, ma il poeta. Tutto ciò è tanto più facilmente reperibile quanto più il racconto passa dall'epoca antica alla moderna, quanto più fa fulcro insomma verso il periodo delle lotte per l'unità italiana. Quando si trattava di rievocare la leggenda e la storia ancora confuse, il poeta aveva un tono giocoso e a volte comico e i suoi quadri si sfumavano di tinte ironiche e i dialoghi si infittivano di riflessioni e giudizi e ragionamenti di arguto umorismo. Ma appena si entra nel Risorgimento, appena balzano fuori le figure degli eroi che prepararono l'Indipendenza, ecco che il timbro narrativo acquista vibrazioni insolite e la fantasia del Pascarella si leva a voli impetuosi e commossi. Allora affiorano motivi inaspettati di delicato impressionismo e si aprono efficaci squarci di intonazione epico-lirica che testimoniano di una altissima fede di cittadino nella grandezza dell'Italia e di una superiore nobiltà di artista.

LA LETTERATURA NAPOLETANA

Il Pascarella risolveva magistralmente il problema che, sul finire del secolo, si pose agli scrittori di più acuto sguardo, quello di creare un'arte che, reagendo all'aulica e noiosa tradizione letteraria nostra, fosse popolare senza essere né sciamannata, né cantarellante, né legata al quadretto e al bozzetto. Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia? Su questo argomento il Bonghi dissertò in un lungo articolo scoprendo che il tarlo che rodeva la nostra arte era il distacco tra la cultura e la storia, tra la letteratura e la vita. A questa inaderenza della letteratura col popolo influirono, grandemente ragioni storiche e idiomatiche che dopo la rottura dell'unità italiana, dal sesto secolo dopo Cristo, determinarono nelle varie regioni il prevalere dei dialetti. Per questi motivi la lingua italiana rimase sempre più nel campo letterario, dottrinario e scolastico mentre il dialetto servì ad esprimere sentimenti e motivi più vicini all'anima popolare e l'arte ebbe un carattere realistico e regionalistico. Il dialetto, in altri tempi, fu lo strumento più vivo e caratteristico di un'arte che ebbe radice nei più profondi sentimenti umani. Tutto questo sino al periodo che precede la guerra. La guerra opera un movimento di trasfusione e di rifusione e cementa l'unità italiana: i caratteri particolari delle singole regioni si scoloriscono gradualmente e si esauriscono quindi le più essenziali fonti dell'ispirazione popolare che attinge vena e forza soprattutto da un materiale di natura folcloristica.
A Napoli la rivolta contro la letteratura e l'arcadia - rivolta che era già osservabile nel Settembrini e nel De Sanctis - si realizzò attraverso una poesia e un'arte dialettale, o quanto meno d'ispirazione dialettale. Da un rapido sguardo d'insieme alla poesia dialettale napoletana sentiamo che affiorano i veri caratteri e la vera natura di tale poesia giunta sin'ora, a noi in una discorde e tumultuosa orchestrazione in cui non è facile discernere il formale dal sostanziale, il perentorio dal durevole il piedigrottesco e il cantabile da ciò che fu vera e pura poesia dell'anima di un popolo attraverso la voce singolare e inconfondibile dei suoi poeti. Questi poeti furono Libero Bovio e Rocco Galdieri, che preannunziarono gli stati d'animo di trasognato stupore e d'infinita stanchezza che saranno propri dei crepuscolari, e soprattutto SALVATORE DI GIACOMO.
La caratteristica più saliente dell'arte del Di Giacomo - in un momento in cui la poesia dialettale in Italia si oggettivava in quadri e scene di sapore paesano in cui la psicologia era piuttosto pittura e il disegno amore del particolare con tinta ironica e amara - consiste in un dilatarsi del pensiero oltre il limite della realtà, in un echeggiare dell'anima oltre il grido della propria passione, in un riflettersi della natura in noi e delle nostre illusioni della natura, in un guardare dentro il cuore del mondo e delle persone attraverso il nostro cuore. Amaro è a volte il canto del Di Giacomo, ma l'amarezza non è mai sarcastica. Egli avverte, più che il lato comico degli umani tormenti, il lato tragico. Da questo lo sviluppo che la sua arte acquista quando dalla lirica pura passa al teatro (Assunta Spina, Mese mariano, ecc.) dove il nodo dell'azione si scioglie in rapide catastrofi, più spirituali che cronistiche. Nel duro groviglio dei fatti egli supera la cruda realtà e coglie le risonanze interiori del dramma. Anche quando le tinte sono forti e quasi granguignolesche, noi troviamo nel Di Giacomo il balzo nella zona viva del sentimento. Raramente vi è in lui retorica, artifizio, preparazione di effetto scenico.
Un'umanità umile, semplice, eterna, palpita e vive in tutta l'arte di Salvatore Di Giacomo, sia nei suoi toni lievi, che in quelli violenti. Noi preferiamo il poeta nei toni lievi nelle sue limpide e fresche comunioni con l'anima della natura, lo preferiamo nei suoi acquarelli meravigliosi, intrisi di cielo e di mare. Egli ha il senso rabdomantico delle stagioni proiettate sulla terra, avverte lo stato d'animo delle cose. In questa trasfusione spirituale ed emotiva tra l'oggetto e il soggetto, tra la vita e il cuore, è il segreto della poesia di Salvatore Di Giacomo che non avrebbe potuto acquistare valore universale, così chiusa com'è entro il piccolo cerchio della sua città e del suo ambiente, se non avesse avuto queste vibrazioni e questi significati di carattere profondamente umano che cercano i limiti del luogo e del tempo.
Mentre il Di Giacomo guardava con animo commosso alla vita della plebe, MATILDE SERAO esprimeva in romanzi e novelle sentimenti e pregiudizi, gioie e dolori di quella piccola borghesia napoletana che era appena uscita dallo stato di plebe. La prosa della Serao, così cordialmente espansiva e così abbondantemente aggettivata, scavò a fondo - almeno nei primi volumi (Fantasia, La virtù di Checchina, All'erta sentinella) - nella psicologia degli umili e nelle passioni della folla. Poi la scrittrice, abbandonati gli ambiziosi propositi, alla Zola e alla Verga, d'interpretare la società nei suoi vari strati, dall'infimo al superiore, finì col ripetersi ricucendo e rimaneggiando, con intenti misticheggianti, gli argomenti dei suoi primi e più genuini libri.

