La corruzione
dilaga in Africa e ne frena lo sviluppo. A denunciarlo è un’inchiesta di
Transparency International (Ti), un’organizzazione no profit che studia il
fenomeno a livello internazionale. In un’indagine condotta insieme
all’istituto americano Gallup su un campione di 55.000 persone in 69 Paesi,
Ti ha rilevato come la corruzione sia diffusa in tutto il mondo, ma che il
continente nella quale è più radicata è l’Africa. Le forme sono le più
diverse e vanno dalla distrazione di fondi pubblici a uso privato all’abuso
d’ufficio, dalla disonestà nelle commesse pubbliche alle più classiche
“bustarelle” per ottenere servizi e pratiche burocratiche. I Paesi africani
nei quali il fenomeno è più diffuso sono Camerun, Etiopia,
Ghana, Nigeria e Togo. In questi Stati, tra il 30 e il 45%
degli abitanti ammette di aver versato tangenti. In Kenya e
Senegal questa percentuale si colloca tra l’11 e il 30% e nell’Africa
meridionale tra il 5 e il 10%. Sempre secondo l’indagine, la corruzione
dragherebbe ingenti risorse. In Camerun, Nigeria e Ghana
i cittadini sarebbero costretti a versare in tangenti fino a un terzo del
loro reddito. Tra i settori dove la corruzione è più diffusa ci sono, oltre
alle forze dell’ordine, il sistema giudiziario e il settore
medico-sanitario. I dati di Ti sono stati confermati dal presidente
nigeriano Olusegun Obasanjo che, in una conferenza a fine febbraio, ha
dichiarato che la corruzione sottrae allo sviluppo in Africa almeno 148
miliardi di dollari ogni anno (equivalenti al 25% delle entrate complessive
del continente). Il 2006 si è aperto con la nomina di Denis Sassou
Nguesso, capo di Stato della Repubblica del Congo, alla presidenza di turno
dell’Unione africana (Ua, che comprende i Paesi dell’intero continente
ad eccezione del Marocco, che il 24 gennaio ha deciso di rimanerne fuori a
causa del riconoscimento da parte dell’Unione dell’indipendenza dell’ex
colonia spagnola del Sahara occidentale, che Rabat rivendica invece come
parte del suo territorio). Nguesso ha promesso di “impegnare il continente
nella risoluta conquista della pace”. Inizialmente la presidenza doveva
essere assegnata al Sudan, ma decine di organizzazioni per i diritti umani
hanno contestato la nomina di Ahmed Omar Hassan el-Bashir a causa dei
crimini commessi in Darfur. Vediamo ora quali sono stati gli avvenimenti
principali dell’anno nel continente.
In Algeria il ministro di Stato Abdelaziz Belkhadem,
segretario generale del Fronte di liberazione nazionale (Fln) considerato
vicino al presidente Abdelaziz Bouteflika, è stato nominato primo
ministro in sostituzione di Ahmed Ouyahya, leader del Raggruppamento
nazionale democratico (Rnd), contestato per aver liberalizzato l’economia,
in accordo con il Fondo monetario internazionale, e per non aver aumentato
gli stipendi dei funzionari pubblici (24 maggio). Il cambio della guardia
alla guida del governo, secondo gli osservatori, rientrerebbe nel quadro
delle manovre di avvicinamento alle elezioni politiche del 2007 e alle
presidenziali del 2009. Belkhadem ha confermato in blocco la squadra del
dimissionario Ouyahya e ha nominato Hachemi Djiar ministro delle
Comunicazioni: questa carica era vacante dal precedente rimpasto attuato il
1° maggio 2005. Il neopremier ha detto che le sue priorità sono una riforma
della Costituzione, cui il suo predecessore si opponeva, e un aumento dei
salari. Belkhadem ha annunciato piani per modificare la Costituzione
algerina in modo da permettere al presidente in carica di ricandidarsi
indefinitamente e al fine di aumentarne i poteri.
Il 5 marzo si sono tenute in Benin le elezioni presidenziali
terminate con il passaggio al ballottaggio di Boni Yayi e Adrien
Houngbé-dji, leader del Partito del rinnovamento democratico (Prd) e
delfino del presidente uscente Mathieu Kérékou, con il primo in testa
di circa 300.000 voti. La vigilia delle elezioni è stata caratterizzata da
alcune polemiche sollevate dal presidente uscente, che per limiti d’età non
si è potuto ricandidare, ma ha denunciato problemi nella preparazione delle
elezioni. Al secondo turno, diversamente da quello che ci si sarebbe potuti
aspettare, i tre candidati arrivati dietro i vincitori non hanno dato il
loro appoggio a Houngbédji, pur appartenendo allo stesso mondo politico:
Bruno Amoussou, presidente del Partito socialdemocratico (Psd) e
dell’Alleanza Nuovo Benin (Abn), Léhadi Soglo, della Rinascita del
Benin (Rb) e Antoine Kolawolé Idji, del Movimento africano per la
democrazia e il progresso (Madep), hanno preferito appoggiare Boni,
sostenendo di condividerne il programma. Le consultazioni sono terminate con
la vittoria schiacciante di Boni che si è aggiudicato il 75% dei consensi
del suo avversario. Ex direttore della Banca per lo sviluppo dell’Africa
occidentale, Boni si era presentato come outsider, ma è riuscito a imporsi
su una pletora di candidati usciti dall’entourage dell’ex presidente. La sua
vittoria è indice della voglia di cambiamento di un popolo stanco della
crisi economica e dell’ipoteca sulla vita politica lasciata dal gruppo di
Kérékou. Contrassegnate da mille incertezze fino a poche settimane dal voto
(possibilità di reperire o meno i fondi per organizzarle o la possibilità
che lo stesso Kérékou decidesse di modificare la Costituzione per potersi
ripresentare) le elezioni sono poi state tra le più libere e tranquille
nella storia del Benin, con una partecipazione al voto vicina al 70%. Il
neopresidente dovrà soddisfare i membri dell’ampia coalizione che gli ha
permesso di vincere al ballottaggio, obiettivo che si scontra con le
aspettative di una popolazione che da anni vive immersa nella stagnazione
economica. Il mercato del cotone, una delle principali voci di esportazione
per il Benin, è altalenante, cosa che non permette una facile programmazione
economica. Anche il porto di Cotonou sta attraversando un momento difficile
e avrà bisogno di un rilancio. In ogni caso Boni proviene dal mondo
economico e dovrebbe essere avvantaggiato nell’intrattenere buoni rapporti
con le istituzioni finanziarie internazionali.
Rieletto alla presidenza del Burkina Faso il 13 novembre 2005, il
presidente Blaise Compaoré ha firmato con i cittadini un nuovo piano
quinquennale per la costruzione della “società della speranza”. Piano che
ancora non è partito, accantonato dalla preparazione per le elezioni
municipali del 12 marzo. Il Burkina Faso è uno dei Paesi più poveri del
mondo: la maggior parte della popolazione vive con meno di un dollaro al
giorno e la speranza di vita si aggira intorno ai 47 anni. L’agricoltura è
ancora troppo soggetta alle condizioni meteorologiche. L’unico prodotto da
esportazione è il cotone, di cui il Burkina Faso è il secondo produttore
africano (dopo il Mali). Il prezzo del cotone subisce però le regole di un
mercato internazionale falsato dalle sovvenzioni all’esportazione che il
governo di Washington garantisce ai produttori statunitensi. La pace
sociale, a lungo garantita dal governo Compaoré, ha reso il Burkina Faso
ideale per interventi di aiuto allo sviluppo da parte dei Paesi ricchi,
aiuti dai quali dipende di fatto l’economia. La questione dei diritti umani
è stata però a lungo trascurata. Il 13 dicembre 2005, settimo anniversario
dell’assassinio del giornalista investigativo Norbert Zongo e dei
suoi tre compagni, il Collettivo delle organizzazioni democratiche di massa
e dei partiti politici (Codmpp) è riuscito a mobilitare qualche migliaio di
persone in una grande manifestazione pacifica al centro della capitale
Ouagadougou. Chiamato in causa come mandante dell’omicidio di Zongo è il
fratello del presidente, François Compaoré. Il Collettivo ha chiesto
che si sblocchi la procedura giudiziaria sul caso Zongo e su altri famosi
omicidi politici ancora impuniti. Ha protestato anche contro il carovita, il
soffocamento progressivo delle libertà democratiche, sindacali e politiche,
e l’impunità che favorisce malversazioni e crimini. Compaoré, abile
diplomatico, è riuscito a rendere il suo Paese una pedina importante negli
equilibri dell’Africa occidentale, ma non ha certo migliorato le condizioni
di vita della popolazione, nonostante i finanziamenti della cooperazione
internazionale. Il 12 marzo il Paese ha affrontato un’altra tappa importante
della sua storia democratica. Per la prima volta si sono tenute le elezioni
municipali, per formare più di 300 nuovi Consigli comunali (attualmente,
tranne nei capoluoghi di provincia, il potere è gestito da prefetti a nomina
governativa).
Dopo 13 anni di guerra anche le Forces Nationales de Libération (Fnl),
l’ultimo gruppo ribelle ancora attivo in Burundi, ha deciso di
avviare i colloqui di pace con il governo per la fine del conflitto. Dopo
l’incontro tra il leader delle Fnl, Agathon Rwasa e il ministro degli
Esteri della Tanzania Asha-Rose Migiro (Tanzania, 18-19 marzo), le
Fnl hanno offerto una tregua unilaterale al governo burundese dopo averlo
criticato fin dal suo insediamento, per essere un fantoccio mosso dalla
comunità internazionale. Le autorità burundesi hanno apprezzato il gesto dei
ribelli, ma hanno reso noto che l’iniziativa dovrà essere presa dal gruppo
di mediatori internazionali, guidato dal presidente ugandese Yoweri
Museveni. Lo schema delle trattative sarà probabilmente uguale a quello
che portò alla firma degli accordi di pace nel 2003 a cui presero parte tre
dei gruppi ribelli hutu che combattevano contro il governo in mano alla
minoranza tutsi: sarà quindi permesso a parte dei contingenti delle Fnl di
entrare nel nuovo esercito, mentre il resto dei combattenti verrà
reintegrato nella società civile. Le Fnl potranno diventare un partito
politico, come già le Forces Democratiques de Defence, l’ex gruppo ribelle
il cui leader, Pierre Nkurunziza, è stato eletto alla presidenza
dello Stato nel 2005. Forse proprio l’arrivo al potere della maggioranza
hutu ha favorito l’apertura delle Fnl. Con Nkurunziza infatti gli hutu (che
rappresentano circa l’85% della popolazione) hanno ottenuto un
riconoscimento politico che mancava dall’indipendenza. Il 29 maggio governo
e ribelli dell’Fnl si sono incontrati a Dar es Salaam, in Tanzania, dove
sono cominciati i colloqui di pace sfociati nella firma di un accordo di
cessate il fuoco (7 settembre).
Il 22 gennaio si sono tenute le elezioni legislative a Capo Verde,
terminate con la vittoria del Partito africano per l’indipendenza di Capo
Verde (Paicv, sinistra). Le presidenziali di febbraio hanno visto poi la
riconferma del presidente uscente Pedro Pires, candidato del Paicv
che ha ottenuto il 51,21% dei consensi contro il 48,79% di Carlos Veiga,
candidato del Movimento per la democrazia (Mpd, centrodestra).