IL VERISMO IN SICILIA

La letteratura verista trovò nel mezzogiorno d'Italia un terreno fecondo. Essa germogliò rigogliosamente e diede i migliori frutti in Sicilia (col Verga, il Capuana e il De Roberto) mentre trascurabile apparve l'apporto letterario delle altre regioni meridionali.
Il romanzo verista - che derivava dal romanzo naturalista francese di Zola e di Flaubert - Si propose di osservare la vita reale con fotografica fedeltà e con ostentata oggettività. Ma, nei suoi risultati più notevoli, finì col cadere in contraddizione con se stesso. Possiamo veramente chiamare fredda, impersonale e obiettiva un'arte, che quando non ebbe addirittura intenti di propaganda sociale e socialista, preferì comunque la rappresentazione degli aspetti più dolorosi e delle classi più umili? In realtà il verismo fu un'espressione d'arte legata alla vita economica e politica del tempo, e pur facendo parte del grande movimento positivista europeo, soddisfece al nostro bisogno di liberarci dai pregiudizi e dalle ingiustizie sociali nella vita, e dall'enfasi aulica e dalla vuotezza interiore nell'arte.
Il primo cronologicamente a segnare e a sentire le nuove tendenze, verista nell'arte, fu LUIGI CAPUANA nei volumi di novelle Le appassionate e Le paesane e nel romanzo Il marchese di Roccaverdina.
Abbiamo citato i libri più significativi tra i moltissimi che il Capuana scrisse, sospinto dalla versatilità dell'ingegno, dalla febbre di curiosità e di ricerca e dalla passione culturale a disperdersi in diverse attività dello spirito a volte antitetiche e opposte, dalla poesia al teatro dialettale, dal saggio critico allo studio scientifico.
Oggi della spaventosa mole di lavoro del Capuana resta assai poco: alcuni tipi e caratteri delle novelle scolpiti con una vigoria che anticipa l'arte verghiana, talune intelligenti verità nel campo critico, dove il Capuana precorse il movimento crociano della sensibilità intuività contro il processo accademico della critica storica, qualche limpida pagina di letteratura per l'infanzia. Forse il merito maggiore del Capuana fu quello di aver spinto il Verga a tornare sui propri passi, ad abbandonare il genere romantico e salottiero della prima maniera e a ricercare nelle radici della terra siciliana la sostanza profonda della sua arte.
VERGA stava aldilà delle dottrine estetiche. Tuttavia in quel crogiolo teorico e artistico del verismo che fu la Catania dell'ultimo ottocento, tra le ricerche sistematiche del Capuana e le speculazioni filosofiche del De Roberto, Verga non poteva restare estraneo a quelle che erano le correnti polemiche letterarie del tempo e dell'ambiente, che influirono non poco al colpo del resto della sua produzione giovanile e alla nascita dell'opera rupestre e terriera onde sorse il capolavoro dell'arte verista in Italia.
Giovanni Verga

Se infatti il Verga che stava per infranciosarsi nei romanzi della prima maniera non avesse fatto macchina indietro e non fosse tornato alla sua terra e alla sua vera forza istintiva di artista di razza e non si fosse rifatto il gusto di prosatore e di novelliere alle fonti classiche della nostra tradizione e sugli elementi fondamentali della tecnica manzoniana, oggi ci resterebbero le romanticherie dei Carbonari, della Peccatrice, della Storia di una Capinera, di Tigre reale, di Eva, o giù di lì; ma non avremmo La vita dei campi e Le novelle rusticane; non avremmo sopratutto I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo.
Nei Malavoglia Verga narra la storia di una povera famiglia di pescatori di Aci Trezza che, per effetto delle disgrazie e della irrequietezza ambiziosa di uno dei suoi membri, si sfascia e discende ancora più in basso nella scala sociale.
E' stato detto che il respiro lirico dei Malavoglia è omerico.
Forse perché il vero protagonista di questo romanzo, come nell'Odissea, è il mare. Ma forse ancora, e meglio, perché Verga, come Omero, nel suo obbiettivismo narrativo condensa i più commossi sensi dell'umano dolore. La poesia è nelle stesse radici delle cose. Nessun commento esteriore, nessuna orchestrazione soggettiva degli elementi lirici. Manca la bella pagina d'effetto, l'astuzia letteraria della sinfonia descrittiva, il tono compiaciuto dell'esecuzione rara, ricercata e perfetta.
Semplice e chiaro, scabro e preciso, cupo e desolato, il mondo verghiano è denso dell'imponderabile mistero della vita, senza accorgimenti e riflessioni di natura filosofica. Nessuna traccia intellettualistica, nessun residuato di schematismi ideologici, nudo, integro, compatto, il blocco di questa materia narrativa ha la incandescenza e la mobilità della vita cosmica.
Anche Mastro Don Gesualdo, secondo romanzo del ciclo dei Vinti, è la storia di una disfatta. Un muratore siciliano, Gesualdo Motta, più fortunato dei Malavoglia, è giunto a conquistare attraverso sofferenze e avversità, la ricchezza, ma a che gli giova ciò? Egli finirà col morire quasi abbandonato e le sue ricchezze saranno scialacquate dalla figlia e dal genero. Rispetto ai Malavoglia, il secondo romanzo ha più impeto, più drammaticità, maggiore varietà di ambienti. Esso, per la sua tecnica costruttiva equilibrata e potente, per il suo linguaggio duttile e incisivo, per la sua intonazione epico-tragica, dimostra come lo scrittore fosse giunto all'acme della sua forza creativa.
Eppure proprio in quegli anni il Verga abbandonava l'arte e la letteratura. Il suo distacco fu improvviso. Doveva completare il ciclo dei Vinti e lo lasciò incompiuto. Mancavano ancora tre volumi: La duchessa di Leyra, L'Onorevole Scipioni e L'Uomo di Lusso. Si è pensato ad una crisi di coscienza d'arte, a un essiccamento di vena, ad una difficoltà della materia, ad una stanchezza senile. Pare che lo stesso Verga esponesse ad amici gli ostacoli che si opponevano all'intuizione e alla ricostruzione del mondo aristocratico, dove il convenzionalismo, sovrapponendosi alla natura impedisce il fissaggio dei caratteri. E sarà anche vero. Tuttavia si stenta a credere che un uomo giunto alla maturità e al possesso assoluto dei mezzi creativi si areni di colpo, dinanzi ad impedimenti di questo genere; e proprio dinanzi ad un mondo che da giovane (e spesso felicemente) ha reso negli ancor vivi personaggi di Tigre reale, di Eva, del Marito di Elena; dinanzi ad un mondo, infine, che è già per certi lati, mirabilmente colto in alcuni capitoli del Mastro Don Gesualdo.
No, il Verga non voleva confessare a sé medesimo, le profonde, remote cause, che lo avevano allontanato dall'arte.