In attesa delle elezioni presidenziali del 3 maggio, in Ciad la
situazione politico militare si è andata progressivamente deteriorando. Il
presidente Idriss Déby ha aperto l’anno lanciando una serie di accuse
contro il vicino Sudan, accuse che hanno fatto salire la tensione già alta
dopo che nel dicembre 2005 il governo ciadiano aveva accusato l’esercito
sudanese di aver partecipato a un attacco dei ribelli del Raggruppamento per
la democrazia e la libertà (Rdl) ad Adré, nell’Est del Paese. Subito dopo
Déby aveva dichiarato lo stato di belligeranza con il Sudan. Il presidente
sudanese Omar el-Bashir ha respinto le accuse anche se, secondo alcuni
analisti, el-Bashir si servirebbe dei ribelli ciadiani per costringere N’Djamena
a rompere con i ribelli sudanesi del Darfur. Nel Ciad infatti sono ospitati
più di 300.000 rifugiati provenienti dalla regione dove dal 2003 è in corso
una guerra civile. Benché il governo sia riuscito a firmare la pace con due
gruppi ribelli, l’Arn (Armée de Résistance Nazionale) e il Mdjt (Mouvement
pur la Démocratie et la Justice au Tchad), il fallito golpe del 15 marzo ha
dimostrato come le tensioni in seno alla classe politica e allsiano ancora
alte. Il governo ha accusato i fratelli Erdimi, parenti di Déby ed ex
responsabili dei programmi petroliferi del governo che vivono fuori dal
Paese, di avere organizzato il golpe. Gli Erdimi hanno risposto alle accuse
prendendo le distanze dai fatti. Subito dopo il tentato golpe il governo ha
lanciato una vasta offensiva contro postazioni ribelli al confine con il
Sudan, ritenendo che i miliziani si stessero organizzando per rovesciare il
presidente. Il fatto che i ribelli ciadiani abbiano le proprie basi
operative nelle aree montagnose al confine con il Sudan ha creato tensioni
nei rapporti tra i due Paesi fino a spingerli sull’orlo di una guerra
civile, poi scongiurata grazie alla mediazione dell’Unione africana e agli
appelli della comunità internazionale. Ma è soprattutto la ferrea volontà di
Déby di rimanere al comando ad aver gettato il Paese sull’orlo della guerra
civile. Arrivato al potere con un colpo di Stato nel 1990, Déby è stato già
eletto due volte (1996 e 2001) alla massima carica istituzionale, ma nel
2005 è riuscito a far cambiare la Costituzione in modo da cancellare il
limite dei due mandati presidenziali. Questa scelta ha esacerbato il clima
politico già teso, convincendo opposizione e gruppi della società civile a
opporsi con determinazione allo svolgimento delle elezioni e spingendo un
numero sempre maggiore di soldati e di ufficiali (compresi alcuni suoi
parenti stretti) a disertare l’esercito per andare a unirsi ai gruppi
ribelli attivi nel Paese. A partire dal dicembre 2005 diversi gruppi ribelli
ciadiani – tra questi molti appartenenti alla stessa comunità Zaghawa del
presidente, scontenti della gestione autoritaria del potere – si sono fusi
nel Fronte unito per il cambiamento (Fuc), al comando di Mahamat Nour.
Mentre il coordinamento dei partiti per la difesa della Costituzione,
lanciava un appello per boicottare le elezioni previste in maggio,
denunciando l’incostituzionalità della candidatura del presidente uscente,
in pochi giorni i ribelli conquistavano diverse città nella parte orientale
del Paese. E si è passati alla guerra aperta, partita ancora una volta dal
confine orientale dove i nemici del regime avrebbero ottenuto basi
logistiche, sostegno finanziario e copertura politica dal governo di
Khartoum, muovendosi poi dal Darfur per sferrare attacchi nella regione più
orientale del Ciad. Dopo mesi di tensioni, il 13 aprile i ribelli del Fuc
sono arrivati alle porte di N’Djamena, decisi a sferrare l’attacco finale al
potere di Déby per cercare di rovesciarlo prima delle elezioni. Dopo due ore
di duri combattimenti i miliziani sono stati respinti, ma sul terreno sono
rimasti almeno 300 morti. Déby si è trovato isolato, senza aiuti dai Paesi
vicini (ha trovato sostegno solo nella Francia di stanza in Ciad con 1.200
soldati), mentre la comunità internazionale si è limitata a condannare
verbalmente gli attacchi dei ribelli e l’Unione africana ha deciso di
mandare in Ciad una missione diplomatica per fare luce sulle accuse lanciate
dallo stesso Déby al Sudan. Intanto il 27 aprile il governo e la Banca
mondiale hanno firmato un accordo che mette fine alla disputa sull’impiego
delle entrate petrolifere del Paese e permette la ripresa dei finanziamenti
internazionali: il ministro delle Finanze Abbas Mahamat Tolli ha
garantito che il 70% delle entrate saranno impiegate in programmi di
sviluppo e lotta alla povertà. Alla fine del 2005 la Banca mondiale aveva
ordinato il congelamento dei conti bancari ciadiani a Londra dopo che Déby
aveva fatto votare in Parlamento una modifica alla legge sui redditi
petroliferi, annunciando il riarmo dell’esercito attraverso la destinazione
delle entrate petrolifere alla Difesa, contravvenendo agli impegni che
prevedevano l’investimento delle entrate nei settori dell’Educazione e
Sanità. Nonostante la decisione delle opposizioni di boicottare lo scrutinio
e la nuova offensiva dei ribelli, l’organizzazione delle presidenziali è
proseguita, benché a competere con Déby fossero rimasti solo quattro
candidati, tutti conosciuti per la loro lealtà al regime. Le consultazioni
sono terminate con la vittoria scontata di Déby rieletto per la terza volta
(15 maggio) con il 77,53% dei voti. L’opposizione, guidata all’ex presidente
Lol Mahamat Choua, non ha riconosciuto il risultato. La tensione con
il Sudan, nonostante la riconciliazione di inizio agosto in occasione del
Vertice della francofonia, è salita di nuovo alle stelle dopo il raid
compiuto dall’Unione delle forze per la democrazia e lo sviluppo (Ufdd,
alleanza guidata da Mahamat Nouri, un ciadiano di etnia Gorane che ha
lasciato l’incarico di ambasciatore in Arabia Saudita per unirsi ai ribelli,
e da Acheikh Ibn Oumar, un ex ministro di origine araba) nel Sud-Est
del Ciad a fine ottobre e alla fine di novembre la capitale N’Djamena si
preparava a un possibile nuovo attacco dei ribelli dell’Est, tornati
all’offensiva. La rinnovata attività dei ribelli ha messo nuovamente in
discussione la stabilità del regime. A livello diplomatico, oltre alle
consuete accuse contro il Sudan, sul banco degli imputati è finita anche
l’Arabia Saudita, colpevole di voler esportare la propria visione di
“islamismo militante”. All’inizio di novembre si sono verificati scontri
anche nelle regioni di Salamat e Ouaddai, nel Sud-Est del Paese, tra tribù
arabe e non arabe. Migliaia di persone sono state costrette a lasciare le
loro case. Il governo ha proclamato lo stato d’emergenza e ha accusato il
Sudan di voler esportare il conflitto del Darfur oltre confine: nei primi
dieci giorni di novembre sono morte almeno trecento persone. La composizione
etnica del Ciad orientale e del Darfur è la stessa e finora gli attacchi dei
janjaweed, le milizie arabe sudanesi, hanno costretto più di cinquantamila
ciadiani ad abbandonare le loro terre. Questa milizia araba attacca le
popolazioni nere del Sudan e approfitta delle incursioni dei ribelli
ciadiani, collegati ai janjaweed, per conquistare nuovi territori e mettere
sotto pressione Déby.
Il 14 maggio si sono tenute le elezioni presidenziali nelle isole Comore.
Fino al 2002 le Comore erano una Repubblica federale islamica, poi sono
diventate Unione delle Comore (che comprende le isole di Gran Comore,
Anjouan e Mohéli) con governi autonomi nelle tre isole e un governo unico
dell’Unione. La popolazione è di religione musulmana e solo il 2% cattolica.
L’arcipelago ha conosciuto molti golpe – 18 in 25 anni di indipendenza –,
l’ultimo dei quali nell’aprile del 1999 ad opera del colonnello Azali
Assoumani presidente uscente dell’Unione. La guerra civile scoppiata nel
1997, che ha visto le isole di Mohéli e Anjouan tentare la via della
secessione, si è conclusa solo nel 2001. Le elezioni di quest’anno erano
dunque tanto più importanti per verificare la consistenza degli accordi di
pace, che da cinque anni tengono insieme la federazione. Il trattato di pace
prevede che ogni isola sia semiautonoma e abbia un proprio presidente. A
questi va aggiunto il capo di Stato dell’Unione federale, scelto a rotazione
da una delle tre isole. Al primo turno delle presidenziali federali gli
abitanti dell’isola di Anjouan hanno scelto i tre candidati, che il 14
maggio sono stati votati al secondo turno da tutta l’Unione: Ibrahim
Halidi, ex ministro degli Interni sostenuto da Assoumani; il leader
religioso Ahmed Abdallah Sambi, soprannominato
significativamente l’“Ayatollah”; e Mohammed Djaanfari, ex ufficiale
dell’aeronautica francese durante il periodo coloniale. Le consultazioni che
si sono svolte in un clima calmo sono terminate con la vittoria
dell’islamista moderato Ahmed Abdallah Sambi che ha ottenuto il 58,27% dei
voti contro il 28,08% di Halidi e il 13,72% di Djaanfari.
Inizialmente previste per il 9 aprile, le elezioni legislative e
presidenziali nella Repubblica democratica del Congo (Rdc) sono state
rinviate per motivi organizzativi al 18 giugno. Con il voto dovrebbe
concludersi la transizione politica cominciata nel 2003, dopo la firma degli
accordi di pace che hanno messo fine a cinque anni di guerra civile che
aveva visto coinvolti da un lato la Namibia, l’Angola e lo Zimbabwe, alleati
delle forze governative, e dall’altro il Ruanda, l’Uganda e il Burundi,
schierati a fianco dei gruppi ribelli . Il periodo di transizione è stato
contrassegnato da diverse crisi e soprattutto dal proseguimento delle
violenze nell’Est del Paese che non hanno però impedito di arrivare
all’approvazione di una nuova Costituzione e della legge elettorale. Ai
primi di marzo l’esercito congolese, appoggiato dai Caschi blu dell’Onu, ha
lanciato un’offensiva nel Sud Kivu contro i ribelli delle Forze democratiche
di liberazione del Ruanda (Fdlr), distruggendo tre loro campi. I ribelli
hutu ruandesi, presenti nel Paese da undici anni, sono accusati di aver
partecipato al genocidio del 1994 in Ruanda. L’intensificazione delle
operazioni militari non è stata accompagnata da un efficace sforzo
diplomatico per procedere con il disarmo e il rimpatrio dei ribelli, sanciti
dagli accordi di Roma. Kinshasa, dopo averli armati nel corso della guerra
civile, non è più disposta a sostenere un’alleanza che, con la firma degli
accordi di pace, è diventata scomoda. A peggiorare la situazione è arrivata
la notizia dell’arresto, in Germania, di Ignace Murwanashyaka,
ritenuto il leader delle Fdlr e firmatario degli accordi di Roma,
fermato in attesa di valutare una richiesta di estradizione ruandese per
crimini di guerra. Di fatto negli ultimi mesi le Fdlr si sono divise, tanto
che molti contingenti vagano per la regione senza riconoscere alcun capo,
dandosi ai saccheggi, tanto che neanche la Monuc riesce più a identificare
un leader credibile per proseguire le trattative. A rendere più tesa la
situazione all’avvicinarsi del voto, il 19 maggio, dopo indagini durate
mesi, la polizia congolese ha arrestato 32 stranieri (19 sudafricani, 10
nigeriani e 3 statunitensi), ufficialmente in Congo per portare avanti
diversi programmi di sicurezza, in collaborazione con le autorità locali:
l’accusa è di aver preparato un colpo di Stato ai danni del presidente
Joseph Kabila. Il voto è stato fatto nuovamente slittare ed è stato
fissato per il 30 luglio, che sarà ricordata come la giornata delle prime
elezioni libere e multipartitiche dal 1960. Durante la campagna elettorale
non sono mancati scontri tra le varie fazioni politiche ma il voto, secondo
la Monuc, si è svolto in modo pacifico. Tuttavia, mentre si procedeva allo
spoglio, sono cominciate le prime critiche da parte di fazioni politiche
dell’opposizione che hanno protestato per supposti brogli. In particolare,
molti dei 33 candidati hanno accusato Kabila di aver “comprato” alcuni voti
e di aver commesso delle irregolarità nel distribuire le schede elettorali.