Il senso morboso, della dignità e del riserbo è un po' nell'antico retaggio della nostra razza. Il siciliano con tutte le varianti inevitabili è tipicamente cupo, restio, impressionabilissimo, egocentrico. Sotto le apparenze morbide, cedevoli, remissive, c'è un'irriducibile fierezza che lo fa muro. Il siciliano è per lo più, un testardo timido; ed ha dei testardi lo sprezzante silenzio e dei timidi le audacie inconsulte. Il mondo verghiano è popolato di personaggi di cosiffatta natura: gente tenace e caparbia, capace di soffrire e tacere. Anche la rinunzia è la forma di una segreta superbia. I Vinti di Verga non sono naufraghi abulici della vita, sono invece rudi ed ostinati superstiti di una battaglia perduta. Questi personaggi riflettono il carattere dello scrittore. Il siciliano tace ma non dimentica, Verga tacque il suo dolore e il suo risentimento, quando si vide sacrificato dinanzi alla facile gloria conquistata da altri (vedi d'Annunzio) con forme e modo, che alla sua esigenza spirituale e creativa dovevano apparire insinceri e intellettualistici. Verga non dimenticò l'onta subita quando, dopo un ventennio di silenzio e d'oblio, l'Italia parve ravvedersi dell'errore. Un nordico, probabilmente, avrebbe reagito, polemizzato, discusso, il siciliano rientra in se stesso e si corazza di sdegno. Il fenomeno è maggiormente spiegabile se si considera che il Verga non fu un letterato, nel senso professionale della parola, sibbene un artista di nativa e medianica genialità. Il che giustifica meglio il fatto che egli, abbandonata l'arte non sia rimasto impigliato nel vizio letterario, come avviene a quegli scrittori in cui, estinto lo stimolo creativo, permane l'abitudine del mestiere.
Legato da fraterna amicizia al Verga fu anche FEDERICO DE ROBERTO, nato a Napoli ma vissuto quasi costantemente a Catania e perciò considerato, a ragione, come siciliano. Ebbe il De Roberto viva dottrina scientifica e storica e gusto di stilista e di narratore. Scrupoloso, metodico, esattissimo e geniale ad un tempo, negli argomenti prescelti portò sino all'inverosimile la paziente precisione dei documenti e delle ricerche.
L'opera maggiore del De Roberto è il romanzo I viceré, nel quale è ricostruita fantasiosamente, e in alcuni dettagli cronisticamente, la vita della Catania delle ultime propaggini spagnolesche, dell'avvento nuovo che afferma i diritti dell'intelligenza, i valori dello spirito e il trionfo dell'italianità. E' un'opera d'arte di colore locale, dove gli elementi etnici e ambientali hanno un tipico rilievo tutto isolano che dimostra quanto ormai il De Roberto avesse assorbito dalla terra, dalla storia e dalla natura siciliana.
Mentre nel campo della narrativa la Sicilia si poneva all'avanguardia del movimento letterario italiano, in poesia essa rimaneva fermamente ancorata ad una forma classicista o neoromantica in cui il frequente contenuto naturalistico o addirittura socialistico non riusciva ad esprimersi efficacemente, come può osservarsi soprattutto in Giuseppe Aurelio Costanzo e in MARIO RAPISARDI. Tuttavia sarebbe ingiusto l'affermare che il Rapisardi fu sempre manierato e prolisso, pomposo e magniloquente, arcaico e arcadico, victorughiano e frugoniano. Se è vero che la materia scelta e la natura dei poemi e il tono epico, didascalico e gnomico della sua arte lo ricacciarono nelle antiche forme e nell'usata fraseologia, non bisogna dimenticare che quando si ritrovò di fronte alla sua profonda ed intima commozione umana, egli, esprimendosi con più nuda schiettezza, riuscì a darci un'eco della sua naturale voce. In molti squarci del Giobbe, in alcune delle Poesie religiose, e in taluni Poemetti, il mistero della creazione non è più indagine scientifica, la natura non è semplice sfondo pittorico, e il canto stesso non è più sonoro rifacimento di altre musiche ma volo della fantasia nei cieli del finito e dell'infinito e grido sgomento dell'anima dinanzi agli abissi dell'Inconoscibile.