Ci sono volute ben tre settimane per terminare il conteggio e solo il 20
agosto sono stati resi noti i risultati: Kabila ha vinto il primo turno con
il 44,81% delle preferenze, seguito dal vicepresidente Jean-Pierre Bemba,
leader del Movimento per la liberazione del Congo (Mlc), gruppo ribelle
convertitosi in partito politico, con il 20,03% dei consensi. Poco prima
della proclamazione dei risultati, si è verificato uno scontro a fuoco nel
centro di Kinshasa tra i due candidati al ballottaggio. Dopo i disordini,
quattro televisioni, tre delle quali appartenenti a Bemba, sono state
oscurate con l’accusa di incitare all’odio e alla violenza. A Kinshasa Bemba
ha ricevuto molti più voti di Kabila, risultato vittorioso, invece,
nell’Est. Nella città di Mbuji-Mayi, nel centro del Paese, roccaforte di
Etienne Tshisekedi, leader dell’Unione per la democrazia e il progresso
sociale (Udps) che ha boicottato le elezioni, si sono registrati disordini
nei seggi elettorali. Bemba è tra i candidati che hanno chiesto una
revisione dei risultati, lamentando irregolarità nel conteggio delle schede.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan è intervenuto
ricordando che le elezioni sono state una pietra miliare nel processo di
pace del Congo – dopo 46 anni i cittadini hanno potuto votare liberamente il
loro presidente – e ha invitato i partiti politici ad accettare i risultati
finali. In vista del nuovo appuntamento elettorale, il rappresentante di
Annan per la regione dei Grandi Laghi, William Lacy Swing, ha
incontrato i delegati del Pprd (Partito del popolo per la ricostruzione e la
democrazia) e dell’Mlc, i partiti di Kabila e Bemba: si è decisa la
creazione di una commissione mista e due sottocommissioni, incaricate di far
luce sulle violenze seguite al voto e definire le regole di condotta per la
campagna elettorale. Il 29 ottobre si è tenuto il ballottaggio terminato con
la vittoria del presidente uscente Joseph Kabila, che ha ottenuto il 58,5%
dei voti contro il 41,5% del rivale Bemba, che ha subito reclamato la
vittoria denunciando brogli elettorali. Mentre Bemba poteva contare solo su
un sostegno localizzato in alcune province, Kabila ha invece potuto fare
affidamento su un sostegno diffuso in tutto il Paese, ma soprattutto
sull’appoggio dellleader lumumbista Antoine Gizenga, che al primo
turno aveva raccolto intorno al 13% delle preferenze. Gli osservatori
internazionali hanno valutato positivamente le elezioni e affermato che
eventuali brogli localizzati non avrebbero avuto influenza sul risultato
finale.
Il processo di pace in Costa d’Avorio procede, anche se lentamente. A
sostenerlo è il Gruppo di lavoro internazionale (Gti), creato nel 2005
dall’Onu per seguire la transizione nel Paese in vista delle elezioni del 30
ottobre: ne fanno parte rappresentanti di Onu, Unione europea, Unione
africana, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Benin, Ghana,
Guinea, Niger, Nigeria, Francia, Gran Bretagna e Usa. Le elezioni politiche
di ottobre avrebbero dovuto porre fine alla crisi iniziata nel 2002 con un
tentato golpe che ha spaccato in due il Paese. Dal settembre 2002 il Nord è
controllato dalle Forze nuove (Fn), i militari ribelli che sotto la guida di
Guillaume Soro hanno tentato di rovesciare il presidente Laurent
Gbagbo con un colpo di Stato; il Sud è invece sotto il controllo
dell’esercito governativo, e in mezzo si trovano i 10.000 soldati neutrali
divisi tra i francesi dell’operazione Licorne e i Caschi blu dell’Onuci,
impegnati a far rispettare il cessate il fuoco. Nel 2003 governo e ribelli
hanno sottoscritto un accordo di pace a Marcoussis che ha portato alla
formazione di un governo di riconciliazione nazionale. Gli accordi di pace
di Accra del 2004 hanno poi stabilito un piano di disarmo per i ribelli e
l’avvio di una serie di riforme sociali e politiche da parte del governo.
Questi impegni non sono stati rispettati a causa degli scontri avvenuti nel
novembre dello stesso anno. Uguale destino hanno avuto gli accordi di
Pretoria dell’aprile 2005 che avevano fissato per l’ottobre successivo le
elezioni presidenziali, mai avvenute. L’anno si è aperto con una serie di
manifestazioni ad Abidjan (cinque i morti) promosse dai sostenitori del
presidente Gbagbo contro la comunità internazionale. I manifestanti
contestavano la decisione del Gti di non prorogare il mandato dell’Assemblea
nazionale. Il Fronte popolare ivoriano (Fpi) di Gbagbo si è ritirato dal
governo di transizione, in cui sono presenti anche i ribelli delle Fn,
governo guidato da Charles Konan Banny e formato alla fine del 2005 per
condurre il Paese alle presidenziali. Gbagbo, sfidando la decisione del Gti,
ha deciso di prorogare ugualmente il mandato dell’Assemblea e il presidente
nigeriano Olusegun Obasanjo ha cercato di mediare per ricucire i
rapporti tra Banny e Gbagbo. Quest’ultimo non è disposto a rinunciare alle
sue prerogative: si considera il presidente legittimo e accusa Banny di
essere stato imposto dalla comunità internazionale. In questa situazione è
diventato sempre più difficile per il premier procedere al disarmo dei
ribelli, condizione indispensabile per organizzare le elezioni. Dopo una
serie di incontri tra il presidente, il primo ministro, i leader
dell’opposizione Alassane Ouattara (leader del Raggruppamento dei
repubblicani, rientrato nel Paese dopo tre anni di esilio in Francia, è
accusato da Gbagbo di essere l’ispiratore della ribellione delle Fn nel
settembre 2002; la candidatura di Ouattara, musulmano del Nord, alle
presidenziali del 2000 era stata esclusa per “nazionalità dubbia”) e
Henri Konan Bédié e il capo dei ribelli delle Forze nuove (Fn),
Guillame Soro, per cercare di mettere fine alla crisi del Paese (temi
dibattuti: il disarmo dei ribelli e la convocazione di nuove elezioni), è
stato dato l’annuncio dell’inizio, il 18 maggio, del programma di disarmo e
del processo di identificazione e registrazione degli aventi diritto al
voto. Proprio attorno a questa operazione è sorto il contenzioso sui milioni
di abitanti della Costa d’Avorio settentrionale che hanno genitori
provenienti dai vicini Mali e Burkina Faso. Giunti nel Paese durante il
periodo d’oro, per lavorare nelle piantagioni di cacao e caffè, sono
considerati cittadini inferiori da buona parte degli ivoriani. E i ribelli,
almeno a parole, hanno preso le armi per difenderne i diritti. Il 20 luglio
i Giovani patrioti, sostenitori del presidente Gbagbo, hanno paralizzato
Abidjan con dei posti di blocco per protestare contro il processo
d’identificazione della popolazione, considerato “un preludio ai brogli
elettorali” (3 morti). Gbagbo vuole evitare che la cittadinanza sia concessa
agli “stranieri”, immigrati nel Paese da decenni e ormai ivoriani a tutti
gli effetti, considerati vicini ai ribelli delle Fn. Poiché i principali
protagonisti della crisi ivoriana non sono riusciti a trovare un accordo sul
censimento della popolazione e sul disarmo dei ribelli, le presidenziali
sono state nuovamente rinviate. Alla crisi in atto si è sommata una nuova
crisi quando, in settembre, sei persone sono morte e oltre 9.000 sono
rimaste intossicate dall’esalazione di prodotti chimici scaricati da una
nave panamense, noleggiata dal gruppo olandese Trafigura Beheer Bv
(specializzata nel commercio internazionale di petrolio e metalli di base),
nelle discariche pubbliche di Abidjan. Accusato di negligenza il governo di
Banny ha presentato le dimissioni, ma il presidente Gbagbo ha incaricato
ancora Banny di formare il nuovo esecutivo.
Dopo le elezioni legislative del 2005, il presidente dell’Egitto
Hosni Mubarak aveva promesso l’avvio di una transizione democratica che
prevedeva, tra l’altro, l’abolizione dello stato d’emergenza, in vigore da
più di 25 anni, cioè dal giorno dell’omicidio di Anwar Sadat,
freddato da estremisti islamici. Tuttavia dopo l’attentato suicida di Dahab
(24 aprile) che ha causato la morte di 19 persone, il Parlamento lo ha
riconfermato per altri due anni per motivi di sicurezza (1° maggio). La
debole opposizione parlamentare si è battuta con forza contro la proroga
dello stato d’emergenza. Il partito Wafd ha dichiarato che è tempo di
concedere più libertà ai cittadini e i Fratelli musulmani hanno sottolineato
che la Costituzione prevede già le norme necessarie a combattere il
terrorismo. Parallelamente alla proroga dello stato d’emergenza si è
intensificata la repressione contro giornalisti, giudici e professori
universitari. L’attentato di Dahab insieme a quelli di Taba del 2004 e di
Sharm el-Sheik nel 2005, che causarono rispettivamente 40 e 90 vittime,
hanno scosso profondamente l’opinione pubblica egiziana e minacciato quella
che pare l’unica reale ricchezza del Paese: il turismo. Il vero obiettivo
della rinascita del terrorismo in Egitto però sembra essere uno solo: il
presidente Mubarak, salito al potere nel 1981 dopo l’omicidio di Sadat, che
per la prima volta dopo 25 anni di governo è apparso davvero in difficoltà.
L’Egitto, da quando è governato da Mubarak, ha sempre tenuto una linea
filoccidentale, reprimendo brutalmente ogni forma di opposizione interna. In
particolare quella più forte e radicata tra la popolazione: i Fratelli
musulmani. Negli ultimi anni però la situazione ha cominciato a sfuggirgli
di mano: i problemi sono nati quando gli Stati Uniti hanno iniziato a fare
pressioni sull’alleato perché avviasse delle riforme democratiche. A quel
punto, il presidente egiziano si è dovuto aprire a tenui riforme di facciata
che sono sfociate in una riforma costituzionale grazie alla quale, per la
prima volta, le elezioni presidenziali non sono più state con un unico
candidato. A settembre 2005, le elezioni hanno confermato la vittoria di
Mubarak, ma hanno mostrato al mondo il volto brutale del regime: brogli
evidenti, pestaggi e assassini ai seggi elettorali e così via. Ma
soprattutto hanno dimostrato come un partito ufficialmente fuorilegge (dal
1981), come i Fratelli musulmani, sia la reale prima forza politica del
Paese. Il regime repressivo si regge sul pacchetto di leggi speciali che ora
Mubarak vorrebbe trasformare in misure antiterrorismo in modo da presentare
la decisione all’estero come la fine dello stato d’emergenza e nello stesso
tempo permettere al governo di mantenere un controllo assoluto sulla
situazione. In questo clima gli attentati finiscono per dar ragione al
presidente egiziano. Non pochi commentatori mediorientali vedono il ritorno
del terrore in Egitto come una fortuna per Mubarak, in quanto la tensione
gli permette di mantenere lo stato di polizia. Diversamente è difficile
spiegare perché mai il governo Mubarak abbia rilasciato (11 aprile) 950
miliziani del gruppo Jamaa Islamiya, ritenuto responsabile di aver
pianificato ed eseguito l’attentato a Sadat. La legislazione di emergenza
limita le libertà civili, consentendo arresti arbitrari. Secondo le
organizzazioni in difesa dei diritti dell’uomo, oltre diecimila persone
sarebbero detenute senza processo nelle carceri egiziane. Fortemente
criticata da tutta l’opposizione, che reclama la sua abrogazione, la legge
di emergenza è servita soprattutto a soffocare ogni forma di contestazione
politica e sociale. Il 15 maggio la polizia egiziana è intervenuta per
reprimere la manifestazione che il movimento d’opposizione Kifaya aveva
indetto al Cairo per chiedere la fine dello stato d’emergenza, le dimissioni
del presidente e la scarcerazione dei detenuti politici. Al fianco di Kifaya
si sono schierati anche i sostenitori dei Fratelli musulmani che hanno
aderito alla protesta anche per sottolineare la propria estraneità agli
attentati nel Sinai. Alla protesta si sono uniti anche i magistrati, che dal
luglio 2005 lottano uniti sotto la sigla del Judge’s Club, per un Egitto
democratico e una magistratura indipendente. Le autorità hanno tolto
l’immunità ad alcuni dei loro più noti esponenti, mentre la polizia ha
attaccato diversi loro raduni, arrestando 52 persone nella sola ultima
settimana di aprile.
L’11-12 marzo i rappresentanti di Etiopia ed Eritrea si sono
incontrati a Londra, sbloccando la delimitazione del confine da parte della
Commissione internazionale (ferma dal 2003), principale ostacolo alla firma
degli accordi di pace. L’accordo giunto dopo mesi di tensioni tra i due
vicini ha riaperto la porta alla firma di un trattato per mettere fine allo
stato di guerra che dura ormai dal 1998. Nonostante il conflitto vero e
proprio sia durato fino al 2000 (provocando più di 70.000 morti), le
trattative si sono arenate nel 2003 perché i lavori della Commissione
internazionale, che avrebbe dovuto tracciare la nuova frontiera, non furono
riconosciuti dal governo etiope, che si oppose alla decisione di assegnare
il conteso Triangolo di Badme all’Eritrea. Da allora le trattative si sono
bloccate a causa dell’ostruzionismo di Addis Abeba e della rigida posizione
del governo eritreo, che ha rifiutato ulteriori trattative e preteso invece
il rispetto totale delle conclusioni della Commissione. Dal canto suo
l’Eritrea (nel frattempo ritenuta responsabile, da una commissione istituita
all’Aja, di violazione del diritto internazionale per l’attacco all’Etiopia
del 1998, non riconducibile ad azioni di difesa) ha ordinato l’espulsione
dei peacekeepers dell’Onu di nazionalità, europea, russa e americana.
Quest’estate Asmara ha ordinato inoltre l’espulsione di numerose Ong
presenti sul territorio e di membri delle Nazioni Unite accusati di aver
facilitato la fuga di giovani eritrei dal Paese. E questo nonostante
l’Eritrea sia un Paese ormai allo stremo, sconvolto dalla siccità come tutto
il Corno d’Africa e da una ormai endemica mancanza di cibo, cui si
aggiungono una totale assenza di democrazia e libertà di stampa e la deriva
ormai del tutto autoritaria del regime al potere. Pur in questo contesto, il
governo ha proseguito nell’opera dell’autoisolamento internazionale: così ad
esempio l’8 marzo il governo eritreo ha espulso il numero due
dell’ambasciata italiana all’Asmara Ludovico Serra, dopo averlo
fermato e trattenuto a lungo a Massaua, dove il diplomatico si era recato
per assicurare la tutela di alcuni connazionali ai quali erano stati
espropriati beni ed immobili. Le tensioni con l’Etiopia sono cresciute di
pari passo con il coinvolgimento di Addis Abeba nel conflitto somalo.
Dall’Etiopia infatti è in corso una vera e propria battaglia contro i gruppi
islamici della Somalia. Causa della tensione fra i due Paesi è il controllo
della regione etiope dell’Ogaden, a maggioranza somala. Benché lo abbia
ripetutamente smentito, non si può escludere la possibilità che l’Eritrea
stia finanziando invece le Corti islamiche, principali nemiche del governo
etiope di Meles Zenawi. Intanto l’Etiopia continua ad essere uno dei
Paesi più poveri al mondo e le inondazioni che l’hanno colpita nel corso
dell’estate non hanno fatto altro che peggiorare uno stato di cose già molto
critico. Anche sotto il profilo dei diritti umani la situazione è
preoccupante. Molti giornalisti e leader dell’opposizione sono stati tratti
in arresto senza un processo. Si sospetta, inoltre, che alle ultime elezioni
ci siano stati brogli che avrebbero assicurato la vittoria a Zenawi. A
gennaio ad Addis Abeba si sono verificati numerosi attacchi dinamitardi a
hotel ed edifici pubblici, mentre il 7 marzo quattro persone sono rimaste
ferite in seguito a un’esplosione avvenuta nella parte Sud della capitale,
seguita poco dopo da un’altra esplosione. Dal maggio 2005, quando in Etiopia
si tennero elezioni politiche, che gli oppositori hanno sempre bollato come
truccate, scontri e disordini hanno causato oltre ottanta morti in tutto il
Paese, specie nella capitale. Per quelle proteste sono state incriminate per
alto tradimento e genocidio 131 persone, tra cui i dirigenti della
Coalizione per l’unità e la democrazia, principale forza di opposizione.
Agli inizi di marzo è ripreso il processo contro un centinaio di persone
accusate di alto tradimento per aver cercato di rovesciare il governo di
Zenawi dopo le elezioni del 2005. Il Partito della coalizione per l’unità e
la democrazia (Cudp), principale partito dell’opposizione (i cui leader ora
si trovano in carcere accusati di alto tradimento, insurrezione armata e
tentato genocidio contro i tigrini, l’etnia del primo ministro), e la
comunità internazionale hanno accusato il governo di aver messo in piedi un
processo politico e di aver vinto le elezioni grazie a brogli e irregolarità
(tra giugno e novembre 2005 un centinaio di persone erano morte durante le
manifestazioni di protesta). Il 27 marzo un bus che stava viaggiando su una
delle arterie principali che uniscono la periferia Sud al centro di Addis
Abeba è esploso e contemporaneamente, nel quartiere popolare di Kera,
un’esplosione ha colpito un taxi collettivo, senza provocare feriti gravi.
Nel pomeriggio altre tre esplosioni hanno sconvolto la capitale. Il governo
etiope ha accusato l’Eritrea di supportare i gruppi armati indipendentisti
(in particolare l’Ormia Liberation Front, Olf) nella preparazione degli
attentati effettuati, secondo Zenawi, coordinando e mobilitando esponenti
della Cudp e dell’Olf. Dal canto suo l’Olf ha ribadito di “rifiutare
il terrorismo come mezzo di lotta”, mentre la Cudp che da sempre dichiara di
perseguire l’obiettivo di un cambio di governo pacifico, continua a
contestare la vittoria elettorale governativa del 15 maggio 2005 e accusa
Zenawi di strumentalizzare queste esplosioni per dimostrare la pericolosità
dell’opposizione, giustificando così agli occhi della comunità
internazionale la repressione del dissenso politico e la soppressione di
parte della stampa indipendente nel Paese. A metà novembre Zenawi ha
comunicato al Parlamento che l’esercito era pronto a un eventuale conflitto
con le Corti islamiche somale. Se da una parte Zenawi ha accusato le Corti
di destabilizzare la regione e di voler abbattere il governo somalo,
legalmente riconosciuto, di stanza a Baidoa, le Corti hanno risposto
accusando l’Etiopia di essere il principale ostacolo al raggiungimento di un
accordo con le istituzioni somale. Zenawi ha anche chiesto al Parlamento di
pronunciarsi sulla crisi, chiedendo nello stesso tempo per il governo una
delega in bianco per gestire la questione. Una richiesta che i parlamentari
dell’opposizione hanno subito denunciato come una sorta di dichiarazione di
guerra mascherata alla Somalia. Zenawi ha anche attaccato l’Eritrea,
accusandola di fornire illegalmente armi alle Corti. Un’accusa confermata da
un rapporto dell’Onu, il quale ha però evidenziato come Addis Abeba si
comporti allo stesso modo quando si tratta di sostenere il governo di Baidoa.
Il governo del Gambia ha annunciato di aver sventato un colpo di
Stato militare, guidato dal capo dell’esercito Mbure Cam, mentre il
presidente Yayah Jammeh si trovava in Mauritania (22 marzo). Il
presidente Jammeh, leader dell’Alleanza patriottica per il riorientamento e
la costruzione (Aprc), è stato riconfermato nel suo incarico aggiudicandosi
il 67,33% dei consensi contro il 26,60% del suo principale rivale,
Ousaimou Darboe (22 settembre).
In Guinea il presidente Lansana Conté, da tempo malato, a
seguito dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, è stato trasferito
in un ospedale di Ginevra per essere curato (17 marzo). Salito al potere con
un colpo di Stato nell’aprile 1984, Conté è stato poi eletto per tre volte
alla presidenza della Guinea, l’ultima delle quali nel 2003, con una
percentuale di consensi del 95,25%. Negli ultimi mesi, sindacati e partiti
di opposizione hanno lanciato campagne di mobilitazione per un cambiamento
di regime e la destituzione del presidente giudicato incapace di guidare il
Paese. Intanto tra i suoi ministri e collaboratori si è aperta una lotta per
il potere, soprattutto tra tre esponenti dell’esercito: il capo di Stato
maggiore Kerfalla Camara, il suo vice Arafan Camara e il
ministro della Difesa Kandet Touré. L’esecutivo è diviso in clan che
si fronteggiano mentre, accanto ai politici, stanno emergendo anche figure
di uomini d’affari, un ex giocatore di calcio e il direttore della lotteria
nazionale, pronti a contendersi il potere. L’8 giugno uno sciopero generale
ha paralizzato Conakry e le principali città del Paese: gli studenti sono
scesi in piazza per protestare contro la chiusura delle scuole e il rinvio
degli esami di maturità; negli scontri con la polizia sono morte 18 persone.
La Liberia ha ottenuto l’estradizione di Charles Taylor dalla
Nigeria (29 marzo), Stato in cui l’ex dittatore viveva in esilio dal 2003,
in base all’accordo di pace che nel suo Paese pose fine a una guerra civile
durata quattordici anni. La presidente liberiana Ellen Johnson Sirleaf,
eletta nell’ottobre 2005 nelle prime elezioni presidenziali del dopoguerra,
ha annunciato che Taylor sarà consegnato al Tribunale speciale per i crimini
di guerra di Freetown, in Sierra Leone, dove sarà processato per i crimini
commessi durante la guerra civile in Liberia e Sierra Leone. Nel 1989
Taylor, a capo dei ribelli del Fronte patriottico nazionale, lanciò un
attacco per rovesciare il governo dell’allora presidente Samuel Doe.
La guerra civile provocò migliaia di morti. L’avvento al potere di Taylor
(1997) significò per la Liberia l’inizio di un nuovo regime del terrore,
utilizzato per mettere a tacere gli oppositori, e di un’altra guerra civile,
questa volta contro il Lurd (Liberiani uniti per la riconciliazione e la
democrazia). Per combattere i ribelli del Lurd, Taylor non esitò a reclutare
bambini; inoltre, appoggiò nella vicina Sierra Leone il Ruf, il Fronte
rivoluzionario unito, in cambio di diamanti. Di quest’ultima accusa dovrà
rispondere di fronte alla Corte internazionale per i crimini di guerra
istituita appunto in Sierra Leone. Taylor fu infine sconfitto dal Lurd, ma
riuscì a negoziare con l’Onu il proprio esilio.