VOCI DI SARDEGNA

In Sardegna il verismo ebbe uno sviluppo tardo ma notevolissimo. Le condizioni ancora feudali e patriarcali dell'isola trovarono, sul finire del secolo i loro poeti efficaci e commossi in Grazia Deledda e Sebastiano Satta, entrambi di Nuoro.
La DELEDDA, in cui l'intento letterario non fu mai predominante, non fece del regionalismo per motivi teorici ma per un senso appassionato di amore alla terra natia e alle sue creature fosche e selvagge. Nei suoi libri migliori la scrittrice non ambì creare complesse trame ma si preoccupò di inquadrare e illuminare i personaggi in un paesaggio suggestivo e severo.
Il mondo poetico della Deledda - che trovò le migliori realizzazioni nei romanzi: Elias Portolu, L'Edera, La Madre e Canne al vento - s'infulcrò attorno a sentimenti primordiali e a forze epiche, quali il sentimento religioso del focolare, il senso della famiglia e dell'onore. Da questi istinti e da queste forze aveva origine una sorta di tragica lotta tra il bene e il male, tra la colpa e l'espiazione. La scrittrice diede il meglio di se stessa quando partecipò intensamente alla sofferenza dei pastori e dei contadini, dei padroni e dei servi. Allorché più tardi, essa volle uscire dai temi sardi finì col fare opera fredda e stanca.
Anche la poesia del SATTA, che nasceva da esperienze e predilezioni dialettali ebbe un forte sapore isolano. Il verismo e il socialismo influirono sull'autore dei Canti Barbaricini sospingendolo a cantare, senza enfasi, il dolore della gente di Barbagia, l'isolamento atavico della Sardegna, la selvaggia forza delle passioni isolane.
La Deledda e il Satta sono, anche cronologicamente, le ultime figure della letteratura regionale e verista. In essi, che pur vissero oltre la grande guerra, è appena avvertibile, qua e là, il mutamento spirituale che si andava effettuando nei primi decenni del nuovo secolo.

NOTE

FRANCESCO DE SANCTIS

Nacque a Morra nel 1817, morì nel 1883. Esiliato da Napoli nel 1848, insegnò letteratura a Torino, a Zurigo e dopo il 1860, a Napoli. Fu anche ministro dell'istruzione popolare. Opere critiche fondamentali: «Saggio sul Petrarca», «Saggi critici», «Nuovi saggi critici», «Storia della letteratura italiana».

(1) Croce - Lett. della Nuova Italia.

ALEARDO ALEARDI

Nacque a Verona nel 1812, morì nel 1878. Soffrì il carcere dall'Austria per i suoi sentimenti patriottici. I suoi versi sono raccolti nel volume «Canti».

IPPOLITO NIEVO

Nacque a Padova nel 1831, morì nel 1861. Partecipò alla spedizione dei Mille. Opere: «Lucciole», «Amori garibaldini», «Angelo di bontà», «Confessioni di un italiano», ecc.

GIUSEPPE ROVANI

Nacque a Milano nel 1818, morì nel 1874. Il suo nome è legato esclusivamente al romanzo storico «Centoanni».

EDMONDO DE AMICIS

Nacque ad Oneglia nel 1846, morì nel 1908. Combatté a Custoza e a Roma, poi abbandonò l'esercito per dedicarsi alle lettere. Opere principali: «Spagna», «Olanda», «Marocco», «Costantinapoli», «La carrozza di tutti», «La vita militare», «Cuore» ecc.