Nella seconda metà di febbraio la Libia è stata scenario di duri
scontri, soprattutto a Bengasi, innescati dalla vicenda delle vignette
satiriche su Maometto pubblicate in Europa. Le manifestazioni di protesta
sono sfociate prima in atti di vandalismo e poi in un vero e proprio assalto
contro gli uffici del Consolato italiano. La polizia libica ha represso la
rivolta provocando la morte di 14 persone. È poi risultato che tra i
manifestanti un largo numero erano immigrati palestinesi, egiziani e
sudanesi. Nei giorni successivi il presidente libico Muhammar al-Gheddafi ha
attribuito la colpa degli scontri a un diffuso odio contro l’Italia
risalente ai tempi del colonialismo e delle conseguenti questioni irrisolte.
In realtà la vicenda, costata peraltro il posto ai responsabili degli
Interni e della Sicurezza, si è innestata su fattori di politica interna.
Prima di tutto al centro della contesa c’è il regime stesso di Gheddafi, che
cerca equilibri rinnovati per mantenere il controllo su un Paese comunque
complesso, alternando aperture occidentali anche piuttosto radicali (come la
rinuncia totale e quasi improvvisa alle armi di distruzione di massa), a
scelte africane ad atteggiamenti panarabi e islamisti. In questo contesto è
probabile che le manifestazioni di febbraio abbiano avuto il via libera
dallo stesso regime, con l’intenzione di dare una valvola di sfogo alla
rabbia popolare, di fare pressione sulle nazioni occidentali, ergendosi a
difensore della religione islamica. Allo stesso tempo il fatto che gli
scontri siano avvenuti a Bengasi, dove sono tradizionalmente più forti le
opposizioni sia realista sia islamista, fa pensare ad azioni sviluppatesi in
opposizione al regime. È proprio nei confronti degli islamisti che Gheddafi
nutre i maggiori timori e deve essere più prudente, e segno di tale
situazione sono sia le scelte di compromesso, come l’amnistia per detenuti
legati ai Fratelli musulmani e comunque agli islamisti, sia il tentativo di
spostare le ragioni della protesta antioccidentale e del contenzioso con
l’Italia su posizioni nazionaliste. In particolare Gheddafi ha chiesto
all’Italia la realizzazione di alcune grandi infrastrutture che sarebbero il
naturale risarcimento per i danni subiti durante l’occupazione coloniale
italiana. I veri problemi del regime libico restano tuttavia di natura
interna. Nel tentativo di smorzare i toni dell’opposizione, alimentata in
particolare dall’ideologia dei Fratelli musulmani, oltre un’ottantina di
detenuti, accusati di aderire al movimento, sono stati liberati e in marzo
si è attuato un consistente rimpasto di governo con la creazione di sette
nuovi ministeri: Agricoltura, Trasporti, Istruzione, Patrimonio abitativo,
Affari sociali, Industria ed Elettricità. Gheddafi ha nominato primo
ministro Baghdadi Mahmudi, dopo che il Congresso generale dei
comitati del popolo (il Parlamento) ha sfiduciato il premier riformatore
Shukri Ghanem, criticato per il suo programma di liberalizzazioni
economiche. Ghanem ha quindi assunto la direzione della Compagnia nazionale
del petrolio. L’immagine che il leader libico vuole dare al mondo esterno è
quella di un leader che intende portare il proprio Paese ad integrarsi
nuovamente nello scenario internazionale. A metà marzo è stato siglato un
accordo con la Francia per una collaborazione nelle ricerche sul nucleare a
scopi civili.
Il 3 dicembre si sono tenute le elezioni presidenziali in Madagascar.
Marc Ravalomanana, il presidente uscente, ha cercato con ogni mezzo
di farsi rieleggere. Nel 2002 si era candidato grazie al consenso ottenuto
dalle Chiese, da sempre molto influenti sull’isola, e alla notevole
disponibilità finanziaria proveniente dal suo monopolio dell’industria
alimentare (per potersi candidare alla presidenza occorre infatti versare
una cauzione di oltre 9.300 euro, una cifra enorme se si pensa che il Pil
pro capite ammonta a circa 240 euro). Da quando è in carica, Ravalomanana ha
rafforzato sempre più i legami con le autorità religiose ed è stato nominato
vicepresidente della Chiesa riformata di Gesù Cristo, uno dei 4 elementi
costitutivi del Consiglio delle Chiese cristiane, legando in modo
significativo i pubblici poteri alle Chiese e garantendosi così la loro
fedeltà. Ravalomanana, dunque, oltre a essere il capo di Stato, è in pratica
capo della Chiesa, nonché imprenditore dal momento che dirige il gruppo
agroalimentare Tiko, in espansione continua dal 1981, grazie a un ingente
prestito finanziario elargito dalla Banca mondiale. Ha fatto in modo che i
quadri del gruppo diventassero anche esponenti politici, facendone dei
deputati o degli agenti amministrativi. Ha procurato ulteriori vantaggi al
suo gruppo con l’adozione di provvedimenti legislativi da lui stesso emanati
in qualità di presidente della Repubblica. Infine Ravalomanana, che è anche
proprietario di una radio, di alcune emittenti televisive e di un
quotidiano, ha usato la sua posizione per allargare ulteriormente il giro
d’affari delle sue società diversificandone le attività. L’economia del
Paese continua ad essere arretrata perché lo sviluppo promosso dal
presidente ha giovato solo al suo entourage. Appena iniziata la campagna
elettorale 11 dei 14 candidati alle presidenziali hanno denunciato, durante
una riunione con i rappresentanti dei Paesi donatori e diplomatici
stranieri, irregolarità nel processo elettorale: ritardi nella consegna dei
certificati elettorali, anomalie procedurali e intimidazioni. Dal canto suo
Ravalomanana ha minacciato apertamente gli oppositori e la stampa, sia
locale che straniera. Il clima si è fatto sempre più teso. Di qui lo scontro
che ha avuto luogo il 18 novembre nella base militare di Ivato, dove alcuni
soldati delle truppe regolari si sono ammutinati sotto la guida del generale
Andrianafidisoa, noto come “Fidy”, chiedendo le dimissioni di
Ravalomanana (un soldato è morto). Le consultazioni sono terminate con la
vittoria di Ravalomanana che ha ottenuto il 61,23% dei consensi contro il
9,20% di Roland Ratsiraka, nipote dell’ex presidente Didier.
Dal 19 al 24 gennaio la capitale del Mali, Bamako, ha ospitato il VI
Forum sociale mondiale, il primo ospitato in Africa, cui hanno partecipato i
rappresentanti di 213 Paesi e più di 300 associazioni della società civile
maliana. La nota positiva riguarda la presenza massiccia di africani,
divenuti la maggioranza dei partecipanti per la prima volta dal 2001, e
l’arrivo a Bamako di numerose associazioni provenienti da tutti i Paesi
dell’Africa occidentale. Tema centrale dell’incontro, che si è concluso però
senza una dichiarazione finale, è stata la cancellazione del debito estero
dei Paesi in via di sviluppo. Nell’anno si è tenuto un secondo incontro in
Kenya, a Nairobi. L’evento è nato nel 1999 come risposta al Forum economico
mondiale, la riunione dei Paesi più ricchi del mondo che si svolge ogni anno
a Davos (25 gennaio).
Il 25 giugno in Mauritania gli elettori hanno approvato con un
referendum la nuova Costituzione del Paese che dovrebbe porre fine alla
transizione e ripristinare la democrazia. Il colonnello Ely Ould Mohammed
Vall, leader della giunta militare che nell’agosto 2005 ha deposto il
presidente Maaouiya Ould Taya, ha promesso di restituire il potere ai
civili e di organizzare elezioni presidenziali nel marzo 2007. Intanto il 19
novembre si sono tenute le elezioni parlamentari, a cui si sono presentati
28 partiti politici. La campagna elettorale si è svolta senza incidenti e le
consultazioni sono terminate con la vittoria della Coalizione delle forze
per il cambiamento democratico (Cfcd), un’alleanza di otto ex partiti
dell’opposizione che ha ottenuto la maggioranza relativa dei seggi, 41 su 95
(3 dicembre). Sono stati quindi avviati i negoziati per formare un governo
di coalizione. Se tutto andrà come previsto, a marzo 2007 si terranno le
presidenziali, e la giunta militare potrà cedere il potere, come più volte
promesso da Vall che, per rendere la transizione ancora più trasparente, ha
garantito che nessun membro dell’attuale giunta si candiderà alle elezioni.
Per la prima volta nessun candidato è stato sostenuto con fondi statali
anche se alcuni aspiranti deputati hanno denunciato la presenza di troppi
candidati indipendenti su cui punterebbero i militari per far arrivare al
potere uomini a loro fedeli. D’altronde, la scoperta di giacimenti
petroliferi nell’oasi di Chinguetti ha dato una forte accelerata anche alla
competizione politica, perché controllare il Parlamento significherà anche
controllare buona parte dei proventi derivanti dall’oro nero.
In Marocco continua il trend positivo della politica di apertura,
riforma e pacificazione del sovrano marocchino Mohammed VI. Di qui
una serie di scarcerazioni: la prima nel mese di gennaio quando in occasione
della festività religiosa del sacrificio dell’agnello, il re ha firmato la
grazia per 1.059 persone recluse nelle carceri marocchine; la seconda con
cui ha liberato 200 detenuti saharawi accusati in prevalenza di
manifestazioni non autorizzate e violenze contro pubblici ufficiali (26
marzo). Nel suo discorso alla nazione del 10 gennaio il sovrano ha chiesto
ufficialmente scusa per i quarant’anni di abusi dei diritti umani compiuti
nel suo Paese e denunciati in un dossier della Commissione per la
riconciliazione e la verità (Ier, l’“Istanza equità e riconciliazione”,
istituita dal re nel novembre 2003 per indagare sui crimini commessi durante
il regno di Hassan II). Secondo il documento diffuso dalla Commissione, dal
1956, anno dell’indipendenza, fino al 1999, furono iscritte nella lista
degli scomparsi 592 persone e di queste 322 furono uccise da esponenti delle
forze dell’ordine in scontri e manifestazioni di protesta. Altre 174
morirono mentre erano in stato di detenzione arbitraria. La Commissione ha
anche confermato almeno 9.779 casi di abusi dei diritti umani perpetrati
negli ultimi decenni. Secondo le associazioni di diritti umani i casi di
morte e di violazione sono molto più numerosi, ma le scelte di re Mohammed
VI sono un segnale più che positivo. Resta in sospeso la questione del
Sahara occidentale, l’autoproclamata Repubblica Saharawi. Rabat ha compiuto
gesti di apertura verso il riconoscimento della violazione dei diritti umani
negli anni passati e con interventi a favore degli attuali detenuti
politici, ma non mancano anche nuove chiusure e azioni repressive. Ad agosto
il ministero dell’Interno ha annunciato di aver smantellato una rete
terroristica, Ansar el Mehdi, attiva in diverse città del Paese. Secondo le
autorità i suoi membri stavano preparando un attentato ancora più grave di
quello del 16 maggio 2003 che causò 45 morti a Casablanca, un attentato che
mirava a lanciare la jihad nel regno, attaccando interessi stranieri e
personalità di spicco marocchine. Tra gli arrestati nell’operazione
antiterrorismo ci sono stati anche alcuni soldati, poliziotti e gendarmi.
D’altro canto è facile che i discorsi estremisti possano trovare terreno
fertile anche tra i soldati che vivono con salari da fame e sottomessi a una
disciplina spesso ingiusta.
In Nigeria proseguono le azioni di protesta del Movimento per
l’emancipazione del Delta del Niger (Mend). I ribelli chiedono che i
proventi delle risorse petrolifere siano meglio utilizzati per promuovere lo
sviluppo locale e non vengano più dirottati verso altre regioni o verso i
conti correnti privati di leader politici. Il Mend, composto da membri di
etnia ijaws, ha il forte sostegno della popolazione locale e anche di alcuni
politici. Il timore è che la violenza nel Delta possa crescere in vista
delle elezioni presidenziali del 2007. A metà gennaio un dipendente della
compagnia anglo-olandese Shell è morto in un attacco a Benisede e il 24
gennaio sono morte altre nove persone nell’attacco di un commando armato a
uno stabilimento dell’azienda petrolifera Agip a Port Harcourt, nel Sud del
Paese. Si sono moltiplicati anche i rapimenti degli stranieri che lavorano
per le multinazionali impegnate nello sfruttamento delle risorse
petrolifere. Per il loro rilascio i ribelli chiedono che le società per cui
lavorano gli ostaggi aiutino finanziariamente le comunità rurali della zona.
Senza contare il susseguirsi delle tragedie che vedono centinaia di persone
morire nelle esplosioni degli oleodotti bucati per cercare di trafugare il
greggio. Sul piano strettamente politico, l’11 aprile il Partito democratico
del popolo (Pdp) del presidente Olusegun Obasanjo ha presentato un
emendamento alla Costituzione che permetterebbe al capo dello Stato di
concorrere a un terzo mandato. La mossa ha suscitato molte proteste in varie
città del Paese e in Parlamento. Molti, soprattutto settentrionali, gli
preferirebbero il suo vice, Atiku Abubakar, un musulmano, che si è
detto contrario all’emendamento perché si aprirebbe la strada alla
dittatura. La questione è già all’ordine del giorno del dibattito politico
della Federazione con effetti destabilizzanti che spiegano in parte i fatti
quali rapimenti, attacchi alle installazioni petrolifere nel Sud e scontri
tra cristiani e musulmani negli Stati del Nord. Anche nel Sud-Est, a Onitsha,
alla fine di febbraio quasi 80 persone sono morte negli scontri religiosi:
bande di cristiani hanno attaccato i musulmani per vendicare le violenze e
l’incendio di alcune chiese nel Nord del Paese durante le proteste contro le
vignette satiriche sul profeta Maometto. La destabilizzazione politica ed
economica della Nigeria potrebbe avere conseguenze estremamente gravi non
solo all’interno del Paese e della regione ma anche a livello globale, vista
l’importanza strategica della produzione petrolifera nigeriana (due milioni
di barili al giorno). Il Senato ha poi bocciato la modifica costituzionale
(16 maggio). Pare risolta, infine, la di-sputa decennale con il Camerun per
il controllo della penisola di Bakassi, ricca di giacimenti petroliferi: il
governo di Abuja ha accettato di ritirare le sue truppe dopo che nel 2002 la
Corte internazionale dell’Aja aveva stabilito che la penisola appartiene al
Camerun.
A 12 anni dal genocidio il Ruanda ha ritrovato la pace, ma non è
certo un esempio di democrazia. La nuova Costituzione approvata nel 2003 ha
istituito la Commissione nazionale per i diritti umani e la Commissione
nazionale di unità e riconciliazione (Nurc), entrambe teoricamente
indipendenti dal governo. La Nurc ha l’obiettivo di combattere le divisioni
e promuovere l’unità tra i ruandesi, ma non ha lo scopo di far luce sul
genocidio e la guerra civile. Ufficialmente il regime del presidente Paul
Kagame si impegna su tutti i fronti per combattere la discriminazione ed
il razzismo che condussero al genocidio, ma la violazione della libertà
d’espressione non fa che alimentare la rabbia, il rancore e la frustrazione
della società civile. Non mancano casi di persone sparite misteriosamente
dopo aver osato opporsi al regime, e di processi orchestrati per sbarazzarsi
di persone scomode. Promuovere la riconciliazione comporta il divieto di
parlare di tutsi e di hutu, perché questo potrebbe alimentare nuove
tensioni, secondo la logica ufficiale del governo dominato dai collaboratori
tutsi di Kagame. A questo scopo diverse leggi limitano la libertà di
espressione e di associazione, per lottare contro l’ideologia genocidaria,
la discriminazione e il divisionismo. La persecuzione della Lega ruandese
per la promozione dei diritti umani, accusata di divisionismo, ne è un
esempio. La Lega, i cui membri erano in maggioranza hutu, dava fastidio al
governo perché troppo critica nei suoi confronti.
Da 15 anni la Somalia è sprofondata in uno stato di anarchia. Con la
nomina, nel 2004, di un governo e di un Parlamento di transizione, gli
osservatori internazionali pensavano che la situazione stesse per
stabilizzarsi. Invece tutto è nuovamente precipitato. Alla fine di gennaio,
il presidente di transizione Abdallahi Yusuf Ahmed ha annunciato che,
dopo mesi di discussioni, le fazioni rivali all’interno del governo avevano
raggiunto un accordo per convocare la prima sessione del Parlamento, che si
è così riunito per la prima volta il 26 febbraio a Baidoa. La situazione a
Mogadiscio infatti, dove proseguivano gli scontri tra fazioni rivali, era
considerata ancora troppo pericolosa. In febbraio, nella capitale, un gruppo
di signori della guerra e alcuni ministri si sono uniti a formare l’Alleanza
per la restaurazione della pace e contro il terrorismo (Arpct), costituita
per fronteggiare la crescente influenza delle Corti islamiche, accusate di
essere finanziate da Al Qaeda e di dare rifugio a integralisti islamici
provenienti da altri Paesi. Dal canto loro gli islamici tre anni fa si sono
organizzati nell’Unione delle Corti islamiche (poi ribattezzata Somali
Islamic Courts Congress, Sicc), una rete di 11 Corti creata da alcuni uomini
d’affari somali stanchi di vivere e lavorare in un Paese dove regna
l’anarchia. Ufficialmente le Corti hanno come obiettivo la restaurazione
dell’ordine attraverso l’imposizione della legge islamica. Ciò ha messo in
allarme gli Stati Uniti, che non vedono di buon occhio la possibile nascita
di uno Stato islamico governato dai fondamentalisti e da possibili
infiltrazioni di guerriglieri di Al Qaeda e che quindi hanno deciso di
sostenere l’Arpct. D’altro canto dopo l’11 settembre e dopo il rovesciamento
dei talebani in Afghanistan, l’attenzione degli Usa si è spostata sulla
Somalia, considerata una delle principali basi per il reclutamento e
l’addestramento di terroristi islamici. Dal 2003 è attiva a Gibuti la
Combined Joint Task Force, una missione militare americana che conta 1.800
unità, e che opera in sette Paesi africani circostanti, Somalia compresa.
Compito principale della missione è proprio la lotta al terrorismo, sia
tramite operazioni militari che attraverso l’assistenza alla popolazione
civile. Sul campo si sono moltiplicati gli scontri tra l’Arpct e le milizie
delle Corti islamiche. In marzo i combattimenti a Mogadiscio, i peggiori
degli ultimi dieci anni, hanno causato decine di vittime e si sono
concentrati intorno al piccolo scalo aereo di Easley e al porto di El Maan,
i due centri attraverso i quali arrivano merci, armi e persone. Molti somali
sono inoltre fuggiti verso il Kenya, dove sono stati ospitati nel campo
delle Nazioni Unite di Dadaab. Paradossalmente gli scontri più pesanti nella
storia recente della città sono avvenuti poco dopo la riunificazione delle
istituzioni di transizione, riunitesi per la prima volta in territorio
somalo alla fine di febbraio. Le trattative tra l’Arpct e le Corti islamiche
non sono mai decollate, mentre il presidente somalo Yusuf ha accusato
apertamente gli Usa di sostenere l’Arpct, contribuendo così a destabilizzare
il già fragile quadro politico somalo. Il quadro si è ulteriormente
complicato con l’intervento dell’Etiopia, tradizionale nemico della Somalia
e alleato degli Usa, che mal tollererebbe uno Stato islamico alle porte di
casa. Il 5 giugno, dopo quattro mesi di combattimenti contro l’Arpct e più
di 300 morti, le milizie dei tribunali islamici hanno ottenuto il controllo
di Mogadiscio, dirigendosi poi verso la città di Jowhar, 90 km a nord della
capitale, punto strategicamente importante per il controllo del Paese, che
hanno conquistato il 14 giugno. Con la conquista di Mogadiscio, gli
islamisti si sono imposti come una forza politica nazionale di primo piano e
quindi è diventato chiaro che il successo o il fallimento di ogni iniziativa
di pace appoggiata dall’Europa e dal Kenya non poteva prescindere dal
coinvolgimento delle Corti sempre rifiutato dai sostenitori dell’iniziativa
di pace. D’altro canto negli ultimi anni gli islamisti si sono dimostrati
l’unico movimento politico somalo ad avere un progetto per la ricostruzione
dello Stato. Così come Hamas in Palestina gli islamisti hanno conquistato
legittimità e crescenti consensi tra la popolazione perché sono stati gli
unici in grado di fornire servizi sociali e un minimo di sicurezza in
assenza di un governo. Gli altri movimenti politici danno voce solo a
interessi ristretti e corrotti e sono stati screditati dal comportamento
violento dei loro leader. La conquista di Mogadiscio ha evidenziato ancora
una volta il fallimento della politica antiterrorismo degli Usa che con la
guerra ha contribuito a rafforzare proprio i movimenti islamici più radicali
che avrebbe voluto annientare. La popolazione di Mogadiscio stremata da 15
anni di anarchia, desiderosa di vedere ritornare legge e ordine nelle
strade, ha appoggiato il movimento islamico. La vittoria delle Corti è stata
riconosciuta anche dal primo ministro Ali Mohamed Ghedi che ha
fatto sapere di voler intavolare trattative con le Corti (paradossalmente,
infatti, la sconfitta dei signori della guerra potrebbe favorire le
istituzioni somale perché le Corti potrebbero riportare l’ordine nella
capitale) e ha destituito quattro signori della guerra dal suo governo. Tra
loro, due figure di primo piano negli equilibri politico-militari di
Mogadiscio: il ministro della Sicurezza Mohammed Qanyare Afrah, e il
ministro del Commercio, Muse Sudi Yalahow, che durante gli scontri
hanno perso il controllo delle proprie roccaforti. Dopo la presa di
Mogadiscio le milizie islamiche hanno esteso il loro controllo al Nord del
Paese concludendo una serie di accordi con i capi tradizionali locali. Di
fronte a questo stato di cose, l’Etiopia ha schierato l’esercito lungo il
confine: subito dopo il leader degli islamisti, Sheikh Sharif Sheikh
Ahmed, ha accusato Addis Abeba di aver condotto operazioni in territorio
somalo mentre migliaia di persone hanno partecipato a una manifestazione a
Mogadiscio contro il possibile invio nel Paese di una missione delle Nazioni
Unite (16 giugno). Il 22 giugno in un vertice a Khartoum il presidente Yusuf
e le Corti islamiche hanno concluso un accordo di cessate il fuoco e
riconoscimento reciproco. L’accordo però non è stato rispettato e gli
islamisti hanno proseguito il loro attacco, conquistando un distretto dopo
l’altro. Il 25 giugno lo sceicco estremista Hassan Dahir Aweys,
ricercato dagli Usa, è stato nominato a dirigere l’Unione delle Shura delle
Corti islamiche, un organismo consultativo. Gli Stati Uniti lo hanno
inserito nella lista dei ricercati per terrorismo perché secondo
l’intelligence americana negli anni Novanta dirigeva Al-Itihaad Al-Islamiya,
un gruppo islamico che operava in Etiopia e che gli Usa ritengono avere
collegamenti con Al Qaeda. Hassan nega tali supposizioni americane e
sostiene di essere solo un erudito musulmano, che crede nella sharia
islamica, perché questa offrirebbe la soluzione ai problemi della Somalia.