GIUSEPPE GIACOSA

Nacque a Ivrea nel 1847. Fu rappresentato con successo anche all'estero. Le sue principali opere drammatiche sono citate nel testo.

EDOARDO CALANDRA

Nacque a Torino nel 1852, morì nel 1911. Opere: «Vecchio Piemonte», «Reliquie», «Bufera» ecc.

VITTORIO BERSEZIO

Nacque a Cuneo nel 1830, morì nel 1900.

GIOVANNI CAMERANA

Nacque a Casal Monferrato nel 1845. La sua opera è raccolta in un solo volume «Versi».

ARTURO GRAF

Nacque ad Atene nel 1848, morì a Torino nel 1913. Insegnò letteratatura italiana all'Università di Torino. Principali opere di poesia: «Dopo il tramonto», «Le rime della selva», «Le Danaidi», «Medusa».

EMILIO DE MARCHI

Nacque a Milano nel 1851, morì nel 1901. Tra i suoi romanzi migliori citiamo: «Demetrio Pianelli», «Arabella», «Col fuoco non si scherza», «Il cappello del prete»

CARLO DOSSI

(Alberto Pisani) nacque a Carteggio nel 1849, morì nel 1910. Fu anche diplomatico. Opere: «Altr'ieri», «Vita di Alberto Pisani», ecc.

GIAMPIETRO LUCINI

Nacque a Milano nel 1867; morì a Breglia nel 1914. Citiamo di lui il romanzo «Giampietro da Gore» e il volume di versi «Revolverate».

EMILIO PRAGA

Nacque a Milano nel 1862, morì nel 1875. Fra le sue raccolte di versi: «Tavolozza», «Penombre», «Fiabe e leggende», «Trasparenze», ecc.

VITTORIO BETTELONI

Nacque a Verona nel 1840, morì nel 1910. Opere: «In primavera», «Nuove Poesie», «Studi» ecc.

GIACOMO ZANELLA

Nacque a Chiampo (Vicenza) nel 1820, morì nel 1888. Opere: «Poesie», «Nuove poesie», «Studi», ecc.

VITTORIA AGANOOR

Nacque a Padova nel 1868, morì a Roma nel 1910. Fu allieva dello Zanella e moglie di Guido Pompilj che si uccise per dolore dopo la morte della moglie. Scrisse: «Leggenda eterna», «Nuove liriche».

RICCARDO SELVATICO

Nacque a Venezia nel 1849, morì nel 1901. Tra le sue commedie: «La bozeta de l'ojo», «I recini da festa», ecc.

GIACINTO GALLINA

Nacque a Venezia nel 1852, morì nel 1897. Tra le sue numerose commedie citiamo: «Le baruffe in farnegia» «El moroso de la nona», «Zente refada» «Oci del cuore», ecc.

GEROLAMO ROVETTA

Nacque a Brescia nel 1851, morì nel 1910. Opere: «Romanticismo», «Papà Eccellenza», «Due coscienze», «La baraonda», «Mater dolorosa», ecc.

ANTONIO FOGAZZARO

Nacque a Vicenza nel 1842, morì nel 1911. Opere principali: «Miranda» (poemetto) e i romanzi «Malombra», «Il mistero del poeta», «Piccolo mondo antico», «Piccolo mondo moderno», «Il Santo», «Leila». Il «Santo» fu messo all'indice dalla Chiesa.

FERDINANDO MARTINI

Nacque a Monsummano nel 1841, morì nel 1928. Fu poeta, critico, narratore e uomo politico. Opere. «Ricordi», «Nell'Africa italiana», ecc.

GUIDO MAZZONI

Nacque a Firenze nel 1852, morì nel 1943. Opere: «Poesie», «Esperimenti metrici» «Storia della lett. italiana dell'Ottocento».

ENRICO MENCIONI

Nacque a Firenze nel 1837, morì nel 1896. Opere: «Poesie», «Medaglioni».

GIUSEPPE CHIARINI

Nacque ad Arezzo nel 1833, morì nel 1908. Opere: «Ombre e figure», versi: «Lacrimae rerum».

RENATO FUCINI

Nacque a Monterotondo nel 1843, morì nel 1921. Opere principali: «Cento sonetti», «Le veglie di Neri», «All'aria aperta», «Napoli a occhio nudo», ecc.