Il 10 luglio l’ultimo signore della guerra ancor attivo a Mogadiscio,
Abdi Hassan Awal Qeydiid, si è arreso alle Corti islamiche dopo due
giorni di combattimenti in cui sono morte almeno cento persone. Il 20 luglio
il governo etiope, a cui il governo di transizione somalo ha chiesto aiuto,
ha inviato almeno 5.000 soldati a Baidoa e il leader degli islamisti
Dahir Aweys, ha invitato la popolazione alla guerra santa contro
l’Etiopia. Il 21 agosto il primo ministro Ali Mohamed Ghedi ha presentato il
nuovo governo, mettendo fine a una crisi che aveva portato alle dimissioni
di molti ministri contrari alla linea dura con gli islamisti e all’ingresso
delle truppe etiopiche nel Paese. Il 5 settembre il governo di transizione e
le Corti islamiche hanno firmato a Khartoum un accordo di pace provvisorio
che prevede la creazione di una forza di polizia e un esercito nazionale. Le
parti si sono anche impegnate a non sostenere i signori della guerra e a non
combattersi né a riarmarsi accettando di “coesistere pacificamente con i
Paesi vicini e di chiedere agli Stati della regione di rispettare
l’integrità territoriale della Somalia”. Proprio nel momento in cui i
colloqui di pace tra autorità e Corti islamiche facevano pensare a una
soluzione pacifica delle divergenze, due autobomba sono esplose a Baidoa al
passaggio del convoglio presidenziale provocando la morte di undici persone,
tra cui un fratello del presidente (18 settembre). Il portavoce della
presidenza somala ha attribuito la paternità dell’attentato all’Unione delle
Corti islamiche. A fine settembre gli islamisti hanno assunto il controllo
anche di Chisimaio, nel Sud del Paese. Intanto si sono fatti sempre più tesi
i rapporti con l’Etiopia finché il 21 dicembre Dahir Aweys ha dichiarato che
la Somalia è “in stato di guerra”, incitando tutta la popolazione a lottare
contro l’Etiopia. Si sono moltiplicati gli scontri armati a sud di Baidoa
dove, insieme all’esercito etiope, le truppe governative si sono opposte
alle forze dei tribunali islamici. Nuovi scontri sono scoppiati anche nella
città di Dinsoor, circa 120 km a sud di Baidoa, controllata dagli islamisti
dall’inizio di dicembre. Gli scontri di Dinsoor sarebbero la prova che le
forze regolari della Somalia starebbero riconquistando terreno dopo i
rovesci inflitti negli ultimi mesi. Ma la battaglia tra i due campi è
proseguita anche su due altri fronti: il primo a Idale (60 km a sud di
Baidoa) e a Deynunay (una trentina di km dalla capitale transitoria).
La Sierra Leone emerge da una guerra civile protrattasi per oltre 10
anni, il cui impatto sulle condizioni di vita della popolazione è risultato
devastante. La guerra ha lasciato il segno soprattutto per le gravissime
atrocità perpetrate contro i civili, vere vittime del conflitto. Donne e
bambini sono stati oggetto di orribili violenze e abusi, migliaia di
giovanissimi sono stati arruolati come bambini-soldato, drogati e costretti
a uccidere, a mutilare e a commettere abusi sessuali. Il 90% delle bambine
rapite dai ribelli sono state violentate, molte di esse sono poi
state uccise o ridotte in schiavitù. La guerra civile ha distrutto le
infrastrutture sanitarie del Paese: il tasso di mortalità infantile, fino al
2005 il più alto al mondo, è determinato principalmente dalla diffusione di
malaria, diarrea e infezioni. Oggi, nonostante i progressi in termini di
stabilità politica interna e di assistenza umanitaria, le condizioni di vita
restano molto gravi e la popolazione non ha accesso ai servizi di base.
In attesa delle elezioni presidenziali previste per il 2007, il regime
di Ahmad Tejan Kabbah è ormai logorato dalle difficoltà di
risollevare un Paese allo stremo, mentre la mancanza di prospettive
economiche sta spostando buona parte dell’elettorato verso l’Apc (All
People’s Congress), che nelle elezioni locali del 2004 ha recuperato
sensibilmente sul Slpp (Sierra Leone People’s Party), il partito del
presidente. Un brutto colpo per Kabbah, che nel 2002 era stato eletto con il
70% delle preferenze. L’Apc rimane l’unico partito di opposizione degno di
tale nome, visto che il braccio politico del Ruf (Revolutionary United Front)
si è sfaldato dopo aver ricevuto alle elezioni del 2002 appena l’1% dei
voti. È necessario anche risolvere la questione dei criminali di guerra:
dopo che i vertici del Ruf sono morti in circostanze più o meno sospette,
restano da processare alcuni ministri in servizio a Freetown durante il
conflitto, che però vengono visti come eroi nazionali dalla popolazione, per
il solo fatto di essere riusciti a piegare la ribellione del Ruf.
Nel discorso alla nazione di febbraio, il presidente del Sudafrica
Thabo Mbeki ha annunciato un cambiamento nella questione della
redistribuzione delle terre in mano alla minoranza bianca. Finora si è
seguito il principio del “venditore volontario, compratore volontario”,
principio che non ha funzionato: nel 1994 l’obiettivo era di restituire ai
neri il 30% delle terre, ma solo il 3% dei terreni ha cambiato destinazione.
Il presidente dunque ha proposto l’esproprio forzato in cambio di
indennizzi. Tuttavia l’Alleanza democratica, principale partito
dell’opposizione, e il sindacato degli agricoltori si sono dichiarati
contrari a questo principio. D’altro canto se la riforma agraria non sarà
attuata il rischio è che anche il Sudafrica si trasformi in un nuovo
Zimbabwe, Paese in cui i contadini hanno scelto l’occupazione violenta delle
terre. Intanto benché i reati violenti, toccato il culmine negli anni
Novanta, siano ora in costante declino, il rischio di essere uccisi rimane
comunque 12 volte più alto che negli Usa e 50 volte più alto che in Europa
occidentale. Resta poi il problema dell’Aids. Su 47 milioni di abitanti più
di 5 milioni sono sieropositivi. Qualche anno fa il presidente Mbeki aveva
messo in discussione l’esistenza dell’Hiv oltre all’efficacia dei farmaci
antiretrovirali, con il risultato che l’unico Paese dell’Africa subsahariana
dotato delle risorse necessarie per combattere la malattia non ha fatto
quasi nulla. Ora fortunatamente il Sudafrica può vantare uno dei più vasti
programmi terapeutici del mondo, con la distribuzione di antiretrovirali a
centinaia di migliaia di persone: una vittoria per Nelson Mandela e per le
associazioni di volontariato che hanno costretto il governo a cambiare
direzione. Ciononostante il presidente Mbeki non ha ritrattato le sue idee
sull’Aids e, invece di mettersi a capo del movimento, ha scelto il silenzio
sull’argomento mentre nessun membro del governo e nessun esponente dell’Anc
(African National Congress) ha osato contrastarlo apertamente. Sotto il
profilo economico, pur avendo ereditato uno Stato sull’orlo della
bancarotta, l’Anc dal 1994 ha registrato indubbi successi riuscendo a
stabilizzare le entrate fiscali e ad attirare gli investitori. Ma la
crescita non è ancora sufficiente a far calare il tasso di disoccupazione
(attualmente al 40%). E soprattutto si allarga il divario tra ricchi e
poveri. Benché il governo abbia in programma di fornire elettricità, acqua
pulita e una casa a milioni di persone, all’inizio dell’anno il malcontento
è sfociato in sommosse in alcune township. Tuttavia dopo 12 anni di governo,
l’Anc gode ancora di un ampio sostegno e controlla i due terzi dei seggi in
Parlamento, le nove province del Paese e tutte le grandi città, fatta
eccezione per Città del Capo, in mano all’opposizione. L’Anc deve fare i
conti con un deficit di democrazia. Le commissioni parlamentari non
discutono mai le decisioni del governo, limitandosi a ratificarle; la
televisione pubblica ha messo al bando alcuni commentatori politici dalle
sue trasmissioni mentre i giudici lamentano che le riforme proposte
ridurranno la loro indipendenza. Intanto all’interno del partito, la pretesa
del vicepresidente dell’Anc Jacob Zuma di succedere a Mbeki, che
secondo la Costituzione deve dimettersi dopo il secondo mandato, ha
scatenato una feroce lotta per il potere.
Il 5 maggio il governo e la fazione di maggioranza del Movimento per la
liberazione del Sudan (Sla), il principale gruppo ribelle del Darfur,
hanno firmato ad Abuja, in Nigeria, un accordo di pace proposto dall’Unione
africana. La fazione di minoranza guidata da Mohammed al-Nur e i
ribelli del Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Justice and Equality
Movement, Jem) hanno invece respinto l’intesa, considerata insufficiente, e
hanno chiesto la mediazione delle Nazioni Unite. Troppe secondo i non
firmatari le questioni irrisolte, a cominciare dalla destinazione degli
introiti petroliferi, che il governo di Khartoum non è intenzionato a
cedere. Per proseguire con lo status del Darfur, che i ribelli vorrebbero
modificare unificando le tre regioni in cui è attualmente diviso. L’accordo
prevede un referendum sulla suddivisione amministrativa del Darfur, il
disarmo delle milizie filo-governative janjaweed e l’integrazione dei
ribelli nell’esercito e l’entrata in Parlamento dei rappresentanti del Sudan
Liberation Movement, il braccio politico del gruppo ribelle. L’ultimo punto
è stato quello più controverso. Il 15 giugno il procuratore generale della
Corte penale internazionale (Cpi) Luis Moreno-Ocampo, ha presentato
al Consiglio di sicurezza dell’Onu il terzo rapporto sul Darfur in cui
conclude che nella regione sono stati commessi stupri e massacri su vasta
scala. Il procuratore ha anche evidenziato che i meccanismi giudiziari messi
in atto in Sudan per perseguire questi crimini sono inadeguati. Intanto il
governo di unità nazionale nato nel 2005 non sembra godere di buona salute.
In base all’accordo di pace Nord-Sud del gennaio 2005, il Congresso
nazionale (Ncp), il partito islamista del presidente e capo del governo
Ahmed Omar Hassan el-Bashir, e l’Splm (Movimento per la liberazione
popolare del Sudan) devono convivere all’interno di un governo centrale di
unità nazionale e in tutti i rami dell’amministrazione pubblica per almeno
sei anni di transizione, tempo previsto per restaurare le istituzioni del
Paese e permettere al Sud di scegliere liberamente, attraverso un
referendum, se rimanere parte del Sudan o se andare per la propria strada. A
un anno dalla formazione del governo, però, il bilancio è deludente: manca
innanzitutto la volontà politica del partito del presidente di far
funzionare davvero le cose. L’accordo di pace è molto dettagliato per tutto
ciò che riguarda le modalità e i tempi di attuazione dei singoli protocolli
che lo compongono. Ad esempio, nei primi sei mesi dalla firma avrebbero
dovuto essere formate diverse commissioni, previste per adattare le
istituzioni esistenti allo spirito del trattato: solo poche hanno visto la
luce. Il governo di unità nazionale poi si è nettamente spaccato sulla
questione dell’invio o meno di Caschi blu in Darfur. Una questione irrisolta
nonostante una risoluzione del Consiglio di sicurezza che il 31 agosto ha
approvato la missione. Il presidente el-Bashir ha ripetutamente ribadito che
il Sudan non accetterà i peacekeepers Onu nella sua regione occidentale. Una
posizione non condivisa dall’Splm, gli ex ribelli meridionali ora partner
nel governo di unità nazionale. Una spaccatura netta che si è evidenziata in
settembre quando l’Splm ha annunciato ufficialmente il suo appoggio alla
missione Onu in Darfur. Ma al di là del Darfur, tutto il quadro politico
appare instabile. All’inizio di settembre le opposizioni sono scese in
piazza per protestare contro un aumento improvviso nei prezzi di benzina,
farina e altri beni primari. Il rincaro dei prezzi è stato deciso senza
nessuna consultazione, non solo con l’opposizione, ma neanche con l’Splm.