GIOSUE' CARDUCCI

Nacque a Val di Castello in Lunigiana, il 27 luglio 1835. Insegnò lett. italiana all'Università di Bologna: Nel 1890 fu nominato senatore, nel 1906 ebbe il premio Nobel. Morì a Bologna nel 1907. Opere poetiche: «Juvenilia», «Levia Gravia», «Giambi ed Epòdi», «Rime nuove», «Odi Barbare», «Nuove odi Barbare», «Rime e Ritmi». Opere critiche: «Discorsi storici e letterari», «Dello svolgimento della letteratura nazionale», «Confessioni e battaglie», «Ceneri e faville», «Parini maggiore», «Parini minore», ecc.

OLINDO GUERRINI

Nacque a Forlì nel 1845, morì nel 1916. Fu bibliotecario alla Università di Bologna. Opere: «Postuma»,«Nuova polemica», ecc.

ENRICO PANZACCHI

Nacque ad Ozzano nel 1840, morì nel 1904. Opere: «Donne e poeti», «Lyrica», ecc.

PAOLO FERRARI

Nacque a Modena nel 1822, morì nel 1849. Opere teatrali: «La satira e Parini», «Il duello» ecc.

SEVERINO FERRARI

Nacque in S. Pietro Capofiume (Bologna) nel 1856, morì nel 1905. Opere: «Primavera fiorentina», «Il Mago», «Versi raccolti e ordinati».

GIOVANNI MARRADI

Nacque a Livorno nel 1852, morì nel 1922. Notissima la sua «Rapsodia Garibaldina».

ALFREDO ORIANI

Nacque a Faenza nel 1852, morì nel 1909. Opere principali: «Memorie inutili», «La lotta politica in Italia», «La rivolta ideale», ecc.

PIETRO COSSA

Nacque a Roma nel 1830, morì nel 1881. Fra i suoi drammi: «Nerone» «Messalina», «Mario e i Cimbri», ecc.

CESARE PASCARELLA

Nacque a Roma nel 1858, morì nel 1940. Esordì come pittore. Opere: «Villa Glori», «La scoperta dell'America», «Storia nostra», ecc.

SALVATORE DI GIACOMO

Nacque a Napoli nel 1860, morì nel 1934. Opere principali: «O Munasterio», «A San Francisco», «Assunta Spina», «Ariette e Sunette», ecc.

MATILDE SERAO

Nacque a Patrasso (Grecia) nel 1856, morì a Napoli nel 1927. Tra i suoi romanzi citiamo: «Addio amore», «Piccole anime», «La conquista di Roma», il «Paese di cuccagna», ecc.

LUIGI CAPUANA

Nacque a Mineo nel 1839, morì nel 1915. Opere: «Giacinta», «Il marchese di Roccaverdina», «Le appassionate», «Le paesane», «Studi sulla letteratura contemporanea», ecc.

GIOVANNI VERGA

Nacque a Catania nel 1840, morì nel 1922. Opere: «Storia di una capinera», «Eva», «Tigre reale», «Eros», «Vita dei campi», «Novelle rusticane», «Vagabondaggio», «I Malavoglia», «Mastro don Gesualdo», ecc.

FEDERICO DE ROBERTO

Nacque a Napoli nel 1866, morì a Catania nel 1927. Opere: «Il viceré», «L'illusione», «Spasimo», «Documenti umani», «Gli amori», «Le donne e i cavalier», ecc.

MARIO RAPISARDI

Nacque a Catania nel 1844, morì nel 1912. Fu professore di letteratura italiana nell'Università di Catania. Opere: «Lucifero», «Giobbe», «Poesie religiose», «Giustizia», «Poemetti», ecc. Notevoli le sue traduzioni da Shelley e da Lucrezio.

GRAZIA DELEDDA

Nacque a Nuoro nel 1875, morì a Roma nel 1935. Premio Nobel 1926. Romanzi principali: «Cenere», «L'incendio nell'oliveto», «Elias Portolu», «Canne al vento» ecc.

SEBASTIANO SATTA

Nacque a Nuoro nel 1867, morì nel 1914. Opere principali: «Canti barbaricini», ecc.