Sebbene autorizzati, i manifestanti sono stati caricati dalla polizia e in
molti sono stati arrestati. I problemi aperti sono ancora molti: la
spartizione dei proventi del petrolio meridionale, ad esempio, oppure lo
status dell’area di Abyei, territorio ricco di greggio al confine tra Nord e
Sud, il cui problema aveva richiesto in sede negoziale un protocollo a
parte. Nulla è stato fatto finora e il rapporto finale della commissione
confinaria, presentato parecchi mesi fa, è rimasto lettera morta. È poi
necessario approvare al più presto la legge per il multipartitismo e la
legge elettorale per dar tempo ai partiti di prepararsi per le elezioni
generali che, secondo il trattato, dovrebbero tenersi durante il terzo anno
del periodo transitorio.
La Tanzania è considerata uno dei rari esempi di successo dell’Africa
orientale. Un successo pur relativo, se si considera che il Paese è ancora
povero e disorganizzato, con un’assistenza sanitaria quasi inesistente nelle
regioni più remote e una rete stradale limitata. Ma i finanziatori
internazionali, alle prese con la corruzione e la violenza che regnano in
molte parti dell’Africa, sono invogliati ad aiutare uno Stato stabile e
pacifico. Il presidente Jakaya Kikwete, eletto nel dicembre 2005 con
l’80% dei voti, si è impegnato a ridurre la povertà. Quest’anno il Pil
dovrebbe crescere del 5,8% mentre l’inflazione è sotto controllo già da
tempo. Considerata la relativa assenza di corruzione alcuni donatori
forniscono ormai i loro aiuti senza porre troppe condizioni. Il Chama Cha
Mapinduzi (Ccm), il partito del presidente che domina la scena politica
dall’indipendenza, si è impegnato a rispondere alle principali esigenze
della popolazione (scuole, università, strade, ospedali), oltre a
raddoppiare le forniture idriche entro il 2010 e a occuparsi della
riorganizzazione dell’agricoltura, ancora prevalentemente di sussistenza.
Un anno fa, il Togo era un Paese sull’orlo del caos. Uscito da mesi
di scontri e lotte interne, seguite alla morte del presidente Gnassingbé
Eyadéma e all’elezione a presidente del figlio Faure, il Paese aveva
rischiato di precipitare nella guerra civile: secondo la commissione
d’inchiesta locale i morti che accompagnarono la campagna elettorale e le
elezioni furono quasi 200, circa 500 per l’Onu, addirittura 800 stando
all’opposizione. Salito alla guida di un Paese dilaniato, prima grazie ad un
blitz incostituzionale delle Forze armate e successivamente tramite
elezioni, Faure Gnassingbé si era impegnato al dialogo con
l’opposizione. Tuttavia, a parte la nomina a primo ministro del moderato
Edem Kodjo, è stato fatto poco: i colloqui tra il Rassemblement du
Peuple Togolais del presidente e l’Union des Forces du Changement, il
principale partito di opposizione, sono ancora in alto mare e le modifiche
unilaterali alla Costituzione, approvate subito dopo la morte di Eyadéma,
non sono ancora state revocate. Qualche passo in avanti la nuova presidenza
l’ha comunque fatto: dopo gli scontri dello scorso anno, gli abusi delle
Forze armate sono diminuiti e le libertà politiche e di stampa hanno
conosciuto un miglioramento, tuttavia non sufficiente a convincere i 37.000
rifugiati in Ghana e Benin a fare ritorno a casa. A livello economico, la
situazione è ancora più drammatica: dopo un anno, l’amministrazione ha
cominciato a pagare gli stipendi arretrati ai dipendenti pubblici, ma ci
vorrà tempo per risanare i conti e riavviare l’economia. L’unica attività
fiorente è quella del porto di Lomé, che continua a prosperare grazie
soprattutto alla crisi di Abidjan. La produzione di caffè e cacao si è
ridotta di un terzo rispetto al 1997, anno in cui iniziò la recessione che
non si è ancora conclusa. Ugualmente, la produzione di cotone e fosfati è
più che dimezzata. La ripresa del dialogo con l’Ue per lo scongelamento
degli aiuti è fondamentale, ma la precondizione da soddisfare è la
riconciliazione interna. No-nostante tutte le difficoltà, qualche segnale
positivo c’è: il dialogo tra le parti continua e nella mediazione sono state
coinvolte le autorità ecclesiastiche, le uniche ritenute imparziali. Il 20
agosto il governo, i partiti politici e i rappresentanti della società
civile hanno quindi firmato a Lomé un accordo politico globale per mettere
fine alla crisi seguita alle elezioni presidenziali del 2005, vinte da Faure
Gnassingbé tra le polemiche. L’accordo prevede la formazione di un governo
di unità nazionale e la convocazione delle legislative entro l’ottobre 2007.
Gnassingbé, resosi conto che per rompere l’isolamento internazionale è
necessario riformare il vecchio regime militare, ha nominato primo ministro
un esponente dell’opposizione, Yawovi Agboyibo, un avvocato che si è
battuto a lungo contro il regime di Eyadéma. Tuttavia Gilchrist Olimpio,
leader del principale partito dell’opposizione, l’Unione delle forze del
cambiamento (Ufc), si è rifiutato di entrare nel governo di unità nazionale
perché aspirava alla carica di primo ministro.
Il 23 febbraio il presidente dell’Uganda Yoweri Museveni, al
potere dal 1986, è stato riconfermato alla guida del Paese per un terzo
mandato dopo essere riuscito nell’intento di modificare la Costituzione
(giugno 2005) che limitava a due i mandati presidenziali. La campagna
elettorale è stata caratterizzata da alcuni gravi episodi di violenza mentre
una folla immensa si è recate alle urne, tanto che, per votare, i cittadini
hanno dovuto fare la fila per ore. Museveni, leader del Movimento di
resistenza nazionale (Mrn), si è aggiudicato il 58,28% dei consensi contro
il 37,36% del suo principale avversario, Kizza Besigye, leader del
Forum per il cambiamento democratico (Fdc). Besigye, arrestato nell’ottobre
2005 e rinviato a giudizio con l’accusa di alto tradimento e stupro ha
potuto partecipare al voto perché la sentenza era prevista per il 6 marzo.
Gli altri tre candidati, John Ssebaana Kizito del Partito
democratico, Miria Obote del partito Uganda People’s Congress e
l’unico indipendente Abed Bwanika, hanno ottenuto meno del 2%. I
forti timori che la vittoria di Museveni, al potere già da vent’anni e ora
riconfermato per altri cinque, potesse scatenare disordini anche sanguinosi
nel Paese sono stati smentiti dai fatti ma l’opposizione ha denunciato una
serie di brogli e intimidazioni confermate dagli osservatori dell’Ue.
D’altro canto la revisione costituzionale e una campagna elettorale viziata
dalla vicenda giudiziaria che ha coinvolto Besigye non appena questi aveva
rimesso piede in Uganda, dopo quattro anni di esilio autoimposto, non
depongono certo a favore della maturità democratica del sistema politico
ugandese. Il 19 dicembre, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha
accusato l’esercito ugandese di crimini contro popolazioni civili durante la
guerra nella Repubblica democratica del Congo (1998-2003) e ha stabilito che
Kampala deve pagare una compensazione per le risorse naturali rubate.
Kinshasa ha chiesto tra i 6 e i 10 miliardi di dollari. Infine dopo
vent’anni di conflitto, il governo ugandese ha siglato un cessate il fuoco
con i ribelli del Lra (Lord’s Resistance Army) di Joseph Kony, un
leader visionario che proclama di voler governare in nome di Dio e secondo i
Dieci comandamenti (29 agosto). I morti causati dalla guerra con i ribelli
dell’Lra sono 20.000, mentre l’80% della popolazione dei distretti
settentrionali del Paese vive nei campi profughi e l’economia della regione
è al collasso. L’accordo di Juba, nel Sud del Sudan, prevede il raduno dei
ribelli (attivi in Uganda, Sudan e Repubblica democratica del Congo) in due
località del Sudan meridionale, dove saranno protetti dal governo sudanese
della regione meridionale. A quel punto, potranno continuare i colloqui di
pace per giungere a una trattativa definitiva. Intanto Museveni è
intervenuto per ordinare ai soldati dell’Updf (Uganda People’s Defence
Forces) di cessare le operazioni contro i ribelli. I membri dell’Lra sono
famosi per le atrocità compiute. Secondo le Nazioni Unite circa 25.000
minori sono stati rapiti in questi anni, trasformati in bambini-soldato o in
schiavi sessuali, mentre gli sfollati sarebbero almeno 1,7 milioni. Il
cammino verso la definitiva pacificazione è però ancora lungo. Oltre ai
problemi del disarmo e del ricollocamento dei ribelli, rimane la questione
dell’immunità dei comandanti dell’Lra. Il Tribunale dell’Aja ha emesso un
mandato di cattura per Kony e per quattro suoi luogotenenti (uno nel
frattempo è morto). Il presidente Museveni, invece, per non rischiare che
questi mandati di cattura possano arrestare il processo di pace, ha offerto
un’amnistia agli uomini di Kony e ha loro assicurato che non saranno
consegnati al Tribunale internazionale.
Il 28 settembre si sono tenute nello Zambia le elezioni presidenziali
terminate con la riconferma del presidente Levy Mwanawasa che si è
aggiudicato il 43% dei voti contro il 27% di Michael Sata, suo
principale avversario. Gli osservatori internazionali hanno dichiarato
l’elezione in gran parte regolare e trasparente. Sata, tuttavia, ha accusato
il presidente uscente di essere ricorso a brogli. Il Movimento per la
democrazia multipartitica (Mmd) di Mwanawasa ha ottenuto 72 deputati, che in
aggiunta agli otto di nomina presidenziale garantiranno la maggioranza
assoluta senza necessità di coalizioni. Alla cerimonia di insediamento per
il suo secondo mandato quinquennale, il capo di Stato ha invitato i suoi
connazionali a “lavorare insieme” per migliorare le condizioni di vita. Lo
Zambia è uno dei Paesi più poveri al mondo, al 166° posto tra i 177 Paesi
dell’indice di sviluppo umano dell’Onu 2005.
Lo Zimbabwe sta attraversando la peggiore crisi umanitaria dai tempi
della sua indipendenza (1965). È qui che si registra il più drastico aumento
della mortalità infantile al mondo: quasi il 50% di decessi annui in più
rispetto ai livelli dei primi anni Novanta. Le radici della crisi odierna
stanno in un’ampia serie di cause: l’epidemia di Hiv-Aids (il tasso di
diffusione del virus nella popolazione adulta è il quarto più alto al
mondo), il declino economico, siccità e inondazioni e soprattutto il regime
autocratico del presidente Robert Mugabe, le cui riforme sociali hanno
acuito le tensioni interne e allontanato gli investitori stranieri. Uno
Stato che fino a pochi anni fa era un modello di dinamismo economico per
l’intera Africa, sta attraversando una crisi che comporta il degrado dei più
elementari servizi sociali. A metà maggio l’inflazione ha toccato il 1.000%
e lo Stato si è visto costretto ad aumentare gli stipendi dei dipendenti
pubblici del 200% per far fronte alla crisi. Gli esperti di economia
concordano nell’attribuire la crisi alla politica miope portata avanti dalle
autorità, unita a un embargo, imposto da Unione europea e Usa, che ha
contribuito a peggiorare una situazione già disastrosa, portando l’economia
sull’orlo del collasso. Di fronte alla crisi economica e all’autoritarismo
del presidente Robert Mugabe, lo Zanu-Pf, la formazione politica che
lo sostiene, risulta sempre più diviso, con alcune frange moderate in
contatto con il Movimento per il cambiamento democratico (Mdc) di Morgan
Tsvangirai.